Giustizia: detenuto risarcito, una sentenza che conferma l’urgenza della riforma di Irene Testa (Presidente Associazione Detenuto Ignoto) Notizie Radicali, 14 settembre 2011 Sicuramente il precedente del magistrato di sorveglianza di Lecce, Luigi Tarantino, che per la prima volta in Italia riconosce a un detenuto la violazione di spazi minimi entro i quali scontare la pena nella sua cella, non arriva “dal cielo” sulla giurisprudenza italiana che dovrebbe regolare i termini di permanenza di ogni detenuto nelle carceri, giacché il magistrato applica la legge e chiaramente non se la può inventare, ma al limite le interpretazioni che ne fa riescono spesso “inedite”. In realtà non credo sia questo il caso, quanto forse interpretazioni “originali” di ciò che è prescritto in maniera stringente nell’ordinamento penitenziario (e non solo) circa quantità, conformazione e qualità degli spazi intramurari entro cui i detenuti scontano la propria pena, si sono fin troppo spesso avute finora dagli altri colleghi del dottor Tarantino, a motivazione del rigetto delle istanze presentate via via dai rispettivi legali, quando le presentano. È la prova tangibile di quanto si va denunciando da anni e di quanto ha ricordato da ultimo anche il Presidente della Repubblica nel corso del convegno “Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano”, promosso dal PRNTT sotto il suo l’Alto patronato, che parla di un “abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e sui diritti e la dignità della persona”. A conclusioni analoghe e coincidenti era già arrivata anche la richiamata azione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) con la sentenza, due anni fa, con la quale condannava l’Italia a un risarcimento nei confronti del cittadino bosniaco Izet Sulejmanovic, per danni morali subiti a fronte di una detenzione in Italia in spazi giudicati troppo angusti e non rispondenti ai termini di legge. Nel caso leccese di questi giorni, semplicemente il magistrato Tarantino ha ritenuto di intervenire giustamente prima di un eventuale ricorso alla Cedu (che ricordo, può agire solo in seguito all’esaurimento dell’iter di tutti i gradi di giudizio previsti dalle legislazioni nazionali) da parte dei legali, dando ragione al detenuto dei danni patiti per violazione degli spazi e delle condizioni prescritte dall’ordinamento penitenziario. È certo un precedente da salutare con estremo favore, pur ricordando però che per una volta è accaduto ciò che dovrebbe invece essere la norma e che ci auguriamo (ma sappiamo essere purtroppo differente) sia sempre prontamente riconosciuto a ogni detenuto che ne faccia motivata istanza, visto che, girando per le carceri italiane di oggi, sovraffollate oltre lo stremo, non è certo raro e anzi sempre più frequente, incontrare detenuti “vittime della terza branda”, che oltre a dormire a 50 cm dal soffitto della propria cella, spesso rovinano di sotto nel cuore della notte riportando traumi e lesioni anche importanti, che oltretutto in carcere non sempre (o quasi mai) riescono a essere trattate opportunamente. Finché addirittura l’anno scorso a Sanremo, una caduta dalla terza branda allestita nella cella dove era detenuto, è stata fatale per un detenuto italiano. Ma a riguardo, anche le parole del segretario della Uil-Pa penitenziari Eugenio Sarno, che ha parlato di una tragedia annunciata perché “quando si insiste nell’ammassare persone in spazi incompatibili con la dignità e la vivibilità, quando ci si ostina a volere determinare condizioni inumane di detenzione, non possono non capitare certe cose” e che “è noto a tutti che i letti a castello con tre piani sono potenzialmente pericolosi”, non sembrano aver scalfito la dura corazza serafica ancora indossata dal Dap e da ancora troppe direzioni penitenziarie in Italia di fronte a una sempre più immane tragedia, innanzitutto di legalità. Tant’è che le terze brande continuano a dilagare in molte celle, e secondo loro, evidentemente, va ancora bene che i detenuti, come anche avviene in altri istituti, non si vedano costretti a ricavare il proprio giaciglio sul nudo pavimento, senza neanche un materasso, anche se da lì almeno non si casca. A fronte del perdurare dello stato conclamato di illegalità diffusa e di sovraffollamento illegale delle prigioni italiane, tornano alla mente le recenti decisioni che si sono avute invece da parte della Corte Costituzionale tedesca e dalla Corte Suprema statunitense contro lo Stato della California, che impongono rispettivamente ai carceri tedeschi di non accettare detenuti oltre la soglia legale di capienza della struttura e la liberazione di circa 38 mila detenuti dalle strutture californiane, e, in parallelo, la dura lotta nonviolenta in corso da mesi da parte di Marco Pannella, Rita Bernardini e di noi Radicali assieme a migliaia di cittadini perché il Parlamento italiano possa al più presto discutere il problema e affrontare la responsabilità a nostro avviso necessaria e urgente di un provvedimento di amnistia. Nel frattempo ben vengano le azioni e le istanze di risarcimento che ogni singolo detenuto può, attraverso i propri legali, promuovere contro l’amministrazione penitenziaria qualora siano violati, per esempio ma non solo, i 7 metri quadri minimi di spazio previsti dalle norme per ogni singolo detenuto. Gli “opercoli” legali forniti dai precedenti del caso Sulejmanovic alla Cedu e dalle disposizioni del giudice Tarantino oggi, sembrano tracciare finalmente la via attraverso cui aver finalmente ragione della cappa di illegalità che attanaglia l’espiazione della pena in Italia, anche se questo, ci si rende conto, si dovrà scontrare con il numero e il carico di lavoro di ogni singolo magistrato di sorveglianza, che sono come altri servizi intramurari drammaticamente sottodimensionati rispetto alle reali esigenze, e potrà comportare un aumento di spesa che potrebbe diventare non indifferente in sanzioni e rimborsi da parte delle casse pubbliche, un motivo in più per sostenere l’improcrastinabilità di una riforma della giustizia che passi attraverso efficaci misure deflative delle carceri e da una amnistia. Giustizia: se la cella è troppo piccola, il risarcimento per lesione di carattere esistenziale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2011 Va risarcito il danno esistenziale subito dal detenuto ristretto, è il caso di dirlo, in 3 metri quadrati di cella. Lo afferma, ed è la prima volta in Italia, il tribunale di sorveglianza di Lecce, aprendo la strada a una possibile pioggia di richieste nei confronti dell’amministrazione penitenziaria. Tanto più che sulla base degli ultimi dati ufficiali disponibili, al 31 agosto negli istituti di pena erano presenti 67.104 detenuti a fronte di una capienza di 45.647 posti. Quanto basta a fare giudicare oltre i limiti della vivibilità le tante presenze nelle carceri. La pronuncia del giudice di sorveglianza, la figura cui è affidata l’applicazione delle norme dell’ordinamento penitenziario, è intervenuta a indennizzare con 200 euro un cittadino extracomunitario condannato per furto nel carcere di Lecce dove sono detenute 1.350 persone a fronte di una capienza di circa 700. Una riduzione su scala di quanto avviene in Italia. Nelle celle