Giustizia: il ministro Palma dice no all’amnistia e punta sulla costruzione di nuove carceri di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 settembre 2011 Su amnistia e indulto Francesco Nitto Palma non cede. A conclusione della sessione straordinaria di lavori del Senato su carcere e giustizia convocata da quasi metà dei membri di Palazzo Madama dietro impulso dei Radicali, il ministro di Giustizia piuttosto invita l’opposizione ad assecondare la maggioranza di governo sulla via delle “riforme”. Quali? “Entro metà ottobre porterò in Consiglio dei ministri il disegno di legge sulle depenalizzazioni dei reati minori. Poi in parlamento se ne stabiliranno i termini”, spiega. Ma il Guardasigilli è ben lungi dal prendere in considerazione la depenalizzazione dei reati inventati dalla legge Bossi - Fini sull’immigrazione o dalla Fini-Giovanardi sulle droghe, come chiedono da tempo i Radicali e perfino il Pd (che pur non nega la sua contrarietà alla proposta di amnistia avanzata dai Radicali per far tornare lo Stato italiano in condizioni di legalità). Piuttosto Palma punta ad accelerare la costruzione di nuove carceri e l’assunzione di altro personale di polizia penitenziaria. “Ho ricevuto assicurazione dal capo del Dap, Franco Ionta, - spiega in Aula il ministro - che entro il 2 novembre 2011 saranno pubblicati tutti i bandi di gara dei 19 nuovi padiglioni da costruire e il 4 gennaio prossimo inizieranno i lavori”. Nel frattempo saranno costruite 11 nuove carceri a bassa sicurezza. Non solo: “Ho inviato - annuncia Palma - una lettera la ministro Tremonti invitandolo a superare le perplessità della Ragioneria dello Stato e a procedere con l’assunzione di 1611 poliziotti penitenziari”. Certo, conviene sulla necessità di rivedere “l’uso eccessivo della custodia cautelare” ma lo fa con linguaggio berlusconiano scaricando tutta la responsabilità sui “giudici etici” e sui “pubblici ministeri etici” che violano “così fortemente la nostra Costituzione”. Per combattere il sovraffollamento Palma allude a una modifica della cosiddetta “legge svuota carceri” che alleggerirebbe il carico di due mila detenuti (su 67 mila al posto dei 45 mila consentiti). Sull’impossibilità di curarsi in carcere e su quei lager che sono gli Ospedali psichiatrici giudiziari, il Guardasigilli promette solo che la prossima settimana ne parlerà con il ministro della Salute Fazio. E così può dormire sogni tranquilli, quest’Italia colta “in flagranza di reato”, come dice Marco Pannella che, ancora in sciopero della fame, ha rivolto una preghiera al presidente Napolitano affinché vigili su quanto sta avvenendo in Parlamento, proprio lui che aveva chiesto “uno scatto della politica” per la risoluzione dell’emergenza giustizia. Al capo dello Stato Pannella chiede anche di pronunciarsi sui “dati aggiornati che il centro di ascolto di Radio Radicale gli ha fatto pervenire e che documentano quali strumenti di tortura siano diventate le carceri italiane”. “Dopo oggi, solo la mia pervicacia Radicale mi impedisce di cedere allo sconforto - replica al ministro la vice presidente del Senato Emma Bonino - Almeno si faccia un grande dibattito in tv sulla questione”, perché “carcere significa privazione della libertà, non privazione della dignità”. Giustizia: Bonino; almeno si faccia un grande dibattito sulle carceri in Tv Tm News, 28 settembre 2011 Almeno in Tv, si faccia un grande dibattito sulla situazione delle carceri italiane. Lo chiede Emma Bonino in Aula al Senato, con un accorato intervento in replica alle parole del ministro Nitto Palma, che le ha negato qualsiasi ipotesi di amnistia o indulto. “Questa sera è solo la scuola della pervicacia Radicale che mi impedisce di farmi prendere dallo sconforto”. Soprattutto, Bonino si è detta amareggiata dal fatto che il ministro ha dato parere negativo alla totalità della risoluzione presentata dai Radicali. “Bisogna ricordare - ha detto la leader radicale - che carcere significa privazione della libertà, non privazione della dignità”. Giustizia: il Sottosegretario Casellati; bisogna dare una vita più dignitosa ai detenuti Adnkronos, 28 settembre 2011 “Certamente il sovraffollamento delle carceri è una piaga. Ed è proprio per questo che stiamo attuando delle misure per cercare di dare una vita più dignitosa ai detenuti. Ritengo però che, al di là del sovraffollamento, che è una questione grave per la quale abbiamo dichiarato l’emergenza, sia molto importante avere nelle carceri spazi per il recupero dei detenuti”. Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia, Maria Elisabetta Alberti Casellati in occasione della sua visita, oggi, al teatro del carcere di Rebibbia di Roma. “I detenuti in cella - ha continuato il sottosegretario - non ci dovrebbe mai stare, forse solo per dormire. Dovrebbe avere un’attività formativa, nel senso di un’istruzione e di un lavoro. Dovrebbero avere quindi una sorta di preparazione per il dopo. Questo significa - ha aggiunto Casellati - che il carcere non ha più una dimensione di restrizione ma di apertura verso il futuro. È questo quello che conta”. Il sottosegretario Casellati, durante la visita, ha toccato con mano l’esperienza della compagnia teatrale “Liberi artisti associati” che dal 2001 offre ai detenuti di Rebibbia un’esperienza formativa utile anche per il futuro. Un’esperienza alla quale ha partecipato l’ex detenuto Salvatore Striano, attore di Gamorra e di diverse fiction tra cui “Ho sposato uno sbirro2”. E alla quale continua a collaborare Giovanni Arcuri che, ancora detenuto per quattro anni e mezzo, svolge in pieno la sua attività di attore tra le mura del carcere. Questo teatro, ha spiegato il sottosegretario, “è particolare perché qui si scoprono talenti ma soprattutto si fa un percorso nuovo e diverso di riabilitazione. Qui ci sono due esempi che hanno scoperto, attraverso il teatro, un nuovo modo di vita. Uno ha già scontato la sua pena, è uscito dal carcere e sta avendo molto successo con numerosi programmi televisivi. L’altro - ha continuato Casellati - sta ancora scontando la sua pena. Però sta facendo lezioni di teatro, ha già avuto una parte importante e spera, una volta uscito, di proseguire in questa attività straordinaria”. Per il sottosegretario, questi due casi, “sono l’esempio di quello che vorremmo attuare attraverso il carcere: è giusto che uno sconti il proprio debito nei confronti dello Stato, ma è giusto anche che qui si avviino tutte quelle attività che possano, per così dire, aprire alla speranza. E cioè dare la possibilità al detenuto di fare una sorta di ripensamento sul suo percorso di vita. E avere, una volta uscito, una prospettiva diversa”. “Del resto - ha concluso Casellati - la riabilitazione è uno degli elementi che prevede la nostra Costituzione: è importante dal punto di vista personale, relazionale e sociale perché chi esce da qui con un lavoro, anche in termini di sicurezza, dà garanzie alla gente di reinserirsi a pieno titolo nella società”. Giustizia: Ignazio Marino (Pd); ieri dal Senato un passo storico per la chiusura degli Opg Redattore Sociale, 28 settembre 2011 La Commissione d’inchiesta sul Ssn ha ottenuto il voto per il superamento dei manicomi giudiziari dove oggi sono internate, in 6 strutture, 1.500 persone. Un voto per riaffermare la dignità delle persone chiuse da anni negli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). È quello uscito dalla seduta di ieri pomeriggio, 27 settembre, dall’aula del Senato. All’interno di un ordine del giorno dedicato all’argomento carceri, l’assemblea di Palazzo Madama ha approvato una risoluzione sul tema degli Opg, risoluzione proposta dalla Commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale e che impegna il governo a chiudere questo tipo di strutture, di fatto dei manicomi criminali, sostituendoli con strutture interamente sanitarie. All’interno della risoluzione n. 2 discussa ieri si legge la volontà di “prevedere il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, le cui condizioni offendono la coscienza civile del Paese, attraverso programmi di dimissioni assistite e progetti autenticamente terapeutici per le malattie psichiatriche, l’introduzione di una nuova organizzazione dell’assistenza sanitaria, che sia conforme ai Piani sanitari regionali della salute mentale delle regioni sede di Opg, un più stretto raccordo tra magistratura e Servizi psichiatrici territoriali, nonché l’elaborazione di linee guida funzionali ad agevolare un più frequente ed omogeneo ricorso alle misure alternative all’internamento”. La risoluzione n. 6 mira, maniera più specifica, all’assunzione di impegno da parte del governo: “Considerato - vi si legge - che nell’ambito della relazione unanimemente approvata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, nel mese di luglio 2011, sono enucleate diverse misure per conformare a Costituzione la disciplina e la prassi delle misure di sicurezza per gli infermi di mente autori di reato”, le si approvano. Di conseguenza, impegna il governo ad adottare atti di indirizzo e coordinamento per garantire, all’interno degli Opg, interventi urgenti e immediati di revisione ed adeguamento delle dotazioni di personale, dei locali, delle attrezzature, delle apparecchiature e degli arredi sanitari agli standard ospedalieri in vigore a livello nazionale e regionale”. “Un passo storico” per il presidente della Commissione Ignazio Marino, che aggiunge: “La Commissione d’inchiesta ha ottenuto un impegno ufficiale da parte del governo sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, da sostituire con strutture interamente sanitarie. Si dice in sostanza un no netto ai manicomi criminali che vanno estirpati dal territorio in favore di un sistema di cure davvero degno di questo nome per i 1.500 internati nei 6 Opg italiani. Questo voto - prosegue Marino - riconosce ufficialmente il lavoro svolto dalla Commissione d’inchiesta, dai sopralluoghi a sorpresa fino ai provvedimenti di sequestro di parte degli Opg di Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto. La detenzione psichiatrica si è rivelata un territorio senza certezze e dignità di cure per questi malati, spesso vittime di contenzione e di un degrado indegno anche di un paese appena appena civile, come ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La Commissione ha individuato un percorso condiviso: questo voto responsabilizza tutti gli enti coinvolti, dallo Stato alle Regioni”. Giustizia: Fp-Cgil; la risoluzione del Senato non chiude gli Opg, la mobilitazione continua Agi, 28 settembre 2011 La risoluzione approvata dal Senato sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari “è una nuova tappa del faticoso percorso per abolire definitivamente gli Opg, ma il traguardo non è stato certo raggiunto”. Lo sottolinea la Fp Cgil. “La risoluzione - ricorda il sindacato - impegna il Governo a compiere alcuni atti verso gli Opg, che sono però dichiaratamente “transitori”, in attesa della loro chiusura definitiva. L’impegno a migliorare la vita interna negli Opg è certo auspicabile viste le vergognose condizioni, ma non risolve la drammatica situazione di 1.500 nostri concittadini, internati negli ultimi residui manicomiali. Vengono poi previste convenzioni tra il Governo e le regioni sedi di Opg per la creazione di nuove strutture. È indispensabile precisare di cosa si tratta e delimitare bene questa operazione (transitorietà, durata e modalità), per evitare di aprire, al posto degli Opg, gli Op, i nuovi Ospedali Psichiatrici (senza più la G), dove, al posto della polizia penitenziaria, il personale sanitario sarebbe impegnato non solo a curare ma a custodire gli internati, come accadeva nei