Il diario di Elton: “Quei brindisi per telefono” Redattore Sociale, 7 ottobre 2011 “La notte del 31 dicembre il mio posto a tavola era sempre apparecchiato. Mio padre alzava il mio bicchiere insieme al suo e beveva da entrambi, augurando che l’anno nuovo mi portasse la libertà”. Durante i miei quattordici anni di carcere ho sempre telefonato a casa la sera del 31 dicembre. Non sono mai mancato all’appuntamento degli auguri con i miei genitori e con tutti quelli che eventualmente si trovavano seduti intorno al tavolo. Sapevo che loro aspettavano sempre con ansia la mia chiamata e che consideravano come una mia visita in casa quei sei minuti al telefono (dal 2000 le chiamate durano un po’ di più, dieci minuti a settimana, anche se è sempre una miseria per poter parlare con i propri cari). Dal canto mio, anch’io m’immaginavo lì con loro. Mio padre metteva sempre il vivavoce del telefono in modo che la mia presenza diventasse più forte e poi mi raccontava i piatti preparati. Passata la cornetta del telefono a mia madre, tornava al suo posto e lei commentava ciò che lui faceva. Il mio posto a tavola era sempre apparecchiato. Mio padre riempiva il mio bicchiere di vino e, mentre ero al telefono con mia madre, mi coinvolgeva in un caloroso brindisi. Mangiava una forchettata da quello che sarebbe stato il mio piatto, poi alzava il mio bicchiere insieme al suo e beveva da entrambi, augurando che l’anno nuovo mi portasse la libertà. Quest’anno a Capodanno io sarò seduto a tavola e mio padre non dovrà più bere lo spumante anche dal mio bicchiere. Solleveremo insieme i calici e saremo le persone più felici del mondo. Poi ci faremo trasportare dai ricordi, pensando ai tempi in cui gli chiedevo per telefono i tipi di dolce che avevano preparato. E parleremo degli anni in cui aspettavano la mia telefonata per riempire la stanza con la mia voce lontana, anche se solo per dieci minuti, tutto quello che potevano avere per sentire vicino un figlio, detenuto in un carcere così lontano di un paese così vicino, in una giornata di “non festa”. Elton Kalica (in collaborazione con Ristretti Orizzonti) Elton è un 35 enne albanese, detenuto nel carcere Due Palazzi di Padova con una condanna a 14 anni e 8 mesi per sequestro di persona a scopo di estorsione (senza armi e durato due giorni). Il prossimo 25 ottobre finirà di scontare la sua pena e tornerà libero. Firma storica della rivista Ristretti Orizzonti, attende di sapere se sarà rimpatriato in Albania o se potrà restare in Italia e lavorare da esterno per Ristretti. Ha deciso di raccontare su “Redattore sociale” i suoi ultimi giorni dentro. Giustizia: un appello a modificare il Codice penale… per poter chiudere gli Opg Redattore Sociale, 7 ottobre 2011 L’appello lanciato nel corso di un convegno sul tema. Il procuratore Quattrocchi: “Se non si mette mano al codice penale, difficilmente si troveranno alternative agli ospedali psichiatrici giudiziari”. Modificare il codice penale per arrivare alla chiusura degli Opg. È l’appello lanciato questa mattina a Firenze nel corso del convegno “We can: la costruzione perseverante di un’alternativa all’ospedale psichiatrico giudiziario” per celebrare i dieci anni della struttura residenziale psichiatrica Le Querce. Tra i presenti al convegno Giuseppe Quattrocchi, procuratore della Repubblica di Firenze: “Se non si mette mano al codice penale - ha spiegato - non si realizzeranno facilmente alternative agli ospedali psichiatrici giudiziari”. Quattrocchi ha poi sottolineato le “difficoltà dei giudici di investigare il rapporto tra giustizia e malattie mentali”. Per il cambiamento del codice penale si è schierata anche Gemma Brandi, responsabile salute mentale istituti di pena di Firenze e tra i soci fondatori della Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria: “È necessario riprendere il percorso avviato a metà degli anni Novanta dalle regioni Emilia - Romagna, Toscana, Friuli e Campania, nel quale si proponevano modifiche al codice penale, ma che poi non è mai arrivata in Parlamento a causa di divergenze tra regioni”. In base a questa proposta di legge, ha spiegato Brandi, “gli internati degli Opg verrebbero trasferiti all’interno di strutture sanitarie con agenti penitenziari soltanto all’esterno oppure in luoghi adeguati all’interno delle carceri, oltre che nelle comunità di recupero come quella de La Querce”. Al convegno ha partecipato anche Monsignor Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze. “È importante trovare risorse umane ed economiche per dare sviluppo a quelle strutture nate accogliere e accompagnare i fratelli che hanno commesso reati a causa dei loro disturbi mentali”. Presente anche l’assessore alla sanità della regione Toscana Daniela Scaramuccia, che ha parlato dello stato dei lavori all’Opg di Montelupo: “Una parte dell’ospedale è stata ristrutturata e consegnata e questo potrà alleviare le condizioni di vita e di lavoro delle persone che ci vivono”. Giustizia: risarcimento per sovraffollamento in carcere… tanto rumore per (quasi) nulla di Giuseppe Campanelli (Avvocato) www.leggioggi.it, 7 ottobre 2011 Quale rapporto tra danno esistenziale e diritto alla funzione rieducativa? Riflessioni a margine dell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Lecce che ha riconosciuto il danno esistenziale a un detenuto extracomunitario per sovraffollamento del carcere: “la mancanza di uno spazio minimo vitale rappresenta….uno, ma non l’unico dei più importanti dati dai quali desumere la violazione dell’art. 3 della Convenzione Cedu, che si traduce comunque in un vulnus della dignità umana”. La mai troppo vituperata prassi della “politica degli annunci” deve essere tracimata dagli avvilenti resoconti del teatrino della politica perché, purtroppo, sembra essersi impadronita anche dei commenti ai provvedimenti giurisdizionali, spesso con tutta la virulenza del malcostume intellettuale di chi urla prima di avere approfondito. In particolare, questo è quanto è avvenuto a seguito della attenzione mediatica conferita alla Ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Lecce dott. Tarantino che ha liquidato una somma simbolica in favore di un detenuto tunisino che lamentava le incivili condizioni di detenzione, a causa del sovraffollamento della Casa Circondariale di Lecce. Certo l’argomento è complesso e tocca numerosi punti di discussione tanto da sollecitare, secondo le differenti prospettazioni, sdegno, preoccupazione, soddisfazione o speranze. Tralasciando a priori il sempre deprimente panorama dei commenti politici, vorrei esemplificativamente citare due fonti che certamente possono a buon diritto vantare titolo di esprimersi in ragione di una diretta e puntuale informativa dell’universo inframurario. Ovvero il grido di allarme di un sindacato della Polizia Penitenziaria, che, per bocca di Eugenio Sarno, segretario generale del sindacato penitenziario Uil-Pa, paventa i catastrofici effetti di una possibile class action dei detenuti “che affollano le degradate e degradanti carceri italiane”, con ulteriori aggressioni ai già limitati fondi ministeriali , oppure il moderato ottimismo di chi da anni segue il desolante panorama dell’universo carcerario in Italia, e fra questi Patrizio Gonnella. In realtà la nota ordinanza non ha quel carattere così radicalmente innovativo ed anzi, sotto certi aspetti, è fortemente contraddittoria in punto motivazionale e certamente deludente sul piano dell’afflato umanitario. In particolare, e questo l’estensore lo esprime con molta chiarezza, è da respingere la paventata immediata e diretta consequenzialità tra sovraffollamento (over crowding) e diritto al risarcimento, dovendosi valutare in concreto il dato trattamentale nelle sue modalità complessive. Tuttavia, siamo di fronte ad un provvedimento ben scritto e dottamente argomentato, con puntuali e calzanti riferimenti giurisprudenziali e normativi che promanano da uno sforzo interpretativo dipanatosi in una cinquantina di pagine che, contrariamente a quanto da taluno sostenuto, non hanno nulla di narcisistico. Appare anzi particolarmente pregevole l’esposizione dell’iter logico - argomentativo in base al quale l’estensore perviene alla affermazione della competenza del Magistrato di Sorveglianza, anche in ordine alla istanza risarcitoria introdotta ai sensi dell’art. 35 della l. 345/75, convenzionalmente Ordinamento Penitenziario. Ed è questo, a ben guardare, il punto fortemente e radicalmente innovativo introdotto dal giudice salentino. Infatti, dipanando con logica consequenzialità ogni singolo elemento, si perviene alla declaratoria della “giurisdizione piena ed esclusiva del Magistrato di Sorveglianza” risolvendo la “competizione giurisdizionale” rispetto ad ipotesi di competenza esclusiva o parziale del giudice civile e/o di quello amministrativo . Il tutto partendo dal dictum della Corte Costituzionale che, nella sentenza 26/99 sul fondamentale presupposto della necessitata “tutela giurisdizionale nei confronti di atti della amministrazione penitenziaria lesivi di diritti quando la lesione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a quella restrizione”. Secondo l’estensore, diretta conseguenza di questo principio è la ampiezza della “copertura giurisdizionale” del Magistrato di Sorveglianza che, oltre ai diritti costituzionalmente garantiti deve estendersi a tutte le posizioni giuridiche che possono essere lese da provvedimenti che incidano sulle concrete modalità trattamentali, sia attraverso “misure speciali” quali il regime particolare di cui all’art. 41 bis O.P., che da “determinazioni amministrative prese nell’ambito della gestione ordinaria della vita del carcere”. E ciò è ancora più vero “nel caso di atti