Giustizia: presentata a Milano la “Carta del carcere e della pena” di Susanna Ripamonti Ristretti Orizzonti, 11 settembre 2011 Presentata ieri a Milano la “Carta del carcere e della pena”, proposta per un codice etico-deontologico per giornalisti e operatori dell’informazione che trattano notizie concernenti cittadini privati della libertà o ex-detenuti tornati in libertà. “Quante volte un articolo di giornale ha bloccato riforme importanti che andavano fatte, in tema di carcere e di giustizia...”. Il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, è intervenuto alla presentazione della Carta del carcere e della pena illustrata ieri a Palazzo Marino dagli Ordini dei giornalisti della Lombardia, dell’Emilia Romagna e del Veneto, un codice deontologico dedicato a chi scrive di condannati, detenuti, delle loro famiglie e del mondo carcerario in genere. “Ancora oggi - ha aggiunto Pisapia ci sono mostri sbattuti in prima pagina”. La Carta è il primo passo per arrivare all’approvazione di un codice a livello nazionale che regoli i rapporti tra media e mondo carcerario. “L’informazione non solo riflette, ma orienta l’opinione pubblica e quindi ha una grande responsabilità per evitare di scatenare sentimenti collettivi incontrollati”, ha detto il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, tra i curatori della Carta deontologica. “Il bene fondamentale da tutelare è la dignità delle persone”, ha aggiunto. La Carta afferma sostanzialmente due principi: il primo è che non è ammessa (neanche per i giornalisti) l’ignoranza della legge e sono leggi quelle che consentono a un detenuto di accedere a benefici e misure alternative: la possibilità di riappropriarsi progressivamente della libertà non mette in discussione la certezza della pena. Si tratta dunque di usare termini appropriati in tutti i casi in cui un detenuto usufruisce di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari, evitando di sollevare un ingiustificato allarme sociale e di rendere più difficile un percorso di reinserimento che avviene sotto stretta sorveglianza. Le misure alternative non sono equivalenti alla libertà, ma sono una modalità di esecuzione della pena. Altro principio a cui si fa riferimento nella Carta è il diritto all’oblio. Una volta scontata la pena, l’ex detenuto che cerca di ritrovare un posto nella società, non può essere indeterminatamente esposto all’attenzione dei media che continuano a ricordare ai vicini di casa, al datore di lavoro, all’insegnante dei figli e ai loro compagni di scuola il suo passato. Sono ammesse ovvie eccezioni per quei fatti talmente gravi per i quali l’interesse pubblico non viene mai meno. All’iniziativa erano presenti i presidenti degli Ordini interessati, le direttrici delle più importanti riviste carcerarie, il provveditore regionale alle carceri Luigi Pagano, l’attuale direttore del carcere di Bollate Massimo Parisi e l’ex direttrice Lucia Castellano, oggi assessore alla casa del comune di Milano e un gruppo di detenuti che ha collaborato alla stesura della Carta. Intervenuti anche l’assessore comunale alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino e il presidente della Commissione sicurezza e membro del direttivo della Camera penale Mirko Mazzali. “Questa Carta - ha concluso il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Letizia Gonzales è anche un tentativo di rispondere ad una sorta di imbarbarimento della nostra professione, in tutti i casi nei quali, anche per la fretta e la velocità con cui spesso siamo costretti ad agire, i media finiscono per creare mostri invece di parlare di persone che hanno commesso reati anche mostruosi ma che restano persone”. Giustizia: alla “Carta” ha già aderito l’Ordine dei giornalisti di Lombardia, Emilia e Veneto Omnimilano, 11 settembre 2011 Per promuovere una nuova cultura del carcere, che coinvolga la società civile, e un approccio alla “questione criminale” che non si limiti a fatti di clamore ma approfondisca le problematiche, è nata “La carta del carcere e della pena”, presentata ieri mattina a palazzo Marino e a cui hanno già aderito l’ordine dei giornalisti di Lombardia, Emilia e Veneto. Massima attenzione nel trattamento delle informazioni riguardanti i carcerati, gli ex - carcerati e le loro famiglie, è ciò che il codice deontologico chiede ai giornalisti e agli operatori dell’informazione, una raccomandazione che il gruppo di lavoro formato da rappresentanti sia del mondo delle carceri sia della comunicazione, ha declinato in “10 comandamenti”. Tra i suggerimenti presentati stamani molti riguardano la particolare “delicatezza del processo di reinserimento sociale”, per questo, infatti, la Carta ricorda che “la reiterata pubblicazione di una notizia può recare danni ulteriori a un ex detenuto, rovinandone la reputazione”. Un giornalista, inoltre, secondo i 10 comandamenti, dovrebbe anche “tener conto, nel rapportarsi con il cittadino detenuto, che non sempre è a conoscenza delle dinamiche del mondo dell’informazione”, anche per questo, quindi, “è necessario garantire massima completezza di informazione”. Intervenendo alla presentazione del codice, in una sala che non è riuscita a contenere tutti i cittadini e gli operatori interessati all’argomento, il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida ha voluto ricordare che “Il reato mostruoso non fa un mostro, quindi, nel pieno esercizio dei diritti di libertà dell’informazione, bisogna però rispettare le vittime, i detenuti e le loro famiglie”. In prima fila “per la lotta ai pregiudizi e all’esclusione sociale per i condannati a pene intra o extra murarie”, stamani, sono intervenuti a promuovere la carta tra gli altri anche Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, Susanna Ripamonti, direttrice di Carte Bollate, Carla Chiappini, direttrice di Sosta Forzata e il provveditore regionale carceri Luigi Pagano. Tra i rappresentanti delle istituzioni, oltre all’assessore alle politiche sociali Pierfrancesco Majorino, e il presidente della commissione consiliare sicurezza Mirko Mazzali, ha partecipato all’incontro Lucia Castellano, in doppia veste di assessore ai lavori pubblici e di ex direttrice del Carcere di Bollate. Ricordando con entusiasmo l’esperienza nel carcere modello milanese, Castellano ha poi espresso il suo massimo apprezzamento per l’iniziativa dell Carta. “Il giornalista deve saper aiutare le persone a comprendere la verità e i meccanismi della società che è fatta di bene e male - ha spiegato Castellano - e non deve sparare a zero creando il mostro e sbattendolo in prima pagina”. “Bisogna saper trovare un punto di equilibrio, perché quando l’amore per la legge e quello per la dignità dell’individuo entrano in conflitto chi ci perde è la democrazia: chi ama la legge non può annientare la dignità delle persone, dignità troppo spesso calpestata anche nei confronti di chi è solo indagato oppure neanche quello”. Così il sindaco Giuliano Pisapia ha voluto riflettere sul tema carceri ed informazione intervenendo alla presentazione della “Carta del carcere e della Pena”, nelle sale di palazzo Marino. Giunta, consiglio comunale e sindaco in persona, proprio per bocca del primo cittadino, hanno espresso la volontà di impegnarsi perché il codice da proposta diventi ufficiale, “e sono fiducioso che ce la farete - ha aggiunto Pisapia rivolgendosi alla squadra che l’ha elaborata - perché è già un lavoro di sintesi tra esigenze e richieste di mondi diversi che hanno lavorato insieme per la suo stesura”. Salutando con emozione e entusiasmo, “il passo avanti fatto oggi con la presentazione di questi “10 comandamenti”, il sindaco non ha mancato di ricordare “quante volte un articolo di giornale su un episodio violento sbattuto in prima pagina ha poi bloccato riforme che stavano per essere approvate”. Giustizia: la “battitura” di protesta non è sanzionabile; il Magistrato di Sorveglianza è d’accordo La Sicilia, 11 settembre 2011 Per la seconda volta, nel giro di sei mesi, il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia ha accolto i ricorsi presentati dal detenuto siracusano Alessio Attanasio avverso la sanzione disciplinare dell’ammonizione che gli era stata irrogata dalla Direzione della Casa di Reclusione di Parma in quanto ha inteso protestare con la battitura contro le inferriate di una bottiglia di plastica. La prima volta Attanasio si era messo a battere la bottiglia di plastica contro le inferriate in segno di solidarietà con altri compagni di detenzione che protestavano contro la decisione della direzione della casa di reclusione di non far loro consegnare le foto dei figli, inviate per lettera. Per quella prima “battitura”, ritenuta dalla direzione carceraria un grave illecito disciplinare, Attanasio si vide applicare la sanzione dell’ammonizione. Il detenuto ebbe a impugnare il provvedimento e il Magistrato di Sorveglianza, accogliendo il suo reclamo, annullò la sanzione disciplinare ordinando alla direzione del carcere di cancellare “tutti i provvedimenti conseguenti” in materia di sospensione delle, cosiddette, premialità. A distanza di alcuni mesi da quella decisione, la direzione del carcere ha comminato una nuova sanzione di ammonizione ad Attanasio poiché ha inscenato una seconda protesta attraverso la battitura della bottiglia di plastica contro le inferriate. Questo perché gli agenti di polizia penitenziaria si sarebbero rifiutati di consegnargli “il regola barba”. Ancora una volta il dottor Attanasio (si è laureato in carcere in Scienza delle Comunicazioni) ha preso carta e penna e ha scritto il reclamo contro la sanzione disciplinare e ancora una volta il Magistrato di Sorveglianza gli ha dato ragione, ritenendo legittima la cosiddetta “battitura”. Giustizia: Palma; troppo detenuti in attesa di processo, rivedere regole carcerazione preventiva Tm News, 11 settembre 2011 Il ministro della Giustizia, Francesco Nitto Palma, parla ad Atreju, la festa dei giovani del Pdl, di una possibile riforma della carcerazione preventiva. “Mi chiedo - annuncia a sorpresa il Guardasigilli - se non bisogna andare a una riforma della custodia cautelare in carcere, risalendo al principio del nostro codice che dice che la custodia cautelare in carcere è l’estrema ratio. E voglio ricordare, affinché i giornalisti non mi attribuiscano strani pensieri, che sono parole anche del primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo e del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano”. Palma, per dar forza alle sue parole, ricorda poi che “all’epoca di Tangentopoli nacque una discussione di dottrina perché vi erano dei provvedimenti del pool di Milano con cui si negava la scarcerazione a un imputato perché non aveva parlato. Non credo sia cambiato molto dall’epoca”. Dal palco, inoltre, Palma ha sottolineato che l’eccedenza dei detenuti rispetto alla capienza massime delle carceri italiane è di 1.500 persone. Il Guardasigilli afferma che “se è vero che la custodia cautelare deve essere applicata come estrema ratio bisogna trovare un sistema alternativo pur mantenendola per i reati di maggiore gravità”. E spiega: “Abbiamo 67.500 detenuti in carcere di cui il 40% è in regime di custodia cautelare e ogni anno c’è il turn over di circa 90 mila persone che non hanno la sentenza. Bisogna intervenire con saggezza e prudenza”. Giustizia: Sappe; nelle carceri oltre 67mila, uno su 3 è straniero, uno su 4 tossicodipendente Ristretti Orizzonti, 11 settembre 2011 “Dei circa 67mila detenuti oggi presenti nelle 206 carceri italiane, uno su 3 è straniero, uno su 4 è tossicodipendente e considerevole è anche la percentuale di detenuti con malattie mentali. Tutto questo va ad aggravare le già pesanti condizioni lavorative delle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, oggi sotto organico di ben 5mila unità. Il dato importante da considerare è che i detenuti affetti da tossicodipendenza o malattie mentali, come ogni altro malato limitato nella propria libertà, sconta una doppia pena: quella imposta dalle sbarre del carcere e quella di dover affrontare la dipendenza dalle droghe o il disagio psichico in una condizione di disagio, spesso senza cure adeguate e senza il sostegno della famiglia o di una persona amica. Forse è il caso di ripensare il carcere proprio prevedendo un circuito penitenziario differenziato per questi tre tipi di detenuti, favorendo nel contempo rapide espulsioni dal territorio italiano dei detenuti stranieri.” Lo scrive in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, che sottolinea pure l’incidenza degli stranieri in carcere: "Il Governo dovrebbe prendere della sostanziale inefficacia dei trattati bilaterali in materia di trasferimento dei detenuti stranieri nelle carceri dei Paesi di provenienza e ciò dovrebbe, ad avviso del primo e più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria – il Sappe, indurre l’Esecutivo Berlusconi, a cominciare dal Ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma, ed il Parlamento tutto a rivedere certe norme eccessivamente garantiste, che alla fine non consentono di risolvere criticità e problematiche importanti, come quella legata appunto alla eccessiva presenza di stranieri nelle carceri italiane.” “Non è possibile” prosegue il Sappe “che chi si è reso responsabile di reati in Italia, più o meno gravi, abbia la facoltà di decidere come e dove scontare la propria pena. Oggi abbiamo in Italia 67.104 detenuti: ben 24.155 sono stranieri, 4.966 comunitari e 19.189 extracomunitari. Questa tipologia di detenuti determina una palese accentuazione delle criticità con cui quotidianamente devono confrontarsi le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria. Si pensi, ad esempio, agli atti di autolesionismo in carcere, che hanno spesso la forma di gesti plateali, distinguibili dai tentativi di suicidio in quanto le modalità di esecuzione permettono ragionevolmente di escludere la reale determinazione di porre fine alla propria vita. Le motivazioni messe in evidenza sono varie: esasperazione, disagio (che si acuisce in condizioni di sovraffollamento), impatto con la natura dura e spesso violenta del carcere, insofferenza per le lentezze burocratiche, convinzione che i propri diritti non siano rispettati, voglia di uscire anche per pochi giorni, anche solo per ricevere delle cure mediche. Ecco queste situazioni di disagio si accentuano per gli immigrati, che per diversi problemi legati alla lingua e all'adattamento pongono in essere gesti dimostrativi. Nel solo 2010, ben 3.506 dei 5.703 atti di autolesionismo che si sono verificati nelle carceri italiane sono stati posti in essere da detenuti stranieri. Noi crediamo che gli stranieri detenuti in Italia dovrebbero essere espulsi per scontare la pena nelle carceri dei Paesi di origine”. Il Sappe