vecchi manicomi (oltretutto a costi elevati). Infine, è importante dare corso all’impegno assunto dal Senato per avviare anche un percorso di modifiche legislative, per superare l’istituto giuridico dell’Opg”. Per questo, annuncia la Cgil, “Stop Opg continua la mobilitazione, verso il Governo e verso Regioni, Asl e Dipartimenti di Salute Mentale, e Comuni: responsabili di organizzare la presa in carico delle persone internate, per curarle e assisterle nel territorio di residenza, come prevedono le norme e indicano le ripetute sentenze della Corte Costituzionale. Come fu deciso per i manicomi, gli Opg vanno aboliti e le persone curate e assistite, per garantire davvero a tutti i cittadini, senza distinzione, i diritti sanciti dalla nostra Costituzione”. Giustizia: settore minorile; un’oasi felice, messa in pericolo se non si investe nel sociale Redattore Sociale, 28 settembre 2011 Convegno “Minori in giustizia”. Il capo dipartimento Bruno Brattoli: “I magistrati sono rapidi, c’è un’articolazione burocratica che funziona adeguatamente. Ma i problemi per noi potrebbero arrivare se non si comprende che bisogna fare investimenti”. “La giustizia minorile è un’oasi felice in cui i magistrati sono rapidi nell’emettere loro decisioni, c’è un’articolazione burocratica che funziona adeguatamente, così come la rete capillare di servizi. Abbiamo una legge che ha dato buona prova di sé, ma i problemi per noi potrebbero arrivare se non si comprende che bisogna fare investimenti nel sociale. Questo sistema che funziona bene, potrebbe finire nel futuro prossimo in grave difficoltà”. A sottolinearlo è stato il capo dipartimento della Giustizia minorile, Bruno Brattoli, nel corso del convegno “Minori in giustizia”, in corso oggi a Roma. Secondo Brattoli anche se il sistema funziona bene le risorse sono necessarie perché “non è possibile fare tutto basandosi solo sulle abilità”. Anche secondo Serenella Pesarin, direttore generale per l’attuazione dei provvedimenti giudiziari del Dipartimento di Giustizia minorile, ci sono alcuni dati positivi: “gli stranieri sono sottoposti alla messa alla prova più del passato ed entrano meno in carcere. Questo per sfatare che ci sia un atteggiamento discriminatorio verso chi non è della nostra stessa etnia - sottolinea - Quello che manca, però è la verifica del risultato, manca cioè la prevenzione terziaria. Una volta che questi ragazzi escono dai circuiti vanno seguiti ancora”. Secondo Bartolomeo Romano, componente del Csm, va sempre tenuta in considerazione la diversità e la specificità della questione minorile. “Ci sono ripetuti e recenti indirizzi di opinione che vogliono guardare a questo mondo con gli occhi con cui si guarda al diritto penale comune dei maggiorenni. È un errore macroscopico perché attenua la specificità del mondo dei minori, che deve rimanere tale”. In questo senso Romano si è detto contrario all’ipotesi, spesso ventilata, di abbassare l’età di imputabilità sotto i 14 anni. Per quanto riguarda le misure alternative, Maurizio Millo, presidente del tribunale per i minorenni di Bologna ha ricordato che la “messa alla prova, se affrontata seriamente rappresenta un percorso di crescita e responsabilizzazione per i minori”. Livia Turco: il sistema sociale è totalmente massacrato nel paese La deputata interviene al convegno “Minori e giustizia”: “Con gli ultimi interventi sul welfare non si capisce come faranno i comuni a tenere aperti alcuni fondamentali servizi. Abbiamo bisogno di fare una battaglia”. “Questo governo punta al massacro dei diritti in nome del dono, come dice il ministro Sacconi. Sono gli amari paradossi del nostro paese. Il sociale, seppur a fatica, continua ad esistere ma non capisco come si faccia a non capire che esso è fondamentale per il paese. Solo chi vive in una torre d’avorio non lo capisce. E non si invochi la crisi economica, perché i soldi per il sociale sono talmente pochi che si perdono nel calderone del bilancio dello Stato”. Lo ha sottolineato Livia Turco, della commissione Affari sociali alla Camera, a margine del convegno “Minori in giustizia”, in corso oggi a Roma. Intervenendo alla tavola rotonda Turco ha aggiunto che il “sistema del welfare è inapplicato”. Secondo l’esponente del Pd in Italia esistono buoni strumenti normativi a tutela dei diritti dei minori come la legge 285 del 1996, ma il problema rimane l’applicazione dell’apparato normativo e la promozione di una cultura della presa in carico. “Il sistema sociale è totalmente massacrato nel paese. Con gli ultimi interventi sul welfare non si capisce come faranno i comuni a tenere aperti alcuni fondamentali servizi sociali. Abbiamo bisogno di fare una battaglia per dare giusto valore al mondo del sociale”. Rita Bernardini: istituti minorili attenti e preparati nonostante i pochi mezzi Convegno “Minori in giustizia”. L’intervento della componente della Commissione giustizia alla Camera di deputati: “È necessario intervenire urgentemente sul dramma delle carceri”. Per la Bernardini c’è un abisso tra istituti per adulti e minori. Quello delle carceri è un “dramma italiano su cui, come ha già sottolineato il presidente della Repubblica, è necessario intervenire urgentemente”. Lo ha sottolineato Rita Bernardini, della Commissione Giustizia alla Camera di deputati, nel corso del convegno “Minori in giustizia”, in corso di svolgimento a Roma. Bernardini ha ricordato di essere in sciopero della fame insieme a Marco Pannella e i radicali, per far sì che sia “considerato il dramma italiano della giustizia e delle carceri”. “È un tema che non viene mai preso in considerazione - aggiunge - in questo momento stiamo chiedendo che si squarci il velo dell’informazione su tutto questo. Lo stato di illegalità della giustizia è molto pesante”. Bernardini ha poi sottolineato l’ abisso fra istituti adulti e minori. “In tutti gli Istituti per minorenni che ho girato, ho trovato attenzione e preparazione nonostante i pochi mezzi - aggiunge - È un’attenzione dovuta, perché questi giovani possano rientrare in società e essere riabilitati, perché questo significa maggiore sicurezza per i cittadini”. Marelli (Cnca): minori stranieri, poco applicate le misure alternative Convegno “Minori in giustizia”. Marelli, coordinatrice area infanzia Cnca: “C’è una sovra rappresentazione degli stranieri nei luoghi della privazione della libertà”. In generale “il sistema della giustizia minorile tiene”. Calano gli ingressi nei Cpa (Centri di prima accoglienza che ospitano minorenni in stato di arresto, fermo o accompagnamento, fino all’udienza di convalida) soprattutto perché gli stranieri passano da 2.303 nel 1998 a 924 nel 2010, con una flessione del 60%. “A fronte di questo dato molto significativo, che scardina stereotipi e pregiudizi, ce n’è un altro anch’esso indicativo: nonostante una diminuzione dei minori stranieri denunciati all’autorità giudiziaria, gli stranieri minorenni entrano nei Cpa in misura percentualmente maggiore degli italiani”. Lo ha sottolineato Liviana Marelli, coordinatrice dell’area infanzia, adolescenza e famiglia del Cnca nel corso del convegno “Minori in giustizia”, in corso di svolgimento oggi a Roma presso il Dipartimento per la giustizia minorile. Secondo Marelli esiste una “sovra rappresentazione degli stranieri nei luoghi della privazione della libertà”. Una situazione che chiama in causa anche “le misure alternative al carcere ancora poco applicate verso gli stranieri”. “La questione interroga non solo le competenze degli operatori ma anche le scelte politiche connesse al sistema di welfare e alla necessaria integrazione tra sistema penale e sistema sociale - aggiunge Marelli - una complementarità che oggi è fortemente a rischio”. La coordinatrice del Cnca ha ricordato che dal 2000 al 2007 il numero dei minori denunciati alle procure della Repubblica sono stati 38 mila, di questi la componente straniera non raggiunge mai il 30% del totale delle segnalazioni. Contestualmente gli ingressi nei cpa sono in numero decrescente nell’ultimo decennio con un calo del 50%, passando da 4.222 del 1998 a 2.344 del 2010. “Questi dati ci dicono che siamo di fronte a una tenuta del sistema della giustizia minorile che non sembra cedere alla deriva della società che cerca invece di costruire il passaggio dallo stato sociale allo stato penale - sottolinea Marelli - Sono anche dati che dovrebbero accantonare per sempre la tentazione di risolvere la devianza minorile abbassando l’età imputabile dai 14 ai 12 anni”. Infine Marelli ha sottolineato l’importanza di misure come la messa alla prova. “La buona riuscita di questi percorsi ci dice che siamo sulla strada giusta. Tra i minori messi alla prova gli stranieri sono, però, il 16,8% - afferma - Questo istituto va messo al centro della progettualità.” La coordinatrice del Cnca ha espresso poi forte preoccupazione per le risorse che sono sempre meno presenti. “L’attuale sistema di welfare rende tutto pressoché impraticabile. L’assenza di livelli essenziali garantiti, la decurtazione delle risorse per un sistema di welfare reso sempre più residuale è il problema principale con cui oggi ci confrontiamo”. Giustizia: il lavoro dei detenuti vale 300 milioni di euro… ma potrebbe valerne 700 di Barbara Weisz www.pubblicaamministrazione.net, 28 settembre 2011 E se lavorassero tutti quelli che possono farlo, il valore salirebbe a 700 milioni. Indagine Camera e Commercio di Monza e Brianza, che partecipa al progetto regionale “Responsabilità sociale d’impresa e lavoro penitenziario”. A Monza, la Camera di Commercio entra in carcere. Lo fa attraverso “Responsabilità sociale d’impresa e lavoro penitenziario”, un progetto che in realtà è più ampio e coinvolge le camere di commercio lombarde, la Regione, il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP): l’obiettivo è quello di favorire l’incontro fra il mondo delle carceri e quello delle imprese per agevolare il reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti. La Camera di Commercio di Monza nei mesi scorsi ha già svolto una mappatura delle competenze presenti fra i detenuti, e nei mesi di ottobre e novembre ci saranno una serie di incontri con imprese interessate al progetto, attraverso l’inserimento lavorativo dei detenuti oppure l’utilizzo degli spazi disponibili all’interno del carcere. La Camera di Commercio ha anche fatto un’indagine: attualmente in Italia i detenuti che lavorano sono oltre 14mila. Il loro lavoro vale quasi 300 milioni di euro. E se, all’interno della popolazione carceraria, lavorassero tutti coloro che hanno la possibilità di farlo, il lavoro dei detenuti in Italia potrebbe valere più di 700 milioni di euro. I dati emergono da un’elaborazione dell’Ufficio Studi della Camera di commercio di Monza e Brianza su dati Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Istat. Fra i 14mila che lavorano, circa 2mila non sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: 866 lavorano in istituto per cooperative o imprese, 785 sono semiliberi, 413 lavorano all’esterno. La Camera di Commercio di Monza è partner del progetto “Responsabilità sociale d’impresa e lavoro penitenziario” insieme alle Camere di Commercio di Bergamo, Cremona e Milano. Il personale dell’Agenzia regionale per la Promozione del Lavoro Penitenziario “Articolo Ventisette” è a disposizione delle imprese, profit e non profit, interessate al reinserimento di persone sottoposte a provvedimenti giudiziari, sono state anche preparate apposite pubblicazioni informative, e ci si può comunque rivolgere anche direttamente al personale degli istituti. “Il sovraffollamento delle carceri e il “non lavoro” - ha dichiarato Renato Mattioni, Segretario Generale della