Io, recluso, racconto a chi vuol sentire Il Mattino di Padova, 26 settembre 2011 Testimonianze e mostra di pittura dalla Casa di reclusione di Padova, dal 16 al 30 settembre. La città che abbraccia il “suo carcere”, con curiosità, con voglia di capire, di emozionarsi e di non giudicare: è questa la sensazione che si respira in serate come quella del 16 settembre, quando al Centro Universitario di Via degli Zabarella a raccontare il carcere sono stati i detenuti, attraverso le loro testimonianze scritte, ma anche attraverso i quadri esposti in una mostra, che si potrà visitare per due settimane. L’associazione Padova Teatro, con Paolo Lighezzolo, Salvatore Moscatt, Paola Spolaore, ha dato la voce a testi e poesie, con accompagnamento al pianoforte di Maddalena Murari. Due ore di letture, durante le quali le persone detenute hanno idealmente condotto per mano le “persone libere” dentro alla galera, con la sua sofferenza, le famiglie che si spezzano, gli affetti che faticano a reggere il peso della separazione, la consapevolezza del male fatto e della necessità di assumersene tutta la responsabilità. E ancora, l’emozione dell’uscita, i primi permessi a casa, a respirare un pò di libertà, l’ansia per il “dopo”, quando ci si dovrà di nuovo confrontare con la “vita vera”, la paura di essere rifiutati. Ma anche la mancanza di un futuro, l’assenza di ogni speranza che si respira nelle testimonianze di chi è condannato all’ergastolo. Da ogni parola, da ogni emozione espressa nei testi è emersa l’importanza della scrittura in carcere, che gli organizzatori dell’incontro hanno sottolineato con forza: “Lo scrivere ha per il detenuto valore di liberazione, di ricerca di un ascolto, di ricostruzione di sé; gli scritti raccontano storie di persone che, con differenti percorsi, arrivano al reato, storie di lunghi anni trascorsi tra i corridoi e le celle anguste del carcere, lontani dagli affetti e dal vivere civile, provati da interminabili sofferenze, storie di un mondo “diverso”, eppure fatto di persone che, alla fine, scopriamo vicine a noi”. L’iniziativa è realizzata nell’ambito delle attività dell’Associazione Gruppo Operatori Carcerari Volontari, in collaborazione con la Redazione di Ristretti Orizzonti e con la Compagnia Padova Teatro e sotto il patrocinio del Comune di Padova, della Casa di reclusione di Padova e del Centro Universitario di Via degli Zabarella. Autori dei testi: Altin D., Andrea A., Maurizio B., Sandro C., Dritan I., Tiziano F., Franco G., Elton K., Vanni L., Domenico M., Diego O., Antonio P., Graziano S., Franco F. Espongono dipinti: Antonio Brusaterra, Giuseppe D’Assaro, Alfredo Guarnieri, Mario Pace, Pigi, Domenico Morelli, Sergio Sarti Organizzatori: Emanuela Colbertaldo, Anna Costa, Armida Gaion Puglierin, Daniela Lucchesi, Claudia Puglierin. Quella che segue è la riflessione di un detenuto proprio sul valore della scrittura per chi sta in carcere, e poi una delle poesie lette di fronte a un pubblico attento, emozionato, coinvolto. La magia di fare tutto quello che le mura, i cancelli e i vetri blindati non permettono Quello che io ricordo davvero come un momento di svolta nella mia carcerazione è quando iniziai a scrivere, una passione che avevo avuto anche durante il liceo, ma che avevo interrotto insieme agli studi. Scrivevo dei racconti e man mano che avanzavo lungo il cammino della scrittura mi accorgevo di essermi inoltrato in una dimensione parallela, lontana dal carcere, in un mondo ardente che sostituiva la fredda cella e mi rivestiva di un calore magico fatto di curiosità, di fantasia, d’amore per una letteratura che veniva da qualche angolo della mia anima. Ovviamente raccontare storie non è semplice: bisogna descrivere in modo chiaro le scene, si devono spiegare con un certo ingegno i pensieri dei personaggi e inquadrare tutto con intensità e coinvolgimento. E per fare ciò servivano parole, parecchie parole, per me che, straniero, ne avevo poche quando volevo usare la vostra lingua. Quindi, merito di un’enciclopedia Garzanti, ho cominciato a incrociare le mie idee con le interminabili ricerche di aggettivi nuovi e di sostantivi originali: inventando scene e sperimentando frasi che, a dispetto della sintassi, riuscivano incredibilmente ad essere piene di energia espressiva. Forse è stato tutto merito di un trucco che avevo escogitato: sin da piccolo sono stato affascinato dall’architettura, un’arte che si avvale di segmenti e curve per creare opere d’arte, quindi immaginavo quell’enciclopedia come un mucchio di mattonelle, ognuna diversa dalle altre, e il mio compito era quello di costruire dei palazzi fatti di storie, dove il lettore poteva entrare ed interessarsi del mio mondo, emozionarsi ma non solo, doveva sentire anche il calore e la passione che cova nel mio cuore. Questo desiderio continuava a crescere ogni volta che regalavo un racconto ad un’amica o amico e mi sentivo dire che la storia l’aveva toccato profondamente, o che un personaggio gli aveva fatto provare delle emozioni: la cosa che mi è sempre mancata in galera è il contatto umano, quello di riuscire a parlare liberamente, comunicare dei pensieri, trasmettere delle emozioni, scambiare quel calore che passa attraverso gli occhi, la pelle, le labbra, vale a dire tutto ciò che il carcere proibisce. Quello che mi ha davvero stupito scrivendo è stata la magia di fare tutto quello che le mura, i cancelli e i vetri blindati non permettono, una magia di cui soltanto la scrittura è depositaria. Elton Kalica Dietro il vetro In silenzio, da un’ora, ti guardo, senza toccarti... come un sogno, un volto irraggiungibile. In silenzio, da un’ora, ti guardo, e mi chiedo perché tutto questo succede proprio a me. In silenzio, da un’ora, ti guardo, racchiuso in questa gabbia di cristallo, come pesce boccheggiante. In silenzio, da un’ora, ti guardo, pensando ogni momento solamente a te. In silenzio, da un’ora, ti guardo, dietro questo spesso vetro, scrutando ogni tuo movimento. In silenzio, da un’ora, ti guardo, aspettando inutilmente che, da qualche pertugio, entri l’odore di te. In silenzio, da un’ora, ti guardo, e mi accorgo che, a stento, trattieni le lacrime, per non darmi dolore. Antonio P. Giustizia: carceri italiane, cronaca di un disastro dimenticato di Giambattista Scirè www.linkiesta.it, 26 settembre 2011 I detenuti in Italia sono oggi circa poco meno di 70 mila, di cui il 40% circa in attesa di giudizio. La capienza dei nostri istituti di pena è pari a 43 mila posti, e il sovraffollamento medio del 150 per cento. Cosa è successo dall’innovativa legge Gozzini sul carcere del 1984 in poi? Negli ultimi anni due provvedimenti, la legge Fini-Giovanardi sugli stupefacenti e la Bossi-Fini sull’immigrazione, hanno causato circa il 60% delle detenzioni. Nel corso del 1982 alcuni giornalisti della Rai, redattori della rubrica televisiva “Cronaca”, nell’intento di far conoscere al grande pubblico la verità della realtà carceraria italiana, avevano deciso di dedicare una trasmissione al carcere di Rebibbia. Dopo un colloquio con l’allora Ministro di Grazia e Giustizia democristiano, avevano avuto l’autorizzazione a intervistare i detenuti e gli agenti di custodia di quel carcere. All’epoca, i carcerati di cui si parlava abitualmente nei servizi giornalistici, erano i detenuti “speciali”, cioè quelli appartenenti alla grande criminalità organizzata, dal terrorismo alla mafia, dalla camorra al traffico di droga. Quel servizio era, invece, un documento di eccezionale valore e interesse perché, per la prima volta, svelava dall’interno del carcere la tragica realtà quotidiana delle condizioni di vita dei detenuti comuni e degli stessi agenti di custodia, e perfino le violenze che alcuni di loro erano stati costretti a subire in silenzio. Ma quella trasmissione, programmata il novembre 1982, gli italiani non l’avevano potuta vedere, perché non era mai andata in onda. I più sospettosi avevano spiegato l’accaduto per un eccesso di autocensura da parte dell’allora direttore generale della Rai. Altri avevano ipotizzato sotterranee pressioni da parte del governo. Quando, qualche tempo dopo, venne fuori la polemica, si disse subito che la trasmissione conteneva violazioni del segreto istruttorio ed altri non meglio specificati reati, tanto che intervenne la Procura della Repubblica di Roma a sequestrare la pellicola. I giornalisti precisarono subito di aver avuto tutte le autorizzazioni del caso e di aver usato le doverose premure e regole sulla privacy, ma, in sintesi, neppure dopo l’intervento della magistratura la trasmissione venne dissequestrata e tanto meno trasmessa. Si era trattato, con tutta evidenza, di una grave violazione del diritto costituzionale dei cittadini ad essere informati, oltre che di un’occasione perduta di far conoscere alla gente i veri motivi dell’ingovernabilità e della inciviltà delle istituzioni carcerarie. A fronte della tante dichiarazioni di buona volontà pronunciate, di volta in volta, da governi e ministri della Giustizia, per risolvere la questione giudiziaria, quella censura diceva più di mille parole. I dati statistici, ancora nel 1983, erano allarmanti. In un’inchiesta sulle carceri italiane pubblicata sull’ “Avvenire” si parlava di un totale di 40 mila detenuti, prevalentemente giovani, stipati tra vecchi muri che ne potevano contenere 27 mila al massimo. Il numero, di per sé stesso, se comparato a quello di altri paesi, non era poi così elevato. Il problema era che solo il 30% scontava una condanna definitiva, il 60% era in attesa di giudizio (24 mila in primo grado, 6 mila in appello) e quindi in carcerazione preventiva (per al meno 2 anni), e addirittura il 30%, alla fine, era prosciolto. Di questi solo una sparuta minoranza si trovava in galera per reati gravi come rapine, sequestri di persona, omicidi, il resto per reati minori, soprattutto per furti. L’inchiesta ricordava inoltre che, in media, un detenuto costava ogni giorno allo Stato circa 60 mila lire, cioè a dire circa 22 milioni all’anno (oggi costa circa 400 euro mensili). Un capitolo a parte era quello delle carceri di massima sicurezza, che andavano ricondotte entro i crismi della legalità, eliminando tutte quelle vessazioni disumane, arbitrarie che caratterizzavano le condizioni di vita dei detenuti negli istituti speciali. In questo genere di carceri, i detenuti erano spesso sottoposti a vessazioni e privazioni di diritti umani del tutto superflue rispetto alle esigenze di sicurezza. In alcuni casi le restrizioni comprendevano il divieto di leggere libri e giornali, in altri la permanenza all’aperto fuori dalla cella, in altri ancora i colloqui con i parenti venivano ostacolati dall’esistenza di vetri divisori e dalla possibilità di parlare solo attraverso i microfoni, sovente non funzionanti. Talvolta era anche proibito l’acquisto di generi alimentari e di conforto. Le donne recluse erano una percentuale limitata, al di sotto del 5% del totale. Nel carcere di massima sicurezza femminile di Voghera, ad esempio, le detenute vivevano in condizioni di totale isolamento. Più in generale, il carcere femminile era, se possibile, una sorta di carcere dentro al carcere, un ulteriore muro rispetto alla stessa società carceraria. Le regole carcerarie erano maschili, con la loro coazione e repressione. Le donne non