La “vera storia” di Elton e il perché di un diario di fine pena Redattore Sociale, 5 ottobre 2011 Il “Comitato di cittadini veneti - Fermiamo l’invasione” accusa: Elton sarebbe stato “un piccolo boss della malavita”. La verità sta tutta nella sentenza di condanna: né armi, né precedenti penali né sfruttamento della prostituzione. Di aver commesso un reato non lo ha mai negato. D’altra parte non si scontano 15 anni di carcere “per caso” o per niente. Elton Kalica è un detenuto del carcere Due Palazzi di Padova che tra qualche giorno, precisamente il 25 ottobre, tornerà in libertà avendo finito di scontare la sua pena. Ha accettato di raccontare questi ultimi giorni di galera a “Redattore sociale” non per scopi personali nè per lanciare appelli, ma per condividere senza secondi fini le emozioni, le ansie e le speranze di una persona che è stata “lontana dalla vita” per molto tempo. Ha accettato di scrivere un diario, di cui oggi pubblichiamo la quinta puntata, e facendolo si è esposto in prima persona, raccontando senza filtri o giustificazioni il percorso che lo ha portato a una condanna per sequestro di persona a scopo di estorsione. Il “Comitato di cittadini veneti - Fermiamo l’invasione”, di cui non si avevano notizie fino ad oggi, ha commentato il diario con una nota anonima, riportando alcuni articoli di cronaca: “Quasi commovente la storia del detenuto albanese finito in carcere ‘per casò... peccato sia falsa!” è il titolo del comunicato, nel quale si parla di “un piccolo boss della malavita” che “viveva schiavizzando e facendo prostituire delle ragazze albanesi”. Le ricostruzioni giornalistiche allegate riferiscono di un sequestro ai danni di una giovane prostituta. Il 15 agosto del 1997 si scrive: “Era ancora in mano ai rapitori la ventenne bosniaca al centro della lotta tra sfruttatori albanesi sfociata nella sparatoria di martedì alla stazione di Sesto”. E ancora: “ Contro Elton Kalica 21 anni, L. T., di 24, e S.B., tutti e tre pregiudicati, il pm Ambrogio Ceron ha emesso un fermo per sequestro di persona a scopo di estorsione”. La giovane sarebbe stata “liberata dai carabinieri che, dopo una sparatoria, avevano arrestato gli ideatori del sequestro, due albanesi e un italiano” (Corriere della sera, 23 gennaio 1998). Il problema delle ricostruzioni giornalistiche è che, a volte, sono sbagliate o imprecise, perché basate su un’unica fonte. Di incontrovertibile, invece, c’è la sentenza di condanna di cui è doveroso, a questo punto, rendere conto. Perché Elton non era uno “sfruttatore”, non era membro del racket (come si legge in un titolo), né un pregiudicato e non ha usato armi. A dimostrarlo è il fatto che di queste accuse non si trova traccia nella sentenza, che si limita a un solo capo d’imputazione, “sequestro di persona a scopo di estorsione”. Il 28 ottobre 1998 la Corte d’appello di Milano ha ridotto la pena da 17 anni e 2 mesi a 16 anni e 10 mesi, confermando “nel resto l’impugnata sentenza” e sottolineando “la loro incensuratezza” e “le modalità esecutive del sequestro di persona, non caratterizzate dall’uso di violenza fisica”. Le precisazioni sulla storia di Elton finiscono qui. Ma va registrata l’amarezza della redazione di Ristretti Orizzonti, che collabora al diario: “Elton Kalica è uno che non si è mai tirato indietro - scrive la direttrice Ornella Favero, che ha sempre raccontato come, da studente di un liceo di Tirana sia diventato, per scelta e non per “sfortuna”, un piccolo delinquente che viveva brillantemente di ricettazione. Ma dopo essere stato fino a diciannove anni solo un diplomato al Liceo classico, senza precedenti penali, con un padre ingegnere e una madre sindacalista, è pensabile che un anno più tardi lui sia già un boss della malavita?”. E resta un senso di colpa “perché ho pensato che raccontare le paure e le ansie di chi sta per uscire dal carcere fosse un modo per far capire alla gente che dal carcere escono persone, e non reati che camminano - continua Favero. E l’ho esposto alle schifezze di una realtà, fatta di gente che si sente totalmente buona, una realtà che forse è più cinica e miserabile di quella dei delinquenti veri, che almeno sanno di essere delinquenti”. Il diario di Elton: “I ricordi dell’isolamento” Redattore Sociale, 5 ottobre 2011 Quinta puntata. Il racconto della vita nella cella d’isolamento e in particolare del giorno in cui morì la madre di Bedri: la richiesta di una telefonata al padre, l’angoscia della lontananza e l’autolesionismo. Mi arrestarono una notte d’estate. Mi misero in isolamento. Tre metri per due: un tavolino e uno sgabello di ferro inchiodati al pavimento di cemento, una finestra soffocata da una fitta rete nera, un lavandino e il cesso ingiallito. Sul piano superiore del letto a castello c’era Bedri, magro e a torso nudo, sempre ansioso di mostrare il suo