Camera di commercio di Monza e Brianza - rappresenta un’emergenza sociale e un costo per la collettività. Il lavoro dei detenuti resta un elemento di integrazione oltre che una risorsa per la collettività che trasforma la detenzione in un percorso finalizzato al reinserimento nel sistema produttivo e sociale”. Giustizia: nelle carceri italiane 104 tra trans e omosessuali dichiarati, loro condizione è difficile L’Unico, 28 settembre 2011 Secondo gli ultimi dati del Dap, nelle carceri italiane ci sono 104 fra transessuali e omosessuali dichiarati, e che pertanto vengono collocati nelle sezioni “protette” degli istituti penitenziari, e la presenza più cospicua (24) si registra nel carcere di Poggioreale a Napoli. I dati sono stati forniti da Lillo Di Mauro, presidente della Consulta permanente cittadina del Comune di Roma per i problemi penitenziari, nel corso di un’audizione in Commissione diritti umani del Senato sulla condizione di omosessuali e transessuali negli istituti penitenziari italiani. “Non tutti però hanno dei reparti dedicati come invece lo ha il nuovo carcere di Rebibbia - ha sottolineato - e anzi alcuni penitenziari non riconoscono neppure lo status di transessuale”. La maggior parte dei detenuti trans è in carcere per motivi legati alla tossicodipendenza e alla prostituzione, spesso per poter sostenere le spese del cambio di sesso. La condizione degli omosessuali è ancora più dura, ha aggiunto, perché “o si dichiarano tali e vengono messi in isolamento o nel reparto dedicato ai transessuali, o sono costretti a negare la propria identità con conseguenze spesso non facili”. Secondo L’avvocato Stefania Boccale, consulente legale del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, ha spiegato quanto sia difficile dichiarare l’omosessualità in carcere e ha raccontato di come le transessuali siano estremamente isolate tra loro: “ci sono stati casi di difficoltà con l’ora d’aria, perché in passato c’erano stati dei problemi. Molti poi sono sieropositivi: “Ci sono problemi di salute, spesso fuori controllo medico specifico per il tipo di trattamenti a cui si sottopongono. Ci sono stati casi di procedure per il ricovero per casi di infezioni da silicone liquido. Ricoveri talvolta bloccati con rischi molto seri. Il problema della salute andrebbe guardato con maggior attenzione”. Giustizia: viaggio al termine del carcere duro… di Pietrangelo Buttafuoco Il Foglio, 28 settembre 2011 Da trecento ventinove giorni, Sandro Monaco, imprenditore, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, è detenuto secondo il regime di carcere duro, da trecento ventinove giorni sta scontando una pena senza essere giudicato. Nel frattempo, il carcerato, si passa il tempo viaggiando. D’altronde, che deve fare? Ha già assaggiato, infatti, le prime merendine al carcere di Bicocca, a Catania - da dove è scattata l’operazione Iblis che l’ha visto pesciolino in una retata a lui estranea (a tempo debito si racconterà il come e il perché di un destino impossibile per gli imprenditori come lui) - dopo di che è stato a Parma, ad Ancona, a Floridia (Siracusa), quindi dì nuovo Ancona e poi ancora Floridia. Chi non ci passa non lo può capire che cos’è la galera. In verità neppure chi ci passa dalle carceri lo capisce, di sicuro non lo dimentica e se Sandro Monaco, detenuto da trecento ventinove giorni, si passa il tempo viaggiando da un carcere all’altro, trova il modo di sgranare gli occhi e vorrebbe pure inghiottire pane, pazienza e tempo - così come raccomandano gli incalliti ospiti della nota catena alberghiera dell’Ucciardone - solo che non si capacita come sì possa essere ridotti a comparse di un carnaio viaggiante. E sempre buttando tempo, masticando pazienza e cercando pane. Chi ci passa dalle carceri se ne deve fare tante di tappe e quando un martedì di questo settembre, alle 21 e 30, viene comunicata al detenuto Monaco Giuseppe Sandro Maria la notizia del trasferimento da Ancona per Floridia, viene svegliato alle 5 e 45 dell’indomani, accompagnato alle pratiche di rito e poi fatto accomodare sul blindato dove viene a conoscenza di un fatto nuovo: si farà tutto il tragitto col cellulare e non in aereo. Prevista una sosta notturna al carcere di Vibo Valentia. Ecco la celletta del blindato. È una gabbia i cui lati sono larghi 50 e 75 centimetri. Le pareti sono lastre d’acciaio. Se non si sta seduti dritti, al modo della marionetta, ci si fa molto male come quando ci s’inginocchia su ceci. Naturalmente mancano le cinture di sicurezza e il poggiatesta. Viaggiare dentro questi blindati è una vera roulette russa. Basta un modesto tamponamento che se va bene, ci si spacca la testa in tanti piccoli pezzi e si muore; se va benino ci sì rompe l’osso del collo e si muore; se va male, invece, si ricompongono i pezzi e poi si campa. E si va avanti col viaggio. Il vettovagliamento in dotazione al detenuto consta di: numero uno di pezzo di pane, duro. Numero uno di bottiglia d’acqua. Numero quattro di wurstel. Numero uno di mela e numero uno di prugna ma, infine, il dolce: crostatina di albicocche. Da Ancona a Taranto il viaggio procede nel trattenuto rollio del come viene viene ma, per fortuna, all’altezza di Taranto, alle 15 e 15, il blindato si rompe. Dopo un’ora e mezzo arriva il furgone sostitutivo e si riparte. È un blindato garantista, questo. Decisamente comodo. Alle 21 si arriva a Vibo. La cucina è già chiusa e si va a letto digiuni. Dopo un’educata insistenza viene consegnata una bottiglia d’acqua. Nelle celle d’isolamento riservate ai detenuti in transito non c’è cuscino, pazienza, Sandro - che non è un bandito, ma un figlio di mamma - prende la coperta, la piega e la infila sotto la federa. II.risveglio, con il latte, è rallegrato da due piccole susine. Sono state utili per sopperire l’assenza di un cestino da viaggio quando, alle nove e trenta, partendo, il blindato garantista ha fatto un lungo viaggio senza pane e con molte soste: carcere di Palmi, carcere di Reggio, carcere di Messina, carcere di Catania e, infine, alle 18, a Floridia. È, questa di Floridia, una tipica galera di come uno s’immagina debba essere la galera. I parenti in visita stazionano fuori dal portone, sotto il sole d’estate, anche fino a cinque ore. Vi entrano e si sottopongono a tutti i controlli. Firmano, consegnano i vestiti puliti, depositano i soldi, sì fanno perquisire e devono farsi strappare pure i nastri a braccialetto - sono le zaredde di Santo Vito, segni votivi che si portano al polso. La cintura si può tenere, la zaredda di Santo Vito, no. “Perché la cintura sì e il braccialetto no?”, chiede Concetta, la sorella arrivata per la visita - parenti. “Questo lo sappiamo noi”, risponde un tipo. Tutto sanno loro. Passa il tempo a tutti quelli che si passano il tempo girando carceri. E nessuno lo può capire. Quest’estate, quando - dopo tutta la trafila e l’attesa - Concetta si sentì chiamare, “Monaco?”, dopo si sentì dire: “È stato trasferito”. Per restarsene lì, nel corridoio con la zaredda strappata. Considerando oggi sono trecentotrenta giorni di carcere quelli di Sandro. E di viaggi. Giustizia: Fini “stoppa” il blitz tentato dal Pdl, slitta il “processo lungo” di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2011 Gianfranco Fini manda in fumo i piani del Pdl sul “processo lungo”, destinato a impedire che il processo Mills (in cui è imputato Silvio Berlusconi) si concluda prima dello scadere della prescrizione (gennaio 2012). Il presidente della Camera ha infatti bocciato la richiesta di inserire il provvedimento nel calendario di ottobre dell’aula, poiché la commissione Giustizia della Camera non ne ha ancora cominciato l’esame. Si allontana, dunque, la prospettiva di approvare la legge prima che a Milano si chiuda l’istruttoria dibattimentale (fine ottobre) per allontanare lo spettro di una sentenza di condanna del premier. A questo punto diventa sempre più strategica la “prescrizione breve” (all’esame del Senato) che anticiperebbe di sei mesi la morte del processo Mills, e sulla quale preferiscono puntare governo e maggioranza. Ieri, durante il dibattito al Senato sul carcere, il ministro della Giustizia Francesco Nitro Palma ha puntato il dito contro l’”accanimento terapeutico” dei giudici che portano avanti processi “destinati a morire” e rincorrono sentenze “feticistiche”. “Se ci si preoccupasse di più dei processi che possono arrivare a sentenze passate in giudicato e non di quelli destinati alla prescrizione, forse non ci sarebbero 170mila prescrizioni all’anno”, ha detto il ministro. Altrettanto duro con i “pm etici” che “violano la Costituzione sulla presunzione di non colpevolezza dell’imputato”. L’eccesso di custodia cautelare è la causa principale del sovraffollamento carcerario, ha ribadito Palma, annunciando “norme più rigide, che impongano ai giudici di rispettare l’articolo 275 del Codice di procedura penale”. Oggi è prevista una riunione di maggioranza per decidere i prossimi passi anche sul ddl intercettazioni, slittato alla prossima settimana perché Pdl e Lega non hanno ancora chiarito come modificarlo, anche se prende sempre più quota l’ipotesi di sostituire la parte sui divieti di pubblicazione con il testo Mastella (ancora più rigido) approvato dalla Camera all’unanimità nella XV legislatura. Oggi, intanto, comincia in commissione Giustizia l’esame del “processo lungo” e la Lega - dopo aver votato il testo al Senato - adesso sembra volersi sfilare. Un dietrofront dell’ultima ora se è vero che fino alla scorsa settimana aveva confermato il proprio appoggio al Pdl. “Se abbiamo dubbi? Assolutamente sì, perché bisogna salvaguardare la ragionevole durata del processo”, risponde il capogruppo del Carroccio in commissione, Nicola Molteni. E la relatrice Carolina Lussana chiede tempo per “riflettere e approfondire”. Il ddl che porta la sua firma era stato presentato alla Camera solo per escludere dal rito abbreviato (e dai relativi sconti di pena) i reati puniti con l’ergastolo. Al Senato, però, il Pdl vi aveva inserito (e la Lega le aveva approvate) le norme che consentono agli avvocati di presentare lunghe liste di testimoni, ostacolando il potere di scrematura del giudice, e perciò destinate a dilatare i tempi dei dibattimenti. Norme “dirompenti”, secondo il Csm, e che secondo il primo presidente della Cassazione Ernesto Lupo sancirebbero “la morte del processo penale”. Un ddl in forte odore di incostituzionalità. Compresa la norma leghista che esclude lo sconto di pena se i giudice ritiene che il reato sia punibile con l’ergastolo: non è in linea - ha fatto notare il Csm - con almeno tre sentenze della Consulta che riconoscono al rito abbreviato natura “premiale”. Lazio: la Regione finanzia 8 progetti d’inclusione sociale, 550mila € per reinserimento ex detenuti Dire, 28 settembre 2011 “L’assessorato alle Politiche sociali e Famiglia della Regione Lazio, con uno stanziamento complessivo del valore di 550 mila euro, ha finanziato otto progetti di inclusione sociale a sostegno di detenuti ed ex detenuti presentati da altrettanti Comuni in cui sono presenti istituti di prevenzione e di pena”. È quanto si legge in una nota dell’assessorato regionale alle Politiche sociali e Famiglia. Così l’assessore Aldo Forte: “Si tratta di una misura con cui, favorendo prima di tutto il reinserimento lavorativo degli ex detenuti, intendiamo evitare che una volta scontata la pena queste persone vivano nell’isolamento sociale. Un isolamento che in molti casi porta a commettere nuovi crimini e a dover scontare ulteriori condanne, innescando un meccanismo dannoso per il soggetto, le comunità e gli stessi istituti di pena che fanno i conti con i problemi legati