potevano comunicare con il resto del carcere, oltre a non comunicare con l’esterno, non potevano comunicare con gli uomini. Un muro costruito sulla cultura sessuofobica che in carcere diventava paura e isteria. Se negli anni Settanta, ospedali, istituti minorili, manicomi e scuole erano stati investiti da una ondata di apertura e il movimento di trasformazione aveva toccato quei luoghi un tempo chiusi per modificarli, nelle carceri continuava a manifestarsi un sistema autoritario e gerarchico, di angherie e vessazioni dei potenti sui subordinati. A chi stava fuori della società veniva chiesto, in poche parole, di non dare fastidio e al massimo di accontentarsi di una soluzione amministrativa o assistenziale ai suoi problemi. Un importante spartiacque nella storia del sistema penitenziario italiano fu il giugno 1984. Nella casa di reclusione di Rebibbia si svolgeva, infatti, proprio quel giorno, il primo convegno all’interno di un carcere. L’idea era stata di un gruppo di detenuti che stavano preparando una rappresentazione dell’Antigone di Sofocle sotto la guida di quegli stessi giornalisti della Rai che, dopo aver conosciuto alcuni dei carcerati, avevano iniziato, volontariamente, a prestare la loro opera fra di loro. Quel giorno la commozione ebbe il sopravvento sulla gioia e sullo stesso orgoglio di aver realizzato davvero un evento epocale. Cancelli e porte blindate aperti, detenuti e liberi cittadini insieme senza distinguersi, magistrati, operatori, agenti, parlamentari a discutere una relazione elaborata dai detenuti stessi, di ammirevole serietà e ricca di proposte concrete. I carcerati chiedevano, in sostanza, un carcere più umano, misure alternative alla detenzione e la possibilità di lavorare in cooperative interne agli istituti di pena, per stabilire un collegamento organico fra carcere e territorio, in vista della cosiddetta risocializzazione. In quel momento la società politica superava, almeno nei buoni propositi, la visione chiusa del carcere come luogo di segregazione in cui i cittadini non potevano entrare. C’era da aggiungere il problema degli operatori penitenziari, la cui “immagine” era poco avvertita presso l’opinione pubblica. Ben pochi si rendevano conto che dalle carceri, presto o tardi, i detenuti sarebbero usciti e che dipendeva anche dal modo in cui durante la detenzione erano stati trattati, dai rapporti che gli operatori erano riusciti a stabilire con loro, se al momento di riprendere la libertà avrebbero presentato più o meno alto di pericolosità sociale. La maggioranza dei cittadini manifestava la tendenza a considerare gli operatori penitenziari esclusivamente come i secondini dei vecchi tempi, chiamati a custodire i detenuti nel senso di tenerli ben chiusi e segregati, per non disturbare gli uomini liberi. Una visione totalmente antiquata e frutto di pregiudizi. Da qui la scarsa considerazione e il bassissimo prestigio sociale degli operatori penitenziari. C’era poi un problema concreto, cioè a dire l’organico basso, con circa 3300 agenti ausiliari, e quindi non effettivi, per un totale di 40 mila detenuti, da cui derivavano turni pesantissimi, nonché il problema dei bassi stipendi. In realtà, nelle carceri, esistevano figure molto differenziate. C’era, per esempio, quella del magistrato di sorveglianza, la cui funzione, spesso di carattere amministrativo e di controllo, era difficilmente conciliabile con la posizione di terzietà che avrebbe dovuto avere un giudice. Di solito la stampa si accorgeva della sua esistenza solo dopo episodi negativi come il mancato rientro di un detenuto da un permesso o dopo un’evasione. Nelle carceri non vi erano ancora le condizioni affinché i giudici di sorveglianza potessero effettivamente svolgere le proprie funzioni. Inoltre, la presenza degli operatori sociali (assistenti sociali, educatori, psichiatri, psicologi, criminologi, ecc.) era una realtà diffusa pressoché in tutti i paesi occidentali, ma, in Italia, il loro ingresso nelle carceri era avvenuto, invece, con sensibile ritardo e con contraddizioni specifiche. In materia di carcere, probabilmente, la società civile si rivelava più arretrata della società politica. Fino a quel momento, la gente si era sempre sentita estranea al problema della prevenzione alla criminalità, la riteneva una questione da politici, così come considerava la repressione compito esclusivo della polizia e della magistratura, e la rieducazione attribuibile soltanto ai tecnici della risocializzazione o, eventualmente, agli operatori del volontariato. Quando il paese era stato chiamato a pronunciarsi tramite referendum sull’abolizione dell’ergastolo, nel 1981, aveva risposto di no, a stragrande maggioranza. L’ergastolo, invece, grazie a una legge del Parlamento, approvata a larga maggioranza nell’ottobre 1986, qualche anno dopo, veniva abolito: i carcerati condannati all’ergastolo sarebbero usciti in libertà condizionale, dopo 26 anni di detenzione. Il nuovo regime carcerario italiano diventava, almeno in teoria, tra i più avanzati del mondo. Ma prima c’erano volute le rivolte carcerarie (le prime fin dal lontano 1969 a Torino, Milano e Genova, nel 1973 devastazioni e incendi a Regina Coeli, a San Vittore, ad Alessandria, con alcuni morti, poi ancora un’ottantina di focolai di protesta carceraria, tristi episodi di suicidi), e il problema era stato posto all’attenzione dell’opinione pubblica soltanto da alcune inchieste giornalistiche e dagli scritti sulle condizioni dei carcerati, superando l’aula parlamentare e le isolate denunce degli indipendenti, dei radicali e della sinistra socialista. La riforma delle carceri del 1986, meglio nota come “legge Gozzini”, era una importante conquista di civiltà, un segnale di fiducia e di ottimismo riposto dalla società nella bontà della natura umana. I capisaldi di quella legge erano l’attribuzione alla pena detentiva di un carattere flessibile (discontinuità della pena), l’estensione dei permessi premio, semplificando le procedure per ottenerli, e delle cosiddette misure alternative alla detenzione: il lavoro all’esterno del carcere, l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, o anche la liberazione condizionale, ossia sorvegliata da controlli periodici di polizia, che il tribunale di sorveglianza poteva concedere quando la maggior parte della pena era stata scontata e il condannato presentava determinati requisiti. A qualsiasi condannato (anche quelli per reati connessi alla criminalità organizzata, sia mafiosa che politica), veniva infatti riconosciuta la possibilità di cambiare, di essere recuperato e reinserito nella società anche prima di aver scontato l’intera pena, anche se si trattava di una condanna all’ergastolo. La sentenza pronunciata dal giudice del dibattimento non era più intangibile nella misura della pena, questa poteva essere ridotta durante l’esecuzione da un altro giudice, quello di sorveglianza, in relazione al comportamento in carcere del condannato. E la riduzione era pari a un quarto: 45 giorni ogni sei mesi di detenzione. Riguardo ai permessi: tornare per qualche giorno in famiglia, agli affetti, riprendere i rapporti più cari poteva costituire, da un lato, un mezzo prezioso perché la pena fosse accettata più serenamente, dall’altro, una preparazione pratica e morale al reinserimento quando la pena fosse stata espiata. A fronte del numero minimo di condannati che evadevano (circa il 2%) o commettevano altri delitti, c’era il numero grandissimo di altri condannati che andavano in permesso e regolarmente ritornavano. L’affidamento in prova al servizio sociale poteva essere applicato alle pene non superiori ai tre anni, ma una sentenza della corte costituzionale aveva ampliato questo limite. I centri di servizio sociale per adulti erano organismi dell’amministrazione penitenziaria, operanti fuori delle carceri. Una particolare forma di affidamento era quella prevista per i condannati tossicodipendenti, allo scopo di favorirne l’inserimento in comunità terapeutiche. La detenzione a domicilio era analoga agli arresti domiciliari nel periodo della custodia cautelare antecedente alla condanna definitiva: a casa sua o in altro luogo privato o pubblico, ospedale, ospizio. Potevano essere ammessi alla detenzione domiciliare i condannati a non più di due anni o a cui due anni alla fine della pena. Non tutti però: solo le donne in maternità, gli ultra sessantacinquenni, se inabili anche parzialmente, i malati gravi, i minori di ventuno anni. La terza misura alternativa, la semilibertà, poteva essere concessa ai condannati che avessero scontato almeno metà della pena. Di giorno fuori, di notte in carcere. Sono passati ormai 25 anni da allora e negli ultimi tempi una vera e propria legislazione repressiva ha preso campo in Italia, che ha avuto come risultato il ritorno al passato: la ghettizzazione, la catalogazione e l’esclusione sociale del carcerato. Sono state soprattutto due le leggi che hanno causato circa il 60% delle detenzioni. La prima, Fini-Giovanardi, che agisce sull’equiparazione delle droghe leggere (cannabis e derivati) a quelle pesanti (oppiacei e droghe chimiche) e costruisce una equiparazione, non solo sociale, tra lo spacciatore ed il consumatore. Tutto ciò ha portato ad una quantità enorme di giovani in carcere, con successivi problemi di ordine psicologico derivati dal trauma della carcerazione e con problematiche dettate dall’esclusione dal contesto sociale. Circa 39 mila unità, il 44% di tutti gli ingressi del 2009. Il caso italiano è un unicum in Europa. Secondo i dati del Consiglio d’Europa, i detenuti per reati previsti dalla disciplina sugli stupefacenti rappresentano mediamente il 16%. La seconda, Bossi-Fini, con il peggiorativo pacchetto - sicurezza, che ha creato il “reato di immigrazione”, trasformando una sanzione amministrativa in un reato penale. Questa legge ha avuto un impatto di circa il 25% sul numero dei detenuti totali, portando in prigione uomini e donne che sopravvivono con lavori a margine, extra-legali o sommersi, che alimentano mercati economici gestiti dalle mafie. La presenza di persone straniere nei penitenziari italiani è più che raddoppiata negli ultimi venti anni: se nel 1991 c’erano il 15% di stranieri nelle patrie galere, nel 2010 erano diventati il 36% (addirittura in due carceri sarde la presenza di stranieri arriva al 70 e all’80%). La percentuale delle donne nelle carceri rimane invece stabile (passa in vent’anni dal 5,3% al 4,3%). È tornata, in altre parole, l’esclusione sociale dei detenuti: dalla sistematica non applicazione dei diritti umani sanciti a livello europeo e internazionale (alla sanità, alla cultura, all’istruzione), ai processi di riqualificazione e reinserimento lavorativo con condizioni di lavoro interno pessime, sottopagate e senza tutele (nel 2010 il numero dei detenuti lavoratori era di 14 mila circa il 20% del totale, nei settori industriale e agricolo). I detenuti in Italia sono oggi circa poco meno di 70 mila, di cui il 50% circa in attesa di giudizio (su scala internazionale, nel 2010, l’Italia si trova all’ottavo posto tra i paesi europei per la percentuale di persone in attesa di giudizio detenuto negli istituti di pena, dopo stati come Montenegro, Andorra, Liechtenstein, Turchia, Lussemburgo e Gibilterra). L’ambiente che si