sottolinea che tra i detenuti stranieri in Italia i più numerosi sono i marocchini (4.907), seguiti da rumeni (3.597), tunisini (3.132) e albanesi (2.723). Giustizia: Vitali (Pdl); problema assunzioni poliziotti penitenziari deve essere risolto da Tremonti Dire, 11 settembre 2011 “La Fp-Cgil svela il segreto di pulcinella quando afferma che la ragioneria dello stato ha negato il suo assenso per l’assunzione di 1.600 agenti di polizia penitenziaria”. È quanto afferma Luigi Vitali, Responsabile Nazionale dell’Ordinamento penitenziario Pdl, replicando alla presa di posizione del sindacato Funzione Pubblica Cgil. “Quello che non dice è che Alfano prima e Palma dopo hanno fatto quello che dovevano per assicurare dette assunzioni. Sono certo - continua Vitali - che il ministro Tremonti risolverà la questione sia per alleviare il grave disagio che vive il personale all’interno delle nostre carceri sia per non legittimare il Parlamento, del quale egli è autorevole componente, che sul punto - ha concluso Vitali - ha legiferato con la Legge del 24 novembre 2010 n. 199”. Giustizia: Sap; contro sprechi accorpare tutte le forze ordine sotto il ministero dell’Interno Agi, 11 settembre 2011 Circa 350mila uomini che costituiscono polizia di Stato, carabinieri, guardia di finanza, forestale e polizia penitenziaria potrebbero essere accorpati sotto un unico ministero, quello dell’Interno. Lo chiede in una nota il Sap, sindacato autonomo di Polizia riferendosi alla manovra in atto. Secondo il sindacato la soluzione tra l’altro “sarebbe in linea e auspicata anche dalle norme europee che prevedono un’unica polizia a ordinamento civile”. In un momento in cui “le casse dello Stato arrancano - aggiunge la nota - questa soluzione permetterebbe di poter gestire l’intero apparato garantendo una maggior sicurezza ad un costo inferiore”. Il Sap aggiunge che “studi di settore quantificano in più di 4 miliardi il risparmio dell’accorpamento, pari all’aumento di un punto percentuale Iva”. La soluzione quindi per il Sap oggi è quella di “tagliare gli sprechi e non le risorse”. Per il sindacato “un altro paradosso è il numero unico di emergenza, il 112, previsto dall’Ue e ancora oggi non operativo in Italia”. E avverte: “Se non si farà presto, ciò sottoporrà l’Italia a una maxi multa da parte della Ue pari a circa 10 milioni”. Il Sap infine stigmatizza il fatto che il governo abbia escluso dal confronto per la manovra parti sociali, sindacati e rappresentanza dei comparti sicurezza, difesa e soccorso pubblico. Giustizia: dal 2000 suicidi 90 poliziotti penitenziari, 1 direttore di istituto e 1 dirigente regionale www.poliziapenitenziaria.it, 11 settembre 2011 Nel piazzale del cimitero di Foglizzo, nel Torinese, si è consumato il tragico gesto che ha portato questa notte un agente di polizia penitenziaria in servizio presso il carcere Lorusso e Cutugno di Torino a suicidarsi con un colpo di pistola alla testa. A darne notizia il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. “Siamo sgomenti e sconvolti. A pochi mesi dal suicidio di altri appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, in servizio a Mamone Lodè, Caltagirone e Viterbo, piangiamo la vittima di un’altra tragedia che ha sconvolto i baschi azzurri”, dice Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Non sono ancora chiare le ragioni che hanno spinto l’uomo, 43 anni, a compiere il gesto estremo. Siamo impietriti - prosegue Capece - per questa nuova immane tragedia. Ci stringiamo con tutto l’affetto possibile al dolore indescrivibile dei familiari, degli amici, dei colleghi”. “Dal 2000 ad oggi - ricorda Capece - si sono uccisi 90 poliziotti penitenziari, un direttore di istituto e un dirigente regionale. Quattro suicidi in pochi mesi sono sconvolgenti. Da tempo sosteniamo che bisogna comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto”. Il Sappe chiede “al Ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma di farsi carico in prima persona su questo importante problema. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: l’istituzione di appositi Centri specializzati in grado di fornire un buon supporto psicologico agli operatori di polizia - garantendo la massima privacy a coloro i quali intendono avvalersene - può essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero difficile, all’interno di un ambiente particolare quale è il carcere, non disgiunti dai necessari interventi istituzionali intesi a privilegiare maggiormente l’aspetto umano ed il rispetto della persona nei rapporti gerarchici e funzionali che caratterizzano la polizia penitenziaria. Su queste tragedie non possono e non devono esserci colpevoli disattenzioni”. Lettere: di carcere si muore… si muore e non gliene frega niente a nessuno! Liberazione, 11 settembre 2011 Ci duole profondamente riprendere la penna in mano per segnalare l’ennesimo omicidio avvenuto nel carcere di Rebibbia. Abbiamo scritto “omicidio” senza temere di essere smentiti. La morte di un nostro compagno è avvenuta sabato 3 settembre, ma era annunciata già da tempo. La cronaca e la cronologia dei fatti è, a parte minime varianti, la fotocopia di decine di fatti analoghi che l’Amministrazione penitenziaria archivia senza che si trovi un responsabile, e i mass media liquidano come casi di malasanità penitenziaria. Per noi si tratta di qualcosa che va ben oltre la malasanità, ed è per questo che usiamo il termine “omicidio”. Il nostro compagno era affetto da numerose patologie come il diabete, l’insufficienza respiratoria aggravata dalla comparsa di polipi nasali e del cavo orale, e da altre problematiche che lo rendevano un soggetto ad alto rischio e, senza ombra di dubbio, incompatibile col regime carcerario. È stato trovato morto nel suo letto, senza che il personale infermieristico e la custodia si accorgessero di nulla nonostante dovessero, al mattino, somministragli una delle quattro dosi giornaliere di insulina. “Radio Carcere” parla di infarto, ma poco importa allo stato attuale sapere la causa o le cause del decesso perché ciò, se si fosse intervenuti per tempo, con maggiore professionalità, competenza e umanità, non sarebbe dovuto accadere. Ci appare inutile ripetere ciò che da decenni andiamo gridando: di carcere si muore, si muore e non gliene frega niente a nessuno! Questo povero cristo, così come coloro che lo hanno preceduto e coloro che - purtroppo - andranno a venire, andrà ad arricchire le già nutrite statistiche di decessi in carcere, che già annoverano cifre scandalose per un paese che ha la pretesa di autodefinirsi civile. Ci sarà un’inchiesta che approderà a un nulla di fatto. (...). Di carcere si muore e tutta la società cosiddetta civile ne è responsabile. Nessuno escluso! La loro compassione a “gettone” non ci serve, né ci aiuta, occorre mettere le mani nel problema e sviscerarlo seriamente a costo di sporcarsele quelle mani e perdere qualche prezioso voto politico. Siamo stanchi di parlare di morti e non smetteremo mai di combattere per il nostro diritto alla salute, alla dignità e alla libertà. Non sentirete da parte nostra lamentele pietose e vittimistiche, il nostro è e sarà un grido d’accusa contro chi finge ipocritamente e vigliaccamente di avere “a cuore” i problemi dei carcerati, ma che dei reclusi non gliene frega nulla. Non andiamo oltre. Salutiamo con amore e rabbia il nostro compagno con l’augurio che i