sorriso sdentato. In alto, vicino al soffitto, un televisore che poteva essere visto soltanto dalla branda di sopra. Mi buttai sulla branda di sotto da dove si potevano ascoltare i rumori e le voci di un film anonimo, come quando si rimane fuori da un cinema. In quel reparto tutte le celle erano occupate per via del sovraffollamento. Dopo aver finito i quaranta giorni d’isolamento ordinati dal giudice, rimasi per altri quattro mesi con Bedri, che guardava sempre la televisione steso in branda, e con Alket, un altro connazionale che si era sistemato per terra, da dove almeno riusciva a guardare un lembo dello schermo, anche se dovevamo scavalcarlo ogni volta che volevamo andare al bagno. Aspettavamo tutti e tre che nelle sezioni normali si liberasse qualche posto, quando Bedri ricevette un telegramma dall’Albania: sua madre era morta. Il foglio gli cadde di mano. Crollò in lacrime. Non sapevamo cosa fare, cosa dire. Alket spense il televisore come per risparmiare quella scena a Maria De Filippi. All’improvviso, Bedri scattò in piedi, gli occhi rossi, chiamò l’agente e disse: “Devo telefonare a casa, devo sentire mio padre e chiedergli scusa di non essere lì, con lui”. “Adesso m’informo e le faccio sapere”, disse l’agente. Tutti e tre avevamo fatto richiesta di telefonare a casa, in Albania, ma la prassi era lunga e dovevamo aspettare. L’agente ritornò e disse che non era possibile. Bedri perse il controllo, iniziò a urlare e a battere la testa contro il muro, imbrattandolo di sangue. Usammo tutta la forza per fermarlo. Sembrò acquietarsi, ma in un lampo prese un barattolo di pomodori, strappò il coperchio di latta e cominciò a tirarsi fendenti sul polso sinistro. Quando finalmente riuscimmo a togliergli la rozza lama di mano, si potevano contare cinque tagli che schizzavano sangue. Una squadra di agenti lo portò via. Ritornò dopo mezzanotte, trascinando a fatica i piedi a causa degli psicofarmaci di cui lo avevano imbottito. Crollò sul materasso di Alket e si addormentò balbettando: “Voglio morire anch’io”. Sono questi i miei primi ricordi di galera, non credo che riuscirò a cancellarli mai. Elton Kalica (in collaborazione con Ristretti Orizzonti) Elton è un 35 enne albanese, detenuto nel carcere Due Palazzi di Padova con una condanna a 14 anni e 8 mesi per sequestro di persona a scopo di estorsione (senza armi e durato due giorni). Il prossimo 25 ottobre finirà di scontare la sua pena e tornerà libero. Firma storica della rivista Ristretti Orizzonti, attende di sapere se sarà rimpatriato in Albania o se potrà restare in Italia e lavorare da esterno per Ristretti. Ha deciso di raccontare su “Redattore sociale” i suoi ultimi giorni dentro. Giustizia: amnistia; il ministro Romano firma il progetto di legge dei Radicali Il Velino, 5 ottobre 2011 Si è tenuto ieri sera nella sede del Partito radicale un incontro tra Marco Pannella, leader storico del movimento, Rita Bernardini deputata radicale, Mario Staderini, segretario di Radicali Italiani, il ministro dell’Agricoltura e leader del Pid, Saverio Romano, Pippo Gianni, coordinatore nazionale vicario del Pid, e i parlamentari Michele Pisacane, Giuseppe Ruvolo e la senatrice Castiglione. “Lo stato di diritto e quali regole si dà una comunità - ha detto Romano - è il primo passo per impostare un dialogo. Voi anche in questo siete censurati. Ma siete più visibili di quanto immaginiate. La forza delle vostre battaglie infatti va oltre la censura dei mezzi di comunicazione. Poiché in questo momento il nostro Paese è rappresentato da una Babele su ogni argomento. Per quello che ci riguarda noi Popolari Italia Domani troviamo molta sintonia con le vostre battaglie che riguardano la giustizia. Per questa ragione, insieme ai colleghi qui presenti, intendo firmare la vostra proposta di legge sulla amnistia”. Ha aggiunto Romano: “La questione dei diritti deve prescindere dagli schieramenti politici, è battaglia di civiltà. Su questo hanno convenuto tutti i presenti. La condizione delle carceri non è più tollerabile. Basti pensare che un terzo sono stranieri, un terzo tossicodipendenti, un terzo in attesa di giudizio”. Giustizia: inizieremo a svuotare gli Opg… l’annuncio dei ministri Fazio e Palma di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 ottobre 2011 L’unica soluzione auspicabile per l’”orrore” degli Ospedali psichiatrici giudiziari, “inconcepibili in qualsiasi Paese appena civile”, per citare le parole del presidente Napolitano, sarebbe la chiusura. Obiettivo al momento fuori dall’orizzonte dei due ministri, Ferruccio Fazio, titolare della Salute, e Francesco Nitto Palma, Guardasigilli, che ieri si sono incontrati per discutere della questione e hanno annunciato “prime soluzioni condivise entro 15 giorni”. La via possibile - la “liberazione” immediata di circa 400 dei 1400 internati nei sei