del penitenziario pugliese, progettate per accogliere un solo detenuto, il sovraffollamento è tale da imporre invece la forzata convivenza di tre uomini. Undici metri quadrati complessivi che ospitano un letto a castello di tre piani, un tavolo le sedie, il gabinetto e il lavandino. Senza, di fatto, alcuno spazio per muoversi. A muoversi è stata, invece, la difesa dello straniero (l’avvocato Alessandro Stomeo del Foro di Lecce) condannato che ha lamentato la violazione di parecchie norme della legge che disciplina le condizioni di carcerazione, la legge Gozzini, la n. 354 del 1975, della convenzione sui diritti dell’uomo. Ovvio il precedente della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 16 luglio 2009, Sulejmanovic/Italia, che condannò il nostro Paese (a un risarcimento di 1.000 euro per due mesi e mezzo di detenzione in 2,70 metri quadrati) per le condizioni di detenzione a cui era stato sottoposto un cittadino straniero. Questa volta, nella pronuncia dell’Ufficio di sorveglianza di Lecce, che si diffonde per oltre 40 pagine in una meticolosa ricostruzione della normativa, spesso convenzionale, richiamabile, a emergere in primo piano non è tanto “la dignità umana sub specie di diritto a non subire tortura o trattamenti inumani o degradanti, quanto la dignità umana del detenuto intesa come diritto a subire una pena che sia costantemente orientata verso un processo rieducativo e non si risolva in un mero decorso del tempo (...)”. E su questo punto il giudice adotta un criterio forse ragionieristico, ma abbastanza impressionante come esempio per il tutto, perché sottolinea che il detenuto, per tutta l’estate del 2010, si ritrovò costretto a passare 19 ore e mezza al giorno in un locale con a disposizione uno spazio vitale di 3,39 metri “al lordo degli arredi”, dormendo su un letto a soli 50 centimetri dal soffitto. Fuori dalla cella solo dalle 8,30 alle 11 e dalle 15 alle 17 in un piccolo cortile di cemento e nell’assenza di qualsiasi “offerta trattamentale” visto che anche il corso scolastico in precedenza frequentato era chiuso. Un tipo di lesione (del diritto a una pena orientata alla rieducazione) che genera un danno patrimoniale. La responsabilità che può essere attribuita all’amministrazione penitenziaria è, per il tribunale di sorveglianza, di natura contrattuale come violazione degli obblighi “contenuti nei testi fondamentali sovranazionali come nazionali, nonché nelle norme dell’ordinamento penitenziario”. Giustizia: mercoledì 21 settembre lavori del Senato dedicati all’emergenza carceri Notizie Radicali, 14 settembre 2011 Come chiesto a più riprese dai Radicali l’argomento carcere finisce all’attenzione del Senato. Mercoledì 21 settembre sarà dedicata un’intera sessione dei lavori d’aula di palazzo Madama alle emergenze vissute dietro le sbarre, dal sovraffollamento alla sanità. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo di palazzo Madama. Un’altra battaglia vinta per l’onorevole Rita Bernardini che tra interrogazioni e proteste non ha mai smesso di chiedere attenzione per il delicato tema. Sarà presente il ministro della Giustizia, Nitto Palma che presenterà una relazione. Giustizia: Sappe; positiva seduta unica Senato, ma dalle parole si passi anche ai fatti Comunicato stampa, 14 settembre 2011 “Giudichiamo positivamente il fatto che mercoledì prossimo, 21 settembre il Senato dedicherà un’intera sessione di lavori d’Aula al problema delle carceri, come ha stabilito oggi la conferenza dei capigruppo. Peccato solo che il Ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma, che nell’occasione presenterà una relazione, abbia fissato un incontro con il Sappe e gli altri sindacati della Polizia Penitenziaria il successivo 26 settembre. Sono convinto che in quell’incontro il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il SAPPE, potrà fornire il proprio costruttivo contributo, utile anche al dibattito parlamentare che però sarà già ampiamente terminato”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria. “Credo e ritengo sia giunta l’ora di passare dalla parole ai fatti: l’emergenza carceri è sotto gli occhi di tutti e servono strategie di intervento concrete, rispetto alle quali il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, intende fornire il proprio costruttivo contributo. Il sovraffollamento degli istituti di pena è una realtà che umilia l’Italia rispetto al resto dell’Europa e costringe i poliziotti penitenziari a gravose condizioni di lavoro. Centrale è l’autorevole critica fatta recentemente al sistema penitenziario dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha anche sottolineato con forza come ciò sia dovuto al peso gravemente negativo di oscillanti e incerte scelte politiche e legislative, tra depenalizzazione e ciclica ripenalizzazione, con un crescente ricorso alla custodia cautelare, abnorme estensione della carcerazione preventiva. Con un sovraffollamento di 67mila detenuti in carceri che ne possono contenere a mala pena 43mila, accadono ogni giorno eventi critici come aggressioni, tentativi di suicidio, atti di autolesionismo. Ed è quindi ora che la classe politica rifletta seriamente sulle parole del Capo dello Stato ed intervenga con urgenza per deflazionare il sistema carcere del Paese, che altrimenti rischia ogni giorno di più di implodere. Il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è spesso lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensioni, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Torniamo a sollecitare l’adozione di riforme strutturali, che depenalizzino i reati minori e potenzino maggiormente il ricorso all’area penale esterna, limitando la restrizione in carcere solo nei casi indispensabili e necessari”. Giustizia: i Garanti dei detenuti; la riforma del carcere non può più aspettare Affari Italiani, 14 settembre 2011 Dall'abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari all'introduzione del reato di tortura, passando per l'introduzione di misure di prevenzione dei suicidi e la liberazione dei tossicodipendenti dal carcere. Sono alcune delle richieste che il Coordinamento nazionale dei Garanti territoriali per i diritti dei detenuti presenta all’Amministrazione Penitenziaria, al Governo e al Parlamento, in occasione della riunione di domani a Milano. Questa la piattaforma delle richieste e dei provvedimenti richiesti: Approvazione dell’ Ordinamento Penitenziario elaborato da Alessandro Margara; Applicazione integrale e immediata del Regolamento del 2000; Abolizione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari; Riforma della legge Fini-Giovanardi; Abrogazione della legge Cirielli; Istituzione del Garante nazionale dei diritti dei detenuti; Introduzione del reato di tortura; Tutela del diritto alla salute e misure di prevenzione dei suicidi; Liberazione dei tossicodipendenti dal carcere. La riforma del carcere: se non ora quando? Proposte a confronto (Giovedì 15 settembre ore 12,00, Circolo della Stampa - Sala degli Specchi piano primo - Corso Venezia, 48 Milano) Partecipano: Franco Corleone, Coordinatore del Coordinamento Garanti Sandro Margara, Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana Livio Ferrari, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Rovigo