responsabili di tanto vile cinismo e indifferenza siano divorati dai rimorsi di coscienza, ammesso - e non ci crediamo - ne abbiano una. Alcuni detenuti di Rebibbia N. C. Lettere: incompatibilità alla detenzione per gravi ragioni di salute e malasanità carceraria di Antonio Cappelli Terra, 11 settembre 2011 Sono numerose ormai le disposizioni, formulate dagli organi di sorveglianza del sistema carcerario, che pur riconoscendo le carenze spesso rilevanti dell’attuale organizzazione sanitaria degli istituti di pena respingono le istanze di incompatibilità alla detenzione per gravi ragioni di salute affermando che in questi casi la strada da percorrere non è quella delle misure alternative bensì quella, ben più ardua e spesso soltanto ipotetica, del miglioramento del modo di operare dei servizi. Sul piano formale evidentemente queste decisioni sono ineccepibili ma in termini sostanziali ci si trova di fronte all’evidente incoerenza tra l’astratta formulazione delle norme e una molto concreta realtà dello stato di fatto rappresentata da carenze organizzative che rendono assolutamente problematiche e spesso impossibili efficaci misure di assistenza per detenuti che si trovano in gravi condizioni di salute. Le conseguenze di questa incoerenza le pagano purtroppo soltanto i detenuti stessi che si vedono una volta di più denegato il diritto alla salute, da una parte per l’inefficienza dell’istituzione che dovrebbe tutelarli e dall’altra per l’impossibilità legalmente sancita di provvedere in maniera autonoma a procurarsi le necessarie forme di assistenza. Se si tiene conto del fatto che le carenze del sistema sanitario operante nelle carceri dipendono in parte dalla scarsità dei fondi disposti per il settore e in parte dall’evidente condizione di crisi in cui versa l’intero Servizio Sanitario Nazionale, non si può sperare che le incoerenze di cui sopra si è detto vengano sanate in tempi rapidi. Se nulla cambia dunque per molto tempo ancora chi si ammala o giunge già malato in carcere è destinato a peggiorare o morire nell’indifferenza di organi giudiziari che conoscono il problema ma non possono risolverlo e di istituzioni politiche che potrebbero risolvere il problema ma lo disconoscono. Un maledetto imbroglio, insomma, dal quale si potrebbe uscire soltanto attraverso un coerente impegno di consapevolezza e di responsabilità degli organi politici competenti in materia. A giudicare dall’attenzione che questi organi hanno sinora posto per i problemi reali della popolazione carceraria, le speranze sono scarse. Fino a quando infatti il dibattito e termini del contendere saranno limitati, come oggi sono, ai dilemmi sull’amnistia o ai problemi del sovraffollamento, non si può sperare che si affrontino e si risolvano altre rilevanti problematiche con le quali quotidianamente si scontra chi vive nel concreto la realtà carceraria. Morte "misteriosa" di un detenuto 30enne nel carcere di Velletri Ristretti Orizzonti, 11 settembre 2011 Ennesima "morte di carcere", questa volta nella Casa Circondariale di Velletri. Danilo Fabiani, 30 anni, affetto da gravi disturbi psichiatrici e da obesità (pesava 150 kg) è stato ritrovato morto nella sua cella. Era in carcere per reati contro il patrimonio, aveva problemi di tossicodipendenza ed era in cura psicofarmacologica (sembra che la terapia gli sia stata cambiata poco prima del decesso). Non si conoscono ancora le cause della morte (il primo responso parla genericamente di arresto cardiocircolatorio), in attesa dei risultati dell'autopsia, che è stata disposta dalla Procura. L'ultimo decesso avvenuto nel carcere di Velletri risale allo scorso 13 febbraio, quando morì suicida il 37enne Gianluca Corsi. Con la morte di Fabiani salgono a 140 i detenuti che hanno perso la vita nelle carceri italiane dall'inizio del 2011 (45 i suicidi). Dal 2000 ad oggi il totale dei detenuti "morti di carcere" è di 1.885 (i suicidi accertati sono stati 671, ma molti altri casi rimangono dubbi). Nello stesso periodo si sono tolti la vita anche 90 poliziotti penitenziari, 1 direttore di istituto (Armida Miserere) e 1 provveditore regionale (Paolo Quattrone). Agrigento: morte di Narcis Manole; la Procura indaga per istigazione o aiuto al suicidio La Sicilia, 11 settembre 2011 La Procura della Repubblica di Agrigento indaga per l’ipotesi di reato, a carico di ignoti, di “istigazione o aiuto al suicidio”. Ad alcuni giorni dalla morte di Narcis Manole, il pregiudicato di 27 anni di origine romena, trovato in fin di vita in una cella del carcere di contrada Petrusa, la vicenda non può ancora considerarsi conclusa. Il ragazzo arrestato una decina di giorni fa perché aveva picchiato un anziano e due carabinieri di Canicattì, pare sia stato rinvenuto con i chiari segnali dell’impiccagione, dopo avere utilizzato un lenzuolo in dotazione alla cella del penitenziario. L’intervento degli agenti della polizia penitenziaria fu rapido, ma inutile visto che Manole spirò dopo alcuni minuti all’interno dello stesso penitenziario. I parenti del pluripregiudicato non si diedero pace, credendo che il congiungo non avesse mai pensato o tentato di suicidarsi. Rivolgendosi all’avvocato Paolo Ingrao hanno chiesto che venissero percorse tutte le strade possibili per fare luce sulla faccenda. E come loro anche il sostituto procuratore della Repubblica Luca Sciarretta intende fare chiarezza, tanto da avere disposto l’autopsia svoltasi venerdì scorso nella camera mortuaria dell’ospedale San Giovanni di Dio di Agrigento. Per la famiglia romena era presente il medico legale di parte, Antonino Mammola da Caltanissetta, mentre il perito della Procura era Livio Milone. L’esito dell’esame autoptico verrà reso noto entro i prossimi 60 giorni, salvo richieste di proroga. Nulla è trapelato, ma di certo c’è che tutti gli organi vitali sono stati attentamente controllati, per verificare eventuali danni. Sono stati prelevati liquidi biologici per accertare lo stato di salute complessivo del romeno al momento del decesso. La salma del ragazzo rimane però nella cella dell’ospedale di Agrigento. I parenti dicono di non avere soldi per trasferire il corpo a Canicattì, né tanto meno per rimpatriarlo in Romania. Pare che dal Comune non abbiano aperto spiragli in tal senso, tanto che l’avvocato Ingrao domani mattina dovrebbe presentare una richiesta ufficiale al sindaco per sollecitare almeno la concessione di un loculo senza tanti fronzoli e temporaneo, in attesa di trasferire la salma. Intanto, sul caso di Narcis Manole è intervenuto il deputato regionale del Pd Pino Apprendi, ieri in visita al Petrusa. “Il recente suicidio di un giovane ha evidenziato - aggiunge - tutta la drammaticità di questa situazione di emergenza nelle carceri - ha detto Apprendi - dal momento che l’uomo, in cella da sei giorni, non aveva ancora incontrato uno psicologo nonostante dopo tre giorni gli avessero prescritto una visita medica”. Roma: schizofrenico litiga con la madre, interviene la polizia e l’uomo muore con 12 costole rotte Corriere della Sera, 11 settembre 2011 Il fratello: gli sono state rotte 12 costole, lo ha dimostrato l’autopsia. Aveva lesioni al fegato. Una lite tra madre e figlio esce dalle mura domestiche per concludersi con un morto. Era lunedì scorso ma solo ora, con i risultati dell’autopsia in mano, i familiari denunciano. Sostengono che Luigi Marinelli, 49 anni, malato di schizofrenia, invalido