che incidono per finalità rieducative sul trattamento, essendo gli stessi tutti rimessi al vaglio della giurisdizione di sorveglianza che svolge un ruolo di garante assoluto del trattamento”. Quindi, si enfatizza il ruolo della magistratura di sorveglianza come “garante terzo ed imparziale” di un “fair and public trail” nel quale l’internato e l’amministrazione penitenziaria, quest’ultima per il tramite della Avvocatura dello Stato, siano contrapposti in un contesto di “egalitee des armes” . Molto interessante è anche lo sforzo interpretativo in base al quale si legittima la congruenza del procedimento cartolare in camera di consiglio rispetto ai principi costituzionali del cd. giusto processo con particolare riferimento al “principio di concentrazione delle tutele, ai fini di economia processuale e della ragionevole durata del processo” Sin qui i passaggi veramente innovativi che, non casualmente sono quelli meglio, più compiutamente e pregevolmente esposti. Tuttavia, prima di addentraci nelle “dolenti note” o meglio nella parte di questa ordinanza che a mio parere non è condivisibile, è necessario ripercorrere, in stringente sintesi, i presupposti normativi e giurisprudenziali che sostanziano la richiesta di risarcimento del detenuto ed il parziale accoglimento della stessa. Il presupposto argomentativo basilare è quello espresso dal Cpt (acronimo di Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura e delle pene e trattamenti inumani o degradanti) che ha identificato in 7 mq. il limite di superficie minima abitabile. Su questo si innesta una non troppo variegata costellazione di sentenze della Cedu, fra le quali spicca la n. 22635 del 16.7.2009 (Sulejmanovic/Italia) con la quale la Corte di Strasburgo ha ritenuto che il ricorrente è stato vittima di “trattamenti inumani e degradanti” posto che tra il novembre 2002 e l’aprile 2003, ha condiviso una cella di 16,20 metri quadri con altre cinque persone disponendo, dunque, di una superficie di 2,7 metri quadri entro i quali ha trascorso oltre diciotto ore al giorno. Tuttavia, ed è questa la pietra di volta del complesso argomentativo che sottende il provvedimento, se pure la Corte riafferma apertis verbis che il sovraffollamento delle carceri rappresenta un trattamento inumano e degradante (e non si vede chi possa sostenere il contrario) certamente dilata lo spettro valutativo ben oltre una mera valutazione volumetrica. Infatti, sostiene la Corte che rispetto ad ogni caso specifico si deve tenere conto della possibilità di “compensare il deficit abitativo delle celle con possibilità di fruire di spazi comuni, servizi igienici esterni alle celle, palestre, biblioteche, cortili”. Ed è qui che si deve innestare, quindi, una valutazione strettamente soggettiva, relativa al rapporto tra volumetria abitativa e disponibilità di spazi esterni alla cella, con finalità trattamentali. Ed è appunto questo il percorso valutativo nel quale, coerentemente, si muove il magistrato leccese, giungendo significativamente ad affermare che “la mancanza di uno spazio minimo vitale rappresenta….uno, ma non l’unico dei più importanti dati dai quali desumere la violazione dell’art. 3 della Convenzione Cedu, che si traduce comunque in un vulnus della dignità umana”. E sempre in rigorosa coerenza il Magistrato di Sorveglianza conclude che sussiste concreta lesione della dignità del detenuto “costretto a trascorrere 19 ore e mezza al giorno nella (torrida) estate del 2010 dal 10 Luglio al 6 settembre, 67 giorni condividendo una cella con altri due detenuti con a disposizione un limitato spazio vitale pari a mq. 3,39 al lordo degli arredi e dormendo su di un letto posto ad appena 50 cm dal soffitto…avendo solo la possibilità di trascorrere fuori dalla camera detentiva dalle ore 8,30 alle 11,00 e dalle 15 alle 17, periodo nel quale l’ora d’aria trascorsa in un cortile di cemento di modeste dimensione non appare attività salutare”. Quindi il ricorrente si è trovato in uno stato nel quale “l’unico sollievo sembra poter essere rinvenuto nel mero decorso del tempo scandito da una alba sempre uguale e senza fine”. E tale lesione non si concretizza automaticamente nel calcolo volumetrico delle condizioni abitative, bensì nella impossibilità di porvi temperamento con la “compensazione trattamentale” come innanzi delineata, posto che,in tali condizioni, viene leso un diritto costituzionalmente garantito, ovvero “subire una pena che sia costantemente orientata alla rieducazione” . Si concretizza così, una prima ed importante decisione che individua i parametri valutativi del rapporto tra danno esistenziale e diritto alla funzione rieducativa. Anzi, il Magistrato di Sorveglianza, si spinge sino ad un definizione del rapporto tra Amministrazione Penitenziaria e detenuto che, fermo il presupposto del “neminem laedere”, si sostanzia nell’obbligo della prima di garantire ed offrire al secondo “occasioni trattamentali”. Siamo quindi in presenza di una vera e propria “obbligazione di mezzi” che, in caso di inadempimento, si sostanzia in una “ipotesi analizzata dalla giurisprudenza nel caso di mobbing cagionato dall’amministrazione - datrice di lavoro al proprio dipendente per violazione dell’art. 2087 C.C.”. Ne deriva la natura risarcitoria del danno. Su questi presupposti argomentativi, congrui e consequenziali, si innesta però una incoerente valutazione del danno, che francamente non può essere condivisa. Infatti il magistrato estensore ritiene con argomentazioni esili e di maniera, che il detenuto reclamante non abbia diritto al risarcimento per la “lesione della dignità umana” posto che la “fruizione di un livello trattamentale sia pur minimo determina il mancato superamento di un livello di tollerabilità tale da dover essere risarcito”. Si tratta, evidentemente di una tautologia autoreferenziale in quanto priva di ogni riferimento a qualsivoglia parametro. Non casualmente il presupposto basilare per la sussistenza della omissione della Amministrazione Penitenziaria è appunto quello della “compensazione del deficit abitativo”, quindi una valutazione parametrica di natura strettamente oggettiva. Questo è elegantemente riportato dall’estensore nella parte motiva. Pertanto è frutto di evidente ed eclatante contraddizione affermare che una occasione trattamentale “sia pur minima” possa a priori compensare condizioni abitative bestiali. Peraltro, il puntello argomentativo del richiamo al “dovere di solidarietà sociale che grava anche in capo a chi sia detenuto” è francamente inspiegabile. Non me ne voglia l’estensore ma, posto che tale dovere non appare compendiato in alcun codice, non è dato di comprendere la pratica estrinsecazione di tale assunto. In virtù di un “dovere di solidarietà sociale” il detenuto dovrebbe accontentarsi di quello che passa il convento a livello di occasioni trattamentali e così sopportare asceticamente condizioni carcerarie disumane e non “compensate”? Ed il richiamo al mobbing ed alla “obbligazione di mezzi” ? Più articolato e, francamente, meglio motivato, appare il diniego del richiesto danno biologico. Infatti è assolutamente giusto e condivisibile l’assunto in base al quale “il danno patrimoniale anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituisce danno - conseguenza che deve essere allegato e provato, sia pure mediante presunzioni”. Sostiene il magistrato che il ricorrente non ha compiutamente adempiuto all’onere di allegazione essendosi “limitando generiche affermazioni senza neppure indicazioni di precise modalità di tempo e luogo”. Sul punto, il commentatore non ha spazi argomentativi e, francamente, neppure interesse di confutare. Tuttavia si impone una riflessione in prospettiva costituzionalmente orientata, e specificatamente in tema di “giusto processo”. La codificazione della competenza del Magistrato di Sorveglianza anche sul “quantum debeatur” crea non poche perplessità relativamente alla simmetria processuale in punto di onere di allegazione probatoria. Infatti, se è vero che grava sulla Amministrazione Penitenziaria l’obbligo giuridico della salvaguardia della incolumità fisica del detenuto, è altrettanto vero che la stessa, attraverso il patrocinio della Avvocatura Distrettuale dello Stato può agevolmente ricorrere alla produzione del Diario Clinico, che è un atto fidefacente di sua stessa emanazione. Quali possono essere per il detenuto gli spazi di acquisizione e/o formazione della prova? Soltanto due, ovvero la richiesta di acquisizione di acquisizione di copia del Diario Clinico, che deve essere in pratica concessa o autorizzata da… controparte, oppure la astratta ed economicamente poco praticabile possibilità di formarsi una propria e autonoma documentazione di parte, ricorrendo alla richiesta di cui al terzultimo comma dell’art. 11 dell’Ordinamento Penitenziario. Il detenuto può richiedere di essere visitato a proprie spese da un sanitario di sua fiducia, ma tale oneroso adempimento è soggetto ad autorizzazione del magistrato che procede o, nel caso di passaggio in giudicato del titolo esecutivo, dal Direttore dell’Istituto, ovvero una emanazione funzionale di… controparte. Alla luce di questa situazione è evidente come principi comunitari di “egalité des armes” e “fair and public trail” si risolvano in vane, seppur eleganti, enunciazioni di principio. La criticità di questa argomentazione non attiene, ovviamente, al provvedimento qui in commento, bensì a più ampie valutazioni di opportunità. Infatti, è consequenziale e non assoggettabile a critica alcuna, la scelta di non applicare le “tabelle milanesi” in assenza di danno biologico e ciò in quanto con ogni evidenza il Magistrato di Sorveglianza leccese non potrà certo farsi carico dell’onere