Emilio Quaranta, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Brescia Margherita Forestan, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Verona Marcello Marighelli, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Ferrara Marco Solimano, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Livorno Maria Pia Brunato, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Torino Agostino Siviglia, Consigliere giuridico dell’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Reggio Calabria Mario Fappani, ex Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Brescia Stefano Anastasia, Difensore civico di Antigone, La Società della ragione Riccardo De Facci, vicepresidente C.N.C.A. Maurizio Mazzi, presidente Conferenza regionale volontariato giustizia Veneto Michele Passione, componente dell’Osservatorio nazionale carceri - Unione Camere Penali Sergio Segio, Società In/formazione, Forum Droghe Ornella Favero, Ristretti Orizzonti Porterà un saluto Giovanni Negri, presidente dell’Associazione Lombarda dei giornalisti Sarà presente il sindaco di Milano Giuliano Pisapia Giustizia: 100 milioni per 6 braccialetti elettronici e 394 dispositivi marciscono al ministero di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2011 Questa storia ha inizio il 21 aprile 2001, quando il peruviano Augusto Cesar Tena Albirena, 43 anni, condannato a 5 anni e 8 mesi di reclusione per traffico di droga, accetta di fare da cavia: testa su se stesso uno dei braccialetti elettronici che il ministero dell’Interno ha appena noleggiato. Una sperimentazione varata con decreto legge il 2 febbraio 2001 dai ministeri dell’Interno e della Giustizia, annunciata all’inizio di aprile dall’allora titolare del Viminale, Enzo Bianco, e salutata come una possibile soluzione al problema del sovraffollamento delle carceri (già da allora). Il “Personal identifìcation device” applicato ad Albirena costava 60 mila lire al giorno, ma la ditta produttrice aveva assicurato che, qualora il detenuto si fosse allontanato di soli 10 metri, l’allarme sarebbe scattato. Il 26 giugno 2001 l’operatore in servizio alla centrale operativa di Milano si rende conto che manca il collegamento telefonico col braccialetto di Albirena. Che nel frattempo, dopo aver tagliato i fili, ha pensato bene di sparire. Più che una sperimentazione, un fallimento. L’anno successivo un detenuto siciliano rompe volutamente il braccialetto pur di tornare in carcere: suonava ogni cinque minuti, spiega agli agenti, era diventato un incubo. Il 27 luglio 2002 Antonino De Luca, 40 anni, boss mafioso di Messina condannato all’ergastolo, fugge dalla stanza dell’ospedale Sacco di Milano in cui è ricoverato per una grave malattia. Ha al polso il braccialetto: l’allarme scatta in Questura dopo quattro minuti. Troppi per illudersi di ritrovare il detenuto. E poi i giudici difficilmente chiedono la sperimentazione, che necessita del consenso della persona reclusa. Nel 2003, allora, il nuovo ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, decide di rilanciare tutto. E qui ha inizio lo scandalo vero. A novembre viene firmato un contratto con un gestore unico, la Telecom, che deve garantire, oltre all’installazione dei Personal identification device, anche l’assistenza tecnica. Questo accordo costa allo Stato poco meno di 11 milioni di euro l’anno e soprattutto è ancora valido: andrà a scadenza alla fine del 2011, tra pochi mesi. Quasi cento milioni di euro, oltre naturalmente alla cifra già spesa per la prima fallimentare sperimentazione (un’altra decina di milioni). Il tutto per 400 braccialetti, gioielli - a giudicare dal costo - fatti di plastica nera anallergica, alcuni fili elettrici, qualche sensore e una batteria. Ogni apparecchio, che ha un codice identificativo non riproducibile, garantisce al detenuto di spostarsi nel raggio d’azione consentito dal giudice. Si può indossare comodamente anche alla caviglia, perché pesa appena 50 grammi. All’estero, in Europa soprattutto, viene usato da anni per reati cosiddetti minori, come la violenza negli stadi. In Gran Bretagna serve, per esempio, a tenere fuori dai riformatori i minorenni. Francia e Spagna lo hanno adottato nel 2009, per i mariti violenti la prima, per controllare gli spostamenti degli stalker la seconda. In Italia invece no, non serve a niente perché non viene utilizzato. Negli armadi del Viminale sarebbero rimasti oltre 390 braccialetti elettronici, che ormai saranno da buttare. E Nonostante questo continuiamo a pagare, perché il contratto con la Telecom non è mai stato rescisso e l’azienda continua a garantire il servizio: centrale operativa 24 ore al giorno. Tre anni fa, il ministro Maroni -in una delle tante sparate di questo governo su come svuotare le carceri - aveva aperto all’uso delle apparecchiature “ma solo se c’è la garanzia che funzioni e che le evasioni siano pari a zero”. Naturalmente non se n’è fatto nulla. L’11 maggio 2010 Gianfilippo D’Agostino, direttore del Public Sector di Telecom, è stato sentito dalla commissione Giustizia della Camera e ha ribadito, rispondendo alle domande della radicale Rita Bernardini, che l’azienda dispone di un servizio attivo 24 ore al giorno e di una grande centrale di controllo installata a Oriolo Romano e collegata con tutte le Questure d’Italia. Anche se per soli 6 apparecchi. Ma perché sono stati spesi oltre 100 milioni di soldi pubblici per far marcire tutto in un armadio? Molti, come al solito, danno la colpa ai magistrati, rei di non aver “prescritto” i braccialetti. “Ma gli stessi giudici non sono mai stati informati a sufficienza, in molti non conoscono neanche la procedura”, commentano dal Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria che sul braccialetto elettronico sta portando avanti da anni una vera e propria battaglia. Già, la penitenziaria: perché nel lontano 2001, oltre al Viminale, era coinvolto nel progetto anche il ministero della Giustizia. Anche se il controllo dei detenuti provvisti di braccialetto, contrariamente a quanto sarebbe sensato, è affidato alla polizia di Stato e non alla penitenziaria. “Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria c’entra eccome, perché qui si parla di esecuzione penale - proseguono dal sindacato -. Avrebbero dovuto sensibilizzare la magistratura e far sì che tutta l’operazione funzionasse. Invece non hanno fatto nulla. Giustizia: Sappe; affrontare subito problema degli Ospedali psichiatrici giudiziari Adnkronos, 14 settembre 2011 “I recenti episodi di cronaca, come l’ennesimo suicidio di un internato nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, e gli esiti della Commissione d’inchiesta sugli ospedali psichiatrici giudiziari, guidata dal senatore Ignazio Marino, hanno riproposto il problema della gestione di strutture di reclusione che dovrebbero garantire l’assistenza ai malati e la sicurezza degli operatori, come appunto gli Ospedali psichiatrici giudiziari. Troppo spesso i buoni propositi delle Direzioni si scontrano con una cronica carenza di fondi, dopo i tagli disposti dal Ministro della Giustizia e i ritardi nella gestione dell’assistenza medica al Servizio sanitario nazionale, a cui bisogna sommare la diffusa e radicata indifferenza della