civile (con pensione d’infermità), un passato da tossicodipendente, è stato pestato “dalla polizia come Cucchi e Aldrovandi”. Dice il fratello Vittorio: “Quel giorno Luigi era su di giri. Per la prima volta ha alzato le mani su nostra madre, è vero. Ma dico che contro di lui gli agenti hanno usato metodi violenti”. Chiamati a spegnere la lite fra una madre di ottant’anni e un figlio di quasi cinquanta (litigio per soldi: lui aveva speso diecimila euro in tre settimane e ne chiedeva altrettanti, lei rifiutava), quattro poliziotti del commissariato di zona rischiano ora una denuncia per omicidio colposo. Vittorio Marinelli, avvocato civilista, uno dei fratelli della vittima, quel lunedì c’era. Arrivato a discussione già iniziata. Quando sua madre aveva telefonato al 113 per evitare il peggio e gli agenti erano in salotto. “Due volanti, in casa c’erano tre poliziotti parlavano con mio fratello tranquillamente. Cercavano di farlo ragionare. Ho apprezzato. Gli dicevano: “Ma come, noi guadagniamo 1.300 euro al mese e tu ne butti via diecimila in pochi giorni?” Ma poi, quando Luigi ha detto di voler uscire di casa, con in mano l’assegno che a quel punto mia madre gli aveva firmato, loro lo hanno bloccato. Sono arrivati i rinforzi. È subentrato un quarto agente dai modi bruschi. Lo hanno ammanettato con la forza spingendogli il viso contro la porta. Lui era cianotico: “Toglietegli le manette”, gli abbiamo detto, ma non si trovavano le chiavi e il tempo passava. Mio fratello stava soffocando”. La procura ha aperto un fascicolo, ma sarà la consulenza medica a stabilire le eventuali responsabilità. Intanto l’esito dell’autopsia, secondo il legale di famiglia, Antonio Paparo, parla di dodici costole toraciche rotte. Grossolano tentativo di rianimazione? Possibile, filtra dalla procura. “Chiedevano: “Come si fa?, come facciamo?”, racconta Marinelli. In attesa dei risultati della perizia madre e fratello dell’uomo sono stati già ascoltati dal pm Luca Tescaroli. Ma il legale Paparo, dice che il verbale dell’autopsia è già di per se sufficiente: “È stato picchiato e qui c’è il referto. Lesioni al fegato e un’emorragia interna. Marinelli è stato pestato”. Gorgona: il carcere sostenibile; detenuti al lavoro in campi o fattoria, una realtà unica in Italia di Ilaria Sesana Avvenire, 11 settembre 2011 La giornata di Salvatore inizia all’alba. “Sveglia alle cinque e alle sei si esce per radunare pecore e le capre. Dopo la mungitura raccogliamo il latte e portiamo gli animali al pascolo. Stessa storia dalle due alle quattro del pomeriggio. Poi si ritorna in cella”. Palermitano, 43 anni, si accarezza la lunga barba brizzolata. “Nel carcere dove stavo prima non c’era modo di lavorare - aggiunge. E così, nel 2008, ho fatto richiesta di essere trasferito a Gorgona”. Da poco più di dieci mesi si trova su questa piccola isola dell’arcipelago toscano, a un’ora di navigazione da Livorno. L’ultima isola - carcere d’Italia è un fazzoletto di terra grande 2,5 chilometri quadrati, accarezzato da un vento tiepido che porta con sé i profumi del rosmarino e del mirto. Tutto attorno, un mare cristallino e incontaminato. Gorgona è un posto unico. Lo si intuisce non appena si mette piede sul piccolo molo e (consegnati i cellulari) ci si incammina lungo la strada sterrata che porta al minuscolo borgo. Dalla parte opposta scende un trattore con tre ragazzi a bordo: “Stiamo andando all’Agricola, dobbiamo spostare il fieno”. “Buon lavoro”, risponde l’agente. Nel 1869 una parte dell’isola venne trasformata in carcere e oggi è una delle ultime quattro colonie penali agricole attive in Italia. Giuseppe Fedele, responsabile dell’area educativa, è la memoria storica di Gorgona. Da 25 anni lavora sull’isola e non l’ha mai lasciata: “Mi sono innamorato di questo posto in sei mesi”, dice. Attualmente ci sono poco meno di novanta detenuti: 47 italiani e 40 stranieri. “Per essere trasferiti qui devono presentare una richiesta e rispettare alcuni requisiti”, spiega Fedele. Residuo pena massimo di dieci anni, non aver avuto rapporti disciplinari almeno negli ultimi due anni, non avere problemi di dipendenze da alcol e droga, essere in buone condizioni di salute. Per raggiungere la fattoria del carcere bisogna arrampicarsi lungo i tornanti sterrati, a bordo di una Campagnola della polizia penitenziaria. Francesco Presti, l’agronomo di Gorgona, sta organizzando il lavoro per la vendemmia e la raccolta delle olive. “Lo scorso anno siamo riusciti a produrre circa otto quintali d’olio biologico - spiega. Anche la verdura che produciamo e i frutti della vigna sono bio. Del resto Gorgona fa parte del Parco dell’Arcipelago toscano e non potrebbe essere diversamente”. Tutti i prodotti vengono consumati direttamente sull’isola: ci sono infatti un frantoio, una cantina per vinificare, un macello e un caseificio dove viene lavorato il latte. Altri detenuti invece sono impegnati nella cura quotidiana di maiali, oche, galline, asini e cavalli. Ma la presenza degli animali sull’isola non si spiega solo con l’esigenza di imparare un mestiere o portare in tavola una bistecca. “L’animale non giudica chi lo nutre e si prende cura di lui. Non gli interessa se ha precedenti - spiega Marco Verdone, veterinario dell’isola. E questo è molto importante in un ambiente in cui, invece, il giudizio è dominante”. I detenuti della Gorgona sono consapevoli di essere fortunati: quasi tutti hanno toccato con mano il sovraffollamento e il vuoto di giornate trascorse in cella senza far nulla. Nei loro occhi brilla voglia di riscatto, l’orgoglio di chi ha imparato un mestiere ed è orgoglioso di farlo al meglio. “Non avevo mai visto una mucca, ho fatto il cuoco per tutta la vita”, sorride Ivan, gigante biondo di 45 anni. Accarezza gli animali e li chiama per nome, uno ad uno. In una piccola stanza attigua a quella della mungitura un altro detenuto compila un elenco che consegna al veterinario: sono terminati alcuni prodotti della piccola farmacia omeopatica della fattoria e occorre rimpinguare la scorta. Dal 1993 infatti sull’isola non si usano ormoni né cortisonici. E anche il ricorso agli antibiotici è ridotto al minimo essenziale. Ma non solo, i detenuti hanno imparato a dosare questi rimedi e li usano in modo autonomo, cosa che non potrebbero fare con i farmaci tradizionali. Un progetto impegnativo, quello di Gorgona, che ha tutte le carte in regola per essere il fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano. Ma la crisi morde anche qui. Sono stati infatti ridotti gli stanziamenti per le mercedi, gli stipendi dei detenuti. “Di conseguenza si è ridotto anche il numero di ore lavorative - spiega Giuseppe Fedele - solo gli addetti all’Agricola, che non possono lasciare gli animali, riescono a fare sei ore al giorno. Tutti gli altri sono fermi a quattro”. Gorizia: Sappe; il carcere chiuderà entro mese, personale destinato al trasferimento Il Piccolo, 11 settembre 2011 È una voce. “Insistente”, aggiunge il Sappe, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria. “Si vocifera che la casa circondariale di Gorizia potrebbe essere chiusa viste le condizioni di degrado in cui versa”, denuncia Vito Marinelli, rappresentante di quel sindacato. Ci sarebbe anche una data: “Il carcere potrebbe essere smantellato entro questo mese. E il personale, che fine farebbe? Secondo le indiscrezioni, dovrebbe essere trasferito in sedi