Opg italiani ritenuti non più pericolosi e quindi da curare come malati psichiatrici, in carico alle strutture sanitarie regionali - era stata già indicata dalla risoluzione votata all’unanimità dal Senato il 28 settembre scorso a partire dai dati contenuti nel rapporto della Commissione d’inchiesta sul Ssn presieduta dal senatore Pd Ignazio Marino. “Ci sentiamo obbligati a trovare in tempi rapidi soluzioni per i previsti trasferimenti dei detenuti non pericolosi che spesso non avvengono per mancanza di protocolli chiari”, ha spiegato Fazio riferendosi a quelli che ormai vengono chiamati “ergastoli bianchi”. Persone, malate psichiche, considerate pericolose e dunque sottoposte a misure di sicurezza provvisoria - come tutti gli internati negli Opg, residui del codice Rocco sopravvissuti alla riforma Basaglia - di solito prorogate di sei mesi in sei mesi, a volte perfino quando l’apposita commissione valuta decaduti i requisiti di pericolosità sociale. Sono persone che dovrebbero invece risiedere in strutture sanitarie o socio - sanitarie adeguate, pagate delle regioni cui spetta l’erogazione dei servizi per la salute, compresa dal 2008 quella dei carcerati. Succede invece che per mancanza di fondi o più facilmente di volontà alcune regioni (e di conseguenza le Asl) non si rendano disponibili alla presa in carico dei pazienti illegalmente detenuti negli Opg. “Una prassi - commenta Ignazio Marino - di sistematica lesione di due diritti fondamentali, il diritto alla libertà e il diritto alla salute, che non ha, né può avere, fondamento giuridico, dal momento che nessuna persona che non sia pericolosa per la società può essere privata della libertà personale”. “Dobbiamo arrivare a un più rapido turn over dei reclusi negli Opg che al massimo dovrebbero ospitare 600 - 700 persone”, spiega meglio Fazio. Da via Arenula invece nessun approfondimento sul tema, salvo rimandare alle riflessioni di Nitto Palma su come, una volta ridotto il numero di internati, si possa pensare alla “rivisitazione delle strutture”, ad una “possibile riduzione e una loro diversa collocazione e distribuzione”. Non è sfuggito infatti all’occhio acuto del Guardasigilli che la struttura di Montelupo fiorentino, uno dei sei Opg italiani, è una villa medicea di enorme valore e bellezza. E dunque potrebbe essere utilizzata per qualcosa di meglio. O di più redditizio. Insomma, speriamo che nessuno pensi di trasferire intanto i suoi ospiti in altri Opg solo per liberare una “risorsa”. Il trasferimento degli internati, peraltro, è già cominciato (una decina finora) da quando, a luglio, la struttura è stata posta in parte sotto sequestro per ordine della Commissione di Marino che aveva dato tempo fino al 30 settembre per l’adeguamento del sistema antincendio e il ripristino dell’abitabilità igienico-sanitaria. Va detto, per completezza d’informazione, che ogni Opg costa di gestione (dati di Antigone) 5 milioni di euro l’anno, nelle regioni che non hanno ancora recepito il trasferimento della sanità penitenziaria al Ssn, e 12 milioni per quelle che lo hanno fatto. Ugl: bene incontro Palma-Fazio, ora misure concrete “Siamo sicuri che l’incontro tra i ministri Palma e Fazio sia stato utile per valutare la salute nelle carceri italiane e affrontare la disagevole condizione degli internati rinchiusi negli Opg. Ora attendiamo che, una volta inquadrati i problemi, vengano prese le misure necessarie a risolverli”. Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, in merito all’incontro di oggi tra il guardasigilli e il ministro della Salute, aggiungendo che “il problema della tutela della salute in un contesto di promiscuità elevatissimo impone anche adeguate profilassi che ad oggi non sembrano poter essere garantite a causa del depauperamento delle risorse umane. Il passaggio delle competenze alla Sanità regionale, infatti, determina un surplus di lavoro alla Polizia Penitenziaria che è costretta a estenuanti traduzioni per le esternalizzazioni delle cure”. “Siamo convinti che se da un lato è stato importante stabilire il principio di uguaglianza tra la popolazione detenuta e non rispetto alle prestazioni sanitarie, dall’altro il funzionamento del servizio - conclude il sindacalista - deve essere regolato tenendo conto del fatto che la promiscuità dovuta al sovraffollamento e le precarie condizioni igienico sanitarie delle molteplici strutture penitenziarie rappresentano un allarme ormai quotidiano da tenere sotto controllo”. Giustizia: proposta legge Pdl; refettori comuni per i detenuti, vietate le bombolette di gas Ansa, 5 ottobre 2011 Un refettorio comune per i detenuti in ogni carcere italiano e il divieto di acquistare e detenere bombole di gas in cella. Sono i punti salienti della proposta di legge presentata dal deputato del Pdl Rocco Girlanda, alla quale hanno già aderito 18 