al sovraffollamento. E rispetto ai quali, offrire ai detenuti ‘nuove opportunità, come recita il titolo di uno dei progetti che abbiamo finanziato, può costituire una valida risposta”. Nel dettaglio, si legge poi nella nota, il progetto ‘Nuove opportunità verrà realizzato dal Comune di Cassino (25.552,80 euro) con l’obiettivo di favorire il reinserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti tra i 18 e 50 anni, con particolare attenzione ai soggetti con problemi di tossicodipendenza. Sulla stessa scia quello del Comune di Civitavecchia (45.238,11 euro), che realizzerà specifici tirocini occupazionali per venti detenuti. Altro progetto finanziato è quello del Comune di Frosinone (95.724,67 euro), che prevede corsi di formazione per il raggiungimento della qualifica di operatore di impianti elettrici. Corsi di alfabetizzazione informatica sono previsti dal progetto del Comune di Latina (10.351,97 euro), mentre il Comune di Viterbo (54.537,97 euro) realizzerà corsi di legatoria e di educazione agricola all’interno della casa circondariale. E ancora: “Il volo della farfalla” è, invece, il titolo del progetto del Comune di Paliano (7.309,57 euro), con cui gli ex detenuti saranno inseriti direttamente in alcuni servizi comunali, come per esempio la biblioteca. Oltre alle problematiche di tipo occupazionale, i progetti finanziati dalla Regione puntano anche a superare quelle sociali che possono vivere gli ex detenuti. Come per esempio il progetto del Comune di Rieti (17.979,10 euro) attento ai rischi connessi alla lunga detenzione. E quello del Comune di Roma (293.305,81 euro), che ospiterà in maniera temporanea in quattro abitazioni ventiquattro ex detenuti privi di alloggio e offrirà accoglienza in una specifica struttura a sei detenuti anziani affidati ai servizi sociali. Calabria: Nucera (Pdl); bene impegno ministro su carcere Arghillà, ma un’emergenza esiste Asca, 28 settembre 2011 “È vero che le condizioni di vita per i detenuti del carcere di Reggio Calabria sono sicuramente migliori di quelle di altri analoghi istituti di pena. Ma questo non deve far immaginare l’assenza a Reggio, come in Calabria, di una emergenza carceri”. È quanto afferma il segretario - questore del Consiglio regionale della Calabria, Giovanni Nucera (Pdl), in merito alla visita istituzionale del Ministro della Giustizia, Francesco Nitto Palma agli uffici del Distretto giudiziario di Reggio Calabria ed alla Casa Circondariale di San Pietro. “È solo grazie all’impegno ed alla professionalità degli operatori carcerari, agenti di Polizia Penitenziaria in primis, se nel carcere di Reggio Calabria - commenta Nucera - è ancora possibile rispettare minime condizioni di dignità per i detenuti e per gli operatori che vi lavorano. L’opportunità che la città di Reggio Calabria, disponga al più presto di un nuova e più adeguata struttura penitenziaria è più che mai sentita, proprio a fronte delle numerose denunce di cui in questi anni si è fatto principalmente portavoce il maggiore sindacato autonomo degli agenti di Polizia Penitenziaria, il Sappe”. “Da tempo - prosegue Nucera - questa organizzazione evidenzia le crescenti difficoltà che si riscontrano quotidianamente nelle carceri calabresi, spesso sovraffollate oltre ogni limite, con grave pregiudizio e rischio per la salute e la sicurezza di chi vi lavora”. “In Calabria - ricorda l’esponente politico - secondo un censimento non aggiornato, ci sono 2.834 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 1.778 posti. È facile immaginare, di fronte a questi numeri le difficoltà esistenti all’interno delle nostre carceri, dalle quali, soprattutto per iniziativa del Sappe sono partite innumerevoli richieste di immediati ed urgenti interventi straordinari, rivolti ai ministri della Giustizia e dell’Interno”. “La presenza del Ministro Francesco Nitto Palma a Reggio e la particolare attenzione rivolta al carcere di San Pietro costituiscono gesti di grande sensibilità istituzionale ed attestano l’impegno che l’attuale Governo sta dedicando a Reggio ed alla Calabria”. Nucera esprime soddisfazione “per la risposta e le rassicurazioni ricevute dal Ministro Palma in ordine al completamento del nuovo carcere di Contrada Arghillà. L’entrata in funzione della nuova struttura carceraria contribuirà - rileva ancora il consigliere regionale - a risolvere il fenomeno del sovraffollamento carcerario, soprattutto del vecchio carcere di Reggio, dove a fronte di una capienza di 160 detenuti, sono recluse oltre 270 persone”. Piacenza: Sappe; detenuta tenta il suicidio, salvata da una agente Agi, 28 settembre 2011 Ieri, nel carcere di Piacenza, grazie al pronto intervento della polizia penitenziaria, è stata evitata un’altra tragedia. Infatti, una detenuta di 26 anni, di origine straniera, già trasferita dal carcere di Bologna, dove aveva tentato il suicidio, approfittando del breve lasso di tempo in cui l’agente della polizia penitenziaria era andata in bagno, ha strappato le lenzuola, le ha annodate per formare un cappio e, dopo esserselo stretto al collo, si è lanciata nel vuoto. La stessa - fa sapere il sindacato autonomo della polizia penitenziaria Sappe - prima di mettere in atto il gesto, aveva spostato il letto, nel tentativo di ostruire il passaggio all’arrivo dell’agente che, comunque, intervenuta prontamente, con l’aiuto di due detenute che lavorano nella sezione femminile, è riuscita a trarla in salvo. La donna, portata subito in ospedale, dopo un periodo di osservazione oggi è tornata in carcere. Era stata trasferita da Bologna a Piacenza per essere seguita dal servizio psichiatrico ed era sottoposta ad un regime di stretta sorveglianza. Nonostante le gravi carenze di personale e il forte sovraffollamento, un’altra vita umana - sottolinea il Sappe - è stata salvata nelle carceri italiane, grazie alla polizia penitenziaria. A Piacenza mancano circa 30 agenti di polizia penitenziaria e ci sono circa 200 detenuti in più rispetto ai posti previsti. Pordenone: nuovo carcere, tante parole ma le procedure sono ferme di Giuseppe Ragogna Messaggero Veneto, 28 settembre 2011 Ciro è senza denti. Sgranocchia avidamente dei soffici croccantini di mais al formaggio, uno dietro l’altro. È il suo pasto, che accompagna con una birra, sorseggiata direttamente dalla bottiglia. Mangia e beve di gusto, anche perché non può permettersi di più. Non ha i soldi neanche per il biglietto del treno, figurarsi per un pranzo decente. Lo si capisce all’arrivo del controllore. La multa è scontata, da prassi burocratica. Ciro non fa una piega, ride. Mi guarda fisso negli occhi per cercare un minimo di consenso: “O compro da mangiare o pago il ticket. Non ho scelta. Sono uscito da poco dal carcere, quindi devo vivacchiare alla giornata. Sono un uomo libero, ma non è semplice superare la diffidenza. La gente non va per il sottile, sta alla larga e basta, anche da chi è stato in prigione soltanto per motivi banali”. Ciro dimostra più anni dei 35 dichiarati, segno evidente di una gioventù bruciata. Con lui la vita ha avuto una mano ruvida. È loquace. Racconta le sue traversie: orfano fin da piccolo di entrambi i genitori, picchiato dagli zii, costretto a vivacchiare, fino a compiere dei furtarelli per campare. Allarga le braccia quasi in cerca di solidarietà: “Queste cose capitano a chi non ha la fortuna di avere vicino qualcuno in grado di insegnare le regole elementari della società”. È facile cadere ed è difficile risollevarsi, perché il perbenismo non perdona. Lui almeno sta tentando di rialzare la testa, con dignità. Fa capire i suoi buoni propositi in neanche mezz’oretta di treno: qualche lavoretto dove serve, in attesa di qualcosa di serio. La sua palestra di vita è stata il carcere. I periodi passati dentro e fuori lo hanno fatto crescere. La mentalità da bambino si è sviluppata fino a raggiungere il carattere di un uomo maturo, che riesce ad adattarsi a situazioni difficili, ora finalmente nel rispetto delle regole. Ciro ha trovato i suoi “maestri” proprio in carcere: alcuni volontari, qualche guardia penitenziaria e, soprattutto, il cappellano che ricorderà sempre come “una persona buona”. È stato il sacerdote a fargli conoscere l’abecedario di un’esistenza diversa. Gli ha insegnato poche cose semplici, “quel che basta per rigare dritto”. Ha maturato così la voglia di libertà, “quella del gabbiano che ha un nome strano”. A quel punto sobbalzo sul sedile del treno, posto di fronte al suo. Mi esce spontaneo: “Il gabbiano Jonathan Livingston, di Richard Bach”. Ho attinto sicuro dalle vecchie letture. Ciro è finalmente felice di aver trovato un punto di contatto con me: “Sì, quello. È il primo volume che ho letto. È stato faticoso, per fortuna che il libro è sottile. Ma alla fine mi ha aperto dentro”. Capisco che per lui quella lettura è stata straordinaria, ricca di valori. Gli ha dato la voglia di lottare, per modificare il corso di un’esistenza segnata. E soprattutto l’infinita idea di libertà. Poi aggiunge di aver letto qualcos’altro, un pò di Paulo Coelho. Ma ormai aveva trovato nel “suo gabbiano” una sorta di faro, in grado di invogliarlo a camminare lungo nuovi sentieri. “In carcere - confida - ho preso il diploma di terza media”. Ride divertito e azzarda: “Sai, anche la prigione può dare qualcosa”. A Novara raggiunge la meta del viaggio. Io invece proseguo per Torino. Raccoglie velocemente i due sacchettini vuoti del pranzo e la bottiglia di birra. Infila tutto nello zainetto che gli ha regalato la Caritas e si prepara a scendere: “Anche oggi penso di lavorare, in campagna hanno bisogno di manodopera, poi si vedrà. Ormai però ho capito il senso della vita. Certo, bisognerebbe che anche la società capisse le difficoltà di un ex carcerato. Ciao, ricordati del gabbiano”. Non ho dimenticato Ciro. Mi ritornano in mente i tratti salienti di quel fugace incontro quando ascolto “Radio Radicale”, in auto lungo il tragitto casa - lavoro (Pordenone - Udine), ogniqualvolta Marco Pannella solleva il drammatico problema del sovraffollamento delle carceri. È evidente l’abisso che separa la realtà delle strutture detentive, drammaticamente invivibili, dal dettato costituzionale, il quale riconosce il principio della funzione rieducativa. Ahi, questa nostra Carta fondamentale, colpevolmente disattesa! Penso a Ciro e, attraverso di lui, al carcere di Pordenone. Come possono essere garantiti i diritti e la dignità umana in una struttura così indecente? Qualcosa si può fare per smuovere una situazione incancrenita da decenni. Oggi c’è un protocollo firmato, che sancisce l’intesa tra lo Stato, la Regione e il Comune per la costruzione di una nuova struttura. Più umana. Chi ci vive dentro ha diritto alla dignità. E deve poter maturare le condizioni per una nuova vita. Come ha saputo fare Ciro. Allora si accelerino le procedure. Il sindaco Pedrotti batta un colpo. Favignana (Tp): detenuti al lavoro nel progetto di riqualificazione per l’orto della Tonnara Il Velino, 28 settembre 2011 Il progetto interessa 5mila metri quadri e sarà realizzato dai detenuti del Penitenziario di Favignana. Un tempo ci si coltivavano peperoni, melanzane ed ortaggi in genere. Poi il degrado. Oggi l’antico orto della Tonnara di Favignana è al centro di un concorso di idee per il recupero. Il Concorso è lanciato dal Conaf, Consiglio dell’ordine nazionale dei dottori agronomi e dei dottori forestali, in occasione del XIV Congresso nazionale in programma da oggi e fino al 30 settembre, che aprirà proprio a Favignana per proseguire giovedì e venerdì a Trapani e Marsala. Il concorso è indetto dal Conaf in collaborazione con la Regione siciliana assessorato dei Beni Culturali e dell’identità