politica verso questa grave specificità penitenziaria”. Lo dice in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). “A subire le conseguenze di questo diffuso disinteresse verso gli Ospedali psichiatrici giudiziari - aggiunge - sono gli agenti di Polizia penitenziaria e gli stessi internati, che dovrebbero essere curati e non custoditi. La presenza degli agenti infatti mal si concilia con lo status di internato quale soggetto per lo più non imputabile e quindi incapace di intendere e di volere, poiché - prosegue - la pericolosità sociale non può precedere lo status mentale, come invece evidenza l’articolo 203 del Codice penale, il quale disvela tutta la sua impostazione autoritaria, ben lontana dalle concezioni psichiatriche che si vanno sempre più affermando”. “L’attuale crisi degli Opg - sottolinea - è il punto di arrivo di una escalation di errori che hanno permesso l’incremento esponenziale dei ricoverati rispetto al numero di agenti, come ad esempio il blocco degli organici negli ospedali psichiatrici disposto dal ministro della Giustizia: così succede che in ogni reparto a fronte di oltre 100 ricoverati - incalza - è presente un solo agente rispetto ai tre previsti fino a qualche anno fa per garantire la sorveglianza su due piani dell’immobile e all’interno del cortile. È necessario che i politici invece delle solite passerelle - conclude - si facciano carico del loro ruolo istituzionale per cercare di risolvere il problema delle condizioni disumane che si possono trovare negli Opg”. Lazio: il 22 settembre seduta straordinaria del Consiglio regionale dedicata alle carceri Agenparl, 14 settembre 2011 La Regione Lazio tratterà il tema carceri e sovraffollamento, dedicando a questo una seduta straordinaria del Consiglio. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo, presieduta da Mario Abruzzese. Alle emergenze dietro le sbarre, più volte segnalate dai Radicali e dall’onorevole Rita Bernardini, saranno dedicate due riunioni del consiglio regionale che si terranno la prossima settimana. La prima sarà ordinaria e la seconda straordinaria. Il 22 settembre sarà discussa la situazione carceraria negli istituti di pena laziali. “La conferenza dei capigruppo del consiglio regionale del Lazio, ha deciso stamane di accogliere la proposta dei gruppi Lista Bonino Federalisti Europei e di Sel, di tenere una seduta straordinaria del Consiglio Regionale del Lazio sul tema della carceri il prossimo 22 settembre - hanno commentato i consiglieri regionali Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, Lista Bonino Pannella Federalisti Europei. Esprimiamo viva soddisfazione e ringraziamo tutti i capigruppo e il presidente del consiglio regionale per aver deciso di dedicare una intera seduta del consiglio regionale del Lazio al drammatico tema delle carceri, dimostrando così attenzione e sensibilità all’appello del Capo dello Stato che aveva detto che la questione del sovraffollamento nelle carceri è un tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile. La convocazione di questo consiglio è una prima risposta positiva all’iniziativa nonviolenta che, insieme a Marco Pannella, decine di migliaia di detenuti hanno promosso in questi mesi, dimostrando grande senso di responsabilità a fronte di una condizione disastrosa, dal punto di vista dei diritti umani, nelle carceri”. Messina: l’uomo suicida all’Opg di Barcellona era reduce da 7 proroghe della misura Gazzetta del Sud, 14 settembre 2011 Era reduce da sette proroghe della misura di sicurezza l’uomo di 46 anni morto suicida domenica scorsa all’Opg di Barcellona. Originario di Cremona, M.S. era stato internato dal 2006 al 2008, e successivamente accolto in licenza finale presso la Comunità di San Colombano al Lambro, dalla quale però si era allontanato finendo nuovamente all’Opg di Barcellona. Qui vi è rimasto, di proroga in proroga, fino all’altro ieri. Qualche tempo fa era stato ospite della Casa di solidarietà e accoglienza di padre Pippo Insana in licenza d’esperimento. “Si era mostrato sereno, collaborativo e d’iniziativa”, racconta con rammarico padre Pippo. Aveva in cuore la libertà. Ad agosto sarebbe stato libero e si sarebbe nuovamente avvicinato alla madre. Ma il magistrato di sorveglianza di Messina, pur in presenza di una relazione positiva dell’Opg, aveva rinnovato la proroga di ulteriori sei mesi perché i Centri psichiatrici sociali e i Sert di Cremona non avevano prodotto alcun progetto riabilitativo personalizzato. Provo molta rabbia per quello che è successo - prosegue padre Pippo. Purtroppo la Lombardia è totalmente assente, e i Cps si giustificano sostenendo di non avere posto in comunità o risorse finanziarie. In realtà manca il lavoro di coordinamento e non vengono rispettati i bacini d’utenza. Il posto di M.S. sarebbe stato a Castiglione delle Stiviere, non Barcellona”. Attualmente all’Opg “Madia” su 173 internati definitivi ben 118 sono in proroga della misura di sicurezza. Dopo il sequestro e lo sgombero del primo reparto disposto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale al “Madia” le presenze complessive si sono ridotte a 314, comunque ben oltre la capienza massima di 250. Adesso gli Opg, compreso il “Madia”, avranno ulteriori 5 mesi per rivedere e adeguare i locali agli standard ospedalieri nazionali e regionali, pena il sequestro e la chiusura. Un obiettivo che in Sicilia, dove la Regione non ha ancora recepito il decreto della Presidenza del consiglio dei miistriche prevede il passaggio dell’assistenza sanitaria dall’amministrazione penitenziaria alla Sanità, non sarà attuabile. Ragion per cui, come auspicato dalla Commissione nella “Relazione sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli Opg” rassegnata il mese scorso al Senato, occorre che il Parlamento si attivi con urgenza per formulare un disegno di legge di riforma della psichiatria giudiziaria, seguendo magari le linee guida proposte dalla stessa Commissione. È quanto chiede anche il Comitato promotore della campagna “Stop Opg”, che si è riunito a Roma lo scorso 8 Settembre. Soluzioni alternative esistono e vanno incentivate. Ne sono prova la Comunità Salpietro di Oreto, il progetto “Luce e libertà” e l’attività costante della Casa di solidarietà di padre Pippo, che accoglie i definitivi e, in collaborazione con i Gip, i soggetti in misura di sicurezza provvisoria, garantendone in comunità la cura e il contenimento della pericolosità. Viterbo: al carcere di Mammagialla 100 detenuti con problemi psichiatrici www.viterbonews24.it, 14 settembre 2011 “Il carcere di Mammagialla, e di conseguenza tutto il territorio viterbese, è veramente in pericolo”. A lanciare l’ennesimo allarme per la struttura penitenziaria di Viterbo sono Luigi Floris (segretario provinciale del Sappe) e Gennaro Natale (segretario locale dell’Osapp), che addirittura parlano di atti di cannibalismo all’interno del carcere e della presenza di 100 detenuti psichiatrici. “Sappiamo da fonti certe che succede di tutto - hanno dichiarato i due - come atti di cannibalismo (sembrerebbe di alcuni giorni fa il gesto di un detenuto che dopo essersi tagliato i lobi delle orecchie pare che li abbia mangiati in segno di protesta all’enorme affollamento) e assegnazioni