parlamentari. L’iniziativa, che è stata condivisa con il sindacato della polizia penitenziaria Sappe, mira a migliorare le condizioni di vita dei detenuti, già costretti in carceri sovraffollate. La proposta di legge si compone di 4 articoli: viene stabilito che gli istituti di pena realizzati dopo l’entrata in vigore della legge debbano prevedere “la progettazione e il funzionamento di un refettorio comune per la somministrazione del vitto ai detenuti, in alternativa alla distribuzione del pasto in cella”. Al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria spetta invece una ricognizione delle strutture già esistenti, per stabilire come poter intervenire. L’ultimo articolo prevede invece il divieto per i detenuti di acquistare e di detenere, all’interno dell’istituto penitenziario, bombolette e fornelli che erogano gas. Misura, questa, inserita per motivi di sicurezza sollevati dal sindacato. “Negli ultimi anni - spiegano Girlanda e Giovanbattista Durante - è aumentato il numero dei detenuti, soprattutto tossicodipendenti, che utilizzano il gas al posto della droga. Ecco dunque che un refettorio comune, oltre che consentire una maggiore socializzazione tra i detenuti, ridurrebbe anche i rischi per i soggetti più deboli”. “Spero che l’iniziativa diventi una proposta di legge bipartisan - dice Girlanda - e solleciterò il presidente della Camera affinché al più presto venga portato nelle commissioni competenti, in modo che possa essere approvata entro la fine della legislatura. Abbiamo accolto con favore la proposta - aggiunge Durante - È qualcosa di concreto rispetto alle tante parole che spesso si fanno sulle carceri”. Giustizia: Osapp; a rischio assunzioni Polizia penitenziaria necessarie a coprire il turnover Adnkronos, 5 ottobre 2011 “I poliziotti penitenziari sono già in guai seri, a causa del sovraffollamento nelle carceri, delle carenze di organico e della penuria di fondi anche per il pagamento di alcune prestazioni lavorative. Ma se il Governo dovesse cadere in questo momento, dai guai passeremmo al disastro più assoluto”. Ad affermarlo è Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp), al termine di una visita ai posti di servizio della Casa di reclusione di Milano - Bollate. Secondo il leader dell’Osapp, infatti, “il ministro Tremonti non ha ancora firmato e rischia di non firmare mai più il Dpcm riguardante l’assunzione nella polizia penitenziaria, per turnover entro il 2012, di 1.140 unità. Tra queste assunzioni, 127 riguardano neo-vice commissari, il che implicherebbe - sottolinea Beneduci - una perdita netta nel già depauperato organico del corpo, sempre per il 2012, di 2.800 unità”. “Malgrado le triennali promesse dell’ex Guardasigilli Alfano - prosegue il sindacalista - ad oggi la polizia penitenziaria avrebbe già perso le 1.611 unità aggiuntive previste per il cosiddetto piano - carceri, sulle quali attendiamo gli esiti dell’intervento del ministro Palma. L’ulteriore ingente perdita porterebbe in primo luogo all’impossibilità di aprire e rendere funzionale qualsiasi nuova struttura e poi alla completa paralisi del sistema”. “Ci auguriamo, quindi - auspica Beneduci - che l’attuale Guardasigilli possa e voglia accentuare le proprie iniziative in favore della polizia penitenziaria in seno al Consiglio dei ministri”. In caso contrario, “la carenza di personale nel già precario universo penitenziario renderà impossibili persino le attività ordinarie e di routine del carcere con gravi ricadute in danno della sicurezza della collettività”, conclude. Giustizia: morte di Stefano Cucchi; agli atti del processo la lettera di un ex detenuto Ansa, 5 ottobre 2011 “Mi hanno ammazzato di botte i carabinieri, tutta la notte ho preso botte per un pezzo di fumo”. È la confidenza che Alaya Tarek ha detto di aver sentito con le sue orecchie direttamente da Stefano Cucchi, il geometra 31enne arrestato per detenzione di droga e morto nel reparto clinico del carcere Regina Coeli il 22 ottobre 2009. Tarek poi chiese di ricopiare tutto a un’altra persona che era detenuta, Stefano Capponi: ora quella lettera è agli atti del processo a carico di sei medici, tre infermieri e tre guardie carcerarie. Le accuse, a vario titolo, vanno dalle lesioni e abuso di autorità fino al favoreggiamento, abbandono di incapace, abuso d’ufficio e falsità ideologica. Nessuno dei dodici imputati era presente nell’aula del Tribunale. “Io Cucchi non l’ho visto né conosciuto - ha detto Capponi ieri in aula a Roma - . Fu Tarek a chiedermi di ricopiargli una lettera. Era scritta in un italiano strano”. Capponi ha confermato in pieno i contenuti della lettera. Anche altri due ex detenuti, cittadini albanesi, che il giorno della convalida dell’arresto di Cucchi si trovavano come lui nelle celle del tribunale di Roma avrebbero sostenuto che Cucchi aveva raccontato