siciliana, la Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Trapani, il Corpo Forestale della Regione Siciliana, ed è riservato agli iscritti agli albi dei dottori agronomi e dottori forestali di tutta Italia. Il progetto che risulterà vincitore del concorso di idee, sarà poi realizzato dai detenuti del Penitenziario di Favignana attualmente impegnati in un corso di formazione per giardinaggio e orticoltura. La Tonnara di Favignana rappresenta un importante esempio di archeologia industriale in Sicilia. Il progetto di recupero iniziato nel 2003 e terminato nel 2009 ha salvato il vetusto stabilimento all’inesorabile degrado, con il recupero dei locali destinandoli ad un museo all’interno del quale è oggi possibile seguire un percorso archeologico industriale e conoscere l’attività dei vecchi opifici. Ma all’interno della Tonnara, lo spazio un tempo adibito all’orto, non è ancora recuperato: ed ecco il concorso di idee per il suo recupero. Le proposte progettuali riguarderanno un’area di 5mila metri quadri attualmente abbandonata. La valutazione dei progetti (che dovranno arrivare al Conaf entro il 31.12.2011) sarà effettuata da un’apposita commissione composta da un rappresentante degli enti organizzatori dell’iniziativa. L’Ente gestore della Tonnara di Favignana, inoltre, acquisisce la proprietà dell’idea progettuale vincitrice con il diritto di utilizzo esclusivo. Reggio Calabria: Cids; carcere Arghillà, incontri mensili per impedire opera resti incompiuta La Gazzetta del Sud, 28 settembre 2011 “Un monumento all’inefficienza del passato”. Così il ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma ha bollato l’incompiuta del grande carcere di Arghillà. Novanta milioni spesi invano che non hanno prodotto alcun giovamento né alla società, né alla città, che si sarebbe riappropriata di uno spazio immenso, né tantomeno ai carcerati che avrebbero goduto di condizioni di vita migliori. Dopo il j’accuse ministeriale, però è giunta dallo stesso ministro anche la buona novella del reperimenti di altri 14 milioni che serviranno per il progetto definitivo e la costruzione di parte del carcere che - parola di Guardasigilli - dovrebbe essere pronto entro la fine del 2012. Ovviamente il consigliere regionale Giovanni Nucera esprime soddisfazione “per la risposta e le rassicurazioni ricevute dal ministro Palma in ordine al completamento del nuovo carcere di contrada Arghillà. L’entrata in funzione della nuova struttura carceraria contribuirà - rileva il consigliere regionale - a risolvere il fenomeno del sovraffollamento carcerario, soprattutto del vecchio carcere di via San Pietro, dove a fronte di una capienza di 160 detenuti, sono recluse oltre 270 persone. Spero proprio che i tempi indicati dal Ministro della Giustizia siano concretamente rispettati. Entro un anno Reggio potrebbe disporre di una nuova e più efficiente struttura carceraria con spazi adeguati e servizi più funzionali per i detenuti. Assieme al recupero della vecchia struttura di via San Pietro, ne trarrebbe dunque beneficio l’intera Calabria, che potrebbe contare su una più equa distribuzione della popolazione carceraria in ambito regionale. Il livello di civiltà di un Paese - conclude Nucera - passa anche attraverso le condizioni in cui vengono trattati i detenuti”. E puntuale, come al solito, giunge anche la riflessione del presidente del Cids (comitato interprovinciale per il diritto alla sicurezza) Demetrio Costantino, il quale sottolinea come “Nitto Palma, con gli incontri svoltisi lunedì in città, ha riproposto l’urgente problema della struttura carceraria di Arghillà assicurando il completamento entro il 2012 e noi non abbiamo motivo di dubitare sulla sua sincerità e volontà politica”. “L’esperienza, tuttavia - frena Costantino - , dimostra che sulle opere pubbliche, in particolare, date, tappe e scadenze non vengono mai rispettate, sia per la mancanza di finanziamenti necessari, sia per l’inefficienza di settori degli apparati burocratici e sia perché in tanti esponenti politici preposti manca la determinatezza e la forte volontà per superare eventuali difficoltà. Gli impegni assunti dal Ministro della Giustizia e dal sindaco Arena sono chiari e ci auguriamo che alle parole seguano davvero i fatti”. “Troppi annunci e promesse ascoltati nel corso degli anni da Ministri di vari Governi succedutisi riguardanti Reggio e la sua Provincia hanno creato solo delusioni in tanta parte dell’opinione pubblica sempre più sfiduciata verso le forze politiche e che si trovi al limite della disperazione per gli annosi problemi non risolti. Il problema del carcere di Arghillà - dice ancora Costantino - rientra nel programma di interventi nazionali per ridurre il sovra affollamento intollerabile esistente nelle case di detenzione del nostro Paese e sarebbe interesse di tutti risolverlo. È perciò buona occasione per ribadire che, la certezza della pena e la necessità che nei confronti di quanti si siano macchiati di gravissimi reati sia fatta espiarla interamente, richiede anche contemporaneamente, condizioni di vivibilità impossibili con l’attuale sovraffollamento delle carceri. Non vi sarà possibilità concreta di percorsi rieducativi restando nella situazione di oggi”. “È nell’interesse dì tutta la società dare soluzione a questo problema e perciò considerarlo obiettivo prioritario e, mensilmente, organizzare incontri tra i rappresentanti elettivi e funzionari della P.A per valutare attentamente l’andamento dei lavori. Ciò - conclude il presidente del Cids - è di grande importanza in una Provincia e in una Regione dove è presente la pericolosa criminalità organizzata e comune e dove anche vi sono tante opere incompiute e grandi sprechi”. Rovigo: Garante dei detenuti; il sindaco Piva conferma la fiducia in Livio Ferrari Ristretti Orizzonti, 28 settembre 2011 Livio Ferrari continuerà nel suo impegno di garante delle persone private della libertà del Comune di Rovigo sino al termine del suo mandato in quanto il sindaco Bruno Piva gli ha confermato la sua personale fiducia. Nominato nell’ottobre 2008 dall’allora primo cittadino Fausto Merchiori, Ferrari con l’avvento della nuova amministrazione, a seguito delle elezioni di quest’anno, ha ritenuto doveroso rimettere l’incarico in quanto è una nomina che deve godere della fiducia del Sindaco, il quale, con lettera del 26 settembre, nel ringraziarlo della disponibilità dimostrata, gli ribadisce la fiducia. “La rinnovata fiducia diventa per me uno stimolo - afferma Livio Ferrari - per non perdere le speranze per scelte future che modifichino l’attuale drammatica situazione in cui versano le persone ristrette nelle carceri italiane. Non sono bastati i numeri eloquenti delle morti che produce la detenzione: 1.890, con 673 suicidi accertati, in undici anni (143 con 47 suicidi solo nel 2011) per far sì che il Parlamento la scorsa settimana assumesse delle decisioni per rendere meno disumani questi luoghi e ridurre il numero di presenze che continua ad attestarsi sulle 67.000 persone a fronte di una capienza di circa 45.000 posti nei 206 istituti per adulti presenti nel nostro Paese”. “È inverosimile - continua Ferrari - come le politiche sull’esecuzione penale in Italia non trovino spazi di coscienza ed umanità, e nonostante frequenti le patrie galere oramai da oltre ventidue anni non riesco a trattenere la repulsione e il disgusto che mi producono le prigioni ad ogni visita. Come si può dire che siamo in un Paese di diritto visitando questi anti-luoghi, dove la ristrettezza alla fine potrebbe anche essere uno dei problemi minori! Non potrò mai abituarmi a vedere lasciare questa umanità vivere nel degrado, come il malessere che corrode a sua volta il personale che vi lavora”. “Ci sono gravi responsabilità politiche, da distribuire a piene mani, - conclude Ferrari - che hanno comportato il determinarsi della situazione attuale e, considerati i precedenti e l’inaffidabilità di effettive risposte operative ed umane che possono essere prodotte a livello centrale, ritengo sia giunto il momento che ogni territorio dove insistono i luoghi della privazione della libertà non possa continuare a guardare il consumarsi delle quotidiane tragedie ma se ne riappropri! Le carceri non possono essere altro dal resto degli spazi della collettività! I Comuni e i loro amministratori, assieme alle forze sociali, al volontariato e la cooperazione presidino su quanto avviene, intervengano con le rispettive competenze affinché le leggi siano rispettate e, soprattutto, aprano nuovi spazi di speranza all’esterno, scardinando muri di separazione e vendetta”. Firenze: venerdì prossimo convegno a Palazzo Vecchio sul suicidio in carcere Adnkronos, 28 settembre 2011 “Anatomia del suicidio in carcere. Conoscere e regolare per prevenir”. È questo il titolo del convegno che si svolgerà venerdì 30 settembre a Palazzo Vecchio. A partire dalle 9 addetti ai politici, amministratori, esperti ed addetti ai lavori si confronteranno su un fenomeno che negli ultimi anni ha assunto dimensioni drammatiche. Al convegno saranno presenti, tra gli altri, l’assessore alle politiche sociosanitarie Stefania Saccardi, il direttore generale dell’Azienda sanitaria di Firenze Luigi Marroni, il procuratore della Repubblica di Firenze Giuseppe Quattrocchi, l’assessore regionale al diritto alla salute Daniela Scaramuccia e la presidente del Tribunale di Sorveglianza Antonietta Fiorillo. “Come Amministrazione comunale siamo contenti di aver collaborato alla realizzazione di questo convegno - dichiara l’assessore Saccardi. Il Comune ha il dovere di salvaguardare la salute di tutti i suoi cittadini, anche quelli detenuti, e, quindi, non possiamo che accogliere con favore una riflessione sulla prevenzione del fenomeno dei suicidi in carcere e sui motivi che li generano”. L’appuntamento, promosso dalla Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria in collaborazione con il Comune e l’Azienda sanitaria di Firenze, vedrà interventi e relazioni di esperti di etica e studiosi della materia. “L’obiettivo di questo convegno di respiro nazionale - sottolinea Gemma Brandi responsabile salute mentale istituti di pena di Firenze e tra i soci fondatori della Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria - è fornire un’occasione di confronto e di approfondimento su come poter prevenire, quando è possibile, questi tragici eventi. L’auspicio è di poter definire una check-list per la prevenzione dei suicidi in carcere”. L’iniziativa, infatti, analizzerà il tema a partire da esperienze pratiche e da procedure in essere per formulare una teoria che ricada sulla pratica attraverso la definizione di linee di indirizzo e indicatori di rischio. Cuneo: “Emergenza carcere, amnistia per la Repubblica”, un seminario organizzato dai Radicali www.grandain.com, 28 settembre 2011 Serata aperta a tutti “gli interessati ed i volenterosi”, quella organizzata per venerdì sera da Radicali Italiani a Cuneo, presso la sede della Fondazione Casa Delfino, al primo piano di corso Nizza 1. L’incontro pubblico dal titolo: “Emergenza Carcere: Amnistia per la Repubblica” ha l’obiettivo di invitare i cittadini cuneesi a discutere della questione carceri, a partire dai dati ufficiali, per affrontare le possibili, doverose risposte politiche. Venerdì alle ore 20,45 l’argomento darà introdotto dalle visione di un breve filmato sulla realtà carceraria italiane, realizzato da RadioRadicale.it, e dalla presentazione dei dati del monitoraggio continuo operato da “Ristretti Orizzonti - giornale telematico del carcere di Padova”. Il gruppo “Radicali liberi Cuneo” presenterà un breve report sulle recenti visite ispettive effettuale in agosto ai