della codifica di nuovi parametri di formazione della prova. Il dato preoccupante è però quello di avere creato una sorta di procedimento falsamente paritario, a fronte del quale sarebbe necessario trovare dei temperamenti al rigido protocollo del contraddittorio cartolare. Ad esempio, si potrebbe codificare, l’acquisizione ex officio del Diario Clinico, sottraendo quindi la specifica fonte di prova al regime delle… autorizzazioni di controparte. Sul punto, comunque ci sarà modo di osservare e di verificare quale sarà la pratica attuazione di questa pronuncia. Infatti, netta è la sensazione di scetticismo che pervade gli addetti ai lavori in ordine alla pratica ricaduta giudiziale che si determinerà per effetto di questo provvedimento. Come se si fosse lanciato un ponte di funi sul dirupo dei principi generali, ma poi non si fosse in grado di percorrerlo nel rispetto degli stessi. Peraltro, la magistratura di sorveglianza, già gravata di oneri pesantissimi che deve affrontare con strumenti molto più che inadeguati, posta a fronte della risoluzione della esclusiva ed integrale titolarità della competenza anche in questo genere di procedimenti, dovrà essere necessariamente munita di ulteriori mezzi, o quanto meno, di rigidi parametri procedimentali che possano essere di ausilio nella corretta ed equilibrata gestione di questa tipologia di reclami. Perché questa ordinanza, in buona sostanza, è un compendio di buoni propositi esposti in maniera veramente encomiabile che poi si traducono in risultati che, per usare un eufemismo, potremmo definire non soddisfacenti. Si è detto della disapplicazione delle tabelle milanesi a fronte della negazione del danno biologico, ma è l’applicazione di un criterio liquidatorio “equitativo” che appare francamente sconcertante. La quantificazione in via equitativa, anche sintatticamente, appare cosa differente da “approssimativa”, da “immotivata” e da “apodittica”. Il Magistrato assume come parametro la quantificazione adottata dalla Cedu nel richiamata sentenza 22635 del 16.7.2009 (Sulejmanovic/Italia). In quella occasione il consesso di Strasburgo ritenne di liquidare un risarcimento equitativo di mille euro di indennizzo a fronte di un periodo di due mesi di restrizione in condizioni non conformi. Nel caso di specie il magistrato leccese afferma versarsi in presenza di violazione meno grave e protrattasi per un periodo inferiore di appena due giorni (dal 10 luglio al 6 settembre 2010 ovvero 58 giorni) e pertanto in via asseritamente “equitativa” ritiene di liquidare la somma di 220,00 euro. Nel ribadire che la quantificazione in via equitativa, anche sintatticamente, appare cosa differente da “approssimativa”, da “immotivata” e da “apodittica”, si evidenzia come in assenza di maggiore specificazione argomentativa, nel caso di specie emerga la contraddizione in cui incorre il magistrato che prima qualifica il danno come “risarcimento” e poi assume a parametro valutativo un “indennizzo”. Tuttavia, al di là di queste osservazioni formali, si deve osservare che il criterio adottato ha partorito un risarcimento complessivo di 220 euro che, parametrato alla protrazione della violazione, ovvero 58 giorni, si sostanzia in 3,79 euro pro die. Si tratta di una somma che francamente e con fermezza deve essere definita offensiva, soprattutto ove si ponga mente al valore intrinseco dei principi enunciati ed alla oggettiva valutazione delle condizioni di detenzione nel torrido complesso penitenziario leccese di Borgo San Nicola, edificato in modo da essere circondato… dal nulla. Parlavo prima di “un ponte di funi lanciato sul dirupo dei principi generali” e della sensazione che non si fosse in grado di percorrerlo “nel rispetto degli stessi”. Questa quantificazione del “risarcimento” è la pratica manifestazione di quella perplessità e, ferma e ribadita la apprezzabilità intrinseca dell’immane sforzo argomentativo egregiamente e compendiosamente sostenuto dall’estensore, permangono intatte le perplessità di chi scrive, presumibilmente condivise dagli operatori del diritto. Più volte nel corpo della parte motiva, il magistrato leccese cita “il preoccupante disinteresse del legislatore” e ciò fa in relazione agli oneri che permangono delegati alla magistratura di sorveglianza. Ed anche in questo caso, un volenteroso magistrato supplisce, con i mezzi a sua disposizione, a tale disinteresse. Giustizia: scarcerazione per Lele Mora… e per tutti i detenuti in cattive condizioni di salute! di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 7 ottobre 2011 Lele Mora, talent scout amico di Silvio Berlusconi e di una parte della classe politica italiana, famoso in particolare per essere stato rinviato a giudizio nel processo Ruby bis, forse non è innocente del crac della Lm Management ma senza dubbio soffre di diabete, potrebbe essere colpito da un’ischemia, ha la pressione parecchio alta ed è dimagrito di 24 chili nei primi mesi di carcerazione preventiva nel carcere di Opera. Nonostante ciò il Giudice delle Indagini Preliminari (gip) e il tribunale del Riesame hanno rigettato la richiesta degli arresti domiciliari motivando la loro decisione con il pericolo di fuga e il gip Fabio Antezza ha stabilito che le condizioni di Mora sarebbero compatibili col carcere. La legge prevede che dei giudici possano dire no agli arresti domiciliari con motivazioni di quel tipo, cioè a causa di un possibile desiderio di fuga, non - fatto a cui si attribuisce la valenza di un fatto in sé e per sé. La legge prevede inoltre, sia pur in modo implicito, che un giudice abbia le competenze di un medico o di uno psicologo nello stabilire la compatibilità fra le condizioni psicofisiche di una persona detenuta e il carcere. I giudici, a dire il vero, non conoscono bene la situazione specifica di una persona detenuta e, in diversi casi, nemmeno quella di un determinato carcere. Quindi non si trovano nelle condizioni di poter stabilire il grado di compatibilità fra la prima e la seconda. Tutto ciò dimostra che la legislazione vigente in materia di carcerazione preventiva e arresti domiciliari, per altro una delle cause principali del sovraffollamento carcerario, è semplicemente pazzesca. La realtà, ad ogni modo, supera sempre ogni possibile immaginazione. Negli ultimi giorni, proprio in relazione alla vicenda di Lele Mora, si sono verificati dei colpi di scena. Giovedì 29 settembre Mora si è sentito male ed è stato ricoverato al San Paolo, un ospedale milanese. Poi, il primo ottobre, i pm di Milano Eugenio Fusco e Massimiliano Carducci, titolari dell’inchiesta sul crac della Lm Managemen, hanno autorizzato i medici dell’imputato a visitarlo nell’ospedale ed anche ad acquisire le cartelle cliniche. Infine, il 2 ottobre, Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera, ha dichiarato che nei confronti di Lele Mora e molti altri “il carcere viene usato come sistema di tortura per farli confessare, o come punizione per non aver chiamato in causa altri”. Cicchitto, in questo caso, ha ragione. Dovrebbe solo capire che quel tipo di uso del carcere riguarda tutte le persone detenute. Nessuna esclusa. Diciamolo in termini ancor più espliciti: il carcere è un gravissimo problema politico, un autentico cancro della giustizia, un vero e proprio supplizio psicofisico, qualcosa che spinge le persone caratterialmente fragili a deprimersi, a suicidarsi o a mandare terze persone in galera al posto loro. Si tratta di un dispositivo che inevitabilmente produce deprivazioni sensoriali, suicidi e “pentiti” e, fra questi ultimi, anche un’altissima percentuale di accusatori di persone del tutto innocenti. Nell’Italia dagli ultimi anni ‘70 in poi si è determinata una sovrapproduzione di questi fenomeni aberranti ma, tranne rarissime eccezioni, il Parlamento e i governi si sono limitati a guardare o a peggiorare la catastrofica situazione delle carceri. Oggi ad esempio, se escludiamo i radicali e pochi altri, i parlamentari non sembrano intenzionati ad elaborare delle risposte propositive alla citata denuncia fatta dall’onorevole Cicchetto. Lele Mora merita invece di essere trattato con un criterio valido per tutti e quindi al di là delle nostre eventuali opinioni di simpatia o di antipatia rispetto a certi suoi comportamenti. Ad esempio, ricordare il Mora che a febbraio del 2011 accusò indebitamente di comunismo la trasmissione televisiva “Anno Zero” - programma demagogico e forcaiolo diretto da un ex estremista di sinistra che negli anni 70 militava in “Servire il popolo” - non deve ingenerare sentimenti menefreghisti nei suoi riguardi. Anche se lui non lo dovesse capire mai, proprio chi lotta per i beni comuni e i poteri - qualità di ognuno auspica la fine del populismo penale, la rinascita di una cultura libertaria e la scarcerazione immediata di tutte le persone detenute in cattive condizioni di salute. Lettere: i problemi dei detenuti e delle carceri non si risolvono con sentenze-spettacolo Il Gazzettino, 7 ottobre 2011 Caro direttore, siamo Franco e Sebastiano, entrambi ristretti al Due Palazzi di Padova in espiazione pena. Alcuni passaggi della sua risposta al lettore intitolata “Ma il detenuto risarcito ha risarcito le vittime?” ci hanno lasciati perplessi, perché se tali concetti sono comprensibili se espressi da un comune cittadino tartassato dalla retorica che spesso indica i detenuti al pari di una casta di privilegiati, lo stesso punto di vista a nostro parere non può essere condiviso dal direttore di un quotidiano la cui deontologia imporrebbe in primis la giusta informazione. Crediamo che lei non ignori il fatto che ben prima del magistrato di sorveglianza di Lecce, a sanzionare l’Italia per la medesima violazione è stata la Corte europea