limitrofe, come Trieste, Pordenone e Tolmezzo. Non nascondo che siamo preoccupati, anzi molto preoccupati”. Marinelli ricorda che attualmente lavorano a Gorizia 50 agenti di polizia penitenziaria, mentre i detenuti sono 32 complessivamente. “Ci auguriamo che il mondo politico intervenga e faccia chiarezza su quello che ci viene descritto non come una boutade ma come una possibile realtà. Qui, lavorano parecchie persone che hanno una famiglia, figli e sono radicate in questa città e in questa provincia. È chiaro che qualsiasi tipo di trasferimento a non meglio definite sedi “limitrofe” costituirebbe un disagio sicuro per i lavoratori”. “Ci sentiamo un po’ a rischio”, aggiunge il Sappe, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Non è la prima volta che si parla di chiusura del penitenziario goriziano. Anche qualche mese fa, uscì una notizia simile. Poi, ci fu il pronto intervento del sindaco Romoli che, in un incontro con l’allora ministro Alfano, scongiurò “almeno per il momento” un simile scenario. Ma oggi, quel dicastero è retto da un’altra persona. Catanzaro: Cisl-Fns; manca la carta da stampanti, impossibile spedire lettere e fax Gazzetta del Sud, 11 settembre 2011 Carta, penna e calamaio. Erano questi i tre elementi che un tempo non dovevano mai mancare negli uffici pubblici. Oggi, il calamaio non occorre più, le penne hanno infatti una cartuccia d’inchiostro autonoma, e i fogli di carta dovrebbero essere di facile reperibilità oppure sostituiti dai fogli elettronici dei personal computer. O no? Il dubbio sorge alla luce di quanto denuncia il segretario provinciale della Cisl-Fns, Eugenio Barrilli, che non esita a definire “scandaloso quanto sta accadendo al penitenziario di Siano, con il personale della Polizia penitenziaria bloccato per mancanza di carta”. Di fatto, la casa circondariale “ormai da giorni è senza carta per far funzionare le fotocopiatrici e i fax”, riferisce l’esponente sindacale, con il personale che non può ricevere o inviare nessuna comunicazione che abbia natura cartacea. “È risaputa la carenza di personale da sempre denunciata dalla Cisl - Fns - spiega Barrilli - ma ora si è toccato il fondo. Grazie all’impegno del personale che ha riciclato tutti i fogli e stampati utilizzabili - racconta ancora il sindacalista - si è evitata fino ad oggi la grave paralisi generale che ha però visto i dipendenti degli uffici parzialmente inoperosi e increduli per via del blocco forzato”. Da qui parte il suo “richiamo” nei confronti dell’amministrazione penitenziaria calabrese “che - sostiene - non riesce a riprendersi da una serie di gravi problematiche che stanno diventando croniche e deleterie per il personale, orfano da anni di un provveditore regionale fisso. I conti non tornano e i debiti aumentano, colpa di chi se non vi è quel minimo di sostegno dai livelli superiori?”. La carenza di carta si ripercuote anche sui registri, con la conseguenza che il personale è costretto ad arrangiarsi “fotocopiandone i fogli per poi spillarli e adattarli al posto degli originali in decine e decine di posti di servizio, motivo anche questo che crea un consumo di carta eccessivo”. Tra le cause all’origine del problema il sindacato pone il mancato compimento della “rivoluzione informatica”: “Oggi, nel 2011, non c’è la possibilità di comprare dei computer che sostituirebbero il cartaceo, abbattendone i costi. È dunque tristemente normale che decine di poliziotti penitenziari debbano aspettare la “grazia”, andare a elemosinare l’ultimo foglio di carta o addirittura portarsela da casa per stampare scritti urgenti. E lo stesso vale per gli ospiti del penitenziario, che hanno difficoltà ad avere gli stampati/modelli per le varie richieste all’amministrazione o all’autorità giudiziaria”. Insomma, è un quadro sconfortante quello tracciato da Barrilli, che paventa azioni di protesta in assenza di interventi risolutivi. Interventi che dovrebbero anche scongiurare la messa a rischio “delle missioni e degli straordinari per i quali da anni i dipendenti aspettano il saldo dell’amministrazione”. E se le carceri hanno problemi con la carta, la medesima situazione si sta vivendo in Tribunale, precisamente nella Prima sezione penale. Ormai da tempo il personale sta infatti ingegnandosi come meglio può per ovviare alla carenza di carta: nella fattispecie viene riciclata quella già utilizzata. Una soluzione che appare del tutto normale ma che potrebbe però causare potenziali inconvenienti legati al contenuto dei fogli utilizzati: potrebbero infatti finire per essere riutilizzati dei fogli sui quali sono state trascritte, magari, intercettazioni telefoniche (che non sono state però inserite in un processo) o qualsiasi altro tipo di atto che, pur appartenendo al passato e alla “carta straccia”, potrebbe però avere ancora un peso, con tutte le conseguenze del caso in termini di privacy e segretezza. Lucca: il gruppo volontari del carcere lancia un appello “serve lavoro per i detenuti” Il Tirreno, 11 settembre 2011 L’Associazione Gruppo Volontari Carceri chiede maggiore attenzione al percorso avviato in questi ultimi 2 anni e rivolto ai soggetti pubblici titolato “L’Associazione interroga le Istituzioni”. Sulla emergenza “lavoro fuori e dentro il carcere” l’associazione in particolare chiama le istituzioni a misurarsi concretamente. L’appello è stato rivolto anche alla Provincia quale interlocutore privilegiato che assume in sé compiti di coordinamento, di monitoraggio, di specifiche competenze. L’associazione ricorda inoltre il protocollo d’intesa sul carcere del 2008, strumento innovativo che vede soggetti pubblici e privati impegnati su un fronte comune di “sostegno alle persone detenute e di rinserimento sociale” anche attraverso il gruppo istituzionale che comprende enti, coop, Camera di Commercio e associazioni di categoria. “Siamo convinti che i progetti, le intuizioni, il buon governo creativo - dice Silvana Giambastiani, presidente del gruppo - passino attraverso uomini che, sia nel pubblico che nel privato, vogliono spendersi per il bene comune. “Perché non riattivare allora i percorsi, che già sono stati individuati e gli strumenti già esistenti, che hanno reali potenzialità culturali e operative di incidere? Perché ancora non investire in questo ampio patrimonio umano di detenuti ed ex detenuti che attraverso il lavoro e l’accompagnamento possono aspirare a riscattarsi anche espiando la pena? “Perché non rispondere all’appello affinché si crei un “tavolo trasversale della politica” che, risparmiandoci la passerella agostana delle visite dei politici in carcere, affronti, da un osservatorio qualificato, le problematiche carcerarie in vista di effettive risposte ai bisogni emergenti?”