loro di essere stato percosso dai carabinieri. Ieri non erano in aula perché irreperibili. Per la difesa la loro audizione è necessaria; il pm era pronto a farne a meno. Dovranno quindi essere rintracciati. In relazione alla morte di Stefano è già stato condannato a due anni di carcere con rito abbreviato Claudio Marchiandi, funzionario del Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria). Secondo il gup che ha firmato quella condanna, Stefano Cucchi “doveva essere internato” nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini proprio per “evitare che soggetti estranei all’amministrazione penitenziaria prendessero cognizione delle tragiche condizioni in cui era stato ridotto”. Ricoverato lì per evitare che la situazione “venisse portata a conoscenza dell’autorità giudiziaria”; “per tenere Cucchi al riparo da sguardi indiscreti sottraendolo intenzionalmente a tutte le cure di cui aveva bisogno”. Per il giudice Rosalba Liso infatti “non c’era spazio a dubbi di sorta in ordine al fatto che Cucchi fosse stato picchiato”. “Stefano non doveva assolutamente entrare poiché si trattava di un paziente in un fase di acuzie”. Marchiandi per il gup “ha concorso alla falsa rappresentazione delle reali condizioni di Stefano (fu redatto dalla dottoressa Rosita Caponetti, anche lei imputata, un falso un falso certificato medico) così determinandone l’ingresso al reparto protetto del Pertini, che non sarebbe stato altrimenti in alcun modo possibile”. Giustizia: ma quante “Amanda” ci sono ancora nelle carceri italiane? Valentina Ascione Gli Altri, 5 ottobre 2011 Millequattrocento giorni. È quanto Amanda Knox e Raffaele Sollecito hanno atteso in carcere prima di essere assolti. Quattro anni. Un’ampia fetta sottratta alla gioventù dei due imputati, che all’epoca dei fatti avevano vent’anni o poco più. Un bel pezzo di vita spesa dietro le sbarre, mentre fuori si consumavano le schermaglie tra innocentisti e colpevolisti. Ma lontano dagli onori della cronaca e dalle prime pagine dei giornali, dai riflettori e dai salotti televisivi, sono tantissime le vite ostaggio dei tempi di una giustizia bloccata. Di un sistema ormai al collasso sotto il peso di un arretrato pendente che sfiora i tre milioni e mezzo di procedimenti penali e sei milioni di procedimenti civili. Una paralisi che è valsa al nostro Paese da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo ben 1095 condanne per violazione della ragionevole durata dei processi, rispetto alle 278 inflitte alla Francia, alle 54 della Germania e alle 11 della Spagna. E sono migliaia coloro che attendono giudizio, come i protagonisti della piéce di Samuel Beckett attendono Godot, tra le mura di quell’inferno conclamato che sono le nostre galere. Oltre 28 mila, secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia: il 42 per cento dell’intera popolazione carceraria che ad oggi conta circa 67400 detenuti. Un’anomalia tutta italiana che costituisce una delle principali cause del grave stato di sovraffollamento che affligge le carceri del nostro Paese, dove ci sarebbe posto per 46 mila persone: quindi oltre ventimila in meno rispetto a quelle attualmente presenti. In Italia la carcerazione preventiva è consentita solo in tre casi: il pericolo di fuga, il pericolo di reiterazione del reato e il pericolo di turbamento delle indagini. Eppure l’abuso di questo strumento appare ormai evidente e sono in tanti a denunciarlo perfino tra le massime autorità istituzionali. L’ha sottolineato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al convegno sui temi del carcere e della giustizia che si è tenuto lo scorso luglio al Senato, dove nel corso di un intervento dai toni gravi e inequivocabili ha parlato di un “crescente ricorso alla custodia cautelare, abnorme estensione in concreto della carcerazione detentiva”, che contribuisce a determinare una realtà “che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo”. In quella stessa occasione faceva eco al Capo dello Stato il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, invitando i magistrati “ad un uso sempre più prudente e misurato della misura cautelare restrittiva, strumento da mantenere nell’eccezionalità, quando nessun altro strumento può essere utilizzato per soddisfare le esigenze cautelari”. Parole riprese dal ministro della Giustizia Nitto Palma nella relazione tenuta due settimane fa a Palazzo Madama, in apertura della sessione straordinaria sulla crisi del sistema penitenziario e della giustizia. Ma non è tutto. Secondo le statistiche la metà di coloro che oggi attendono giudizio dietro le sbarre, ammassati come carne da macello, al termine dell’iter processuale sarà riconosciuta innocente. Com’è accaduto a Massimo Papini, scenografo apprezzato e stimato, che da un giorno all’altro, nell’ottobre del 2009, si è visto sbattere in galera