dei diritti dell’uomo, che già nel 2009 ha condannato il nostro paese per trattamento disumano. Dunque ci pare del tutto fuori luogo la sua presa di posizione contro un magistrato di sorveglianza che, di fronte a condizioni di vita che, non lo dimentichi, portano al suicidio un centinaio di persone l’anno, invece di tapparsi gli occhi ha svolto il suo lavoro con l’unico strumento in uso al magistrato: una sentenza. Quindi o anche alla Corte europea scrivono idiozie, oppure nelle carceri italiane sta succedendo qualcosa di anomalo che non risolverà certo insabbiando la verità. Altresì, per esperienze personali, vorremmo farle presente che il detenuto in questione ha le stesse probabilità di incassare dallo Stato il risarcimento accordato quante ne ha la vittima di incamerare il dovuto, poiché quel detenuto, come tutti i reietti della terra, probabilmente non possiede altro che un residuo di dignità da difendere non solo dagli addetti ai lavori, ma anche dai benpensanti come lei e il signor Somarolini. Franco Cat Berro Sebastiano Primo Cari lettori, un direttore ha il dovere di rispettare la giusta informazione, ma un cittadino ha il dovere di non travisare l’altrui pensiero. Ho definito “una colossale e incredibile idiozia” quella sentenza, non perché ignori i problemi delle carceri italiane o perché, peggio ancora, ritenga che chi è ristretto nelle patrie galere non goda di alcun diritto, tantomeno quello di lamentarsi per condizioni di vita inadeguate. Forse quando si parla dei disagi di chi sta “dentro” si dovrebbe sempre ricordare che anche chi sta “fuori” spesso non vive né come vorrebbe né come dovrebbe: era questo, del resto, che il lettore Adolfo Somarolini voleva sottolineare. Ma tutta la prima parte della mia risposta era dedicata a riaffermare un principio del tutto coerente con quanto sostiene la Corte europea: un paese civile ha il dovere di avere anche carceri (nonché case, ospedali, periferie) civili. Non ho mai parlato dei detenuti come di una casta di privilegiati: non penso lo siano, perché credo che la libertà sia il più grande privilegio di cui l’uomo dispone. Dove e quando avrei quindi insabbiato la realtà? Ho detto invece una cosa diversa: quella sentenza, che obbliga a risarcire il detenuto per danno esistenziale, lungi dal risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, rischia solo di peggiorare le condizioni del sistema penitenziario già drammaticamente a corto di risorse oltre che di spazi. Non credo che un detenuto si trovi a vivere in 11 metri quadrati per la perfidia della guardie penitenziarie o il sadismo di qualche dirigente. Questo accade perché le strutture sono vecchie e troppo affollate. Ma se le carceri scoppiano è anche perché più gente finisce dietro le sbarre per aver infranto la legge. E voi pensate davvero che la soluzione a questo stato di cose passi attraverso sentenze - spettacolo come quella a cui voi inneggiate? Non scherziamo. I problemi non si risolvono per via giudiziaria: i tribunali intervengono sugli effetti, non sulle cause. Quanto infine all’etichetta di benpensante che generosamente mi affibbiate, non me ne curo. Non sono abituato a dividere le persone in categorie e neppure a ritenere che il bene e il male stiano sempre e solo da una parte sola: generalizzare è una scorciatoia per spiegare tutto, senza capire, spesso, niente. Campania: “Morti di carcere e malagiustizia”… il rapporto del Garante dei detenuti Notizie Radicali, 7 ottobre 2011 Partiamo da un interrogativo: qual è la funzione delle carceri? Senza dubbio nel Mondo occidentale, almeno sulla carta, scontare una pena serve a reinserire il condannato nella società. La rieducazione, dunque, dovrebbe passare attraverso la piena tutela dei diritti personali di chi si trova in carcere, nel pieno rispetto della Dichiarazione universale dei diritti umani (articolo 5): “Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Il dossier “Morti di carcere e malagiustizia” evidenzia una situazione inversa rispetto a quella universalmente riconosciuta. Il rapporto - presentato dal Garante dei detenuti della Regione Campania, Adriana Tocco - mette a nudo una situazione scioccante: delle ultime dodici morti in carcere, dieci riguardano suicidi. I dati sono forniti dall’Osservatorio permanente per le morti in carcere - come riporta l’agenzia di stampa “Il Velino” - e sono stati resi noti dal garante Tocco in Regione Campania, alla presenza dell’assessore comunale alle Politiche sociali, Sergio D’Angelo, al presidente del Consiglio regionale, Paolo Romano, il provveditore regionale per l’Amministrazione Penitenziaria, Tommaso Contestabile, il presidente del Tribunale di Sorveglianza partenopeo, Carminantonio Esposito. Il punto principale affrontato nel corso del summit riguarda il sovraffollamento delle carceri. Un fronte comune a difesa dei diritti dei detenuti su cui l’assessore D’Angelo ha posto l’accento sulla “mancanza di soluzioni risolutive al problema nella città di Napoli. Qui - ha aggiunto l’assessore - non ci sono più comunità idonee ad accogliere i tossicodipendenti quando lasciano le carceri, dovremmo fare degli sforzi, modificare leggi che hanno permesso l’affollamento di istituti penitenziari”. La situazione sovraffollamento era stata portata alla luce dai Radicali nel mese di giugno , quando è stato dato vita a un digiuno collettivo, che visto l’adesione di 1.300 detenuti di Poggioreale, una casa circondariale che ospita il doppio dei detenuti ammessi. Condizioni di sovraffollamento che consegnano chi sconta la pena a una condizione inumana: in alcuni casi, in una cella ci sono anche 12 detenuti. Per di più sono poche, quasi nulle, le attività svolte dai carcerati per permettere la loro tanto conclamata rieducazione. La territorialità della pena, condizione indispensabile per il reinserimento “La maggior parte dei detenuti presenti nelle case circondariali e negli istituti di pena campani, si rivolge al garante per denunciare la sofferenza per la lontananza della famiglia, per la difficoltà legata alla distanza, ai collegamenti non facili, alle ristrettezze economiche in cui molti detenuti versano”. È quanto ha dichiarato il Garante dei detenuti della Regione Campania, aprendo i lavori del convegno “Il valore della territorialità della pena nel processo educativo”, patrocinato dalla Presidenza del Consiglio Regionale della Campania, nella figura del Presidente Paolo Romano, svoltosi stamani presso la sede consiliare, alla presenza dei vertici regionali e nazionali del Dap e dell’Amministrazione Penitenziaria, tra questi il Provveditore regionale per l’Amministrazione Penitenziaria, dott. Tommaso Contestabile e al Presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, dott. Carminantonio Esposito, il Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, il Prof. Mauro Palma, il Presidente Associazione “Il Carcere possibile Onlus”, l’Avv. Riccardo Polidoro, il Capo dell’Ufficio Ispettivo del Dap, Dott. Francesco Cascini, il Capo dell’Ufficio detenuti e trattamento del Dap, dott. Sebastiano Ardita, il Sen. Salvo Fleres, Garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, l’assessore alla politiche sociali del Comune di Napoli, Sergio D’Angelo, il capo di gabinetto dell’assessore regionale alle politiche sociali, il dott. Renato Grimaldi, a cui sono state affidate le conclusioni del convegno. Folta anche la presenza di consiglieri regionali presenti in platea: per il Pd il capogruppo Giuseppe Russo, Angela Cortese, Lello Topo e Corrado Gabriele e per Italia Dei Valori, Anita Sala. “La territorialità - secondo la Garante - è di gran lunga il primo problema da risolvere, ancor prima della salute, del vitto o ancor di più dei generi di prima necessità che mancano. Non si tratta solo di un problema di natura tecnico giuridica connesso con l’applicazione dell’art, 42 dell’OP, ma si tratta anche di una questione di natura culturale, e cioè di avere da parte di tutti un approccio democraticamente positivo nei confronti dei detenuti e del mondo carcerario nel suo complesso”. “Ed è per questo che - aggiunge la Tocco - urge applicare il principio della territorialità della pena, come questione di diritto e di civiltà giuridica e sociale, facendo rientrare così tale approccio, non per benevolenza verso i detenuti, ma semplicemente per restituire all’istituzione carceraria il suo ruolo di rieducazione come previsto dalla Costituzione”. “Tale atteggiamento - prosegue la Garante - eviterebbe anche un’altra conseguenza, cioè di far passare i detenuti, nella loro percezione, da colpevoli a vittime. Ed è per questo, che sottolineo l’esigenza per i detenuti comuni dell’essere vicini alla famiglia e al luogo di residenza, che diventa una condizione indispensabile per il reinserimento, mentre lo sradicamento appare dannoso sotto ogni aspetto”. E proprio per rimanere sul tema del reinserimento dei detenuti, che la cooperativa “Le Lazzarelle” che opera all’ interno del carcere femminile di Pozzuoli, dove le donne recluse si occupano della produzione di caffè partendo dalla tostatura fino alla distribuzione, ha gentilmente offerto agli intervenuti un coffee break offerto durante la conferenza e un lunch a fine dello stesso. Messina: detenuto muore dopo arresto, un altro attende in cella d’essere operato agli occhi Gazzetta del Sud, 7 ottobre 2011 Ancora detenuti al centro di casi controversi, sono tre le vicende di cui ci siamo occupati in questi giorni, una la scorsa settimana e altre due nell’edizioni di oggi. E una s’è conclusa in modo tragico, con la morte di un uomo, un cittadino romeno. C’è già quindi un’inchiesta che dovrà chiarire le cause della morte del trentenne Marcel Vitiziu, deceduto lunedì