respira tra i detenuti si riassume facilmente con il numero di suicidi: 66 nel 2010. La capienza dei nostri istituti di pena è pari a 43 mila posti, con una capienza tollerabile di 48 mila, e con un sovraffollamento medio del 150%. Il primato negativo di sovraffollamento spetta all’Emilia Romagna, poi alla Puglia e al Veneto. Guardando all’Europa, secondo i dati forniti dal Centre for Prison Studies del King’s College di Londra, l’Italia è il terzo paese come sovrannumero di carcerati, solo dopo Bulgaria (155%) e Cipro (153%). Il 2011, inoltre, ha visto un ulteriore aggravarsi della crisi in cui versa il sistema penitenziario italiano, che peraltro, usufruisce di risorse sempre più esigue (i fondi sono diminuiti del 15%). È in crisi, soprattutto, il sistema delle misure alternative al carcere (nel 2010 le persone in misura alternativa erano circa 16 mila, il 19% del totale). Quanto, infine, ai tristi casi degli ospedali psichiatrici giudiziari, nei 6 istituti visitati di recente da una commissione di parlamentari (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere) sono stati trovate condizioni fatiscenti, dotazione carente di attrezzature e personale medico, condizioni inaccettabili degli internati, abbandonati in stanze, senza alcun tipo di cure. Nel 2010 il comitato per la Prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa ha definito incredibile la situazione riscontrata nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, dove alcuni detenuti vengono legati al letto seminudi, 24 ore su 24 anche per dieci giorni. Anche il sistema della giustizia minorile, pur essendo molto più funzionale ed efficiente rispetto a quello degli adulti, nonostante la Corte costituzionale abbia posto attenzione alla questione, per esempio abolendo l’ergastolo per i minori, ha fatto negli ultimi anni preoccupanti passi indietro. Di recente la Corte costituzionale tedesca, con una sentenza storica, ha obbligato le autorità penitenziarie del paese a rilasciare un detenuto qualora non siano in grado di assicurare una prigionia rispettosa dei diritti umani fondamentali. La decisione tedesca apre la via alle liste di attesa penitenziarie che già sono state realizzare in altri paesi del nord Europa. Il governo norvegese ormai 25 anni fa intitolò il piano di edilizia penitenziaria “Ridurre le attese per scontare la pena”. Era ovvio per il governo scandinavo non incarcerare persone alle quali non potesse essere assicurato un posto letto dignitoso. Le liste di attesa per detenuto sono un’invenzione norvegese. Se non c’è posto in carcere si aspetta a casa che il posto si liberi. In Italia, pochi giorni fa, il Tribunale di Lecce ha sentenziato che il carcere di Borgo San Nicola dovrà risarcire con 220 euro un detenuto tunisino per danno esistenziale dovuto ad una cella troppo piccola (di circa 11 metri quadrati da condividere con altre 2 persone). La civiltà di un paese si misura, non solo dal grado di sviluppo economico e culturale, e dalla situazione relativi ai diritti civili, ma, anche, dalle condizioni delle sue carceri. È forse il caso di tornare al passato e di aggiornarsi alle legislazioni europee più avanzate, come peraltro è già accaduto nella nostra storia. Giustizia: Rita Bernardini; lo Stato è delinquente professionale, serve subito l’amnistia Affari Italiani, 26 settembre 2011 Continua lo sciopero della fame di Marco Pannella e Rita Bernardini dei Radicali contro il sovraffollamento delle carceri. E proprio quando il ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma annuncia l’apertura di un nuovo penitenziario a Reggio Calabria, Rita Bernardini sceglie Affaritaliani.it per ribadire che “la risposta al Guardasigilli è la protesta non violenta che stiamo portando avanti da 11 giorni affinché nel nostro paese sia sancito il diritto all’amnistia, un diritto non negoziabile”. “La soluzione non è costruire nuove carceri ma decongestionarle e far rientrare nella legalità il sistema giustizia. La nostra proposta è quella di un’ampia amnistia che possa non solo svuotare gli istituti di pena ma anche riformare la giustizia - sottolinea Bernardini - e diminuire così il numero di processi. Non dimentichiamo che oggi 183mila processi cadono in prescrizione perché non vengono celebrati ma non è questo il modo di alleggerire l’iter giudiziario: con l’amnistia si cancellerebbero i reati e si ridurrebbe il numero di procedimenti, non lasciando al tempo la loro cancellazione: per far partire veramente la riforma della giustizia secondo noi si dovrebbe passare dai 3,5 milioni a un milione di processi”. “L’ampia amnistia che proponiamo - continua - inciderebbe sia sui processi civili che su quelli penali. Un’ipotesi potrebbero essere stabilire gli anni da amnistiare e di conseguenza tutti i reati che stanno al di sotto: ma non vogliamo entrare nel merito perché prima deve essere approvato il principio di cui ancora non si riesce nemmeno a parlare. Inoltre la nostra proposta prevede il risarcimento nei confronti delle vittime che invece con l’attuale prescrizione dei processi non c’è”. “I detenuti in Italia sono 67mila, di cui oltre 24mila stranieri, mentre i posti nelle nostre carceri sono 45mila - continua Bernardini - . Il 30% sono tossicodipendenti e il 20% malati psichiatrici e c’è carenza di psicologi, oltre che di agenti di polizia penitenziaria. Ma il problema non è solo quello del sovraffollamento. Lo Stato viola le leggi ed è divenuto delinquente professionale perché è stato punito in Europa, per l’irragionevole durata dei processi, oltre 1000 volte mentre la Francia è stata punita solo 200 volte. Per non parlare della custodia cautelare in carcere, cioè la carcerazione preventiva: nel nostro paese siamo al 42% mentre la media europea è della metà”. Giustizia: quel ddl che farebbe comodo a Berlusconi, ma non ai carcerati (Intervista al giudice Giovanni Tamburino) www.ilsussidiario.net, 26 settembre 2011 Il ddl 2657 sul “processo lungo” - presentato con le firme di esponenti di Lega, Pdl, Di Pietro - è stato approvato dal Senato lo scorso agosto. Ora è alla Camera, in attesa di riprendere il 25 settembre l’iter parlamentare. Ed è probabile che acceleri, dopo che l’inchiesta su Tarantini che vede coinvolto il premier Berlusconi è passata da Napoli a Roma. Il provvedimento è stato così ribattezzato perché permette agli avvocati difensori di escutere i testi: l’imputato ha la possibilità di chiedere al giudice che siano interrogati tutti coloro che rendono dichiarazioni a suo carico, e di ottenere la convocazione di testi a difesa nelle stesse condizioni dell’accusa. In pratica, la difesa ha la possibilità di ascoltare un sacco di testimoni. Allungando, di molto, i tempi del processo. Ma non c’è solo questo nel ddl processo lungo. Esso infatti contiene anche alcune novità sul regime di detenzione. Il ddl infatti prevede un inasprimento dell’esecuzione penale, escludendo dal percorso di rieducazione i condannati che hanno commesso reati gravissimi. Solo dopo un periodo pari ai due terzi della pena, o pari a 26 anni se condannati all’ergastolo, quest’ultimi potranno accedere al trattamento di reinserimento. In altre parole, per questi ci sarebbe una rilevante riduzione dei benefici previsti dalla legge Gozzini nell’ambito del percorso rieducativo della pena. Viene da domandarsi se un provvedimento come questo non sia in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, in base al quale la pene deve tendere alla rieducazione del condannato. Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Giovanni Tamburino, magistrato di lungo corso e presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma. Come giudica le nuove norme inserite nel ddl “processo lungo” relative ai detenuti? Queste disposizioni si trovano nel comma ottavo di un unico articolo e quindi sono in una posizione che definirei singolare perché l’articolo 1 è dedicato a disposizioni di carattere processuale, mentre quelle di cui parliamo attengono all’esecuzione della pena. Cosa vuole dire? Che da un punto di vista tecnico è una collocazione impropria e direi stravagante rispetto alla materia. Sto facendo una valutazione tecnica che non guarda ancora al contenuto. E però c’è una tecnica di buona legislazione che suggerisce di tenere distinte le materie per ottenere la chiarezza che un testo di legge deve sempre assicurare. Ma è solo una questione tecnica o è una scelta politica aver orientato così il dispositivo? Non mi compete una valutazione di carattere politico. Preferisco attenermi al dato documentale. Questa parte dell’articolo 1 non ha nessuna attinenza con le altre parti. Andiamo nel merito del comma otto. Vede un possibile contrasto con l’articolo 27 della Costituzione? Il comma contiene due disposizioni, di cui la seconda riguarda gli omicidi aggravati, la prima riguarda alcuni reati come la strage per ragioni di eversione, il sequestro di persona a scopo di estorsione e il sequestro di persona semplice. Si tratta in tutti due i casi di reati gravissimi, per i quali è legittima la preoccupazione che la quantità di pena che viene irrogata ed effettivamente eseguita non scenda sotto determinati livelli. È un tratto comune anche a molti altri paesi, basti pensare a quello che è accaduto in l’estate scorsa in Norvegia. Ciò che a mio avviso può andare contro l’articolo 27 comma 3 della Costituzione è la rigidità eccessiva del dispositivo. In altri termini? Mi chiedo anzitutto se il legislatore abbia messo a fuoco che già oggi l’articolo 630 del Codice penale (sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione) non contempla la possibilità di ottenere benefici penitenziari salvo vi sia la collaborazione con la giustizia da parte del condannato. Per gli altri reati direi che la perplessità maggiore riguarda l’articolo 605, sequestro di persona semplice, sia pure con la conseguenza della morte del sequestrato. L’assimilazione nel ddl dell’articolo 605 ai reati di strage e di sequestro di persona a scopo di estorsione lascia molti dubbi. Se il ddl diventasse legge, come cambierebbe il percorso detentivo delle persone sottoposte al nuovo regime di detenzione? La conseguenza sarebbe un notevole prolungamento dei tempi prima di uscire dal carcere grazie a permessi o misure alternative. Rimarrebbe, a dare speranza, come unico beneficio la liberazione anticipata concessa solo in caso di buona condotta. Non si può dire perciò che viene eliminato del tutto un orizzonte di speranza per il detenuto, ma certamente l’ampiezza di questo orizzonte si riduce. Come sempre, queste norme non saranno però retroattive per chi già ha fatto un percorso di rieducazione tale da poter ottenere dei benefici. Costui non li perderà con l’entrata in vigore di questa legge. Dal punto di vista della sua esperienza, come valuta allora questo nuovo aspetto che si vuole introdurre? Per la mia esperienza tendo a vedere con forte preoccupazione i meccanismi giuridici eccessivamente rigidi. Credo che un margine di discrezionalità, naturalmente purché sia ben orientata, è preferibile ad un meccanismo che non lascia margini. Allo stesso tempo nessuno può nascondersi che talvolta la discrezionalità è utilizzata male. Confermo quello che è sempre stato il mio orientamento: cercare il massimo rafforzamento della professionalità del giudice ed in