sconsiderate (ci segnalano il caso di un detenuto assegnato da Roma nonostante la presenza nell’istituto, del fratello di colui che lui stesso ha ucciso all’inizio del 2011, praticamente quasi impossibile evitare un altro omicidio; solo l’attenta e professionale azione del locale reparto di polizia penitenziaria ha potuto evidenziare il fatto e scongiurare il peggio)”. I due raccontano anche di un episodio accaduto recentemente: “Un detenuto con gravi patologie psichiatriche (tanto che sembrerebbe inopportuna la sua detenzione in carcere anche secondo i medici) che nel carcere di Civitavecchia si è tagliato la gola cercando di uccidersi, è stato ricoverato al reparto di medicina protetta di Belcolle, piantonato a vista da un ausiliario della Asl, in attesa di essere mandato alla sezione di osservazione psichiatrica a Roma, è stato dimesso dall’ospedale e assegnato al carcere di Viterbo - spiegano i due rappresentanti sindacali. Il detenuto è stato dimesso dall’ospedale perché ingestibile in un reparto di medicina protetta, figuriamoci nell’ambito di un istituto che vede la presenza di 750 detenuti, sezioni super affollate, carenza di personale a tutti i livelli e mancanza di un servizio psichiatrico continuativo su tutte le 24 ore. Nel famoso gioco dello “scarica barile” non permetteremo che a rimetterci siano i colleghi che ogni giorno con sacrificio assicurano allo stato un servizio fondamentale”. “Ci hanno fatto passare l’estate senza un direttore titolare, sovraffollati come pochi altri in tutto il territorio nazionale, senza personale, senza adeguati livelli di professionalità specialistiche (solo tre psichiatri per 750 detenuti di cui oltre 100 con patologie psichiatriche), senza mezzi per contrastare le criticità - aggiungono -. Abbiamo circa 100 detenuti psichiatrici di cui 20 definiti “acuti”. La loro gestione è pressoché impossibile in ambiente penitenziario, addirittura alcuni di loro andrebbero contenuti con dei mezzi di coercizione. Nonostante ciò continuano ad assegnare detenuti con patologie psichiatriche”. “Non è un problema solamente penitenziario, ma territoriale, di sicurezza - continuano. A fronte di una capienza di 150 detenuti Alta Sicurezza (per chi non conosce le dinamiche penitenziarie si tratta di boss mafiosi di secondo livello, killer assoldati dai clan mafiosi, ex 41 bis e comunque figure che compaiono nell’ambito delle associazioni mafiose) il dipartimento centrale ne ha assegnati ben 175. Nei giorni più caldi dell’anno, in piena emergenza, nella sezione isolamento si sono trovati costantemente circa 18-20 Alta Sicurezza su 26 posti disponibili. Avvengono commistioni tra detenuti comuni ed Alta Sicurezza tanto da, appunto, compromettere l’intera sicurezza del territorio”. “Più volte abbiamo segnalato la problematica agli uffici centrali senza successo - incalzano Floris e Natale -. Una situazione tale da dover sospendere le punizioni dei detenuti comuni per mancanza di posti nella sezione isolamento. Gli stessi detenuti Alta Sicurezza, ristretti loro malgrado e senza aver commesso alcuna infrazione, nelle celle dell’isolamento con i disagi che ciò comporta. L’ordine e la sicurezza interna risultano compromessi, tanto che per garantire l’ora d’aria ai detenuti Alta Sicurezza il personale di Polizia è costretto ad accompagnare, a piccoli gruppi, i detenuti nei cortili che si trovano dall’altra parte dell’istituto. Le sanzioni dell’isolamento, per i detenuti comuni, sono praticamente sospese per mancanza di posti; viceversa i detenuti Alta Sicurezza appoggiati nella sezione soffrono l’isolamento senza aver commesso nessun fatto di rilievo disciplinare”. “Il dipartimento considera il carcere di Viterbo un vero e proprio immondezzaio, dove scaricare tutte le criticità di livello regionale. È ora che qualcuno prenda coscienza di ciò e faccia sentire la propria voce, il proprio dissenso. Nei mesi scorsi siamo stati ricevuti dal Prefetto di Viterbo, Antonella Scolamiero la quale ha dimostrato una particolare sensibilità al problema, ma è l’unica e non ha tanti poteri nel merito. Tutte le figure istituzionali, a parte le occasioni che sono di mera passerella mediatica, sono completamente assenti - concludono i due rappresentanti -. Anche per questo annunciamo una manifestazione davanti all’istituto di Viterbo per il giorno 19 settembre unitamente ad altre sigle sindacali”. Rimini: il ministero manda gli ispettori per un controllo al “carcere dei veleni” www.romagnanoi.it, 14 settembre 2011 Tensioni tra le guardie, due auto danneggiate, un agente beccato in discoteca da ammalato e un poliziotto indagato per peculato. Da Roma interviene il nucleo investigativo centrale per controllare il “Casetti”. Problemi da una parte e dall’altra delle sbarre. Se infatti al “Casetti” di Rimini si pensava che i pensieri fossero tutti concentrati sull’esigenza di spazio richiesta dal sovraffollamento delle carceri, sembra che le tensioni non affliggano solo i detenuti stipati all’interno della casa circondariale. Emergono infatti malumori tra il personale in divisa: più che semplici voci di corridoio, ma tensioni tra le 128 guardie carcerarie per vari motivi - riportate oggi dal quotidiano La Voce di Romagna - sfociate in esposti alla magistratura, rapporti disciplinari e ordini di servizio contestati. Caso più eclatante, quello dell’agente pizzicato nei giorni scorsi a lavorare come buttafuori in una discoteca della zona, dopo aver giustificato l’assenza con un certificato di malattia. Ma anche dissapori tra colleghi, ispettori e agenti, sfociati oltre le semplici discussioni: due mesi fa un poliziotto, concluso il proprio turno, ha ritrovato l’auto, una Panda color oro metallizzato, con le quattro ruote forate. Una settimana prima, un’altra auto dello stesso tipo, modello e colore era stata ritrovata dal proprietario con la carrozzeria sfregiata: forse un errore da parte dell’autore del danneggiamento, che si era sbagliato vettura. Vendette da parte dei familiari o dei conoscenti dei detenuti, o piccole ripicche per un provvedimento disciplinare subito? Infine si arriva perfino all’attuale comandante facente funzioni del personale in divisa che si è visto raggiungere da un avviso di garanzia per peculato. Indagini a parte, per sedare le tensioni è intervenuto addirittura il Nic, nucleo investigativo centrale, con ispettori inviati da Roma. L’ispezione è ancora in corso. Lauro (Av): il carcere apre le porte al teatro, ospite d’eccezione il cardinale Sepe Il Mattino, 14 settembre 2011 L’istituto penitenziario di Lauro ospita mediamente cinquanta detenuti affetti da problematiche legate alla tossicodipendenza e si caratterizza da quelli “ordinari” per la sua specifica vocazione trattamentale. Anche quest’anno, grazie alla fattiva collaborazione della compagnia teatrale “Gluck” di Avellino, c’è stato un forte interesse ed impegno nei partecipanti all’attività teatrale, che con la piece “Più leggero di un Suspir”, liberamente tratta da William Shakespeare, parteciperanno alla settimana rassegna teatrale promossa dall’associazione “Il carcere possibile onlus” che si terrà dal 24 al 28 ottobre presso il teatro San Ferdinando di Napoli. La direzione di Lauro ha promosso per il prossimo 21 