scorso per arresto cardiaco mentre in ambulanza dal carcere di Gazzi veniva trasferito al Policlinico. Il procuratore aggiunto Vincenzo Barbaro e il sostituto Federica Rende hanno dato infatti incarico a due medici legali palermitani di effettuare l’autopsia sull’uomo. Il 30enne era stato arrestato venerdì sera dai carabinieri in una rivendita di tabacchi di Camaro Inferiore. Era completamente ubriaco e all’arrivo dei militari si era scagliato contro di loro con calci e pugni. A fatica i militari erano riusciti a mettergli le manette ma lui era riuscito a divincolarsi, e stando ad una prima ricostruzione dei fatti aveva perso l’equilibrio, cadendo e sbattendo il viso sul pavimento. Non si era affatto calmato e per metterlo sull’ambulanza era stato legato alla lettiga e ammanettato. Al pronto soccorso dell’ospedale Piemonte era stato sedato, e giudicato guaribile in 30 giorni, con lesioni al naso e a un’arcata sopraccigliare. Quindici minuti dopo la mezzanotte era stato trasferito in carcere. L’indomani, alle 11, era stato portato in ambulanza al Policlinico per essere sottoposto ad una Tac, da cui erano emersi un trauma cranico - facciale, la rottura del setto nasale e un edema. Quindi era stato riportato in carcere, ma le condizioni erano peggiorate e nella giornata di domenica, alle 8.18, era stato sottoposto, al Policlinico, ad un’altra Tac, che aveva confermato la diagnosi precedente. Era quindi tornato di nuovo in carcere. Lunedì, alle 9.30, il gip Massimiliano Micali non era in pratica riuscito a convalidare l’arresto per le sue condizioni psicofisiche. Alle 11.15 l’uomo aveva subito un arresto cardiaco mentre un’ambulanza correva verso il Policlinico, inutili si erano rivelati i tentativi di rianimarlo e a mezzogiorno era stato dichiarato il decesso. Il legale d’ufficio, l’avvocato Giuseppe Serafino, nutre dubbi sulle cause del decesso che potrebbe essere stato provocato da lesioni interne “non correttamente diagnosticate tra venerdì sera e lunedì mattina”. Quindi il legale ha chiesto alla Procura di accertare da dove eventualmente derivino, se da traumi o da percosse, ma anche perché sia stato trasferito in carcere in stato d’arresto per resistenza a pubblico ufficiale e non invece sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio. Un altro caso venuto a galla in questi giorni, è praticamente analogo a quello del detenuto Sebastiano Destro, che abbiamo segnalato la scorsa settimana. Questa volta rischia di perdere parzialmente la vista il detenuto Salvatore Gottuso, e il caso lo segnala il suo difensore, l’avvocato Pietro Ruggeri, che ha inviato una serie di note tra l’altro al Magistrato di sorveglianza e al Garante regionale dei detenuti, l’on. Salvo Fleres. Nell’ultima lettera del 5 settembre scorso inviata al Policlinico e alla casa circondariale il legale ha chiesto lumi su un intervento di chirurgia oculistica che il suo cliente avrebbe dovuto subire per un’ulcera corneale, ma “...tale operazione ad oggi non è stata effettuata con gravi e concrete ripercussioni sullo stato di salute del mio assistito, ma ancor di più, l’Uoc di Oftalmologia del Policlinico di Messina “G. Martino”, come si evince dalla lettere in risposta alla mia richiesta di informazioni del 2 agosto, non sembra essere a conoscenza, non essendoci alcuna prenotazione, come la stessa Azienda ospedaliera attesta con comunicazione del 24 agosto, dell’intervento chirurgico che il sig. Gottuso avrebbe già da tempo dovuto effettuare”. Messina: oggi dibattito sul carcere organizzato dalla Camera penale “P. Pisani” Gazzetta del Sud, 7 ottobre 2011 Il punto sulla gravissima situazione al carcere di Gazzi, è l’argomento del dibattito organizzato dalla Camera penale “P. Pisani”, presieduta dall’avvocato Antonio Strangi, che si terrà questa mattina a Palazzo Piacentini. Alle 9,30 ci sarà un sit-in dei penalisti nell’androne centrale del Palazzo di Giustizia, alle 10 si terrà un dibattito nell’aula magna della Corte d’appello dal titolo “Carcere di Messina. Non più solo parole”. Gli interventi programmati saranno degli avvocati Vincenzo Grosso, Salvatore Stroscio, e del segretario della Camera penale Massimo Rizzo. Seguirà il dibattito. L’evento, che consente l’attribuzione di 3 crediti formativi, è organizzato dall’avvocato Filippo Mangiapane, dell’Osservatorio carcere. L’avvocatura predisporrà poi un documento che sarà presentato alle istituzioni cittadine. A Messina - Gazzi attualmente operano 198 unità di polizia penitenziaria (147 ai servizi interni e 51 addetti alle traduzioni anche per Barcellona Pozzo di Gotto), a fronte di un organico previsto di 293 unità, con turni per il personale che vanno dalle 12 alle 20 ore consecutive. Sempre a Gazzi, a fronte di una disponibilità reale di 162 posti detentivi, sono presenti 393 detenuti. Messina: l’Opg di Barcellona va trasformato in una Casa di reclusione Gazzetta del Sud, 7 ottobre 2011 I timori di una improvvisa chiusura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario “Vittorio Madia” di Barcellona (e ciò a seguito del futuro trasferimento degli internati alle strutture del Servizio sanitario nazionale), inducono le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria a chiedere l’immediata trasformazione della struttura che fino ad ora ha ospitato solo i malati di mente che hanno commesso reati ed i detenuti ammalatisi durante la permanenza in carcere, in Casa circondariale o in Casa di reclusione. A sostenere la proposta, fattibile da subito con pochi accorgimenti, in una articolata lettera inviata al Capo del dipartimento nazionale dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta, è stato il sindacato della polizia penitenziaria Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria) che ha inoltrato la specifica richiesta anche al Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Maurizio Veneziano e allo stesso direttore dell’Opg Nunziante Rosania. “Non c’è bisogno di ricordarlo che si tratta di una struttura - scrive il sindacato, riferendosi all’Istituto penitenziario Vittorio Madia di Barcellona - che, se opportunamente riconvertita, potrebbe ospitare tranquillamente ben 400 detenuti. Tali dati, a nostro parere - scrive il vice segretario regionale Domenico Nicotra - , sono riferibili alla capienza minima dell’Istituto senza la necessità di sovraffollarla più di quanto avviene già con gli altri Istituti di pena dell’isola. In un momento di forte carenza di posti letto nelle carceri siciliane ed in quelle nazionali, la riconversione dell’Istituto Barcellonese - osserva il sindacato - potrebbe costituire una positiva valvola di sfogo per il sovraffollamento presente negli Istituti della provincia di Catania e di Messina. Per questo chiediamo da subito che la struttura nel breve termine diventi una Casa Circondariale od una Casa di Reclusione senza la necessità di pensare a nuovi padiglioni oppure a nuovi Istituti in provincia di Messina”. Pronti dunque “ad intraprendere iniziative per far si che la trasformazione della struttura di Barcellona avvenga il più presto possibile”. Alla base delle richieste avanzate dalla segreteria regionale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, vi sono le preoccupazioni per le voci correnti che si sono diffuse nel corso del dibattito parlamentare e per le recenti iniziative intraprese dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale che ha messo al centro delle su attenzioni Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. “Si è diffusa la convinzione - afferma il sindacato - che nel quadro del passaggio dalla medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale gli ospedali psichiatrici giudiziari potrebbero essere definitivamente chiusi”. Le preoccupazioni manifestate dal personale attualmente in servizio, sarebbero scaturite anche dalla convinzione che in caso di dismissione dell’Opg la struttura possa essere abbandonata senza la proposta di una alternativa valida e soprattutto fattibile. “Anche per questo - afferma Domenico Nicotra nella lettera inviata ai vertici nazionale dell’Amministrazione penitenziaria - desideriamo richiamare la vostra attenzione sull’Opg di Barcellona di Gotto che possiede caratteristiche tali da essere trasformato in struttura carceraria penitenziaria o giudiziaria. E ciò mentre si respira tra il personale e gli addetti ai lavori un clima di completa empasse in quando la sanità penitenziaria, in Sicilia, non è stata ancora assorbita dal servizio sanitario nazionale”. Lecce: morte sospetta in carcere, il pm chiede l’archiviazione Corriere della Sera, 7 ottobre 2011 La decisione dopo l’esito della consulenza medico-legale. Per Giuseppe Nardella il decesso è stato “inevitabile”. A prescindere da una condotta gravemente negligente e dall’imperizia palesata dai medici nel formulare un’errata diagnosi, non si sarebbe potuto scongiurare il decesso di Giuseppe Nardella, il detenuto recluso nel carcere di Borgo San Nicola deceduto durante il trasporto in ospedale il 13 febbraio 2010. È questo l’esito della consulenza depositata dal medico legale Alberto Tortorella e dal direttore del reparto di neurochirurgia dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce, Antonio Montinaro, chiamati a stabilire cause e dinamiche del decesso e se vi fossero eventuali responsabilità da imputare ai due medici in servizio presso la casa circondariale del capoluogo salentino quel giorno. I nomi dei due sanitari erano stati iscritti nel registro degli indagati dopo l’apertura di un fascicolo in base alle risultanze di una relazione che la direzione dell’istituto penitenziario aveva inviato alla Procura. Era stato il magistrato titolare del procedimento, Paola Guglielmi, a disporre, a fine