particolare della magistratura di sorveglianza perché l’uso della discrezionalità sia ragionevole e sia dunque accettabile da parte della società. Fatte tutte queste considerazioni, se entrasse in vigore questa riforma quali sarebbero le prime conseguenze? Che avremo sicuramente detenzioni più lunghe per gli autori di reati gravissimi. Per fortuna costoro, nel quadro generale dei circa 67mila detenuti nelle carceri italiane. sono poche migliaia. Il problema del sovraffollamento del sistema penitenziario è dato da decine di migliaia di detenuti che scontano reati più leggeri, ma che riempiono il carcere perché ne fanno molti. E spesso ne fanno molti perché non hanno alternative di vita. Giustizia: Alfano (Idv); il vero scandalo della detenzione di Riina è che il direttore sia Giacinto Siciliano www.irispress.it, 26 settembre 2011 “In effetti rivesto il ruolo di persona offesa dal reato nel procedimento che vede Riina imputato per il reato di minaccia aggravata dal metodo mafioso. Il procedimento non è nato da alcuna mia segnalazione, men che meno querela. Anzi, a dire il vero non sono nemmeno stata sentita dal P.m, seppure avevo raccontato quanto avvenuto nel corso di una mia visita al carcere milanese di Opera, nel quale è ristretto il capomafia corleonese. Tutto è nato, invece, da una relazione di servizio redatta dal carcere di Opera, e io ne sono venuta a conoscenza soltanto quando mi è stato notificato l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare dal parte del Gip di Milano Cristina Di Censo”. È quanto scrive sul suo blog l’europarlamentare e presidente dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia Sonia Alfano, per chiarire la vicenda raccontata ieri dall’Unità con un articolo a firma di Nicola Biondo. “Io - prosegue la Alfano - non ho inteso sporgere denuncia perché in realtà Salvatore Riina, come racconto in un capitolo del mio libro (La Zona D’ombra. La lezione di mio padre ucciso dalla mafia e abbandonato dallo Stato, Rizzoli) non ha mai detto ‘vi fucileremo tuttì, come invece riportato nella richiesta di rinvio a giudizio firmata dalla dott.ssa Ilda Boccassini, bensì ‘vi fucileremmo tuttì”. “È ovvio aggiunge ancora Alfano - che non mi aspettassi di essere idolatrata dai detenuti al 41bis, Riina in primis, ma in realtà in occasione di quel colloquio con lui il boss manifestò disprezzo riferendosi genericamente ai politici. Sennonché, durante quell’incontro avvenne un fatto che ritengo ben più grave: Riina, come riportato perfino nelle relazioni della polizia penitenziaria, pronunciò parole eccessivamente affettuose nei confronti del direttore del carcere di Opera, peraltro presente, elogiandone l’umanità e aggiungendo che evidentemente il direttore aveva ereditato quei pregi dal padre, Vito Siciliano, anch’egli già direttore di istituti penitenziari e anch’egli già conosciuto e apprezzato dal capomafia. Di certo - sottolinea l’europarlamentare - un soggetto di questo calibro tutto può fare tranne che dirigere il carcere nel quale è ristretto Riina. Eppure, a rendere ancor più scandalosa la vicenda è il fatto che Giacinto Siciliano è da tempo stato rinviato a giudizio, insieme al magistrato Salvatore Leopardi, per imputazioni di gravità assoluta, che attestano suoi rapporti border line con il Sisde, all’epoca in cui quel servizio segreto era diretto da quel Mario Mori che oggi è imputato a Palermo per favoreggiamento di Bernardo Provenzano. Ecco - afferma Sonia Alfano - questo ritengo sia il vero scandalo”. E conclude: “Quanto alle mie visite alle strutture penitenziarie, so bene che a qualcuno, per ragioni inconfessabili, abbia dato fastidio, soprattutto allorché alcune circostanze che ho omesso di riferire nel libro (per ragioni di riserbo investigativo) ho provveduto a riferirle ufficialmente ai magistrati che indagano sulle deviazioni di Stato del 1992/93. Ma è proprio per questo che continuerò nell’impegno intrapreso e proseguirò nelle visite a tutte le strutture detentive riservate al 41bis”. Giustizia: Osapp; Palma renda la propria azione concreta, immediata e senza alcuna preclusione Ansa, 26 settembre 2011 “A poche ore dall’incontro, quest’oggi alle ore 16,00 in via Arenula a Roma, con i sindacati del personale penitenziario e alla vigilia della replica al Senato della Repubblica dal Ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma, attendiamo l’annuncio di iniziative di immediata efficacia, per affrontare e risolvere le gravissime condizioni delle carceri e del personale che vi opera.” ad affermarlo è Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria). “Nei giorni scorsi, come sindacato maggiormente rappresentativo del personale di polizia penitenziaria abbiamo pienamente condiviso gli intenti dichiarati pubblicamente dal Guardasigilli e la volontà dello stesso, a differenza del predecessore Alfano, di porre l’emergenza penitenziaria tra le priorità dell’azione politica del dicastero della giustizia, come dimostra la recente nomina a vice capo dell’amministrazione, della dott.ssa Simonetta Matone, quale magistrato di comprovate conoscenza ed esperienza anche in ambito penitenziario”. “Ciò nonostante - prosegue il leader dell’Osapp - non poche perplessità ha suscitato la relazione che il Ministro Palma ha letto in Senato lo scorso 23 settembre e che si è dimostrata ‘lacunosà in materia di polizia penitenziaria, stanti le denegate e annose esigenze di organico e di riorganizzazione del corpo (7.700 agenti in meno dell’organico nei servizi a diretto contatto con i detenuti. 1.611 assunzioni straordinarie promesse e poi respinte), e in materia di bilancio, tenuto conto dei 150 mln si debiti dell’Amministrazione penitenziaria di cui oltre 10 mln per le spese sostenute e non rimborsate ai poliziotti penitenziari e tali che alla fine del prossimo ottobre non potranno neanche fornirsi corrente elettrica, acqua calda e persino il vitto, per gli oltre 67mila detenuti nelle carceri italiane (67.245 presenti ieri 25 settembre)”. “Per tali ragioni - conclude Beneduci - invitiamo il Ministro ad una assoluta concretezza sul da farsi, a che non si disquisisca vanamente e senza alcuna fattività, come ci accade di assistere da almeno 15 anni, di espulsioni piuttosto che di depenalizzazioni, di maggiori misure alternative anziché di minore custodia cautelare in carcere e si abbia il coraggio di affrontare il problema senza alcun preclusione, rispetto a provvedimenti ormai irrinunciabili per il carcere come per l’intero sistema giustizia nel Paese, anche se non di facile appiglio popolare o politico, qual è l’amnistia”. Giustizia: protezione dei “pentiti” a rischio blocco per i tagli ai fondi Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2011 L’Italia è leader mondiale nella legislazione sul pentitismo, ma il sistema di protezione degli ex mafiosi rischia di naufragare per mancanza di finanziamenti. È questo, in sintesi, l’allarme lanciato dal ministro Roberto Maroni attraverso una relazione al Parlamento del dipartimento della pubblica sicurezza del dicastero degli Interni. I dati riguardano il primo semestre del 2010, ma la “fotografia” della situazione è di grande attualità, anche perché la relazione sottolinea che nel 2on il bilancio dello Stato “ha previsto stanziamenti in misura notevolmente inferiore al solo fabbisogno economico rappresentato per le spese ordinarie”. Itagli di spesa sono tanto rilevanti che l’amministrazione della Giustizia non è in grado di pagare puntualmente l’affitto delle case assegnate ai pentiti che ci vivono con una nuova identità per metterli al riparo dalla vendetta criminale. “L’insufficienza di fondi comporta l’impossibilità - si legge nella relazione - di fronteggiare gli impegni di spesa assunti. Malgrado una gestione delle spese molto oculata, l’erogazione dei servizi primari di assistenza è sempre più a rischio”. Un aggravio dei costi nei programmi di protezione è imputabile alla lentezza della macchina giudiziaria: “il sistema processuale - si legge nel documento - non corre in ausilio del reinserimento sociale, tenuto conto che spessissimo gli impegni giudiziari dei collaboratori e testimoni si protraggono per tantissimi anni”. Insomma, è arduo far “rinascere” un pentito con una nuova identità fittizia, se per lungo tempo deve poi comparire dinanzi al giudice con quella vera. Alla data del 30 giugno 2010 i collaboratori di giustizia protetti erano 957, in diminuzione rispetto al 2000 (allora erano 1110), forse anche a causa delle minori garanzie offerte per carenza di finanziamenti. Solo nel primo semestre dell’anno scorso la spesa per la protezione dei pentiti è stata di 36.846.707,04 euro, informa il ministero. L’incremento della popolazione extracomunitaria nel nostro Paese rappresenta un problema anche per il programma diprotezione,pescheancheafri - cani e orientali delinquono e talvolta si pentono collaborando con le istituzioni. C’è però un “buco” legislativo, come sottolinea la relazione alle Camere: “la normativa vigente non consente il rilascio di documenti di copertura agli extracomunitari”. Finora a questa carenza si è rimediato concedendo il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ma senza identità di copertura. Giustizia: il terzogenito di Totò Riina pronto a trasferirsi a Padova, la Lega no lo vuole Affari Italiani, 26 settembre 2011 La Lega Nord pronta a mettersi di traverso al trasferimento di Giuseppe Salvatore Riina, figlio terzogenito del “boss dei boss” Totò Riina, che ha intenzione di venire a vivere in Veneto. Questione di giorni e, non appena avrà finito di scontare la condanna nel supercarcere di Voghera, “Salvuccio” tenterà di costruirsi un futuro (“Da persona perbene, nonostante il cognome che porto”, ha assicurato ai giudici) lavorando per una onlus di Padova che si occupa di aiutare gli ex detenuti a reinserirsi nella società. Una vita semplice e un impiego anonimo, visto che al nord lo attende un posto da impiegato. “Sia chiaro che il signor Riina non è un pentito - ha spiegato in tribunale il suo difensore, l’avvocato vicentino Francesca Casarotto - e rimane in ottimi rapporti con i suoi congiunti. Semplicemente ha manifestato la sua volontà di non ritornare in Sicilia e di fermarsi in un luogo dove ritiene di avere più possibilità di ricominciare una vita da persona onesta lontano dall’ambiente che gli ha provocato guai con la giustizia”. Riina junior, 34 anni, vuole quindi tenersi alla larga di Corleone. Il 2 ottobre avrà scontato la condanna a otto anni e potrà lasciarsi alle spalle i cancelli del carcere lombardo. Il giudice di Pavia, Maria Teresa Gandini, ha depositato venerdì il suo via libera alla richiesta di trasferirsi in Veneto, dove però dovrà rispettare una serie di vincoli. Sarà infatti sottoposto a libertà vigilata: dovrà rincasare prima delle 22, sottoporsi all’obbligo di firma e non dovrà avere alcun tipo di contatto con pregiudicati. Pena l’immediato ritorno in cella. Non è chiaro perché “Salvuccio” abbia scelto proprio Padova per ripartire. Forse solo perché lì ha sede la onlus che lo assisterà. “Al Nord c’è lavoro” si limita a suggerire l’avvocato. Ma forse ha pesato anche il fatto che Giuseppe Salvatore Riina a Padova ha già “soggiornato”. Nel 2009, infatti, era stato trasferito al Due Palazzi per scontare parte di quella condanna