settembre alle ore 10.30, negli spazi aperti dell’istituto, l’anteprima della rappresentazione e per l’occasione avrà l’onore di ospitare il cardinale di Napoli, Crescenzo Sepe, particolarmente sensibile e vicino alle persone private della libertà. Saranno presenti anche il vescovo della diocesi di Nola, Beniamino De Palma e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Tommaso Contestabile. Campobasso: detenuto tenta evasione, prova a scavalcare cinta ma cade e viene bloccato Ansa, 14 settembre 2011 Un tentativo di evasione dal carcere di Campobasso è stato sventato questa mattina dagli agenti della Polizia penitenziaria. Un detenuto di 45 anni, che deve scontare una pena residua di 12 anni, nel corso dell’ora d’aria si è aggrappato ad alcuni fili elettrici provando a scavalcare il muro di cinta ma è caduto. L’uomo ha tentato di nuovo la fuga ma è stato bloccato di poliziotti. Sempre stamani si è registrata una rissa tra detenuti in una cella. Si sta cercando di capire se c’è relazione tra questi due episodi. Trento: polizia penitenziaria arresta detenuto evaso da permesso premio Asca, 14 settembre 2011 La Polizia Penitenziaria del carcere di Trento ha arrestato un detenuto evaso l’8 settembre scorso dopo aver fruito di un permesso premio. Lo riferisce, in una nota, il Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. “I nostri agenti - dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - si sono da subito impegnati nelle attività di ricerca, coronata dal successo con l’individuazione e l’arresto dell’evaso, dopo un lungo e laborioso inseguimento, ieri verso le 19.50. Bravissimi i colleghi della Penitenziaria di Trento che, pur lavorando sotto organico e in condizioni difficili, l’hanno bloccato, arrestato e riaccompagnato in carcere. Una importante attività, da mettere in evidenza, tanto che il Sappe chiederà all’Amministrazione penitenziaria di Roma una adeguata ricompensa (lode o encomio) al Personale di Polizia che ha partecipato all’importante operazione di servizio. Questo grave episodio conferma ancora una volta le gravi criticità del sistema carcere”. Pavia: appello per l’ex direttore Asl in carcere per mafia: “È malato, fatelo uscire” La Provincia Pavese, 14 settembre 2011 A Pavia si mobilitano scrittori, giornalisti e docenti a favore dell’ex dirigente Asl accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e in carcere dal 13 luglio 2010. “Sosteniamo i magistrati e l’antimafia, ma Chiriaco rischia di morire”. Per il 23 settembre, quando saranno sentiti i primi testimoni dell’accusa, è in programma l’udienza del processo a Milano, che vede imputato Chiriaco insieme ad altre 33 persone per reati di mafia Da Pavia parte l’appello perché i giudici concedano gli arresti domiciliari a Carlo Chiriaco. Lo hanno firmato don Andrea Gallo della comunità di San Benedetto a Genova, don Franco Tassone della Casa del Giovane, padre Alex Zanotelli da Napoli, lo scrittore Mino Milani. E poi la docente Carla Benedetti, Irene Campari del circolo Pasolini, la docente Marina Tesoro, lo scrittore Tiziano Scarpa, il sociologo Luigi Manconi, Giovanni Giovannetti e Paolo Ferloni della lista civica Insieme per Pavia. “Non abbiamo nulla a che spartire con l’imputato Chiriaco e con la sfera politico-mafiosa - spiegano nella richiesta di concessione dei domiciliari. Ma Chiriaco è in carcere dal 13 luglio 2010: ha perso 27 chili, è diabetico, e gravemente malato. Siamo convinti che il principio di giustizia debba nutrirsi anche di umanità”. Chiriaco, detenuto prima a Torino e ora a Monza, è tornato a Pavia solo nel maggio e nel giugno scorso per partecipare a due udienze di un processo per corruzione elettorale in cui è imputato. Quasi irriconoscibile, si muove solo con l’aiuto delle stampelle. All’epoca dell’arresto era convalescente per un intervento chirurgico. Padova: “Io, recluso, vi racconto”, incontro con lettura di testi scritti in carcere Il Gazzettino, 14 settembre 2011 L’ultima libertà rimasta, la fantasia. “Io recluso, racconto” è il titolo dell’incontro che si terrà venerdì prossimo alle 18 nel Centro universitario di via Zabarella 82, per iniziativa del Gruppo operatori carcerari volontari, in collaborazione con la redazione di Ristretti Orizzonti. Paola Spolaore, Salvatore Moscat e Paolo Lighezzolo dell’Associazione Padova Teatro, accompagnati al pianoforte da Maddalena Munari, leggeranno riflessioni, in prosa e in versi, di detenuti della Casa di Reclusione di Padova. Si sentiranno parole che vanno dritte al cuore: “Ancora un giorno e completo il 35. anno d’ergastolo, una lenta condanna a morte, per sfinimento del corpo e dell’anima”. Sfinimento che si consuma in “uno spazio di pochi metri quadrati, simile ed eguale a molti altri, come un moderno alveare, la mia cella. Dovrei viverci da solo ma, incuranti della legge, ci forzano a stare in tre, così devo vivere tre ergastoli, vivere anche le condanne degli altri. Qui dentro devo passare ciò che resta della mia vita, almeno mi lasciassero lo spazio che mi è dovuto per legge: 7m x 2. Il mio mondo è ormai ridotto ad 1/3”. Ciò che tormenta di più è il distacco dalla famiglia, dagli affetti, dal mondo esterno: “Il vento, oggi, è l’unica carezza, gratuita, che ricevo, ed è l’unica cosa che mi mancherà quando non ci sarò più”; è la solitudine: “Oggi uno è uscito, a fine pena, dopo 26 anni. Se un giorno dovessi uscire anch’io non ho dove andare. Là fuori, alla fine del viale d’ingresso o poco più avanti, ho solo lei che mi attende, “Signora Morte”. Di qui una riflessione e un monito: “Un uomo che uccide non può essere più lo stesso agli occhi degli altri, ma non può esserlo più anche nel chiuso della propria coscienza. Giovani, godetevi fino in fondo, ora per ora, la libertà, perché vi assicuro che nessuno come chi l’ha persa è in grado di apprezzare il suo valore. E non dimenticate che non esiste libertà senza responsabilità. Io l’ho capito troppo tardi, e ora ne pago le conseguenze”. I testi di Altin, Andriotto, Bertani, Calderoni, Dritan, Fabbian, Gaffaroni, Germani, Iberisha, Kalica, Lonardi, Morelli, Opali, Papalia, Scialpi, insieme con i dipinti di altri detenuti: Brusaterra, D’Assaro, Guamieri, Pace, Pigi, Morelli, Sarti, resteranno esposti al Centro universitario fino al 30 settembre (dal lunedì al venerdì: 9.00-19.00; sabato e domenica chiuso). Immigrazione: evasioni di massa a Ponte Galeria, nel Cie situazione esplosiva Corriere della Sera, 14 settembre 2011 Quarta fuga in un mese di immigrati dal centro di identificazione. L’allarme del garante dei detenuti: intervenga il prefetto, condizioni peggiori del carcere. Quarta evasione di massa da Ponte Galeria. Molti dei fuggitivi erano approdati a Lampedusa nei mesi scorsi, soccorsi dalla Guardia costiera mentre erano in fin di vita, privi di acqua e cibo, sul punto di affondare nelle carrette del mare o di morire per asfissia stipati sotto coperta, respirando i letali fumi dei motori diesel. Nigeriani e senegalesi che hanno attraversato il Sahara. Tunisini ed egiziani che si sono imbarcati a Tripoli, la capitale libica incendiata dalla guerra civile. E che una volta sbarcati in Italia, per conoscere il loro destino non hanno voluto aspettare i 18 mesi di attesa - in condizioni