febbraio 2010, la riesumazione del cadavere e l’autopsia che, pur stabilendo in un’emorragia cerebrale la causa della morte, non aveva chiarito completamente le circostanze che avevano portato al decesso. Per questo il pubblico ministero aveva disposto ulteriori accertamenti. Approfondimenti necessari per capire se un intervento tempestivo del personale sanitario in servizio a Borgo San Nicola, sarebbe stato sufficiente a salvare la vita di Nardella. L’uomo, infatti, si sarebbe sentito male fin dalle prime ore della mattinata. Solo intorno alle 14, su disposizione del medico, sarebbe stato disposto il trasferimento in ospedale, ma Nardella sarebbe giunto al “Vito Fazzi” non prima delle 17 e 30, grazie all’intervento del 118 sollecitato proprio dallo stesso medico, ignaro fino a quel momento del grave ritardo nell’esecuzione del suo ordine. Sulla base di quanto evidenziato nella consulenza depositata dal dottor Tortorella e Montinaro, la Guglielmi ha chiesto l’archiviazione del procedimento, in cui l’ipotesi di reato a carico dei due medici era di omicidio colposo. Il sostituto procuratore della Repubblica trasmetterà comunque gli atti all’Ordine dei medici per le opportune valutazioni del caso. Modena: i detenuti protestano “non possiamo farci inviare saponi e cibi dai parenti” Gazzetta di Modena, 7 ottobre 2011 Questa volta a prendere la parola sono i detenuti in prima persona. I reclusi del penitenziario di S. Anna hanno preso carta e penna e scritto al ministro della Giustizia Nitto Palma, a Marco Pannella, da mesi in digiuno per ridurre il sovraffollamento delle carceri e anche al magistrato di sorveglianza di Modena, Mazza. “Ogni giorno dobbiamo convivere con una situazione che è fuori dagli standard europei - scrivono nella loro lettera - denuncia - Abbiamo due docce per 72 detenuti e l’acqua esce o gelida o tanto calda da ustionare. Ma non è questo il peggio perché per la pulizia dobbiamo fare i conti con la pulizia delle nostre celle: gli stracci sono stati soppressi per carenze di bilancio, come dice la direttrice, mentre i detersivi ci vengono consegnati così allungati con acqua da essere poco utilizzabili. E la carta igienica? Un rotolo a settimana”. Nella lettera vengono anche elencate le condizioni di scarsa vivibilità all’interno del S. Anna, per quello che riguarda gli spazi e soprattutto il cibo. “Quando usciamo nel cortile per l’ora d’aria - continua la missiva - dobbiamo condividere 220 metri per 200 detenuti: la media è di 1,20 metri quadrati a testa. Ma quello che è peggio è che i nostri familiari non riescono più a portarci da casa nè il cibo già preparato nè i detergenti per le pulizie, a differenza di quanto avviene nelle altre carceri italiane. Il tutto, ovviamente, pagato dai nostri cari e che non costerebbe nulla all’amministrazione del carcere. Persino la frutta fresca è stata vietata: in compenso il sopravvitto da acquistare allo spaccio interno è aumentato di prezzo. A loro i prezzi non li tagliano mai?” Dalla direzione non ci sono risposte ufficiali ma fonti ufficiose spiegano che gli aumenti di prezzo sono previsti dai contratti d’appalto e i controlli sono mensili. La regola prevede che siano tarati su quelli del supermercato più vicino entro un raggio di 250 metri: di conseguenza i rincari innescati dall’aumento dell’Iva sono arrivati a valanga anche nello spaccio interno del carcere. “Non è la struttura carceraria che può decidere i prezzi, purtroppo” ha fatto sapere la direttrice ai suoi collaboratori. Quanto ai cibi dall’esterno non ci sono ripensamenti. “Il regolamento prevede controlli per i cibi non confezionati - spiegò un mese fa la direttrice, Rosa Alba Casella - Per igiene non si possono usare le stesse posate per controllare tutti i cibi portati”. Roma: il Garante; Regina Coeli super affollato, così i disagi non potranno che aumentare... www.ilsussidiario.net, 7 ottobre 2011 Roma. Il carcere di Regina Coeli, struttura realizzata nel 1600, non è ormai più in grado di garantire accettabili standard di carcerazione, e da pochi giorni è stato lanciato un nuovo allarme sovraffollamento. Attualmente i detenuti sono oltre 1.200, ma il carcere può ospitarne al massimo 700: l’ora d’aria è stata ridotta a venti minuti, qualcuno dorme su dei materassi gettati per terra e in alcuni casi si può contare su un solo rotolo di carta igienica al mese fornito dall’amministrazione penitenziaria. I detenuti sono spesso costretti a dormire in sei o in otto in celle che ne possono contenere al massimo tre, non possono cucinare, non hanno momenti di socialità, mangiano sul letto sotto al quale tengono i loro oggetti personali e indumenti per non affollare ulteriormente le celle. Un altro grande problema derivante dal sovraffollamento è la situazione igienico - sanitaria, sempre più preoccupante: i medici fanno infatti sapere che c’è il rischio di epidemie con malattie contagiose come scabbia o tubercolosi. Poche ore fa il Consiglio regionale del Lazio, al termine della terza seduta straordinaria dedicata alla situazione delle carceri, ha approvato a maggioranza una mozione che impegna il presidente Renata Polverini e la Giunta a inviare sollecitazione ai presidenti di Camera e Senato affinché a loro volta favoriscano l’immediata calendarizzazione di provvedimenti diretti a ridurre il sovraffollamento che sempre più mette a rischio i diritti umani dei detenuti. Inoltre la mozione impegna il presidente e la Giunta a trovare immediatamente una soluzione logistica e alloggiativa utile a portare fuori dall’ambiente carcerario i bambini sotto i tre anni ivi reclusi, a prevedere un Piano di sostegno per favorire l’affidamento terapeutico dei tossicodipendenti, anche minori, presso comunità esterne, a dare piena attuazione alla legge regionale n.7 del 2006 e a tutte le disposizioni riguardanti le condizioni di vita penitenziaria, programmando interventi di formazione professionale all’interno delle carceri e a prevedere un Fondo eccezionale di solidarietà per i diritti fondamentali dei detenuti dimittendi. E ancora: a sollecitare il Governo affinché ponga in essere tutte le azioni necessarie ad assicurare al personale penitenziario condizioni di lavoro rispettose dei loro diritti di lavoratori, in particolare attraverso la coperture delle posizioni vacanti in tutte le piante organiche, a intervenire sul ministro di Giustizia affinché tutti i fondi della Cassa delle Ammende siano utilizzati per la realizzazioni di progetti di inserimento a favore delle persone detenute e a garantire la funzionalità di case alloggio, case famiglia e comunità terapeutiche, incrementandone ulteriormente la presenza sul territorio. Il documento è stato sottoscritto anche da molti esponenti della maggioranza di centrodestra, in primis la consigliera Isabella Rauti. In particolare, il capogruppo vicario del Pdl, Carlo De Romanis, nella prima seduta dedicata all’argomento aveva concesso libertà di voto. Nettamente contrario al provvedimento il gruppo La Destra. Sulla mozione, la Giunta ha deciso di rimettersi alla volontà dell’aula. Nel corso del dibattito, è stato ascoltato anche il Garante dei detenuti, Angiolo Marroni, che IlSussidiario.net ha intervistato: “Regina Coeli in linea generale non rappresenta un’eccezione rispetto tutto il sistema penitenziario regionale e direi anche nazionale. Dappertutto ci sono più detenuti di quelli previsti dai regolamenti, e quindi ci ritroviamo con un affollamento che produce disagi sanitari, esistenziali e di ogni genere a chi è detenuto. Questa situazione è precipitata, crescendo continuamente da quando venne introdotto l’indulto, perché tutte le leggi che si sono susseguite, più quelle preesistenti, hanno contribuito a fare del carcere l’unica vera pena, quella primaria. Con queste leggi, quindi, per un qualsiasi comportamento che violi in qualche modo le leggi si finisce in carcere, e aggiungendo la clandestinità, la recidiva e così via, si è arrivati a delle carceri affollatissime che non possono che peggiorare. Pistoia: i Verdi chiedono di aprire un dibattito sulla situazione difficile del carcere Il Tirreno, 7 ottobre 2011 Aprire un dibattito sulla situazione difficile del carcere di Santa Caterina in Brana per sapere quali iniziative intende assumere il sindaco Berti, nei limiti dei suoi poteri, per garantire civili condizioni di vita ai detenuti e agli operatori del carcere di Pistoia sollecitando in prima persona il governo centrale. È questo l’oggetto di un’interpellanza al sindaco firmata da Lorenzo Lombardi e Andrea Fusari (Verdi-Arcobaleno su Pistoia) ma portata avanti insieme ai Radicali con cui nello scorso 18 luglio hanno visitato la struttura penitenziaria cittadina. Quella sul carcere non è l’unica battaglia condotta dalle due forze politiche che hanno annunciato una collaborazione in ambito locale che porti alla nascita di una lista unica in vista delle elezioni amministrative del 2012. Per Matteo Angioli, esponente dei radicali pistoiesi nonché membro del consiglio generale del partito di Emma Bonino e Marco Pannella, il carcere di Pistoia “purtroppo è lo specchio della situazione delle carceri italiane che hanno totalmente perso la funzione rieducativa”. A fronte di un sovraffollamento della popolazione carceraria (117 per i 74 posti di capienza regolamentare), nel carcere pistoiese c’è una forte carenza di agenti penitenziari (attualmente 45, di cui uno prossimo alla pensione - invece dei 79 previsti). L’accesso a mansioni lavorative dei detenuti è ridotto perché manca il personale competente nell’accompagnamento. L’interrogazione vuol essere “di stimolo e pungolo”, come dice Lombardi, in quanto il sindaco Berti fu tra i primi firmatari della proposta di legge che