a otto anni e dieci mesi inflittagli dalla Corte d’appello di Palermo per una serie di reati. Nel carcere veneto il figlio di Totò non era stato trattato con i guanti: rinchiuso in una cella dotata solo di letto attaccato al muro, tivù e servizi igienici (la doccia è una per tutto il reparto), era sottoposto al 41 bis, che prevedeva la sorveglianza a vista e la luce accesa 24 ore su 24, nessun contatto con gli altri detenuti, nemmeno durante l’ora d’aria, televisione accesa solo fino a una certa ora ed esclusivamente sui tre canali Rai, vestiti, spesa, cibo e libri passati dagli agenti, che controllavano ogni cosa che usciva dalla cella, perfino piatti e posate di plastica. Ora a Padova ci torna, ma da uomo (quasi) libero. L’arrivo di “Salvuccio” in Veneto doveva restare segreto. Così non è stato e, al grido di “Riina qui non lo vogliamo” già sale la protesta della Lega Nord. L’assessore regionale Roberto Ciambetti è furioso: “Noi mandiamo i soldi al sud e loro ci mandano i mafiosi? Facciamo così: noi ci teniamo i nostri soldi e loro si tengano Riina. È come se mi chiedessero di portarmi a casa un agente patogeno o delle scorie radioattive. No grazie: il nostro territorio ha già dato in passato. Forse così lo Stato italiano vuole ricordarci chi comanda, e questo dimostra che c’è ancora chi pensa che il Veneto sia una colonia da spremere e basta. Ma basta, questa volta lo diciamo noi”. Giustizia: sì al nuovo processo, Bruno Contrada a 80 anni torna in aula di Francesco La Licata La Stampa, 26 settembre 2011 La storia senza fine di Bruno Contrada, ex capo della squadra mobile di Palermo, cominciata con il suo clamoroso arresto il giorno della vigilia di Natale del 1992, non è ancora conclusa. Non è bastata la condanna a 10 anni di carcere confermata dalla Cassazione nel maggio del 2007, dopo una lunga e travagliatissima altalena di sentenze contraddittorie: colpevole in primo grado (1996), assolto con formula piena in appello (2001), annullamento della Corte Suprema (2002) e nuovo processo con sentenza di condanna (2006) confermata dalla Cassazione nel maggio del 2007. Tutto questo non è bastato perché ieri la Corte d’Appello ha accolto la domanda di revisione del processo presentata da Bruno Contrada, attraverso il suo legale Giuseppe Lipera. Se ne parlerà a novembre, in un’udienza che dovrà decidere se dare seguito processuale a quella richiesta. L’ultimo scoglio da superare è quello della Procura generale, che ieri sera ha ribadito l’intenzione di opporsi. In aula a novembre, dunque. Bruno Contrada, a ottant’anni compiuti lo scorso 2 settembre e dopo aver scontato 31 mesi di carcerazione preventiva (molti dei quali in isolamento in due carceri militari), si ritrova a intraprendere l’ennesima battaglia. Non che sia importante ai fini della pena, perché l’ex poliziotto accusato di intelligenza col nemico, cioè Cosa nostra, la condanna l’ha quasi scontata e oggi si trova agli arresti domiciliari per motivi di salute. No, l’obiettivo da sempre perseguito dall’alto funzionario è sempre stato quello di poter dimostrare la propria estraneità alle accuse infamanti lanciategli da alcuni collaboratori di giustizia. “Sono stanco - ha detto al suo avvocato - e molto pessimista. Non so se le rimanenti energie riusciranno a sostenermi”. “Eppure già si è rimesso a studiare le carte processuali”, rivela l’avvocato Lipera quasi a voler scacciare i cattivi pensieri del suo assistito. Ma l’aspetto più curioso della parte finale di questa vicenda riguarda l’evoluzione che ha portato alla revisione. Perché il ricorso è stato accettato dalla Corte d’Appello, diversamente da come era accaduto per le precedenti e analoghe richieste? Quale fatto nuovo ha indotto i giudici a fissare l’udienza a novembre? Per un paradosso del caso “l’elemento di novità - dice Giuseppe Lipera - è contenuto in un libro scritto da Antonio Ingroia, il magistrato che fu pubblico ministero nel primo processo contro Bruno Contrada”. Nel volume “Nel labirinto degli Dei” Ingroia, per spiegare il rapporto tra magistrati e pentiti e chiarire che i giudici sanno anche fare a meno di rivelazioni poco attendibili, racconta che interrogò il collaboratore Vincenzo Scarantino (lo stesso che ha “inventato” una diversa storia dell’attentato a Paolo Borsellino) che sosteneva di sapere molto sul dottor Bruno Contrada. Lo stesso magistrato ammette che Scarantino sin da subito, “a pelle”, gli era sembrato poco affidabile. Impressione che sarebbe poi stata confermata dall’assoluta mancanza di riscontri nel corso delle indagini espletate per verificare la veridicità delle affermazioni del pentito. In sostanza, scrive Ingroia nel suo libro, non furono usate le rivelazioni di Scarantino perché vaghe e fumose. Quando Bruno Contrada lesse il libro di Ingroia rimase stupito perché delle dichiarazione di Scarantino (vere o false che fossero) e delle relative indagini svolte dalla Procura di Palermo non v’era traccia nel suo processo. Questa, secondo il suo legale, è una grave anomalia perché tutto ciò che riguarda l’imputato deve entrare a far parte del fascicolo dibattimentale. “Il processo Contrada - spiega Lipera - è talmente fragile e contraddittorio che basta una piuma per spostare l’ago della bilancia. Se Scarantino ha mentito, chi può escludere che anche altri collaboratori abbiano detto il falso? E, soprattutto, perché Scarantino ha accusato falsamente Contrada? Sono state fatte indagini per cercare di capire se, per caso, il collaboratore abbia ricevuto suggerimenti interessati? Non è un particolare da nulla, questo, in un processo in cui l’imputato, a sua difesa, adombra la possibilità di essere vittima di una congiura. Tra poco più di un mese, dunque, ripartirà il tormentone: Contrada mafioso o vittima di un puparo? Comunque vada, rimane lo sconcerto per una vicenda che dura da troppo tempo ed è costata ad un funzionario dello Stato la perdita della propria dignità e della libertà individuale. Lettere: un massacro in carcere, crimine doppio di Giulio Petrilli (responsabile giustizia Pd L’Aquila) Ristretti Orizzonti, 26 settembre 2011 Per chi come me, dopo aver vissuto tutta la giovinezza in un carcere, non riuscendo anche una volta libero a scordarsi più quella realtà, trovando le energie, per battersi, affinché vengano rispettati i diritti umani anche per le persone recluse, la notizia che arriva dalla Libia è drammatica e sconvolgente. Nei pressi del carcere di Abu Salim a Tripoli è stata rinvenuta ieri una grande fossa comune di 1.700 corpi di detenuti giustiziati nel 1996 dal regime dopo una protesta. Uno dei più grandi massacri perpetrati nelle carceri. In tante parti del mondo le carceri sono luoghi di tortura e di morte. Il carcere in quei posti è il luogo di vendetta e di sadismo. La notizia di oggi è sconvolgente, ti lascia senza parole, senza pensiero, senza anima, in una profonda sofferenza interiore. Uccidere un detenuto è un crimine doppio, perché è già soggiogato e non può fare nulla. Questa logica criminale non è stata purtroppo solo della Libia, ma di tanti regimi e di pratiche ideologiche deviate. Totalmente opposta la gestione delle carceri in paesi come la Svezia, la Norvegia, il Nicaragua dove la cultura del diritto esiste ed è avanzata. Sul problema carceri, il nostro paese non è la Libia ma è molto sotto lo standard di civiltà. Impegniamoci e adeguiamoci alle nazioni più civili, la gestione delle carceri è un problema molto serio per una nazione che non va sottovalutato, al pari delle crisi finanziarie e di altri forti problemi. . Umbria: Bocci e Verini (Pd); carceri senza agenti, serve un piano e uno stop ai trasferimenti” Agi, 26 settembre 2011 “Un mese e mezzo fa il dottor Ionta, responsabile del Dap, ci assicurò che in settembre una parte significativa di organico di polizia penitenziaria previsto in ingresso nel mese di settembre sarebbe stato destinato alle carceri dell’Umbria. Se ciò non fosse confermato, sarebbe un fatto molto grave”. A dichiararlo sono i parlamentari umbri del Pd Walter Verini e Giampiero Bocci, che durante l’estate hanno compiuto visite in alcuni istituti di pena umbri come quelli di Perugia e Spoleto (Terni e Orvieto saranno visitati nei prossimi giorni) denunciando i problemi di sovraffollamento e di mancanza di personale. Servono risposte “Abbiamo chiesto un incontro ai massimi livelli del Ministero e del Dipartimento - aggiungono Bocci e Verini - e proporremo di andare con una delegazione bipartisan di parlamentari. I problemi delle carceri umbre sono serissimi e si può parlare di vera e propria emergenza”. “Occorrono risposte di fondo - concludono i due parlamentari pd - come un piano carceri serio che giace nel cassetto dopo tanti annunci e occorrono anche risposte immediate, come lo stop al trasferimento di detenuti in Umbria e segnali reali per l’organico”. Raggio Calabria: il ministro Palma; carcere di Arghillà è monumento di inefficienza del passato di Grazia Candido www.strill.it, 26 settembre 2011 “Entro la fine del 2012 a Reggio Calabria sarà in funzione il secondo penitenziario”. È la promessa fatta stamane dal ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma, tornato in riva allo Stretto in quella città nella quale ha operato come magistrato dal 1996 al 2001. Il neo Guardasigilli, in carica dal primo di agosto al posto di Angelino Alfano diventato coordinatore nazionale del Pdl, fa tappa alla casa circondariale di san Pietro per visitare i vari reparti ed incontrare i detenuti insieme al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta, al prefetto Luigi Varratta e alla direttrice delle carceri reggine Maria Carmela Longo. Il ministro, salutato dai detenuti con un lungo applauso, ha dialogato con loro raccogliendo una serie di elementi che illustrerà domani nella sua replica al Senato sulla situazione delle carceri. “Non bisogna fare dietrologie per la mia visita di stamattina negli Uffici giudiziari di Reggio Calabria - precisa il Ministro - Prima di venire a Reggio sono stato alla Procura della Repubblica di Roma dove ho lavorato fino al 1993. Per una questione logistica non sono ancora potuto andare alla Procura nazionale antimafia. Era logico che il successivo passaggio fosse quello del distretto giudiziario di Reggio Calabria, dove ho lavorato come applicato della Dna. E poi, non posso dimenticare che la Calabria è la mia terra d’elezione”. Il ministro della Giustizia dopo aver messo in evidenza le “buone condizioni di vita nel carcere reggino grazie all’impegno del direttore, degli altri operatori e degli agenti di polizia penitenziaria”, ha poi anticipato l’apertura di una parte del nuovo carcere di Arghillà, costato 90 milioni di euro e mai entrato in funzione, entro il 2012. “Come ho già detto nei miei interventi al Senato, il carcere di Arghillà è un monumento all’inefficienza del passato - afferma il neo Guardasigilli - Sono stati spesi oltre 90 milioni di euro per un carcere che non funziona e che richiede interventi di tipo straordinario. Ho chiesto al commissario, che sta già provvedendo, di procedere rapidamente al recupero della struttura carceraria di Arghillà. Si richiede un impegno di spesa di quasi 14 milioni di euro, che sono stati stornati dal piano carceri proprio per rendere utilizzabile almeno una parte del carcere di Arghillà. Il