simili a quelle della detenzione - al Cie ( centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria, tra Fiumicino e la Magliana. E alla prima occasione hanno guadagnato la libertà. Fuggendo, venerdì 9, dalla struttura d’accoglienza. Si tratta, appunto, della quarta evasione consecutiva da luglio. Le ultime 3 si sono registrate da Ferragosto in poi, al ritmo di quasi una a settimana. Scappano in cinquanta, cento, centocinquanta. Nessuno viene ripreso. Ad invogliarli è il fatto che molti di loro hanno il cellulare (in attesa di identificazione non sono infatti detenuti) e possono parlare con altri clandestini che stanno fuori dalle mura del Cie. Amici e conoscenti che insistono, convincendoli: “Appena puoi, scappa. Che stai a fare in quella prigione”. Ecco perché ora “occorre un intervento della prefettura - dice il garante regionale dei detenuti Angiolo Marroni -. La situazione è paradossale. Nel Cie si vive in condizioni durissime, le stesse, se non peggiori, di un carcere. Ma gli agenti in servizio sono 4 o 5 per turno. Un numero insufficiente per fronteggiare i clandestini in attesa di identificazione, anche 300 in certi periodi. Mentre la cooperativa sociale che ha sostituito la Croce Rossa nella gestione di Ponte Galeria non può certo mettersi a svolgere il servizio di vigilanza”. Venerdì 9 settembre sono scappati in 21, cogliendo l’occasione di una specie di trasferimento nei “bracci” interni. I fuggitivi hanno scavalcato il muro di cinta, dileguandosi nei campi che costeggiano il vicino argine sinistro del Tevere. Più articolata la terza “grande fuga” dal centro di via Portuense, avvenuta a fine agosto al termine del Ramadam. Gli ospiti della struttura hanno approfittato del periodo di preghiera concesso dalla prefettura. Per consentire digiuno e raccoglimento, ai musulmani era stata autorizzata l’apertura notturna delle camerate. Ma proprio di notte è scoppiata una specie di insurrezione. Sono state divelte le porte di ferro dei bagni, servite per costruire rudimentali piedi di porco con i quali sono state scardinate le cancellate e staccate le inferriate. Carabinieri, poliziotti e finanzieri arrivati per sedare la rivolta sono stati accolti dal lancio di sassi. Una specie di “cannoneggiamento” servito per coprire la fuga vera e propria, passata attraverso una cancellata utilizzata come scala usata per arrampicarsi sul muro di cinta. Poi un salto di sotto e sono tutti spariti. Secondo le forze dell’ordine sarebbero scappati 47 tunisini e 33 tra egiziani, giordani, moldavi e bengalesi. Ma le associazioni che operano nel settore dell’assistenza agli extracomunitari riferiscono cifre più alte, e parlano di un centinaio di fuggitivi. Numeri che vanno ad aggiungersi a quelli dalle altre due evasioni di massa, una ad agosto e la prima a luglio. All’incirca il copione è lo stesso: ad un certo punto della giornata, in genere verso sera, scoppia un tafferuglio che serve per coprire la fuga durante la quale scappano decine di persone. Che non ne vogliono sapere di attendere i tempi previsti per l’identificazione: in media 8 mesi, con un massimo fissato di 18 mesi fissato dalla legge italiana ma contestato dalla Ue, che lo giudica troppo lungo. Secondo Marroni, “l’ennesima evasione conferma quanto sia complessa la gestione quotidiana degli ospiti del centro dove, nonostante l’attenzione delle forze dell’ordine e degli operatori che gestiscono la struttura, è sempre più problematico garantire il rispetto dei diritti umani”. Caldo, affollamento, disperazione degli ospiti e, non da ultimo, “l’allungamento dei tempi di permanenza”, sono ingredienti che “contribuiscono a creare una miscela esplosiva - prosegue il Garante - . Bisogna intervenire prima che ci scappi il morto. E di fronte a queste continue fughe, non è improbabile”. Marroni: intervenga il prefetto Di nuovo immigrati in fuga dal Cie di Ponte Galeria. Per la quarta volta dal mese di luglio numerosi ospiti stranieri sono scappati dal centro situato tra la Magliana e Fiumicino. Si tratta di cittadini africani che, nelle scorse settimane erano sbarcati a Lampedusa, poi spostati a Roma in attesa di sapere dove essere smistati. La nuova fuga è avvenuta venerdì 9 settembre, 21 ospiti della struttura hanno approfittato del trasferimento da un’ala all’altra del centro per fuggire. I fuggitivi hanno scavalcato il muro di cinta, dileguandosi nei campi che costeggiano il vicino argine sinistro del Tevere. Su questa vicenda è intervenuto il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. Alla quarta fuga in poche settimane Marroni ha chiesto “un intervento della prefettura - ha commentato il garante regionale dei detenuti - La situazione è paradossale. Nel Cie si vive in condizioni durissime, le stesse, se non peggiori, di un carcere. Ma gli agenti in servizio sono 4 o 5 per turno. Un numero insufficiente per fronteggiare i clandestini in attesa di identificazione, anche 300 in certi periodi. Mentre la cooperativa sociale che ha sostituito la Croce Rossa nella gestione di Ponte Galeria non può certo mettersi a svolgere il servizio di vigilanza”. La situazione al Cie di Ponte Galeria è esplosiva, come denunciato da Marroni. Alle fughe vanno aggiunte le rivolte contro gli agenti. “L’ennesima evasione conferma quanto sia complessa la gestione quotidiana degli ospiti del centro dove, nonostante l’attenzione delle forze dell’ordine e degli operatori che gestiscono la struttura, è sempre più problematico garantire il rispetto dei diritti umani”, ha aggiunto il Garante dei detenuti. Nel Cie si soffre il caldo, non mancano i problemi di sovraffollamento come nelle carceri italiane e non vi è certezza sui tempi di permanenza. Questi elementi, sempre secondo Marroni: “contribuiscono a creare una miscela esplosiva - conclude - Bisogna intervenire prima che ci scappi il morto. E di fronte a queste continue fughe, non è improbabile”. Droghe: il proibizionismo non ha pagato, adesso servono scelte coraggiose di Renato Barilli L’Unità, 14 settembre 2011 Non saprei sotto quale funesto idolo, se della tribù o del foro, si pone a mio avviso inutile e pernicioso ostracismo rivolto verso le varie specie di droghe. Evidentemente, come ben si sa, la storia non insegna nulla alla vita, dato che diversamente assisteremmo a una serie incredibile di dejà vu. L’umanità ha condannato di volta in volta l’introduzione del fumo, quando questo è giunto in Occidente dopo la scoperta delle Americhe, e ha pure denunciato in tante occasioni l’indubbia piaga dell’alcolismo. Si sa altrettanto bene che in proposito gli Usa cercarono di fare sul serio impiantando negli anni 30 il famigerato proibizionismo, il cui risultato sicuro fu si far prosperare il gangsterismo. Un analogo rito di proibizione categorica piove oggi sulle droghe con il medesimo effetto nocivo, di far prosperare la delinquenza organizzata, per la quale lo spaccio di queste merci proprio in virtù della loro proibizione costituisce un buon 50% di introiti, oltre ad altri due effetti ugualmente deprecabili, di impegnare le forze di polizia in una lotta impotente, costellata di effimeri bollettini della vittoria, rispondente a sequestri di quintali delle sostanze vietate, ma poi il giorno dopo si ricomincia