l’onorevole Rita Bernardini ha presentato alla Camera per consentire a sindaci di poter entrare in ogni momento nelle strutture come possono fare consiglieri regionali e onorevoli. “Chiediamo al primo cittadino - dice Andrea Fusari - un esercizio e una presenza più assidua nelle relazioni con il carcere per lenire certe situazioni. I sindaci potrebbero fare tanto in quanto massime autorità sanitarie di una città”. La collaborazione tra Verdi e radicali pistoiesi non si fermerà a questa campagna ma arriverà fino all’alleanza in vista delle prossime elezioni amministrative. Una lista che rimarrà sarà all’opposizione del centro - sinistra? “Dipende dai programmi e da chi li incarnerà - dice Fusari - sicuramente l’esperienza di Arcobaleno su Pistoia. Nel centro - sinistra sono in molti a voler cambiare pagina e noi siamo aperti al dialogo, rimanendo fermi sulle tematiche che ci stanno a cuore, vedi l’urbanistica”. Firenze: Uil-Pa; il carcere di Sollicciano è infestato dalle zecche Adnkronos, 7 ottobre 2011 Il carcere fiorentino di Sollicciano infestato dalle zecche dei piccioni. A lanciare l’allarme è la Uil-Pa Penitenziari, che sollecita “vivamente le competenti autorità del Provveditorato e del Dipartimento, nonché le autorità sanitarie locali”, ad attivarsi “con immediatezza per garantire le necessarie attività disinfestanti”. L’invito del segretario generale del sindacato, Eugenio Sarno, fa seguito ad una formale nota già inviata alle autorità da parte della segreteria provinciale Uil Penitenziari di Firenze. Raccogliamo e sosteniamo l’allarme lanciato dagli operatori giuridici - pedagogici di Sollicciano - sottolinea Sarno - che hanno direttamente rilevato la presenza di nidi, residui nidiacei e di escrementi di piccioni negli ambienti penitenziari, tanto che si è dovuto procedere alla chiusura preventiva e cautelare per la disinfestazione di una sala colloqui ubicata presso l’infermeria del carcere. È del tutto evidente che in una situazione igienico - sanitaria già compromessa dal sovraffollamento ogni ulteriore elemento critico potrebbe far precipitare la situazione. Il problema dei volatili, con il conseguente rischio sanitario, è piuttosto comune nei penitenziari d’Italia. “Nel corso delle nostre frequenti visite - ricorda Sarno - abbiamo più volte potuto appurare quanto sia devastante dal punto di vista sanitario l’ingombrante presenza di piccioni o volatili che stanziano e nidificano nelle strutture penitenziarie”. “Gli escrementi, i nidi, i residui, le carcasse sono fattori veicolanti non solo di parassiti, ma anche di pericolose patologie infettive (alcune contagiose e persino mortali) tra le quali ricordiamo salmonellosi, criptococcosi, istoplasmosi, ornitosi, aspergillosi, candidosi, clamidosi, coccidiosi, encefalite, tubercolosi. È necessario, quindi, non solo procedere a sistematiche disinfestazioni, quanto prevedere un piano di contenimento delle presenze dei volatili infestanti”. “L’installazione di sistemi di allontanamento o l’apposizione di materiale anti - posatoio risulterebbero utili allo scopo e contribuirebbero al contenimento delle spese di disinfestazione. Questo potrebbe apparire - sottolinea il segretario generale della Uil-Pa Penitenziari - un problema di second’ordine rispetto alle tante criticità del pianeta carcere”. “Purtroppo l’esaurimento dei fondi per l’approvvigionamento del materiale di pulizia e gli effetti del sovraffollamento hanno dirette conseguenze sulla salubrità e l’igiene dei posti detentivi e dei luoghi di lavoro. Pertanto è doveroso monitorare , prevenire ed eliminare tutti i possibili focolai patologici, auspicabilmente attraverso azioni sinergiche tra autorità penitenziarie e autorità sanitarie”, conclude Sarno. Arezzo: non c’è benzina per i cellulari che devono tradurre i detenuti, saltano tre processi La Nazione, 7 ottobre 2011 La giustizia è all’asciutto. E non è una metafora. Non c’è benzina per i cellulari che devono tradurre dal carcere fiorentino di Sollicciano i detenuti ad Arezzo e non ce ne è neppure per il percorso opposto: i giudici aretini che devono andare a Sollicciano per le convalide degli arresti. Da un lato infatti la Q8 ha sospeso le erogazioni di carburante al carcere, moroso per 25 mila euro, dall’altro la segreteria del tribunale ha comunicato ai magistrati che i buoni benzina sono finiti. Ecco allora che stamani sono già saltate due udienze e un’altra è destinata a saltare nel pomeriggio. Doveva essere processato nell’aula del giudice Gianni Fruganti, lo stesso che nella sua veste di presidente regionale dell’Anm aveva sollevato il caso, l’uomo che in estate devastò il Santaprisca. Ma il detenuto non è stato tradotto ad Arezzo per mancanza di benzina e poiché ha diritto di assistere al processo che lo riguarda l’udienza è saltata, aggiornata al 20 ottobre, quando si spera che la Q8 abbia restituito un po’ di credito a Sollicciano. Niente udienza neppure per un contrabbandiere di sigarette ungherese sorpreso in Autosole con oltre 200 kg di bionde e per un terzo imputato, pure lui a processo per direttissima. Domani, invece, il Gip Andrea Claudiani si recherà a Sollicciano a sue spese per la convalida degli arresti dei tre presunti banditi accusati della rapina alle poste di Montagnano e per un pedopornografo (sempre presunto) di Cortona. L’alternativa sarebbe lasciare scadere le 96 ore oltre le quali, in mancanza di convalida, gli accusati tornano liberi. E non sarebbe un bel vedere se tre persone che secondo i carabinieri sono responsabili dell’assalto a un ufficio postale tornassero a spasso. Loro a spasso e lo stato a piedi, anzi all’asciutto. Per mancanza di benzina. La giustizia ha finito la benzina. L’entusiasmo? No, no: proprio la verde o, se preferite, il diesel. È arrivata con l’ultima goccia di carburante fino a Sollicciano, che poi è diventato il vero carcere aretino. E ora non si muove più. Inchiodata. Che succede? Semplice: la Q8, il cui nome campeggia su un distributore e sull’altro pure, si ritrova il cassetto dei crediti pieno e il portafogli vuoto. Non la pagano. Evidentemente deve avere una sorta di convenzione con il mondo delle aule. Al quale, immaginiamo, praticherà anche delle tariffe di favore. Ma una cosa è uno sconto e una cosa è viaggiare gratis. O almeno a debito. Anche gli enti pubblici, non è un mistero, ultimamente fanno fatica a onorare i pagamenti. Succede ai Comuni con i cantieri delle grandi opere pubbliche. Può succedere al mondo delle aule. E il “pagherò” alla fine viene a noia. Le risorse sono quelle che sono. E le spese del resto sono sempre più alte. Il caso aretino è eclatante. E il presidente regionale dell’Associazione Nazionale Magistrati, il giudice aretino Gianni Fruganti lo illustra nei dettagli. Perché il carcere ha chiuso: il vecchio San Benedetto conserva il nome, le mura più o meno invalicabili e forse qualche speranza per il futuro. Un cantiere dovrebbe riportarlo a nuova vita, anche se i dubbi non mancano, se non altro dando un’occhiata alle risorse, in riserva come la benzina. Nell’attesa le spese decollano. Quasi ogni giorno c’è da prendere un arrestato su piazza e trasferirlo su un’altra: Firenze per l’appunto, il glorioso carcere di Sollicciano. Spese di trasferta, personale dirottato mezza giornata altrove: e il conto della benzina che sale. E il credito ormai è finito. Che succederà da ora in poi? Difficile prevederlo. C’è il treno, certo, ma anche quello costa, se possibile anche più della benzina, e la sicurezza diventa più difficile da garantire. In bicicletta o a piedi guardie e ladri vanno solo nei mitici film di Steno. Una soluzione ci sarebbe, decisamente drastica: smettere di arrestare la gente. Magari non sarà il massimo sul piano delle regole, ma vi immaginate che risparmio? Nessuno da trasferire a Sollicciano, l’auto resta in garage, una goccia di benzina può bastare e avanzare anche un mese. Intanto però anche oggi ci sono due udienze con detenuti: e chi li porta? Ma se anche il paese “decarcerizzato” decollasse, il circuito delle spese non sarebbe ancora spezzato. Non c’è il carcere? E allora anche i magistrati devono andarsene a Firenze per le tradizionali operazioni di convalida. Beh, poco male, un pieno e passa la paura. No, per ora sono passati i buoni. I buoni con i quali si pagano le auto di servizio, due vecchie Punto, del tribunale. E ora? Senza più il carcere aperto c’è da viaggiare per Firenze, dove si svolgono ad esempio molte delle udienze di convalida. Tanto per spiegare quelle di oggi in cui sono sotto accusa i presunti rapinatori dell’ufficio postale di Montagnano e un altrettanto presunto pedofilo via Internet. O i giudici viaggiano a spese loro o gli accusati tornano liberi: un’alternativa del diavolo, come si dice. I buoni che prima garantivano una dignitosa spola ora finiscono prosciugati proprio come il serbatoio. A oggi quei buoni sono finiti. Problema morale? No, sostanziale. Venti euro al self service, la caccia all’ultima goccia dalla pompa neanche fosse una lacrima di Amaro Montenegro. E soprattutto una rivoluzione: signori, nasce la giustizia self service. Volontariato e maniche arrotolate. Forse una ricetta per ritrovare la benzina. Verde? calma, al massimo un briciolo di entusiasmo. Milano: al via il progetto Giovani e Lavoro, per il recupero dei detenuti Il Giorno, 7 ottobre 2011 “Il lavoro è una chiave fondamentale per il recupero di questi ragazzi problematici. È con il lavoro e con corsi di formazione e di istruzione che possiamo davvero reintegrarli nella società”. È nato a giugno il progetto “Giovani e lavoro”. La filosofia alla sua base sostiene la reintegrazione dei detenuti nella società attraverso il lavoro; l’iniziativa è stata realizzata