commissario delegato Ionta, mi ha confermato che entro tre mesi ci sarà il progetto definitivo. Speriamo di poter utilizzare il carcere di Arghillà entro la fine dell’anno nuovo: la seconda parte del penitenziario sarà costruita dopo, ma almeno cerchiamo di usufruire della prima parte che è utile per diminuire il forte sovraffollamento carcerario”. In tarda mattinata poi, il senatore, eletto per il Pdl in Calabria, accompagnato dal capo del Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria Luigi Birritteri, si è fermato nella sede della Corte d’appello per incontrare i vertici della magistratura del Distretto (Reggio - Locri - Palmi) e i requirenti del distretto. Un confronto aperto con il presidente della Corte d’appello Luigi Gueli, il procuratore generale Salvatore Di Landro, il presidente del Tribunale Luciano Gerardis, il procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, da Palmi il presidente Maria Grazia Arena e il procuratore Giuseppe Creazzo, da Locri il presidente Giovanni Maria Filocamo e il procuratore Giuseppe Carbone. Il ministro Palma non ha voluto più di tanto soffermarsi sui “veleni” tra i magistrati reggini e, in particolare sull’inchiesta che la Dda di Reggio Calabria sta conducendo sul procuratore nazionale antimafia aggiunto, Alberto Cisterna, indagato per corruzione in atti giudiziari per i suoi presunti rapporti con la cosca Lo Giudice rivelati da uno dei capi del gruppo criminale, Nino Lo Giudice, che sta collaborando con la giustizia. Però al termine dell’incontro con i capi degli uffici giudiziari del distretto reggino, postilla: “Guardo con attenzione quello che sta accadendo a Reggio Calabria e attendo l’esito di questo procedimento. Non sono pervenute al ministero della Giustizia note, richieste ed elementi che abbiano consentito prima del mio arrivo interventi del ministro. Rispetto la giurisdizione e attendo l’esito con tranquillità. Nessuno, a partire dall’onorevole Angela Napoli (deputata di Futuro e Libertà), provi a volermi coinvolgere nelle vicende che riguardano i magistrati di Reggio Calabria facendo riferimento alle mie esperienze professionali come magistrato. Il fatto che io abbia svolto la mia attività professionale insieme al dottor Cisterna e abbia anche collaborato col procuratore della Repubblica Pignatone in processi di mafia è un dato di cronaca che vale per quello che vale, e nulla più”. Di Giovan Paolo (Pd): domani Nitto Palma prenda impegni “È positivo che il ministro della Giustizia Nitto Palma abbia voluto visitare il carcere di Reggio Calabria. Mi auguro che domani al Senato il ministro prenda l’impegno di realizzare anche solo due o tre dei 12 punti della mozione approvata a febbraio dall’aula, mozione che chiedeva una maggiore vivibilità nelle carceri”. Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la Sanità Penitenziaria. “Serve garantire più cure, intervenire sugli ospedali psichiatrici, portare avanti la riforma della sanità penitenziaria d’intesa con le Regioni - continua Di Giovan Paolo - Di questi temi mi auguro che si parli tutto l’anno e non solo nella settimana di Ferragosto”. Favignana (Tp): inaugurato il nuovo carcere, potrà ospitare 120 detenuti La Sicilia, 26 settembre 2011 Favignana. È stato inaugurato ieri mattina con una sobria cerimonia il nuovo carcere dell’isola. Erano presenti il vescovo, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e il direttore della Casa di reclusione. Il sindaco Lucio Antinoro ha affermato: “Oggi vengono superati steccati ideologici che hanno segnato qualche lustro della nostra storia recente. Questo nuovo istituto, nato dalle ceneri del vecchio reparto delle lavorazioni, è l’emblema della ragionevolezza, della collaborazione, della tenacia, della dignità, della comprensione e della solidarietà”. Ci sono voluti tre anni di lavori, circa 11 milioni di euro il costo, il carcere ospiterà 120 detenuti ed è dotato di tecnologie e materiali all’avanguardia anche nei settori delle lavorazioni penitenziarie. Oltre cinquanta lavoratori e loro famiglie manterranno la loro sede a Favignana, “anzi - ha detto Antuinoro - è previsto un aumento di organico che costituirà un impulso alla rigenerazione della nostra comunità ed al presidio di un territorio sempre più esposto alle aggressioni speculative. Adesso - ha concluso - si attende un’autorevole destinazione del vecchio istituto perché occorre restituire alla comunità gli spazi che costituiranno un polmone per l’intero centro abitato ed alla vista quel gioiello della nostra tradizione culturale, che è il castel San Giacomo in un progetto di recupero che passa dalla demolizione del muro di cinta”. Lisiapp: bene l’apertura ma si stanno calpestando i diritti degli agenti La nuova struttura detentiva dell’isola di Favignana soffrirà sicuramente di sovraffollamento e quanto denunciano in una nota dal Lisiapp il Libero Sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria per voce del suo leader Mirko Manna segretario generale, i dati a noi in possesso su i detenuti presenti presso il vecchio carcere ad oggi si attestano a 142 presenze, “ragion per cui dovremmo capire se già una nuova struttura soffrirà di sovraffollamento, visto che la capienza del nuovo carcere dovrebbe attestarsi intorno a 100 posti detentivi effettivi”. Oltre questo punto - continua Manna - siamo presenti ad un atteggiamento poco comprensibile da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in relazione dell’invio del personale di Polizia per l’apertura della nuova struttura. Da settimane riceviamo segnalazioni da parte di agenti che avevano fatto richiesta di trasferimento e, si sono visti calpestare un loro diritto. Apprendiamo come organizzazione sindacale che esiste una certa convinzione ai piani lati del dipartimento che i colleghi non siano interessati a partecipare alla mobilità per vedersi trasferito magari in Sicilia dopo 10, 15 e quando uno è proprio fortunato anche 20 anni se non 25 anni di servizio da Milano, Torino, Genova, Padova, Trento, Tomezzo e che controllando la graduatoria, facendosi due conti dei punti posseduti, percepisce che se avesse inserito la sede Favignana, sicuramente sarebbe arrivato tra i primi, in quanto possiede più punti di quelli che ad oggi si vedono distaccati. Non dimentichiamo sottolinea il - numero uno del Lisiapp - che la struttura di Favignana e costata 11 milioni e auspichiamo che non finisca come le strutture di Rieti e Velletri dove aperti da pochi anni e a regime al 50% della loro operatività. Ci attendiamo in conclusione - dichiara Manna - che per il nuovo carcere della Sicilia sia indetto interpello straordinario o in alternativa sia indetto nuovo interpello dove vengono individuate e rese disponibili di tutti le sedi, in alternativa la dove un diritto cosi chiaramente negato e calpestato, non venisse riconosciuto, ci rivolgeremo presso le opportune sedi di giudizio. Roma: il Garante lancia l’allarme; emergenza carceri, una miscela esplosiva Il Velino, 26 settembre 2011 “La situazione delle carceri della Capitale è davvero preoccupante: la definirei una miscela esplosiva”. A parlare è il garante dei detenuti di Roma Capitale, Filippo Pegorari, che stamattina in una conferenza stampa in Campidoglio ha lanciato l’allarme - penitenziari. “Da una parte c’è il sovraffollamento - ha spiegato - dall’altra un grande disavanzo di organico della polizia penitenziaria. Queste due cose formano una miscela esplosiva. Il problema è che questa situazione si riversa anche, ad esempio, sulla tutela della salute dei detenuti: manca il personale per accompagnarli alle visite mediche e possono passare anche diversi mesi prima che riescano ad andare dai dottori”. “Una soluzione per risolvere il problema del sovraffollamento - ha concluso Pegorari - potrebbe essere far scontare ai detenuti romani gli ultimi tre anni ai domiciliari con il braccialetto”. La Spezia: imminente apertura nuove sezioni detentive, i Sindacati chiedono più personale Ansa, 26 settembre 2011 Il Sappe incontra il Prefetto ed il Sindaco per sollecitare garanzie sulle condizioni lavorative della Polizia Penitenziaria. È imminente l’apertura di nuove sezioni detentive nel carcere spezzino di via Fontevivo e il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, incontrerà questo pomeriggio il Prefetto di Spezia, Giuseppe Fiorani, ed il Sindaco Massimo Federici per rappresentare le ricadute che ciò comporterà sull’organizzazione dei servizi e sul lavoro dei poliziotti penitenziari. Spiega Roberto Martinelli, Segretario Generale Aggiunto Sappe e Commissario straordinario per la Liguria, che parteciperà all’incontro con il Segretario Provinciale Sappe di Spezia Emanuele Frasca: “Aprire nuove sezioni detentive, seppur parzialmente, vuol dire aumentare i posti di servizio ed i carichi di lavoro per il personale di Polizia Penitenziaria che, allo stato, non è in numero sufficiente. Non solo: con l’apertura di nuove sezioni detentive si dovrà necessariamente rivisitare l’attuale organizzazione interna, e non solo relativamente alla sorveglianza generale, soprattutto con un imprescindibile ed adeguato incremento di unità del Corpo per un indifferibile rinforzo operativo. Oltre ai posti di servizio nelle sezioni vi sono inoltre le evidenti ricadute nei servizi di traduzione e piantonamento, dalle visite ambulatoriali alla partecipazione delle udienze. Senza un concreto potenziamento di agenti, insomma, il Reparto di Spezia non sarà messo nelle condizioni di lavorare”. Ed è per questo che il Sappe intende partecipare alle più alte Autorità cittadine le proprie preoccupazioni. I sindacalisti del Sappe sottolineano che “l’organico attuale di Polizia Penitenziaria effettivamente amministrato è pari a 116 unità, 13 delle quali in forza al Nucleo Traduzioni e Piantonamenti. I detenuti presenti sono 172, rispetto ai 128 posti letto regolamentari. Con l’apertura parziale (2 reparti) vi sarà un incremento di 60 detenuti a capienza regolamentare ed una serie di posti di servizio per i quali saranno necessarie almeno 18 unità di polizia penitenziaria. Per l’apertura totale del nuovo padiglione detentivo, con relativa Sala regia, l’incremento di Personale di Polizia Penitenziaria previsto sarà pari a 35 unità. Noi oggi vogliamo partecipare a Prefetto e Sindaco di Spezia la necessità di sollecitare il Ministero della Giustizia e l’Amministrazione Penitenziaria ad inviare a Spezia nuovi Agenti sia dalla imminente conclusione di corso di formazione che dalla mobilità interna del Personale già in servizio”. Rappresentanti Fp Cisl e Fns Cgil a colloquio con il prefetto Questa mattina i rappresentanti della Polizia Penitenziaria aderenti a Fp Cgil e Fns Cisl si sono incontrati con il prefetto Forlani per rappresentare le preoccupazioni relative all’apertura di nuove sezioni detentive presso il carcere spezzino in una situazione che, allo stato attuale, non prevede implementazioni di organico a fronte di condizioni e qualità di lavoro che i sindacati giudicano già ai limiti del consentito. I rappresentanti sindacali hanno pertanto chiesto al prefetto un intervento che possa operare positivamente sulle prossime assegnazioni di personale di Polizia Penitenziaria. Dal canto suo Forlani ha garantito un ampio sostegno riguardo alle esigenze rappresentate, nonostante