con l’accusa di terrorismo. A suo carico l’amicizia che da tempo lo legava a Diana Blefari Melazzi, membro delle nuove Br, e altre frequentazioni di gioventù. Frattaglie del passato sufficienti, in un clima da caccia alle streghe, a costituire per l’accusa un impianto probatorio. E a sottoporre l’uomo a un regime detentivo per certi versi più duro di quello imposto a mafiosi e camorristi. Dopo 18 mesi di carcerazione preventiva, però, Massimo Papini è stato prosciolto da tutte le accuse, anche se nulla potrà restituirgli il tempo che una giustizia miope gli ha scippato. Né a lui, né alle altre vittime di uno Stato che ogni anno sborsa milioni per risarcire le ingiuste detenzioni. Ferite più semplici da evitare, che da curare. Lazio: approvata mozione su sovraffollamento carceri, voti da maggioranza e opposizione Il Velino, 5 ottobre 2011 Il Consiglio regionale del Lazio, presieduto da Mario Abruzzese, al termine della terza seduta straordinaria dedicata alla situazione delle carceri, ha approvato a maggioranza una mozione (primi firmatari i capigruppo di Sel e Lista Bonino-Pannella, Luigi Nieri e Giuseppe Rossodivita) che impegna il presidente Renata Polverini e la Giunta: ad inviare sollecitazione ai presidenti di Camera e Senato affinché a loro volta favoriscano l’immediata calendarizzazione di provvedimenti diretti a ridurre il sovraffollamento che sempre più mette a rischio i diritti umani dei detenuti; a prevedere un Piano di sostegno per favorire l’affidamento terapeutico dei tossicodipendenti, anche minori, presso comunità esterne; a dare piena attuazione alla legge regionale n. 7 del 2006 e a tutte le disposizioni riguardanti le condizioni di vita penitenziaria, programmando interventi di formazione professionale all’interno delle carceri; a trovare immediatamente una soluzione logistica e alloggiativa utile a portare fuori dall’ambiente carcerario i bambini sotto i tre anni ivi reclusi; a prevedere un Fondo eccezionale di solidarietà per i diritti fondamentali dei detenuti dimittendi; a dare indicazione alle Asl di prendere in carico la sanità penitenziaria senza ulteriori ritardi, in particolare favorendo la medicina specialistica intramuraria ambulatoriale; a rafforzare le strutture protette dell’ospedale Pertini di Roma e Belcolle di Viterbo, garantendo la presenza delle figure professionali previste ed, eventualmente, valutando la possibilità, compatibilmente con le risorse finanziare disponibili, di realizzare strutture analoghe nelle province di Frosinone e Latina; ad assicurare il diritto alla salute agli stranieri trattenuti presso il Cie di Ponte Galeria; ad adottare misure urgenti affinché, per far fronte al rischio arsenico, i detenuti ristretti nelle carceri di Latina, Paliano, Velletri e Civitavecchia e Viterbo siano dotati, in via straordinaria ed urgente, di acqua potabile minerale gratuita; ad assicurare pieno sostegno contributivo per tutte quelle aziende, profit e non profit, che diano occupazione alle persone detenute ed ex detenute. La mozione prevede inoltre: ad assicurare un pieno sostegno istituzionale a tutti quei progetti rivolti a sostenere iniziative scolastiche, formative e sportive per i detenuti ristretti presso l’Istituto penale minorile di Casal del Marmo, creando le condizioni per un reinserimento a pieno titolo nella società civile; a garantire la funzionalità di case alloggio, case famiglia e comunità terapeutiche, incrementandone ulteriormente la presenza sul territorio; a sollecitare il governo affinché ripristini i fondi destinati alla legge Smuraglia per favorire l’inserimento lavorativo; a sollecitare il Governo affinché ponga in essere tutte le azioni necessarie ad assicurare al personale penitenziario condizioni di lavoro rispettose dei loro diritti di lavoratori, in particolare attraverso la coperture delle posizioni vacanti in tutte le piante organiche; ad intervenire sul ministro di Giustizia affinché tutti i fondi della Cassa delle Ammende siano utilizzati per la realizzazioni di progetti di inserimento a favore delle persone detenute; a sollecitare il governo affinché si utilizzino al meglio e razionalmente e, nel rispetto degli standard abitativi previsti dalla normativa nazionale e internazionali, tutti gli spazi detentivi disponibili. Il documento è stato sottoscritto anche da molti esponenti della maggioranza di centrodestra, in primis la consigliera Isabella Rauti. In particolare, il capogruppo vicario del Pdl, Carlo De Romanis, nella prima seduta dedicata all’argomento aveva concesso libertà di voto. Nettamente contrario al provvedimento il gruppo La Destra. Sulla mozione, la Giunta ha deciso di rimettersi alla volontà dell’aula. Nel corso del dibattito, è stato ascoltato anche il Garante dei detenuti, Angiolo Marroni. Radicali: bene approvazione mozione “Il Consiglio