da don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria, insieme ad Amsa e al Comune di Milano. In base al progetto, dal 14 giugno scorso, ragazzi tra i 18 e i 21 anni contribuiscono alla pulizia dei cimiteri milanesi di Baggio, Bruzzano, Chiaravalle, Greco e Lambrate. Inquadrati con regolari contratti a progetto della durata di un anno, i detenuti lavorano tutti i giorni dalle 7 alle 13 per un compenso mensile che si aggira tra i 900 e i mille euro. “Il lavoro è una chiave fondamentale per il recupero di questi ragazzi problematici - ha detto don Claudio. È con il lavoro e con corsi di formazione e di istruzione che possiamo davvero reintegrarli nella società. Al momento sono in 7 a svolgere questo lavoro per Amsa, di cui 5 sono di Milano. È una grande opportunità e spero ne sorgano altre, perché è un modo per far ottenere loro un guadagno onesto e ricostruire una rete sociale. Hanno bisogno di una normalità di vita, e stare in carcere senza far nulla di sicuro non li aiuta. Tra l’altro abbiamo avuto buoni riscontri di lavoro, quindi è anche una gratificazione per loro”. “Siamo contenti di aver ricevuto la proposta da don Claudio - ha aggiunto il presidente di Amsa, Sonia Cantoni - e di aver potuto dare una mano a questi ragazzi, che in questo inizio di autunno ci hanno anche aiutato a raccogliere le foglie nelle scuole. Adesso ci impegneremo a trovare altri ambiti di collaborazione per il futuro”. Udine: detenuto si arrampica su un muro alto 8 metri e minaccia di gettarsi Ansa, 7 ottobre 2011 Un detenuto di origine tunisina, H.B., 25 anni, ha minacciato di gettarsi per protesta da un muro alto otto metri su cui si era arrampicato. L’episodio è avvenuto nel pomeriggio, all’interno della casa circondariale del capoluogo friulano. Sul posto sono intervenuti i Vigili del fuoco assieme agli agenti di Polizia penitenziaria di Udine, che hanno convinto il detenuto a desistere dal gesto di protesta. Catania: oggi conferenza sulle carceri organizzata dall’Associazione Nazionale Forense La Sicilia, 7 ottobre 2011 Oggi venerdì nell’aula adunanze del Palazzo di Giustizia - a partire dalle ore 9,30 - si svolgerà la conferenza nazionale sulle carceri “giustizia dietro le sbarre. I paradossi sociali delle politiche securitarie” Alla conferenza parteciperanno fra gli altri il sen. avv. Maria Elisabetta Alberti Casellati Sottosegretario di Stato alla giustizia, il prof. Valerio Onida presidente emerito della Corte Costituzionale, il dott. Sebastiano Ardita direttore generale Uff. detenuti Dap ministero della giustizia, il sen. dott. Pietro Marcenaro presidente della commissione diritti umani del Senato, il dott. Franco Maisto presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, l’on. avv. Salvo Torrisi componente commissione giustizia della Camera, l’on. dott. Rita Bernardini componente commissione giustizia della Camera, il sen. Salvo Fleres, garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia e coordinatore nazionale dei Garanti, il prof. Carlo Pennisi ordinario di sociologia all’Università di Catania e assessore alle Politiche sociali del Comune etneo. L’iniziativa è organizzata dall’Associazione Nazionale Forense, presieduta dall’avv. Vito Pirrone, che recentemente è stato chiamato a collaborare alla Commissione Diritti Umani del Senato. L’incontro che si concluderà con una tavola rotonda alle ore 16, vuol favorire un ripensamento critico dell’esistente carcerario, approfondire l’analisi della funzione della pena detentiva all’interno dei processi evolutivi socio economisti e la ricerca dei modi per favorire processi di risocializzazione realmente utile per la prevenzione dei reati e la salvaguardia dell’ordine sociale. Prima dell’incontro il sottosegretario Alberti Casellati visiterà la casa circondariale di piazza Lanza Nuoro: “Ali della libertà”, progetto dell’Arci Solidarietà per i detenuti La Nuova Sardegna, 7 ottobre 2011 La libertà può passare attraverso i profumi dimenticati della carne arrostita allo spiedo, ma anche nello sguardo degli artisti di un luogo e nella sua cultura più autentica. E, grazie all’Arci Solidarietà e Sviluppo di Nuoro, i detenuti della casa di reclusione di Mamone, per un paio di giorni potranno librarsi nuovamente sulle “ali della libertà”. È questo il titolo evocativo del progetto che l’associazione nuorese, in collaborazione con l’amministrazione provinciale di Nuoro e con altri enti ed associazioni di volta in volta coinvolti, realizzerà sabato 8 tra i graniti e le sculture di piazza Sebastiano Satta. “Obiettivi del progetto - spiega il presidente di Arci Solidarietà e Sviluppo, Stefano Mannironi - sono il reinserimento sociale e l’inclusione dei detenuti di Mamone. Per un’intera giornata si cercherà di far conoscere ai detenuti la cultura, le tradizioni e la popolazione del Nuorese, consentendo agli interessati di trascorrere una giornata “da liberi”, insieme ai cittadini”. Il primo incontro/confronto tra culture comincerà con il cibo. Fin dalla prima mattina alcuni volontari - coordinati dai titolari del ristorante “Monti Blu”, che metteranno gratuitamente a disposizione la loro professionalità ed esperienza - insegneranno ai ragazzi come arrostire allo spiedo un vitello intero: dalla predisposizione corretta della legna alle tecniche per mettere il bovino negli spiedi, comprese le differenti modalità di cottura della carne e quant’altro necessario per la riuscita dell’evento. Nel corso dell’intera giornata sarà possibile degustare le carni cucinate in piazza. Nel pomeriggio si passerà dal cibo all’arte, con i ragazzi che potranno vivere l’esperienza indimenticabile di una visita guidata al Man. Il giorno successivo si metterà in ordine la piazza e si organizzerà un pranzo per le persone bisognose. Da segnalare che la carne, il formaggio e la verdura saranno forniti dalla casa di reclusione di Mamone, che a sua volta collabora per la realizzazione del progetto. Il cibo sarà offerto a prezzi concorrenziali, e il ricavato sarà utilizzato per coprire parte delle spese necessarie all’organizzazione dell’evento. I ragazzi di Mamone pernotteranno a Nuoro, ospiti delle strutture di accoglienza realizzate per volontà di don Pietro Borrotzu nella parrocchia della Beata Maria Gabriella, nel rione di Badu ‘e Carros. Per due giorni, insomma, grazie alla sinergia tra enti pubblici, associazioni di volontariato e imprenditori locali, i ragazzi di Mamone potranno riassaporare il bene più prezioso: la libertà. Palestina: contro le detenzioni illegali, sciopero della fame anche nelle prigioni dell’Anp InfoPal, 7 ottobre 2011 Rami Abu Samrah, di Tulkarem, Jàafar Dababasah di Talouzah (Nablus) e il giornalista Mohammed Basharat di Tammoun (Tubas) sono detenuti nelle prigioni dell’Autorità palestinese (Anp). Questi prigionieri palestinesi sono in sciopero della fame a oltranza contro l’illegalità della propria detenzione. Il tribunale, infatti, ne aveva ordinato il rilascio, mentre restano ancora in carcere. Tutti sono stati prigionieri anche nelle carceri di Israele. Il Comitato dei familiari dei detenuti fa sapere di ritenere l’autorità pienamente responsabile per la sorte di questi detenuti, in particolare per Dababasah, in sciopero della fame da 15 giorni. “Sono detenzioni condotte con il coordinamento con Israele e sono un modo per reprimere la resistenza palestinese”, hanno dichiarato dal Comitato. Eritrea: persecuzioni a Testimoni di Geova; 50 incarcerati, uno muore in prigione Associated Press, 7 ottobre 2011 Misghina Gebretinsae, uno dei Testimoni di Geova imprigionati in Eritrea senza accuse particolari, è morto in circostanze oscure durante la sua detenzione da parte delle autorità eritree. Aveva 62 anni. Secondo le informazioni ricevute, qualche tempo prima di morire, il signor Gebretinsae era stato messo in isolamento in un container di metallo per una settimana. Testimoni locali hanno detto che il signor Gebretinsae “si era sentito male” nel campo di prigionia Meitir dov’era detenuto e che all’Ospedale di Gindae vicino a Massawa è stato dichiarato “morto al suo arrivo”. Successivamente, il corpo del signor Gebretinsae è stato portato all’Ospedale di Halibet di Asmara dove la notizia della morte di Misghina è stata comunicata ai Testimoni locali. Lascia un figlio e tre figlie. I Testimoni di Geova in Eritrea sono stati solo recentemente informati della morte del signor Gebretinsae, conosciuto come un fedele padre di famiglia cristiano. La sua famiglia e i compagni di fede piangono la sua perdita. Il signor Gebretinsae godeva di un’ottima reputazione di persona rispettabile e fidata. Molti testimoni locali lo consideravano come una risorsa per la congregazione e la sua comunità. I Testimoni di Geova in tutto il mondo sono profondamente turbati che in Eritrea i loro compagni di fede rispettosi della legge vengono arrestati e imprigionati senza essere accusati di alcun crimine e senza un regolare processo. Il signor Gebretinsae è stato uno dei Testimon, tra cui donne e bambini, che hanno sperimentato un trattamento così duro da parte delle autorità eritree, soprattutto durante un’ondata di arresti sistematici dei Testimoni di Geova che va da luglio 2008 a giugno 2009. Il governo ha messo al bando tutte le minoranze religiose nel paese dal 2002, ma i Testimoni in Eritrea sembrano essere un obiettivo speciale. Tra i Testimoni di Geova in Eritrea tre obiettori di coscienza sono detenuti in carcere da quasi 17 anni, e due bambini, di 3 e 4 anni, sono incarcerati con le loro madri. Ai Testimoni prigionieri sono negate le visite, comprese quelle dei loro familiari. A partire dal 5 aprile 2011, sono stati incarcerati 51 Testimoni di Geova in Eritrea, compreso il signor Gebretinsae.