l’oggettiva esiguità delle risorse disponibili. Nel rappresentare anche l’impegno espresso dalla locale dirigenza del Carcere a chiedere, a livello regionale, un aumento degli organici disponibili, il prefetto ha sottolineato il proprio sostegno a tale iniziativa. Camerino (Pu): sopralluogo sull’area per il nuovo carcere, procede l’iter per la costruzione Corriere Adriatico, 26 settembre 2011 Sopralluogo nei giorni scorsi, in località Morro per visionare l’area di circa 17 ettari destinata alla costruzione del nuovo carcere di Camerino. Insieme all’assessore ai lavori pubblici Roberto Lucarelli e ai tecnici dell’ufficio tecnico comunale, c’erano Massimo Ricchi, delegato dal commissario Ionta del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria all’attuazione del piano carceri, insieme ai progettisti della struttura, l’arch. Mauro Draghi e l’ing. Carmelo Cavallo, dipendenti del Dap. L’incontro è servito sia per visionare materialmente l’area di costruzione, che per esaminare approfonditamente alcuni aspetti tecnici della progettazione. Lo scorso 15 giugno il Dap, tramite il commissario Franco Ionta, ha conferito l’incarico per la progettazione dei primi due, tra i nuovi 11 carceri previsti in Italia, Camerino e Torino. Da parte dell’amministrazione comunale c’è la massima attenzione all’iter per la costruzione del nuovo carcere - ha detto dopo l’incontro l’assessore ai lavori pubblici Roberto Lucarelli - la massima disponibilità a collaborare. Si sta andando avanti in modo rapido e concreto, secondo le tempistiche previste. Alcune settimane fa, in un incontro a cui hanno partecipato anche il sindaco Conti ed il vicesindaco Pasqui sono stati esaminati alcuni progetti di funzionalità per la nuova struttura carceraria, destinata ad ospitare 450 detenuti, dal costo previsto di 40 milioni di euro. Si è parlato della possibilità di inserire un progetto di agricoltura sociale, che sembra attuabile, vista la conformazione della zona in cui si costruirà il penitenziario. Napoli: l’associazione Carcere Possibile Onlus promuove un corso di fotografia a Secondigliano Ristretti Orizzonti, 26 settembre 2011 La concreta ed effettiva applicazione del principio costituzionale della rieducazione della pena è da sempre l’obiettivo principale della Onlus Il Carcere Possibile. In quest’ottica, la nuova sfida che vede partner Il Carcere Possibile, l’Istituto di pena di Secondigliano e il fotoreporter Mario Laporta dell’agenzia Controluce. Il 28 settembre 2011, per un gruppo di circa dieci detenuti, avrà inizio il nuovo progetto di avviamento alla fotografia sotto la guida di Mario Laporta. Il corso nasce da un’idea dell’Avv.to Tommaso Pelliccia, del Consiglio Direttivo della Onlus e grazie al sostegno e alla collaborazione della Dott.ssa Leone, una delle vice Direttrici dell’Istituto di pena che hanno curato l’organizzazione del corso. Mario Laporta Professionista dal 1980. Ha spaziato nei vari campi della Fotografia, dall’architettura allo still-life, dal geografico alla ritrattistica. Nel 1985 si dedica al fotogiornalismo, settore che più lo interessa. Ha avuto diverse esperienze internazionali. Giornalista e reporter napoletano che ha viaggiato in tutto il mondo e che, questa volta, prova a scoprire come può guardare il mondo attraverso l’obiettivo chi è stato privato della libertà. Collaboreranno alle lezioni Angela Grimaldi, laureanda al Biennio Specialistico in Fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e Carlo Hermann fotoreporter dell’agenzia Controluce. Le lezioni si articoleranno in 3 fasi: Conoscenza dello strumento fotografico; Inquadratura, composizione dell’immagine e composizione cromatica; Costruzione di un servizio fotografico, post - produzione in Photoshop, allestimento espositivo fotografico, confezionamento di un book fotografico o portfolio. Cuneo: Radicali; venerdì il seminario “Emergenza carcere, amnistia per la Repubblica” Ristretti Orizzonti, 26 settembre 2011 Serata aperta a tutti “gli interessati ed i volenterosi”, quella organizzata per venerdì sera 30 settembre da Radicali Italiani a Cuneo, presso la sede della Fondazione Casa Delfino, al primo piano di corso Nizza 1. L’incontro pubblico dal titolo: “Emergenza Carcere: Amnistia per la Repubblica” ha l’obiettivo di invitare i cittadini cuneesi a discutere della questione carceri, a partire dai dati ufficiali, per affrontare le possibili, doverose risposte politiche. Venerdì alle ore 20,45 l’argomento sarà introdotto dalle visione di un breve filmato sulla realtà carceraria italiane, realizzato da RadioRadicale.it, e dalla presentazione dei dati del monitoraggio continuo operato da “Ristretti Orizzonti - giornale telematico del carcere di Padova”. Il gruppo “Radicali liberi Cuneo” presenterà un breve report sulle recenti visite ispettive effettuale in agosto ai quattro istituti penitenziari presenti in Provincia (Alba, Cuneo, Fossano, Saluzzo). Sarà inoltre illustrata l’iniziativa nonviolenta che vede Marco Pannella e migliaia fra detenuti, familiari, cittadini, agenti, funzionari ed anche direttori di carcere in prima linea per chiedere al Parlamento di affrontare la situazione di illegalità costituzionale in cui vivono le carceri italiane. In questi giorni il Parlamento, in eccezionale autoconvocazione straordinaria, ha cominciato a discutere l’emergenza giustizia e quindi del sovraffollamento degli istituti. Sono stati invitati a discutere con i radicali - ciascuno portando il proprio contributo di storia e di riflessione personale - i politici cuneesi che negli anni hanno reso possibili le visite del “Ferragosto in Carcere”: deputati, senatori, parlamentari europei e consiglieri regionali che in forza di legge hanno la facoltà di vedere ed anche il compito di controllare la situazione delle carceri e della comunità penitenziaria: non solo i detenuti, che ci sono finiti a seguito o in attesa di una sentenza, ma anche di chi ci lavora per scelta professionale. Presenterà e modererà la serata Nicolas Ballario, componente della Giunta nazionale di Segreteria di Radicali Italiani, da anni collaboratore di Oliviero Toscani ed ora di Viittorio Sgarbi (vedi nota). In particolare, sono stati invitati a partecipare venerdì sera per discutere con i radicali Bruno Mellano, Rosanna Degiovanni e Gianni Pizzini i seguenti esponenti politici cuneesi, che hanno partecipato all’iniziativa “Ferragosto in Carcere 2011”: Teresio Delfino, Enrico Costa, Giovanni Negro, Fabrizio Biolè, Mino Taricco, Rosita Serra. Inoltre hanno già confermato la propria partecipazione il vice - sindaco di Cuneo Giancarlo Boselli e l’ex consigliere regionale Sergio Dalmasso. Nota biografica: Nicolas Ballario, classe 1984 di Busca, ha studiato fotografia alla John Kaverdash School di Milano e all’Accademia Altieri di Roma. Terminati gli studi, entra nello staff di Oliviero Toscani, occupandosi di editoria e creatività applicata ai media, ricoprendo poi il ruolo di responsabile culturale de La Sterpaia, factory diretta dallo stesso Toscani. Successivamente diventa autore e conduttore di due programmi sulla comunicazione su Radio Radicale, dirige un festival della cultura ebraica ed è curatore del Museo della Mafia di Salemi, inaugurato nel maggio 2010 dal Presidente della Repubblica Napolitano. Nel 2010 è inoltre direttore delle mostre del 53° Festival dei Due Mondi di Spoleto e curatore della programmazione culturale della Soprintendenza alle Belle Arti di Venezia. Nel 2011 viene nominato da Vittorio Sgarbi coordinatore generale del Padiglione Italia alla 54^ Biennale di Venezia. Collabora con Il Giornale dell’Arte ed è membro della giunta nazionale di segreteria di Radicali Italiani. Massa Carrara: 29 detenuti in permesso hanno partecipato alla Marcia della pace di Assisi Il Tirreno, 26 settembre 2011 La partecipazione alla Marcia della Pace Perugia-Assisi di ieri, domenica 25 settembre, anche quest’anno, come nelle tre edizioni precedenti (2005, 2007 e 2010), è stata caratterizzata dalla presenza di un consistente gruppo di detenuti del carcere di Massa, italiani e di diverse nazionalità, per l’esattezza ventinove. Come sottolinea in una nota il direttore della casa di reclusione di Massa, Alessandra Beccaro, “Essi hanno raggiunto la partenza a Perugia affrontando il viaggio ed i 24 chilometri della marcia assieme ad oltre settanta persone libere, sia appartamenti agli Enti di volontario sia all’associazionismo locale sia cittadini comuni, grazie all’organizzazione di due pullman, e tutti sfileranno indossando una maglietta, appositamente ideata - come negli scorsi anni - , che sottolinea tale “particolare” partecipazione”. “Tutto ciò - aggiunge il direttore - è stato reso possibile dalla collaborazione tra la Direzione della Casa di Reclusione, l’Arci Comitato Carrara - Lunigiana ed il Gruppo Volontariato Carcere di Massa, i quali tutti assieme colgono l’occasione per ringraziare calorosamente la Fondazione Cassa di Risparmio di Carrara per il sostanzioso contributo economico elargito per la riuscita dell’iniziativa”. La marcia Perugia - Assisi “per la pace e la fratellanza dei popoli ha l’adesione anche di moltissimi sindaci, presidenti di Province e di Regioni. Alba (Cn): “Vale la pena!”, mercatino dei prodotti dal carcere e dai terreni confiscati alla mafia Ristretti Orizzonti, 26 settembre 2011 In occasione degli eventi collaterali alla 81^ Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, nella giornata tradizionalmente dedicata al Palio degli Asini, La Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, in collaborazione con il Mercato della Terra, ospiterà il “mercatino dei prodotti dal carcere e dai terreni confiscati alla mafia”. Piazza Elvio Pertinace per un giorno si trasforma nella vetrina dei prodotti realizzati in carcere dai detenuti. Vino, birra, olio, biscotti, pasticceria, miele, formaggio, verdure, marmellate ma anche gadget, bijoux, ciotole, opere e strumenti in ferro battuto, vestiti tutti rigorosamente “made in jail”, “fatto in gattabuia”, ma sempre con un ben evidente “codice a sbarre” dalla doppia valenza. Le dolci evasioni della banda Biscotti o il vino “Vale la pena”, fresco di galera e tanti prodotti, prevalentemente enogastronomici, accoglieranno i cittadini ed i turisti e stupiranno per la loro qualità e raffinatezza. Un mercatino di prodotti con un plus valore etico, quando il lavoro è riscatto e recupero in un percorso di reinserimento sociale e di risarcimento civile. E poi pasta, lenticchie, peperoncini, olio, miele coltivati dai ragazzi delle cooperative di Libera Terra sui terreni confiscati alla mafia, per dimostrare che il lavoro vero è libertà e che quei beni sono “cosa nostra”. L’iniziativa è promossa dal Comune di Alba e dall’Ente Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, in collaborazione con Gol Gruppo Operativo Locale Alba-Bra, Presidio Albese Slow Food e Cis - Compagnia di Iniziative Sociali società cooperativa. Televisione: “Sbarre”, dal 28 settembre su Rai 2 il reality su Rebibbia con Fabrizio Moro Ansa, 26 settembre 2011 Si intitola “Sbarre” e dal 28 settembre condurrà i telespettatori della seconda serata di Rai 2 nel carcere di Rebibbia. Sta per partire il primo docu reality che ha come protagonista il carcere romano con un “cantastorie” d’eccezione, Fabrizio