daccapo; e anche, altro effetto disastroso, di stipare le carceri di spacciatori, o di giovani costretti a delinquere per procurarsi a caro prezzo la “roba”. Se si vogliono svuotare in buona misura le nostre prigioni sovraffollate, la depenalizzazione dei reati connessi alla droga sarebbe una buona via. Beninteso questo non vuol essere un invito a lasciar correre, ad abbandonarsi a un deplorevole permissivismo, ma abbiamo già il canovaccio apprestato dalle varie condanne verso il fumo e l’alcol, che, sia detto tra parentesi, continuano a costituire per la salute delle minacce assai più gravi, anche in termini statistici. In Italia ogni anno muoiono assai più persone per cirrosi epatica o tumori ai polmoni rispetto a quanti restano vittime di una overdose, il che conferma come siamo di fronte non tanto a una minaccia reale quanto a uno spettro psicologico. La pratica dimostra che il divieto di fumare nei locali pubblici sta funzionando molto bene, sta entrando nella coscienza collettiva, e certo anche verso l’alcolismo bisogna tenere alta la guardia. Si proceda allo stesso modo nei confronti della droga, divieto assoluto di farsi trovare positivi alla guida, o nello svolgimento di tutte le funzioni pubbliche, con provvedimenti severissimi per i renitenti. Ma liberi i singoli, a loro rischio e pericolo, di drogarsi, se proprio lo vogliono, così come di fumare o di ubriacarsi in privato. Si pensi quale cosa tragicomica sarebbero se gravassimo sigarette e superalcolici di qualche divieto che obbligasse a venderli sottobanco e a costi insopportabili. Stati Uniti: la Corte Suprema e il sistema carcerario della California di Tim Lynch* Notizie Radicali, 14 settembre 2011 Questa mattina [23 maggio 2011] la Corte Suprema ha emesso un’importante sentenza riguardante il sistema carcerario della California. A causa di anni di dilagante sovraffollamento, ci sono state sistematiche violazioni del divieto costituzionale di ricorrere a punizioni crudeli e insolite. Per rimediare a queste violazioni, la Corte ha confermato la decisione di una corte inferiore di ridurre la popolazione carceraria. Non sono rimasto sorpreso nell’apprendere che il giudice Anthony Kennedy ha redatto il parere di maggioranza in questo caso, Brown contro Plata. In un discorso all’American Bar Association e del 2003 (ristampato nel mio libro In the Name of Justice), Kennedy provò a suscitare una maggiore consapevolezza a proposito del sistema carcerario americano. Sottolineò che ogni cittadino dovrebbe interessarsi al sistema carcerario - non è solo il regno del personale addetto. Ecco un estratto del discorso di Kennedy: La materia [delle carceri] è motivo di preoccupazione e responsabilità di ogni membro della professione [legale] e di ogni cittadino. Questo è il vostro sistema di giustizia; queste sono le vostre carceri. … [Noi] dovremmo sapere cosa accade dopo che il detenuto viene portato via. Certo, il detenuto ha violato il contratto sociale; certo, deve essere punito per difendere la legge, riconoscere la sofferenza della vittima e scoraggiare futuri crimini. Tuttavia, il detenuto è una persona; tuttavia, lui o lei è parte della famiglia dell’umanità. Se noi entrassimo nel mondo nascosto della punizione, dovremmo restare sconcertati di fronte a ciò che vedremmo. Considerate la sua dimensione. La popolazione nazionale reclusa ammonta oggi a circa 2,1 milioni di persone. In California … questo stato da solo tiene oltre 160.000 persone dietro le sbarre. In paesi come l’Inghilterra, l’Italia, la Francia e la Germania il tasso di incarcerazione è pari a 1 persona su 1.000. Negli Stati Uniti è circa 1 su 143. I numeri sono solo l’inizio della storia. Non partite dal presupposto che il governo abbia le strutture per ospitare i detenuti che vengono condannati. La California ne sta ospitando molto oltre la capacità prevista delle sue carceri - il doppio. Ha cioè progettato un sistema per 80.000 persone ma ne ha ammassate 160.000 nelle carceri. Il puro e semplice numero di reclusi ha sopraffatto le strutture e il personale. Il parere di Kennedy descrive in dettaglio le pessime condizioni del sistema, ma io ne menzionerò solo alcune: in un carcere, 54 uomini condividono un solo bagno; il personale medico talvolta utilizza ripostigli e magazzini come corsie, prive di adeguata areazione; i lettini non vengono disinfettati dopo essere stati usati da detenuti affetti da malattie contagiose; uomini tenuti per ore e ore in gabbie delle dimensioni di una cabina telefonica e senza servizi igienici; il sistema carcerario della California registra in media un suicidio alla settimana (80% in più della media nazionale); uomini con problemi medici lasciati morire senza cure. Questi non sono malati di cancro. Queste sono morti evitabili. Ad esempio, un uomo con il mal di stomaco rimane cinque settimane senza cure e muore. Un funzionario texano ha visitato le strutture della California e ha dichiarato che, pur essendo nel settore da trentacinque anni, è rimasto sgomento. Non aveva ‘mai visto niente di similè. I quattro giudici conservatori - Scalia, Thomas, Roberts e Alito - si sono espressi in dissenso dalla sentenza. Scalia ha dichiarato che l’esito è stato assurdo - forse la sentenza più radicale emessa da una corte nella storia della nostra nazione. Il giudice Alito ha detto che la Costituzione impone un’importante - ma limitata - restrizione all’autorità degli stati nel settore [delle carceri]. L’ottavo emendamento vieta ai funzionari delle carceri di privare i detenuti delle ‘condizioni minime di vita civile. I conservatori ammettono, com’è ovvio, che il sistema carcerario della California è davvero pessimo, ma argomentano che non è ancora così terribile da giustificare un intervento giudiziario e un ordinanza di riduzione della popolazione. Kennedy e i liberal della maggioranza (Breyer, Ginsburg, Sotomayor e Kagan) sostengono in modo convincente che i politici e gli amministratori della California hanno avuto ogni opportunità per affrontare i problemi del sistema, ma li hanno lasciati aggravare anno dopo anno. * Tim Lynch è direttore del progetto di ricerca sulla giustizia criminale del Cato Institute. Autore di numerosi articoli apparsi sui principali quotidiani americani, ha anche curato le raccolte di saggi In the Name of Justice: Leading Experts Reexamine the Classic Article “The Aims of the Criminal Law” e After Prohibition: An Adult Approach to Drug Policies in the 21st Century. Libia: Ong; centinaia di stranieri detenuti e torturati da Cnt, in gran parte tuareg Tm News, 14 settembre 2011 Centinaia di cittadini stranieri, in massima parte tuareg originari del Mali o del Niger, vengono detenuti e torturati dalle nuove autorità libiche: lo afferma l’ong Defense-Etrangers en Lybie, creata nel febbraio scorso da alcune associazioni di maliani e nigerini. Il “solo torto” di questi cittadini stranieri è “l’essere considerati come sostenitori di Muammar Gheddafi”, spiega l’ong in un comunicato, nel quale si chiede al Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) libico di porre fine alle violenze e agli abusi e di rispondere alle accuse secondo le quali decine di persone sarebbero state uccise dalle milizie e seppellite in fosse comuni.