quattro istituti penitenziari presenti in Provincia (Alba, Cuneo, Fossano, Saluzzo). Sarà inoltre illustrata l’iniziativa nonviolenta che vede Marco Pannella e migliaia fra detenuti, familiari, cittadini, agenti, funzionari ed anche direttori di carcere in prima linea per chiedere al Parlamento di affrontare la situazione di illegalità costituzionale in cui vivono le carceri italiane. In questi giorni il Parlamento, in eccezionale autoconvocazione straordinaria, ha cominciato a discutere l’emergenza giustizia e quindi del sovraffollamento degli istituti. Sono stati invitati a discutere con i radicali - ciascuno portando il proprio contributo di storia e di riflessione personale - i politici cuneesi che negli anni hanno reso possibili le visite del “Ferragosto in Carcere”: deputati, senatori, parlamentari europei e consiglieri regionali che in forza di legge hanno la facoltà di vedere ed anche il compito di controllare la situazione delle carceri e della comunità penitenziaria: non solo i detenuti, che ci sono finiti a seguito o in attesa di una sentenza, ma anche di chi ci lavora per scelta professionale. Presenterà e modererà la serata Nicolas Ballario, componente della Giunta nazionale di Segreteria di Radicali Italiani, da anni collaboratore di Oliviero Toscani ed ora di Vittorio Sgarbi. In particolare, sono stati invitati a partecipare venerdì sera per discutere con i radicali Bruno Mellano, Rosanna Degiovanni e Gianni Pizzini i seguenti esponenti politici cuneesi, che hanno partecipato all’iniziativa “Ferragosto in Carcere 2011”: Teresio Delfino, Enrico Costa, Giovanni Negro, Fabrizio Biolè, Mino Taricco, Rosita Serra. Inoltre hanno già confermato la propria partecipazione il vice - sindaco di Cuneo Giancarlo Boselli e l’ex consigliere regionale Sergio Dalmasso. Roma: da Rebibbia riscatto in palcoscenico per i detenuti-attori Adnkronos, 28 settembre 2011 Un’occasione di riscatto e di rinascita per chi è costretto a vivere dietro le sbarre. Una possibilità per reinventarsi e per scommettere nuovamente su se stessi. È il teatro in carcere che offre l’opportunità di ricostruirsi un destino a numerosi detenuti. Nel penitenziario romano di Rebibbia, visitato oggi dal sottosegretario alla giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati, il teatro è sbarcato nel 2001. A far nascere la passione per il palcoscenico sono stati alcuni reclusi, tra i quali Salvatore Striano e Giovanni Arcuri, che hanno dato vita alla compagnia “Liberi Artisti Associati”, guidata dal 2003 dal regista Fabio Cavalli. Detenuti che hanno vinto la loro sfida con il destino: Basti pensare che il napoletano Salvatore Striano, in galera per camorra, e fuori per l’indulto, è diventato un attore vero e proprio interpretando Gomorra. E ora ha appena finito di girare, diretto dai fratelli Taviani, il film “Dalle sbarre al palcoscenico”. “Per tre mesi - evidenzia - sono tornato in prigione. Ma soltanto per le riprese del film”. Raccontando la sua esperienza, Striano spiega che “il teatro per me è stato un modo per mettermi in gioco. Una possibilità per dimostrare di saper rispettare la società. Ho cominciato a recitare nel 2001 insieme ai miei compagni. Un’esperienza nata quasi per gioco e in modo autogestito. Per me - sottolinea - il teatro è stato come aprire una porta ed iniziare una nuova strada”. Alle lezioni, che si svolgono due pomeriggi a settimana, partecipa assiduamente anche Giovanni Arcuri, da dieci anni recluso per traffico di stupefacenti. Di fronte a sé ha ancora quattro anni e mezzo di carcere. Per lui, il teatro “è un modo di dare senso ad un luogo che non ha senso. All’inizio ricorda - era un modo per uscire dalla cella. Poi, però, il teatro si è trasformato in una forma di vita: salire sul palco significa che tramite la cultura ci si può riscattare. Quello che succede qui vale anche per il futuro, ci apre le porte del nostro domani”. La compagnia Liberi Artisti Associati, sostenuta e promossa dal Centro Studi Enrico Maria Salerno, insomma, è una fucina di talenti. E di successi. In due anni, infatti, agli spettacoli allestiti a Rebibbia hanno partecipato 20mila appassionati. Un risultato che suona, per gli attori - detenuti - come la promessa di un destino diverso e lontano dalle grigie mura della galera. Televisione: “Sbarre”, Fabrizio Moro conduce un nuovo docu-reality sul mondo carcerario Famiglia Cristiana, 28 settembre 2011 Da stasera alle ore 23.40 su Rai 2 andrà in onda per 8 puntate Sbarre, la prima docu-reality che entra realmente dentro una delle carceri più famose d’Italia: Rebibbia. In ogni puntata la storia di un ragazzo che rischia di prendere una cattiva strada incrocerà il percorso e la vicenda umana di un carcerato: un confronto, drammatico ed emozionante, in cui i due binari del racconto si fondono alla ricerca di una riflessione positiva. Da qualche parte in Italia un giovane sta rischiando di finire male: problemi di droga, spaccio, violenza, furto. O semplicemente è cresciuto - suo malgrado - in un quartiere “a rischio”. E se incontrasse un suo ipotetico “futuro”? Una persona che non è riuscita ad evitare la “cattiva strada”? Quella persona, quell’uomo, adesso è dietro le “Sbarre”. Narratore d’eccezione è il cantautore Fabrizio Moro, già vincitore di numerosi premi con la canzone “Pensa” dedicato al ricordo di Falcone e Borsellino. L’obiettivo del programma è quello di interessare il pubblico a due realtà, quella del mondo giovanile e quella della situazione carceraria. Il racconto televisivo vede prima il ragazzo accompagnare il telespettatore nella sua vita e alle soglie del carcere. Una volta entrato, il testimone di questa staffetta “di vita” passa nelle mani del carcerato. Sarà lui a mostrare la sua vita: dove dorme, dove mangia, i suoi “amici”… ma anche le sue paure, le recriminazioni, il suo passato. Alla fine di ogni puntata, Fabrizio Moro raccoglierà le impressioni a caldo del ragazzo appena uscito dal carcere e dedicherà a lui e alla storia che ha ascoltato una canzone unplugged che racchiude nel testo il senso dell’incontro appena avvenuto. Il programma è realizzato con la collaborazione dell’Amministrazione Penitenziaria di Rebibbia. Immigrazione: da Palermo un reportage sulle le navi-prigione dei tunisini Famiglia Cristiana, 28 settembre 2011 Da cinque giorni, centinaia di immigrati tunisini (provenienti da Lampedusa) vivono in tre navi, attraccate nel molo del porto di Palermo, in attesa del rimpatrio. Secondo i palermitani della zona, la Moby Fantasy, la Moby Vincent e l’Audacia sembrano “vascelli fantasma”. Dall’esterno, infatti, gli stranieri non si vedono nemmeno con il cannocchiale e ci si accorge della loro presenza soltanto per le continue manifestazioni del Forum Antirazzista, che presidia il blindato Porto di Palermo, insieme ad associazioni, centri sociali, sindacati e partiti di sinistra, tutti uniti nel difendere i diritti degli immigrati e nel criticare la politica del Governo sui rimpatri. Oggi, una delegazione del Forum Antirazzista, guidata dal professor Fulvio Vassallo Paleologo, esperto di Diritto dell’immigrazione, ha presentato un esposto in Procura, per chiedere di accertare gli eventuali reati di “violenza privata” e “abuso d’ufficio”, nonché alcune violazioni delle norme internazionali. Il procuratore aggiunto di Palermo, Leonardo Agueci, ha prontamente aperto un fascicolo di “atti relativi”, a carico di ignoti. L’intervento della Procura della Repubblica di Palermo è salutato con favore dai manifestanti. La “Rete Primo Marzo” parla di “prigioni galleggianti”, non compatibili con la Carta Mondiale dei Migranti. Sulla stessa lunghezza d’onda le dure proteste di Sinistra Ecologia Libertà, di Rifondazione Comunista e di Italia dei Valori che, attraverso il consigliere comunale Fabrizio Ferrandelli, denuncia la presenza di “lager galleggianti”. Anche gli avvocati si mobilitano in difesa degli immigrati. L’Unione delle Camere Penali, infatti, si rivolge al ministro dell’Interno Roberto Maroni per lamentare “l’incostituzionalità dell’internamento nelle navi”. L’accesso a bordo, infatti, è off limits per tutti: associazioni, giornalisti, giuristi e operatori. Gli unici ammessi a visitare le navi e a verificare la situazione degli immigrati sono i parlamentari. Ieri una delegazione del Partito Democratico, guidata dall’onorevole Alessandra Siragusa, si è recata a bordo dell’Audacia e della Moby Vincent. Secondo la testimonianza del deputato democratico, gli stranieri sono trattati con rispetto dal personale marittimo e dagli agenti di polizia, ma la situazione è “devastante” e di “grandissimo disagio”. Gli immigrati ricevono i pasti regolarmente, sono tranquilli, ma non possono comunicare con l’esterno, non possono vedere la televisione e non conoscono il destino che li attende. Non avendo commesso alcun reato e non essendo, dunque, detenuti, i migranti non possono paradossalmente nemmeno esercitare il diritto di difesa né ricevere assistenza legale. L’onorevole Alessandra Siragusa non ha dubbi: a bordo di due navi sono presenti anche una donna in gravidanza e sette minori. La circostanza della presenza di minori è confermata dall’associazione Terre de Hommes, ma smentita dalla Questura di Palermo. Intanto, nell’isola di Lampedusa non ci sono più immigrati, dopo i trasferimenti di massa verso Palermo e dopo i primi rimpatri. Tuttavia, l’eco della rivolta degli immigrati e della guerriglia della scorsa settimana non si spegne. Emergono le storie drammatiche, come quella di Najy Hinsen, giovane operaio tunisino ricoverato nel reparto di Otorinolaringoiatria dell’ospedale Villa Sofia di Palermo. Il tunisino - che ha un trauma facciale e numerosi edemi sulle gambe, sulle braccia e sul tronco - ha denunciato di essere stato “massacrato a calci, pugni e manganellate” a Lampedusa e ha raccontato di essere emigrato perché in Tunisia lo stipendio di operaio non gli era più sufficiente per vivere. In un lungo reportage pubblicato su Facebook e sul portale Indymedia Italia, il fotoreporter Alessio Genovese ha parlato senza mezzi termini di “guerra ai tunisini e ai giornalisti”, descrivendo pestaggi e violenze a Lampedusa non solo contro i migranti, ma anche contro le troupe televisive e gli operatori delle associazioni umanitarie. Genovese ha pure raccontato la storia di Muhammed, un cinquantenne tunisino disoccupato a causa di un incidente nel cantiere, causato dalla negligenza del suo datore di lavoro a Padova. Dopo il viaggio in Tunisia per le cure, Muhammed era intenzionato a rientrare in Italia per rivendicare i suoi diritti, ma è stato ferito alla testa a Lampedusa, nei giorni della “caccia al nero”. Le aggressioni contro gli immigrati non devono, però, far dimenticare lo spirito di accoglienza e solidarietà della maggioranza degli abitanti di Lampedusa, che rifiutano il razzismo, le ronde e l’intolleranza. Un avamposto della solidarietà è la parrocchia di Lampedusa, esaltata pubblicamente dal Mir, dalla Rete Lilliput e dai Laici Comboniani. I firmatari della lettera aperta, tra cui Francesco Lo Cascio del Mir e alcuni sacerdoti, ricordano che il vero volto di Lampedusa è quello delle staffette umanitarie e dei pescatori che soccorrono gli immigrati, non certo il volto cupo delle ronde e della “caccia al nero”. Immigrazione: la procura di Palermo indaga sulla navi trasformate in prigione Il Manifesto, 28 settembre 2011 Adesso sulle navi trasformate in prigioni galleggianti indaga la procura di Palermo. A deciderlo è stato il procuratore Leonardo Agueci dopo la presentazione da parte di una serie di associazioni di un esposto in cui si mette in dubbio la legittimità del trattenimento a bordo degli