Moro. Il cantautore, oltre a curare la sigla della prima puntata che sarà il suo nuovo singolo ‘Respiro, racconterà in ogni puntata la storia di un ragazzo borderline incrocia l’esperienza di vita di un detenuto. Il programma andrà in onda alle 23.40 per otto puntate. Si tratta di un esperimento che vuole mettere insieme l’aspetto reale della vita penitenziaria con le storie personali di chi, per un motivo o per un altro, deve scontare una pena ma vuole pensare ad un futuro diverso oltre le sbarre. Fabrizio Moro, famoso per la sua canzone Pensa dedicata a Falcone e Borsellino ha accettato la sfida di cimentarsi con un altro tema di stringente attualità. Obiettivo dell’inedito reality nel carcere di Rebibbia è quello di sensibilizzare gli spettatori a due realtà problematiche: quella giovanile, spesso allo sbando, e quella carceraria. Immigrazione: le tre navi-Cie ancora ormeggiate a Palermo, la protesta delle associazioni Redattore Sociale, 26 settembre 2011 A bordo i migranti trasferiti in massa da Lampedusa sono detenuti, privati del cellulare, sorvegliati da centinaia di agenti. Protestano le associazioni: “Sono illegali e violano i diritti umani e il diritto di difesa”. Dopo le tendopoli trasformate in Cie temporanei in cui si violavano i diritti umani, ora sono grandi navi passeggeri a essere state trasformate in Centri di identificazione e di espulsione. Si tratta delle tre navi civili Audacia, Moby Vincent e Moby Fantasy, su cui sono stati rinchiusi centinaia e centinaia di migranti tunisini trasferiti in massa da Lampedusa a Palermo con un ponte aereo, dopo gli scontri con i lampedusani. Le prime due navi sono ancora ancorate al porto di Palermo, spostate dal molo commerciale S. Lucia all’area dei cantieri navali. La Moby Fantasy invece ha lasciato il porto del capoluogo siciliano poco prima della mezzanotte del 24 settembre ed è giunta questa mattina alle 7.30 al porto di Cagliari con il suo carico di centinaia di tunisini. Sono destinati al centro di accoglienza di Cagliari Elmas, che di fatto viene così trasformato in un altro Cie. Imponente lo schieramento di forze di polizia al porto di Palermo, dove, a bordo delle navi si trovano al momento 352 migranti non soltanto di nazionalità tunisina. 151 sono sull’ Audacia e 201 nella Moby Vincent. Tra questi risultano alcuni malati e feriti che si trovano attualmente all’ospedale Civico di Palermo. Alle persone non viene fornito nessun oggetto - lamette, forchette metalliche - che possa essere utilizzato per atti di autolesionismo. Ritirati anche tutti i telefoni cellulari. Nessuno può fare foto e video per documentare le condizioni all’interno delle navi e ai migranti è preclusa qualsiasi possibilità di comunicazione con l’esterno. Alle persone trattenute non viene fornita un’informazione chiara sulla loro destinazione e sul loro futuro. Si tratta dunque di vere e proprie carceri galleggianti, realizzate in 48 ore al di fuori della legge italiana. Questo è quanto emerso da una visita del deputato Pd Tonino Russo durante il presidio di protesta di ieri pomeriggio, organizzato da associazioni quali la Rete Primo Marzo e il forum Antirazzista. “Le navi su cui sono attualmente trattenute le persone rappresentano a tutti gli effetti dei Cie “galleggianti”, tanto è vero che nessuno vi può accedere, eccetto i parlamentari nazionali e le organizzazioni che hanno una convenzione con il Ministero per attività interne - scrive la Rete Primo Marzo in un comunicato. In continuità con l’iniziativa LasciateCientrare nazionale e internazionale che intende reclamare il diritto ad accendere i riflettori su queste strutture e sulle persone che vi sono trattenute, il deputato siciliano Tonino Russo ha potuto accedere alle due navi ancora presenti nel porto”. La Rete chiede, tra l’altro, che l’informazione possa liberamente circolare dall’esterno all’interno e viceversa e che il Governo renda pubblici i contenuti degli accordi di respingimenti con la Tunisia e con gli altri Paesi di provenienza dei migranti. Ma la protesta a Palermo continua. Le associazioni si sono date appuntamento per oggi alle 17 con un nuovo presidio contro queste forme di trattenimento informale. I manifestanti lanciano l’allarme sulla detenzione di centinaia di persone senza un atto formale di convalida da parte di un magistrato. Questo configura una privazione illegittima della libertà e viene violato il diritto di difesa. Secondo le denunce, le navi Cie sono illegali in quanto contrastano con l’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,con l’art. 13 della Costituzione, con gli articoli 2, 13, 14 del Testo Unico sull’immigrazione, e con il regolamento delle Frontiere Schengen, che impone provvedimenti formali di respingimento o di espulsione, notificati individualmente con la possibilità di farsi assistere da un difensore. L’Associazione Borderline Sicilia Onlus esprime “profonda indignazione per l’ennesima violazione di legge e per la totale negazione dei più elementari diritti umani, a partire dal diritto di difesa e di controllo giurisdizionale sulla libertà personale, a cui stiamo assistendo in queste ore, con il trattenimento arbitrario di centinaia di cittadini tunisini all’interno di navi prigione ancorate nel porto di Palermo. Si tratta infatti di detenzione e privazione della libertà personale operate in modo del tutto illegale, senza alcuna convalida da parte dell’autorità giudiziaria, e per di più a bordo di navi che hanno assunto le funzioni di Centri di identificazione ed espulsione galleggianti”. L’associazione chiede che “tutti i cittadini tunisini trattenuti nelle navi vengano fatti immediatamente scendere e trasferiti in strutture che corrispondano a quanto previsto dalla legge per i casi di allontanamento forzato, che coloro che sono stati trattenuti illecitamente, prima a Lampedusa e poi sulle navi, per più di 96 ore vengano rimessi in libertà, che si ponga fine alle procedure di rimpatri collettivi e sommari in violazione delle norme di diritto interno e internazionale. E chiediamo che si provveda al più presto al collocamento, nelle strutture idonee e secondo le procedure stabilite dalla legge italiana, di tutti i minori non accompagnati che per mesi sono stati tenuti a Lampedusa in condizioni disumane, appellandoci anche alle organizzazioni umanitarie affinché facciano valere il proprio ruolo e le proprie funzioni e soprattutto la propria indipendenza”. India: italiani condannati all’ergastolo, tra due giorni l’udienza per la libertà su cauzione Ansa, 26 settembre 2011 “La battaglia per ottenere giustizia è ancora lunga, ma alla fine tutto si risolverà con l’assoluzione”. Lo scrive su Facebook Tomaso Bruno, uno dei due giovani italiani condannati all’ergastolo in India per l’omicidio di un amico, a due giorni dall’udienza per ottenere la libertà su cauzione. “Io ed Elisabetta (Boncompagni, l’altra ragazza in carcere da un anno e mezzo, ndr) stiamo bene e siamo sereni, nonostante questa ingiusta e pesantissima condanna che grava sulle nostre spalle. Ma né io né Elisabetta molleremo mai di un solo millimetro finché non ci sarà restituito ciò che ci spetta: la liberta”. Libia: trovata fossa comune con più di 1.700 corpi, prigionieri uccisi dai carcerieri nel 1996 Tm News, 26 settembre 2011 I resti di più di 1.700 prigionieri uccisi nel 1996 dai loro carcerieri nella prigione di Abu Salim, a Tripoli, sono stati scoperti in una fossa comune nella capitale libica. Lo ha reso noto oggi il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), l’organo politico degli insorti. “Abbiamo scoperto il luogo dove sono stati interrati tutti questi martiri” ha dichiarato Khaled Sherif, portavoce del Consiglio militare, durante una conferenza stampa a Tripoli, aggiungendo di avere le prove degli “atti criminali” commessi dal regime di Muammar Gheddafi. Il carcere di Abu Salim era conosciuto perché usato da Gheddafi per imprigionare e torturare i suoi oppositori. I resti di più di 1.700 prigionieri, probabilmente uccisi nel 1996 dai loro carcerieri nella prigione di Abu Salim, a Tripoli, sono stati scoperti in una fossa comune nella capitale libica. Lo ha reso noto oggi il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), l’organo politico degli insorti. “Abbiamo scoperto il luogo dove sono stati interrati tutti questi martiri” ha dichiarato Khaled Sherif, portavoce del Consiglio militare, durante una conferenza stampa a Tripoli, aggiungendo di avere le prove degli “atti criminali” commessi dal regime di Muammar Gheddafi. Sherif ha precisato che un comitato tecnico è stato incaricato di identificare i corpi, ma che per questa operazione “sarà necessario un certo tempo”. Secondo lui, “dell’acido” è stato versato sui corpi “per eliminare tutte le prove di questo massacro”. “Siamo stati invitati a visitare il luogo dove si trovano i cadaveri dei prigionieri di Abu Salim e vi abbiamo scoperto ossa umane sparpagliate” ha dichiarato uno dei membri del comitato, Salim al - Farjani. “Chiediamo alle organizzazioni straniere e alla comunità internazionale di aiutarci in questo compito, perché si tratta di identificare i corpi di più di 1.700 persone” ha aggiunto. Diverse organizzazioni che difendono i diritti dell’uomo avevano denunciato l’assassinio, nel 1996, di diverse centinaia di prigionieri nella celebre prigione di Abu Salim, dove erano incarcerati soprattutto oppositori del regime di Muammar Gheddafi. Il massacro, avvenuto per reprimere una sommossa, è stato indirettamente all’origine della rivolta di febbraio, cominciata nell’est della Libia, trasformatasi poi in un conflitto contro Gheddafi: le prime manifestazioni a Bengasi si erano verificate per protestare contro l’arresto dell’avvocato dei familiari dei prigionieri uccisi. Russia: morte dell’avvocato Serghiei Magnitski in carcere, prove di tortura e falsi Ansa, 26 settembre 2011 Nuovi, clamorosi sviluppi nella controversa morte in carcere nel 2009 di Serghiei Magnitski, l’avvocato del fondo d’investimento Hermitage Capital arrestato dopo che aveva denunciato una maxi truffa per 230 milioni di dollari da parte di dirigenti pubblici: la madre ha presentato nuove prove - anche di torture - e una denuncia contro il procuratore generale Iuri Ciaka, alti dirigenti del ministero dell’interno, del servizio penitenziario e 11 giudici, tutti accusati di essere responsabili a vario titolo nella morte in carcere del figlio. Il caso ha creato anche tensioni tra Mosca e Washington dopo che la Casa Bianca ha deciso in luglio di negare i visti ad un numero non meglio precisato di funzionari russi ritenuti coinvolti nella vicenda. Congo: evadono da prigione 114 detenuti, un morto e numerosi feriti Agi, 26 settembre 2011 Evasione di massa da una prigione nella Repubblica democratica del Congo. Su 118 detenuti, 114 sono evasi e uno è stato ucciso, numerosi i feriti, nel tentativo delle guardie carcerarie di fermare la fuga. È accaduto alla prigione centrale di Tshikapa, nel Kasai Occidentale, centro - ovest dell’Rdc. Le autorità locali hanno fatto sapere che la persone è “deceduta a seguito di un colpo di arma da fuoco che lo ha colpito alla testa”. Secondo alcuni testimoni la fuga di massa è stata possibile per il crollo di un muro dell’istituto penitenziario. Le autorità non hanno fornito altri dettagli.