. Il gruppo, presente nella casa circondariale con 10 volontari e con diverse progettualità ed operatività, ricorda che anche l’assessore al sociale del Comune lancia un invito - appello ad agire di concerto in un ambito territoriale provinciale ed anche con segnalazioni al Ministero e alla Regione. Caltanissetta: Apprendi (Pd); in carcere situazioni ad altissimo rischio, necessari interventi La Sicilia, 11 settembre 2011 “Servono interventi urgenti nelle carceri di Agrigento e Caltanissetta, dove si vivono ogni giorno situazioni ad altissimo rischio: i recenti fatti di cronaca dimostrano, purtroppo, che si deve agire immediatamente per evitare ulteriori tragedie”. Lo dice Pino Apprendi, deputato regionale del Pd, che ieri ha visitato gli istituti penitenzieri delle due città siciliane. “Il sovraffollamento è evidente - aggiunge - e le condizioni di vita sono di estremo disagio, con celle strette e piccole, e la possibilità di fare la doccia solo tre volte la settimana. Inoltre il numero di agenti della Polizia penitenziaria è solo formalmente in linea con la pianta organica, che però risale al 2001”. “C’è poi un altro problema - continua Apprendi - le previsioni di visita con lo psicologo sono del tutto inaccettabili: si prevedono appena 7 ore al mese a Caltanissetta da dividere per 350 detenuti, e 10 ore al mese ad Agrigento per 450 detenuti. E proprio ad Agrigento il recente suicidio di un giovane ha evidenziato tutta la drammaticità di questa situazione, dal momento che l’uomo, in carcere da sei giorni, non aveva ancora incontrato uno psicologo nonostante dopo tre giorni gli avessero prescritto una visita psichiatrica”. “Insomma - conclude Apprendi - serve un intervento urgente per fare in modo che l’emergenza carceraria in Sicilia possa finalmente essere affrontata con i mezzi necessari”. Aosta: “Il dopo carcere: quali prospettive?”, il 6 ottobre convegno alla biblioteca regionale www.aostaoggi.it, 11 settembre 2011 “Il dopo carcere: quali prospettive?”. Il quesito è la “colonna portante” del confronto - dibattito, promosso dall’Associazione Valdostana Volontariato Carcerario il 6 ottobre prossimo, alle 17,30, nel salone della biblioteca regionale di Aosta. Un’iniziativa organizzata per ricordare, innanzitutto, l’anno del volontariato e per sensibilizzare i cittadini sulle difficoltà, molto spesso rilevanti, degli ex detenuti. Piera Asiatici, presidente dell’Associazione, esprime il concetto base della tavola rotonda: “Molte persone non si pongono il problema della vita nel dopo carcere. Quali sono le aspettative di chi ha alle spalle un percorso travagliato? È fondamentale instaurare nella gente una coscienza civica nei confronti di chi ha infranto la legge per i più svariati motivi”. All’iniziativa, patrocinata dall’assessorato regionale alla Sanità, interverranno l’assessore Albert Lanièce; il dirigente dell’amministrazione penitenziaria Piemonte/Valle d’Aosta Marco Bonfiglioli; il direttore del penitenziario valdostano Domenico Minervini; Marisa Rey responsabile del Centro del Diritto del Lavoro Disabili e Svantaggiati del Dipartimento Politiche del Lavoro e Formazione; Silvia Messina, responsabile della sede del Ser Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna); Don Aldo Armellin, direttore della Caritas diocesana e Piera Asiatici. Moderatore Flavio Curto, Difensore civico. La libertà riacquistata può comportare, sovente, l’ingresso nel baratro della solitudine, dell’emarginazione, della depressione. Molti ex detenuti si trovano da soli ad affrontare un mondo da cui sono stati assenti per anni. Una società che può anche essere cambiata e che non sempre è disposta ad accettarli e a riaccompagnarli nel difficile cammino del reinserimento famigliare e lavorativo. Il passato offusca il presente, annullando il futuro. “La “tavola rotonda” - riprende Piera Asiatici - offrirà al pubblico l’opportunità di intervenire. Di porre domande ai relatori e di dare suggerimenti per iniziative mirate al rientro in società di ex detenuti”. È opinione comune che le varie galere siano popolate da delinquenti incalliti e irrecuperabili. “Nulla di più fuorviante - afferma la presidente dell’Associazione Valdostana Volontariato Carcerario. Nella “Casa Circondariale” di Brissogne abbiamo conosciuto ragazzi con ottimi principi, incappati nelle maglie della giustizia per errori di gioventù. Ma sono giovani a cui si deve tendere un mano perché sono recuperabili ai massimi livelli”. L’offerta di un lavoro si rileva il primo ed essenziale gradino della scala del riscatto sociale. Le azioni del privato raggiungono traguardi di grande pregio. L’impegno delle istituzioni e della direzione del penitenziario regionale favorisce l’apprendimento di un mestiere all’interno della struttura, mettendo il detenuto nelle condizioni di lavorare una volta libero. Corsi di formazione professionale, lavoro esterno garantito da ditte private o da cooperative sociali e attività all’interno del carcere costituiscono i cardini del progetto reinserimento. “Durante i lavori - anticipa Piera Asiatici - verrà presentato un monologo in quattro parti dal tiolo “Carceri senza mura”, curato dallo scrittore Alessandro Marchetti, di Aosta. Si articolerà con il racconto di un’esperienza carceraria di particolare interesse”, conclude. Perugia: martedì prossimo sit-in della polizia penitenziaria davanti al carcere Adnkronos, 11 settembre 2011 È stato fissato per il prossimo 13 settembre il sit-in che gli agenti della polizia penitenziaria faranno davanti al carcere di Perugia per sollecitare la risoluzione delle numerose problematiche che persistono nella struttura penitenziaria. “A questo - si legge in una nota del Lisiapp - Libero Sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria - noi faremo la nostra parte come organismo sindacale di categoria unitamente al Sappe e, staremo al fianco dei nostri colleghi per protestare contro questo silenzio assurdo degli organi centrali dell’Amministrazione Dap”. Purtroppo nella regione Umbria il personale della Polizia Penitenziaria vive dei silenti drammi di gestione, che non superano la soglia delle cancellate del carcere, per senso di dovere e appartenenza, ma che stanno aggravandosi prefigurando delle situazioni ingestibili. È necessario, quindi, rispondere ai disagi in modo concreto e tempestivo”, ha dichiarato il segretario nazionale del Lisiapp Massimo Ceppi. A tutto ciò afferma con forza il segretario generale Lisiapp Daniele Rosati che sottolinea noi andremo ad oltranza con il sit-in, fin quando non arriveranno risposte concrete e soluzioni per tamponare, una situazione di emergenza giunta ormai al collasso. Immigrazione: caso Kate Omoregbe; Corbelli “la storia è vera, dalla Nigeria false accuse” Agi, 11 settembre 2011 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, promotore della campagna umanitaria per salvare Kate Omoregbe, si dice “indignato” per le dichiarazioni del portavoce del presidente della Nigeria, difende a spada tratta la giovane nigeriana e sfida il governo della Nigeria a portare davanti alle telecamere della televisione della Nigeria la famiglia e il violentatore (e mancato sposo) di questa ragazza per dimostrare che la storia non è vera”. “Confermo - aggiunge Corbelli - che la storia di Kate è tutta vera. È semplicemente falso quanto affermato dal portavoce del presidente della Nigeria. La ragazza, come è stato sempre detto, non era stata condannata da nessun tribunale ma da regole non scritte del suo Paese, come mi ha descritto Kate nella missiva che mi ha mandato dal carcere. Credo a Kate. Sulla base di quali informazioni il portavoce del presidente della Nigeria dichiara che è tutto falso? Kate, come mi ha scritto nella lettera, chiedeva di essere salvata perché, per essersi rifiutata di sposare una persona (un musulmano) molto più grande di lei che l’aveva anche violentata e per non convertirsi alla religione islamica, lei che è cattolica, era di fatto, se ritornava in Nigeria, condannata ad essere sfregiata con l’acido e ad essere uccisa. Il portavoce del