immigrati prelevati a Lampedusa dopo l’incendio che la scorsa settimana ha distrutto il Cie. I reati ipotizzati sono quelli di “limitazione della libertà personale”, “violenza privata” e “illecita detenzione di minori”, quest’ultimo conseguenza del ritrovamento, a bordo delle dite navi che si trovano ancora nel porto di Palermo, di sette ragazzi tunisini di età compresa tra i 16 e i 17 anni. “Per quanti ci risulta - ha spiegato l’avvocato Fulvio Vassallo Paleo - logo, docente di Giurisprudenza a Palermo e tra i firmatari dell’esposto - non sono stati ancora emessi provvedimenti formali che autorizzino il trattenimento di migranti sulle navi. Nei fatti viene loro negato il diritto di difesa e la libertà di comunicazione con l’esterno, come invece avviene nei Cie. Lo dimostra il fatto che siano stati sequestrati loro i telefoni cellulari”. Gli autori dell’esposto denunciano inoltre come i migranti siano stati imbarcati con i polsi legati. “Non c’è alcun tipo di problema a bordo delle navi. Io sono per la trasparenza più totale. Non c’è nulla da nascondere”, è stato il commentodel ministro degli Interni Roberto Maroni, che stamattina alle 9 è atteso in aula alla Camera per un’informativa sugli scontri avvenuti a Lampedusa. Come prima cosa i magistrati siciliani dovranno adesso verificare il luogo in cui il presunto reato sarebbe avvenuto, se a Palermo oppure a Lampedusa, visto che è lì che gli immigrati sono stati imbarcati sulla Moby Vincent, la Moby Fantasy e l’Audace. Dopo di che il problema principale sarà quello di capire qua! è lo stato giuridico dei migranti, visto che la loro si può considerare una detenzione vera e propria dal momento che sono impossibilitati a lasciare le navi. Per quanto se ne sa, denunciano infatti il Forum antirazzista, l’Arci e la Cgil siciliana - tre delle associazioni autrici dell’esposto, nessun provvedimento restrittivo è stato finora notificato agli immigrati, come, invece è previsto dalla legge. “I cittadini stranieri attualmente a bordo delle tre navi - è scritto nell’esposto - sono stati trasferiti e trattenuti in un luogo privo di determinazione giuridica, senza alcun provvedimento individuale formalmente adottato e convalidato dal giudice”. Adesso - spiega l’avvocato Vassallo Paleologo - il problema è capire quali provvedimenti verranno adottati nei confronti dei 250 migranti che si trovano ancora sulle navi”. Navi che continuano a esser parcheggiate nel porto di Palermo presidiato da polizia e carabinieri. Parlando ieri davanti alla commissione parlamentare sull’infanzia, Maroni ha escluso che a bordo possano esserci dei problemi, sorvolando però su quale potrebbe essere lo stato giuridico degli immigrati. Per il resto il ministro ha fatto il punto sull’emergenza legata sia agli sbarchi, che alle condizioni dei minori stranieri arrivati in Italia. “Lampedusa è stata dichiarata porto non sicuro per i soccorsi in mare finché il centro di accoglienza non sarà ricostruito”, ha detto Maroni spiegando che quanti cercheranno di sbarcare in futuro verranno destinati verso altri centri. Per quanto riguarda i minori stranieri, il ministro ha spiegato che quelli arrivati complessivamente in Italia dall’inizio dell’anno sono 4.012, dei quali 3.739 non accompagnati. Di questi 2.705 sono quelli sbarcati a Lampedusa, 2.567 dei quali senza aver con sé nessun adulto. Immigrazione: anche minori trattenuti sulle navi della vergogna di Dina Galano Terra, 28 settembre 2011 Da ormai cinque giorni nel porto di Palermo i traghetti di linea ospitano gli stranieri trasferiti da Lampedusa. Terre des hommes: “I ragazzi sono stati identificati frettolosamente” Sulle due navi ancorate al molo palermitano ci sarebbero anche dei minori. Non si perde in particolarismi il regime di trattenimento dei tunisini che il governo italiano ha predisposto in seguito all’incendio del centro di Contrada Imbriacola di Lampedusa. Sulle tre imbarcazioni si trovavano fino a domenica circa 560 persone. Da ieri sono in 340 perché la nave Moby Fantasy ha lasciato il porto per la volta di Cagliari dove i suoi 220 “ospiti” saranno trasferiti al centro di prima accoglienza di Elmas, vicino all’aeroporto del capoluogo. Ma anche in quest’ultimo caso, le operazioni paiono orientate solo a decongestionare la situazione e allentare la tensione. L’obiettivo, reso esplicito dal ministro dell’Interno Roberto Maroni, è procedere al rimpatrio di tutti i tunisini identificati. Peccato che, secondo l’Associazione dei giuristi per l’immigrazione e la rete di movimenti antirazzisti palermitani, ogni procedura sia saltata. E cresce il sospetto che, nella fretta di organizzare l’allontanamento da Lampedusa e il successivo ritorno in patria, sia sfuggito all’attenzione qualche minore finito nel ciclo di detenzione sui generis organizzato in nome dell’ultima emergenza. “È molto alto il rischio che sulle navi siano presenti ragazzi tra i 15 e i 17 anni”, sostiene Federica Giannotta di Terre des Hommes che a settembre ha concluso un ciclo di interventi per i più piccoli proprio sull’isola di Lampedusa. Alcuni dei loro assistiti ora non si trovano più. “Non abbiamo notizie da nessuno dei ragazzi che hanno rilasciato ai nostri avvocati la procura legale”, continua Giannotta, preoccupata che “possano essere stati mal identificati”. Terres des hommes non partecipa al progetto Presidium, l’unico autorizzato dal ministero ad operare a Lampedusa, e insieme ad altre associazioni lamenta da tempo la mancata informazione sui trasferimenti e i trattenimenti degli stranieri. Così, di fronte all’ennesima operazione “frettolosa”, venerdì scorso ha chiesto dettagli alle autorità “circa l’identità delle persone imbarcate sulla Moby Fantasy, Moby Vincent e Audacia anche al fine di potere sapere se vi siano tra di esse categorie vulnerabili (minori, malati e richiedenti asilo)”. Finora, nessuna risposta. E le domande si moltiplicano. “Perché nessuno può vedere i migranti? Chi può testimoniare le condizioni in cui sono trattenuti? E cosa hanno fatto per essere detenuti?”, si chiede la rete di movimenti palermitani che è in presidio permanente di fronte al porto della città. Dopo la manifestazione di domenica scorsa, altre trecento persone si sono radunate ieri nelle vicinanze del molo. Judith Gleize di Bordeline - Sicilia spiega che “la cosa più urgente è verificare le procure che già erano state disposte dai migranti quando si trovavano a Lampedusa in modo da chiedere l’accesso degli avvocati sulle navi. Intanto, tramite i parenti con cui siamo in contatto, stiamo cercando di aggiungere nuove procure”. È una lotta contro il tempo. I voli per Tunisi riportano indietro cento persone al giorno. Chi rimane a bordo, invece, resta ancora isolato, privato del cellulare per comunicare all’esterno e senza rassicurazioni di sorta. Ma le due navi di Palermo non costituiscono certo un’eccezione. Il governo Berlusconi non è nuovo all’ipotesi di costruire luoghi di privazione della libertà con “caratteristiche modulari”. Si parlava di carceri galleggianti nel 2009 come risposta al sovraffollamento degli istituti penitenziari, si è ritornati al trattenimento in mare anche durante gli ultimi mesi: partiti da Lampedusa i traghetti capaci di trasportare mille persone a tratta, raramente hanno concluso il viaggio a Porto Empedocle o Palermo. I meno fortunati sono stati costretti a viaggi che, soltanto nel tragitto marittimo, superano i tre giorni. Stati Uniti: la rivolta dell’America contro la pena di morte, ora basta di Vittorio Zucconi La Repubblica, 28 settembre 2011 La siringa “colpisce come il fulmine”, racconta lo studio definitivo sui 35 anni di pena capitale in America da quando fu riammessa nel 1976, senza logica, senza senso, senza umanità. Ma soprattutto senza giustizia. Cade su chi cade, non necessariamente sui criminali più efferati, spesso addirittura su innocenti che hanno soltanto la colpa letale di essere neri o di vivere negli Stati del Sud dove ancora regna il culto del taglione, di non avere i soldi per assumere gli avvocati migliori. Nessun ricco è mai stato mandato sul patibolo. L’omicidio di Stato è un grottesco privilegio riservato ai poveri. Non c’è ormai quasi più giurista sensato, associazione o circolo di studiosi e criminologi che la difenda od osi sostenerne l’efficacia deterrente, che è sempre l’ultimo rifugio dei forcaioli. Nel 2010, gli omicidi volontari negli Stati Uniti sono stati più di 15 mila e le esecuzioni, per delitti consumati a volte undici anni prima, come nel caso di Troy Davis ucciso la scorsa settimana dopo che tutti i testimoni contro di lui avevano ritrattato e ammesso di avere mentito, sono state 46. Un’esecuzione ogni 326 omicidi non può rappresentare un deterrente per futuri assassini, per uomini e donne che già, nella loro decisione di uccidere un altro essere umano, si sono posti fuori dal timore delle conseguenze. “La possibilità pur remota del supplizio - ha scritto l’Associazione nazionale degli avvocati - spaventa soltanto coloro che non hanno nessuna intenzione di c o m mettere un delitto”. Se la forca continua a ergersi, nella sua versione paramedica attuale con barelle, flebo e aghi, è soltanto grazie alla ottusa, demagogica viltà opportunistica di imbonitori della politica che mungono e coltivano gli istinti più primitivi e irrazionali degli elettori. L’applauso più sonoro e l’ovazione più convinta ascoltati finora nella serie di dibattiti elettorali fra repubblicani in lotta fra di loro per sfidare Obama nel novembre 2010 sono stati riservati all’impresentabile eppure popolarissimo governatore del Texas, Rick Perry. Quando si è lanciato in un’apologia di quella pena che il suo Stato da decenni, già sotto il governo di George W. Bush, usa con più passione di tutti gli altri stati i suoi condannati, dietro il “muro” rosso del penitenziario mattatoio di Huntsville, la platea ha esultato. Sono stati 476 in 25 anni, già undici nell’anno in corso, le vittime del Texas. Per trovare il secondo Stato americano in questa lugubre olimpiade di sedie elettriche, camere a gas, fucilazioni, cappi, si deve scendere ai 109 della Virginia, meno di un quarto. Dunque, o il Texas è una terra brulicante di assassini, o l’assassino peggiore è lo Stato del Texas. Neppure l’osservazione che il patibolo resta in funzione in alcuni dei più osceni sistemi giudiziari del mondo, come la Cina, Cuba o l’Iran, sembra convincere gli ultrà della morte della barbarie iniqua della forca. Per una nazione come gli Stati Uniti, che si vanta di avere “il miglior sistema giudiziario del mondo”, una vanteria che almeno cinesi e iraniani ci risparmiano, la certezza che tra quei 1.270 messi a morte dal 1976 a oggi almeno il 3% erano innocenti del crimine contestato in base alle ricerche post mortem, leggermente tardive, dovrebbe imporre almeno una moratoria immediata. La invoca, non per moralità ma per praticità, l’Associazione Legale Americana, che dopo anni di lavoro si è arresa: il sistema non funziona, è arbitrario, è iniquo e non è riformabile. Tre dei massimi giudici che nella Corte Suprema del 1976 formano con altri la maggioranza che reintrodusse le esecuzioni, ma “temporaneamente” precisò, rinnegarono poi il proprio voto. E addirittura l’autore e promotore del referendum che in California riaprì le camere della morte nel 1978, il magistrato repubblicano Don Heller, ha sconfessato la propria iniziativa, la scorsa settimana, in una lettera aperta di scuse. “Un sistema fallimentare da abolire subito, che costa fortune ai contribuenti, molto più della detenzione a vita”. Quattro miliardi di dollari sono stati spesi in California dal 1978 a oggi per uccidere 13 detenuti: 300 milioni per