regionale del Lazio, dimostrando senso di responsabilità ed attenzione per un problema vero, del mondo reale, che incide sulle condizioni di vita di tutta la comunità penitenziaria, costituita da detenuti, agenti di polizia penitenziaria, direttori, psicologi, assistenti sociali, ha dato oggi una bella prova di se”. Lo dichiarano in una nota i consiglieri regionali del Lazio Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, Lista Bonino Pannella Federalisti europei “Le condizioni in cui sono costretti a vivere coloro che fanno parte della comunità penitenziaria sono semplicemente illegali, al di fuori cioè del dettato di tutte le norme che l’ordinamento, nazionale ed internazionale, prevede, a partire proprio dalle norme della nostra costituzione. Se c’è - proseguono - chi vuole che i detenuti oltre alla libertà personale, siano sottoposti a torture, lo dica e provi a far cambiare l’Ordinamento penitenziario, la Costituzione, le convenzioni internazionali a partire da quella Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo. Oggi però non è così, e noi ci batteremo sempre per evitare che lo Stato diventi come i criminali che deve punire”. “Oggi - continuano i consiglieri - l’ordinamento prevede che i detenuti, tanto in custodia cautelare quanto definitivi, siano sottoposti alla limitazione della libertà personale, non alla privazione del diritto alla dignità, alla salute e persino - come denunciato ieri dal Garante dei diritti dei detenuti del Lazio con riferimento al carcere di Regina Coeli - al diritto al cibo”. “La situazione delle carceri italiane e anche laziali è semplicemente illegale e criminogena. La Regione - proseguono - non può fare ciò che occorrerebbe per riportare la situazione alla legalità, ma può fare molto per tentare di rimediare a questa situazione ed ora spetta alla giunta della presidente Polverini di sollecitare i presidenti di Camera e Senato affinché calendarizzino provvedimenti, di competenza del Parlamento, per ridurre il sovraffollamento che mette a rischio i più elementari diritti umani, di prevedere un Piano di sostegno per favorire l’affidamento terapeutico dei tossicodipendenti presso comunità esterne, di realizzare finalmente l’Icam per portare i bambini fuori dalle carceri, di prevedere un fondo eccezionale di solidarietà per i detenuti dimittendi, di garantire, dando precise indicazioni alle Asl, l’efficienza della sanità penitenziaria, di adottare misure per evitare che i detenuti siano dissetati con acqua all’arsenico nelle carceri laziali, di assicurare un sostegno economico a tutte quelle realtà no - profit che aiutano i detenuti a reinserirsi nella società”. “Sono cose molto serie ed importanti, per le quali occorre ringraziare anzitutto - come si fa nel testo della mozione - la battaglia di Marco Pannella, a tutt’oggi in sciopero della fame e della sete, e dei 30 mila che insieme a lui hanno intrapreso questa forma di lotta non violenta. Sono cose molto serie - affermano Rossodivita e Berardo - ed importanti per le quali noi Radicali vogliamo ringraziare i Gruppi del Consiglio che hanno sostenuto questa battaglia, a partire da Sel, al Gruppo del Pd, oggi presente in aula compatto e coeso, al gruppo della Fed, al gruppo dell’Udc, sino ai singoli consiglieri della maggioranza che hanno votato insieme questa mozione”. “Di fronte alla serietà ed all’importanza del tema - concludono i consiglieri - passano in totale secondo piano, i tentativi di strumentalizzazione e le solite minacce di rappresaglia di qualche consigliere che cerca solo visibilità, facendo leva sulla stantia rappresentazione identitaria di una destra fuori dal tempo”. Fds: bocciate vergognose provocazioni razziste “Vergognoso l’atteggiamento di una parte della maggioranza, capeggiata da Storace, che su un tema delicato e drammatico come la condizione carceraria è riuscita solo a provocare”. Lo dichiarano, in una nota congiunta, i consiglieri della Federazione della Sinistra alla Regione Lazio, Ivano Peduzzi e Fabio Nobile. “La proposta del capogruppo della Destra - proseguono - di inserire elementi razzisti e disumani nella mozione sui diritti dei detenuti ha trovato il solo sostegno dall’assessore Cangemi che, esprimendosi a nome della Giunta, ha dato parere favorevole. L’aula, invece, ha giustamente bocciato gli emendamenti, contribuendo a ridare dignità al Consiglio regionale”. “La mozione appena approvata - continuano i consiglieri - indica con chiarezza la necessità di superare la visione del carcere quale discarica sociale, prendendo in considerazione misure alternative alla detenzione nell’espiazione della pena. Ora - concludono Peduzzi e Nobile - ci aspettiamo che la Regione Lazio, nell’ambito delle proprie competenze, dal ruolo delle Asl negli istituti carcerari alla formazione, dia seguito alle indicazioni contenute nel