Presidente della Nigeria sulla base di quale indagine espletata può dichiarare che Kate ha detto il falso? Quella ragazza ha detto la verità. È falso chi dichiara il contrario, solo per difendere l’immagine del suo Paese o per il gusto di uno scoop. Kate ha ottenuto la protezione umanitaria dopo essere stata interrogata al Cie di Roma per due giorni di seguito da una commissione e da alcuni giudici. Sono state fatte ritengo le dovute verifiche e per questo è stato concessa la protezione umanitaria. Kate è uscita dal carcere - aggiunge Corbelli - con 90 giorni di anticipo per condotta esemplare. Kate è innocente anche per l’accusa di detenzione di droga che l’ha portata in carcere. Dimostreremo anche questo. Sfido il portavoce del presidente della Nigeria a portare davanti alle telecamere della tv la famiglia di questa ragazza e l’uomo che volevano farlo sposare e che l’ha anche violentata per dimostrare che ha detto il falso”. Libia: nella scuola diventata prigione in 350 tra militari di Gheddafi e civili aspettano il giudizio Ansa, 11 settembre 2011 Il carcere di Misurata è allestito in una scuola secondaria nella periferia della “città martire”, assediata dai soldati di Muammar Gheddafi per settimane, epicentro di una delle più sanguinose battaglie della guerra civile libica. Per entrare serve un permesso speciale, e un traduttore - accompagnatore scelto dalle autorità. E non è possibile girare immagini di nessun tipo. I prigionieri sono 350, stretti in stanze da 22, tra loro almeno 100 civili, accusati di complicità nelle stragi del regime. I numeri li fornisce Hesham Inbirika, responsabile della struttura, una persona “disponibile e gentile”, assicurano i rappresentanti di una Ong che incrociamo entrando, aggiungendo però che “non siamo autorizzati a parlare con i giornalisti”. A differenza di quanto rivelato dalla Bbc sulle condizioni di una prigione dello stesso tipo nella capitale Tripoli, a Misurata la struttura sembra in ottime condizioni, pulita, ordinata. Alcuni tra i civili, per lo più ragazzi, affermano di essere stati fermati per futili motivi, ed essere trattenuti agli arresti da oltre un mese. Affermazioni false secondo le guardie presenti, che accusano: “hanno partecipato agli assassinii”. Mohammad, 23 anni, parla inglese: dice di essere stato arrestato l’11 agosto, mentre con il cugino andava da Tripoli a Sirte. “Mio cugino aveva una pistola, nulla di più. Non sono mai stato con Gheddafi, non ho mai usato un’arma. Spero mi facciano il processo, non ho fatto nulla”. Il traduttore - accompagnatore, un anziano signore cortese che parla italiano, sbotta e interrompe, “dicono tutti così, ma ha ucciso un sacco di gente”. Mohammad insiste, “no io non c’entro”. È meglio cambiare stanza. Chiediamo di parlare con gli ex soldati. Nella cella accanto alzano la mano solo in tre, titubanti e incerti. Alla fine si alza un ragazzo, si chiama Mohamed, classe 1986, ed era della 32/a Brigata di Khamis Gheddafi, la più odiata dai ribelli. Parla solo arabo. “Ci hanno detto che a Misurata i ribelli avevano fatto arrivare quelli di al-Qaida, gli stessi che combattevano in Afghanistan”, dice quasi gridando. È una storia che ricorda la propaganda dei ribelli, prima e dopo ogni battaglia: “Dall’altra parte ci sono i mercenari, non i libici”. Sembra lo specchio riflesso di una guerra di propaganda senza esclusione di colpi, mercenari contro qaidisti, stragi contro sgozzamenti stile Iraq. Mohamed viene circondato dai compagni, tutti hanno gli occhi stralunati. Chiediamo se si trovano bene, se vengono trattati bene. “Sì certo, ottimo”, traduce il nostro accompagnatore. Ma negli occhi dell’ex temibile soldato della 32/a c’è paura, tanta, per quello che gli potrà riservare il futuro. Anche in quelli dei suoi ex compagni si legge lo stesso messaggio. L’Invincibile Armada di Gheddafi è affondata. Messico; rapporto sulle donne in carcere; numerose le giovani madri, condannate per droga Radio Vaticana, 11 settembre 2011 La drammatica situazione della popolazione carceraria femminile in Messico è stata fotografata da un rapporto del Dipartimento di Pubblica sicurezza di Oaxaca, uno degli Stati più poveri del Paese centroamericano. Il documento, di cui riferisce la Fides, rivela che si tratta di donne per lo più povere e per la maggior parte madri sole, con figli a carico sotto i cinque anni, età in cui è necessario rinunciare alla custodia e affidarli ad un parente o ad un tutore. Le detenute devono gestire da sole i loro figli, perché non ricevono assistenza dalle autorità carcerarie né cibi adatti ai bambini. Alcune vengono arrestate per piccoli traffici di droga, altre per omicidio e reati più gravi. Su 234 detenute nel carcere di Oaxaca, 29 sono indigene, per lo più zapoteche originarie della catena montuosa meridionale, ma ci sono anche donne del Mixe, Mixteche, Triqui e altre popolazioni indigene. A causa del sovraffollamento delle carceri, molte si trovano a condividere la cella con detenute già condannate e donne in gravidanza, che sono trasferite all’ospedale civile della città non appena iniziano ad avere le contrazioni. Tenere i bambini in cella con le loro madri significa esporli a quotidiani disagi. La maggior parte di queste donne sono state spinte alla criminalità dalla tragica situazione economica. La povertà non lascia molte possibilità: patire la fame o unirsi al traffico di stupefacenti. Stati Uniti: a Guantanamo confermato l’ergastolo per reclutatore al Qaida Ansa, 11 settembre 2011 È stata confermata da una commissione di revisione militare di Guantanamo la condanna all’ergastolo inflitta ad un esponente di al Qaida, accusato di essere un reclutatore e esperto in propaganda della rete terroristica. Lo si è appreso dal Pentagono Si tratta di uno yemenita di una quarantina d’anni, Ali Hamza Ahmad al - Bahlul, uno dei primi prigionieri ad essere trasferito nel carcere Usa a Cuba nel 2002 ed uno dei pochi detenuti di Guantanamo processati e condannati dai tribunali militari speciali nel 2008. Bahlul aveva contestato la legittimità del tribunale militare speciale e anche della legge del Congresso del 2006 che aveva autorizzato le commissioni militari. Il tribunale composto da militari che ha riesaminato ieri il suo caso ha respinto tutte le richieste dell’imputato, l’ha definito un “nemico combattente” e lo ha riconosciuto colpevole di “complotto con Osama bin Laden ed altri membri di al Qaida per assassinare persone protette, attaccare civili” e “di incitazione all’omicidio e ad atti di terrorismo”. Tra le accuse a suo carico anche quella di aver realizzato il video con le ultime volontà di Mohammed Atta, uno dei membri del commando che realizzò gli attentati dell’11 settembre. Siria: attivista torturato e ucciso in carcere, il corpo di Ghyath Matar consegnato ai familiari Tm News, 11 settembre 2011 L’attivista siriano Ghyath Matar, arrestato in Siria il 6 settembre, è morto in prigione per le torture subite. Lo ha detto oggi l’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw), citando altri attivisti sul posto. Il corpo di Matar, 26 anni, che aveva giocato un ruolo chiave nell’organizzazione delle manifestazioni contro il regime di Bashar al Assad, è stato consegnato oggi alla sua famiglia. Presentava delle ecchimosi al petto e tracce di ferite sul viso, secondo altri attivisti per i quali Matar è stato “torturato a morte”, ha riferito Hrw.