ogni esecuzione. “Indifendibile”, “grottesca” secondo il New York Times la barbarie che continua a macchiare la reputazione del sistema giudiziario americano e cammina ancora sulle gambe di una democrazia diretta e spiccia che negli Stati del Sud più forcaioli non tollera che i candidati di destra osino mettere in dubbio il diritto di uccidere nel nome dello Stato. Non ci sono argomenti o casi che possano piegare la demagogia e la “cultura del vigilante” che attanaglia coloro che si credono giusti. Neppure vedere il serial killer Gary Ridgeway che confessò quarantotto omicidi ma, collaborando con i magistrati, ebbe salva la vita mentre Teresa Lewis, accusata di complicità in un omicidio e riconosciuta semi inferma mentale fu messa a morte in Virginia, smuove la dipendenza emotiva e irrazionale di tanti nella formula dell’“occhio per occhio”. I suoi complici furono risparmiati. Fino a quando una nuova generazione di leader politici della destra sudista, quella che a volte si ammanta della blasfema etichetta di “cristiana”, resterà succube delle ovazioni che hanno salutato il forcaiolo Rick Perry (possibile futuro presidente) per vincere le elezioni, la siringa continuerà a pompare veleni nella braccia di chi le capita sotto. L’ascensore per il patibolo porta innocenti a morire e colpevoli a governare. Israele: sciopero fame di detenuti palestinesi, contro le recenti “misure punitive” Ansa, 28 settembre 2011 Uno sciopero della fame è stato intrapreso in alcuni penitenziari israeliani da detenuti palestinesi che protestano contro una serie “misure punitive” adottate di recente nei loro confronti. Fra queste: l’obbligo a vestire una tuta arancione da internati; l’obbligo di sottoporsi alla conta; ed il divieto di seguire i programmi televisivi di emittenti arabe. La notizia, diffusa dall’agenzia di stampa palestinese Wafa e da altri mezzi stampa palestinesi, è stata confermata da un portavoce del servizio carcerario israeliano secondo cui la protesta coinvolge finora circa 85 reclusi. Il ministro palestinese per i prigionieri, Issa Qaraqe, ha detto alla Wafa che in prima linea nella protesta si trovano i detenuti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina che esigono la revoca dell’isolamento del segretario generale del Fplp Ahmad Saadat, recluso in isolamento da ormai tre anni. Altri venti detenuti, aggiunge il Fplp, sono chiusi in totale isolamento, cosa che - secondo il ministro, equivale ad una morte lenta. Anche queste misure punitive devono essere revocate, affermano i detenuti in agitazione. In questa fase, ha spiegato Qaraqe, la protesta avverrà tre giorni la settimana. Se il servizio carcerario israeliano mantenesse un atteggiamento di chiusura, la protesta potrebbe essere estesa. Iran: pastore protestante “apostata”, verso l’impiccagione se non abiura di Paolo Gallori La Repubblica, 28 settembre 2011 L’allarme lanciato dalla comunità cristiana in Iran: potrebbe essere giustiziato giovedì Yousef Nadarkhani, giovane di Rasht che ha abbracciato il Cristianesimo fino a diventarne sacerdote. E per questo condannato a morte. Suo padre, suo nonno, i suoi avi, la sua famiglia. Per tutti loro, non c’è mai stata altra religione se non l’Islam. Poi, un giorno, Yousef Nadarkhani scopre il messaggio della cristianità. E il giovane, residente nella città iraniana di Rasht, sul Mar Caspio, abbraccia la nuova fede con tanta convinzione da diventarne pastore e sfidare la teocrazia iraniana. Fino a diventare, con sua moglie ed altri correligionari, oggetto di una persecuzione culminata per lui nella condanna a morte. Il reato che gli viene contestato è l’apostasia, l’abbandono della religione di Stato. In Iran il procedimento è ancora aperto presso il tribunale provinciale di Gilan, ma i sostenitori di Nadarkhani, oggi 34enne, lanciano l’allarme: secondo gli attivisti che ne chiedono la scarcerazione c’è il rischio che l’esecuzione avvenga già giovedì perché il tribunale provinciale, è il loro timore, potrebbe applicare una legge appena ratificata dal Parlamento iraniano che inasprisce la pena per il reato di apostasia. A rilanciare la notizia è il sito d’informazione BosNewsLife, che cita fonti iraniane vicine al religioso, secondo le quali Nadarkhani, che oggi sederà sul banco degli imputati in una nuova udienza del processo a suo carico, avrebbe respinto la richiesta di “pentimento” avanzata dal giudice del tribunale provinciale di Gilan nel corso di un’udienza che ha avuto luogo domenica. Secondo il giudice, infatti, il religioso cristiano ha “antenati islamici” e per questo motivo “deve abiurare la sua fede in Gesù Cristo”. Su BosNewsLife, Jason DeMars, direttore del gruppo di sostegno Present Truth Ministries (Ptm), analizza la controversa legislazione iraniana che inasprisce il trattamento dell’apostasia. La sezione 6/225 afferma che “quando i genitori di una persona erano musulmani al momento in cui provavano ad avere un bambino, e lui o lei successivamente si converte a un’altra religione senza dire di essere musulmano, costui o costei è un’apostata” spiega De Mars. La sezione 8/225, inoltre, stabilisce le procedure per l’impiccagione di un apostata. “Una volta pronunciato il verdetto - spiega ancora De Mars - , all’apostata viene chiesto di pentirsi. Se si rifiuta, viene ucciso”. “Pentirsi significa tornare indietro. Ma verso cosa dovrei ritornare? Alla blasfemia in cui ero prima di trovare la fede in Cristo?”, così avrebbe risposto Nadarkhani al giudice, stando al resoconto fornito da alcuni testimoni presenti all’udienza. E quando la corte ha chiesto a Nadarkhani di tornare “alla religione degli antenati”, il prete cristiano avrebbe replicato: “Non posso”. Una proclamazione di innocenza, oltre che di fede, per la quale Nadarkhani ora rischia di essere impiccato. Calcolando i tre giorni stabiliti dalla nuova legge, la sentenza dovrebbe essere eseguita, appunto, giovedì 29 settembre. Il primo arresto di Yousef Nadarkhani risale al 2006, con il rilascio due settimane dopo. Nel 2009, Nadarkhani si ribella a una riforma introdotta nel sistema educativo iraniano, secondo la quale tutti gli studenti, inclusi i bambini, devono obbligatoriamente leggere il Corano, laddove la Costituzione iraniana garantisce la libertà religiosa. Yousef protesta davanti la scuola e il suo gesto lo porta in tribunale il 12 ottobre del 2009, incriminato per le proteste. Capo d’accusa che presto cambia: Nadarkhani viene processato per apostasia ed evangelizzazione, detenuto nel carcere di Lakan, alla periferia di Rasht. Il 18 giugno 2010 viene tratta in arresto sua moglie Fatemah. In tribunale, la donna è privata della difesa e condannata all’ergastolo. Per indurla ad abiurare, secondo testimoni della comunità cristiana, le viene prospettata anche la sottrazione dei figli perché siano affidati a una famiglia musulmana. Ma Fatemah non si arrende, assolda un avvocato, presenta appello e la sentenza è ribaltata l’11 ottobre del 2010. Nel settembre del 2010 è Yousef a comparire davanti alla Corte d’assise della provincia di Gilan, dove viene oralmente condannato a morte per apostasia. Sentenza contro cui non si può presentare appello presso la Corte Suprema fino a quando non sia stata trascritta, operazione che i giudici di Gilan ritardano. Secondo la comunità cristiana iraniana, una mossa strategica, per indurre Nadarkhani ad abiurare. Nel frattempo, Yousef viene trasferito in un carcere per detenuti politici, dove è negato l’accesso ai familiari e anche al suo avvocato. La versione scritta della sentenza giunge finalmente il 13 novembre del 2010, corredata da un importante dettaglio: Nadarkhani deve essere punito tramite impiccagione. La difesa del pastore cristiano presenta il suo appello, ma la Corte Suprema di Qom conferma la condanna a morte. Al legale di Nadarkhani, Mohammed Ali Dadkhad, importante esponente della difesa dei diritti umani in Iran, il nuovo verdetto viene comunicato l’11 luglio scorso. Ma la Corte Suprema chiede anche al tribunale provinciale titolare della prima sentenza di riesaminare alcuni aspetti procedurali, consegnando così al giudice il potere di decidere se giustiziare Nadarkhani o trovare una via d’uscita dallo spinoso caso e liberarlo. Il timore della comunità cristiana in Iran è che il verdetto non sia solo già scritto, ma che la fine di tutto sia molto, troppo vicina. Se Nadarkhani fosse impiccato, si tratterebbe del primo cristiano giustiziato in Iran per motivi religiosi negli ultimi 20 anni. Tunisia: agenti di polizia arrestati per essersi rifiutati di torturare i detenuti Ansa, 28 settembre 2011 Molti agenti della Polizia e della Guardia nazionale tunisine si trovano in stato d’arresto per essersi rifiutati, dopo la “rivoluzione”, di commettere “atti di tortura” nei confronti di detenuti, pratica diffusissima ai tempi della dittatura. La notizia è stata fornita da Hichem Meddeb, portavoce del Ministero dell’Interno tunisino ieri sera, nel corso del periodico incontro con la stampa. Maddeb - riferisce il sito Tunisie Numerique - ha definito la tortura come l’uso della forza per interrogare i criminali. Ora le denunce di abusi arrivano al ritmo di 6 - 7 alla settimana, principalmente dai due grandi penitenziari nel downtown di Los Angeles che ospitano migliaia di detenuti. Anche l’Fbi, prosegue il New York Times, ha aperto indagini su diversi episodi. “Questa situazione che si protrae nel tempo, il numero delle denunce e la loro natura sono molto, molto peggio di qualsiasi cosa io abbia mai visto”, ha detto Tom Parker, ex funzionario dell’Fbi che supervisionò le indagini sul pestaggio del tassista afroamericano Rodney King nel 1991 e le accuse di corruzione nella polizia di Los Angeles. “Stanno abusando i detenuti impunemente - ha aggiunto - e la cosa peggiore è che pensano di poterla fare franca”. Stati Uniti: presentato rapporto sugli abusi contro i detenuti del carcere di Los Angeles Adnkronos, 28 settembre 2011 Decine di casi di abusi compiuti sui detenuti del penitenziario maschile di Los Angeles sono contenuti nel rapporto stilato dalla Aclu (American Civil Liberties Union) che l’associazione presenterà oggi alla Corte distrettuale federale. Il sistema carcerario della contea di Los Angeles, il più grande degli Stati Uniti, rileva il New York Times, è anche quello che presenta più problemi, secondo avvocati ed ex funzionari preposti all’applicazione della legge. L’Aclu aveva già intentato una causa federale 35 anni fa contro il sistema che ha una lunga storia di accuse di abusi. All’associazione venne così permesso di monitorare la situazione dall’interno delle strutture carcerarie. Bahrain: tribunale militare conferma l’ergastolo per 8 organizzatori della rivolta Aki, 28 settembre 2011 Il tribunale militare del Bahrain ha confermato la condanna all’ergastolo per otto leader dell’opposizione sciita, accusati di aver organizzato la rivolta contro la monarchia sunnita al potere. Lo riferisce l’agenzia di stato, ricordando che la prima sentenza di condanna all’ergastolo per gli otto era stata emessa a giugno da una corte appositamente creata nel periodo di vigore della legge marziale, che si è concluso a maggio. Tra gli otto condannati si contano Abdulhadi al-Khawaja, noto attivista per i diritti umani, e Hassan Mushaimaa, che si batte per l’instaurazione della repubblica nel paese. Comminate anche pene minori per altri imputati, per un totale di 21 sentenze emesse. Il leader del partito laico Waad, è stato condannato a cinque anni di carcere. Tutti e 21 i condannati possono contare ancora su una possibilità di appello al tribunale civile, mentre c’è chi non esclude un provvedimento di amnistia del re Hamad bin Isa.