testo”. Abruzzese: mozione approvata è segnale di attenzione “Con l’approvazione della mozione sulle carceri, passata oggi al vaglio dell’Aula, il Consiglio regionale ha dato un grande segnale di attenzione alla delicata situazione in cui versa il mondo degli istituti di pena. L’ampio ed articolato dibattito, che si è arricchito della relazione del Garante dei detenuti, Angiolo Marroni, ha fatto chiaramente emergere una serie di problematiche e criticità che quotidianamente affliggono i detenuti e tutte quelle persone che ruotano attorno al complesso sistema degli istituti penitenziari”. Lo ha affermato, in una nota, Mario Abruzzese, presidente del Consiglio regionale del Lazio. “Era inevitabile che nel corso del dibattito emergessero contrapposizioni di carattere politico - ideologico. Il Consiglio ha dimostrato grande maturità, e con questo voto, che ha visto insieme maggioranza ed opposizione, ha dato il via libera ad una mozione che innanzitutto servirà a sollecitare Camera e Senato ad aprire, in tempi brevi, un confronto sul delicato problema del sovraffollamento delle strutture, oltre che a sollecitare il Governo affinché si utilizzino nel migliore dei modi tutti gli spazi detentivi presenti sul territorio regionale. A questo punto, il mio auspicio è che, compatibilmente con le risorse finanziarie, sia fatto tutto il possibile per garantire il rispetto dei diritti costituzionalmente riconosciuti ad ogni cittadino in detenzione sul territorio. Sono convinto che la garanzia di tali diritti passi proprio attraverso il riconoscimento della necessità di nuovi investimenti in edilizia carceraria, in un reintegro rapido del personale di polizia penitenziaria e in nuove assunzioni nel settore socio - assistenziale”. Nieri (Sel): approvazione mozione è prova di civiltà “Su argomenti delicati come quello del sovraffollamento carcerario, la discussione è sempre positiva e le divergenze politiche più che legittime. Nonostante tali divergenze, comunque, il Consiglio regionale del Lazio, in questa occasione, ha dato prova di serietà e di grande sensibilità. Abbiamo dedicato ben tre sedute consiliari al tema carcere, e il voto di oggi, con l’approvazione a maggioranza della mozione, è stato un passo importante”. È quanto ha dichiarato Luigi Nieri, capogruppo di Sinistra Ecologia Libertà nel consiglio regionale del Lazio. “Abbiamo invitato i consiglieri a riflettere e a esprimersi su una serie di misure pratiche da attuare nell’immediato, per attenuare le difficoltà causate dal grave sovraffollamento in atto e migliorare le condizioni di vita dei detenuti, a partire dalla sanità. Nella mozione - continua Nieri - ci sono anche iniziative rivolte al personale, comprese le forze di polizia penitenziaria. Misure di buon senso, raccolte in un documento firmato e votato da gran parte dei gruppi di maggioranza e opposizione. Di questo sono particolarmente soddisfatto, perché quando si parla dei diritti delle persone, soprattutto le più svantaggiate, non si può e non si deve restare confinati in ambiti ideologici”. “Il sovraffollamento carcerario è un’emergenza umanitaria anche negli istituti penitenziari della nostra regione dove, attualmente, è sempre bene ricordarlo, sono presenti 6591 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 4856. A tutte queste persone il Consiglio regionale del Lazio ha dato oggi una prova di civiltà, non sufficiente a risolvere tutti i drammatici problemi dell’universo carcerario, ma certamente si tratta di un segnale di attenzione doveroso da parte delle istituzioni. Il tema carcere non è praticamente mai all’ordine del giorno dell’agenda politica, ma se è vero che il grado di civiltà di un Paese si misura sulle condizioni degli ultimi tra i suoi cittadini, il muro di silenzio e di indifferenza deve crollare e noi, in queste settimane nel Lazio, abbiamo sfilato qualche mattoncino”, ha concluso Nieri. D’Ambrosio: bene mozione su emergenza nelle carceri “Esprimo grande apprezzamento per l’approvazione avvenuta questa mattina della mozione sulle problematiche riguardanti le carceri della regione. È una dimostrazione di una forte sensibilità e di impegno del Consiglio regionale del Lazio sull’emergenza che si vive negli istituti di pena”. Così in una nota il vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, Raffaele D’Ambrosio (Udc). “Il problema del sovraffollamento di detenuti, a fronte di un insufficiente organico di agenti di polizia penitenziaria e operatori penitenziari, nonostante la loro abnegazione e quotidiano sacrificio - aggiunge D’Ambrosio - sono questioni da affrontare con la massima decisione e urgenza. Il rischio è che nelle carceri saltino tutte le regole di civile e umana convivenza. La Regione Lazio - conclude D’Ambrosio - può dare un forte contributo per la difesa dei diritti fondamentali dei detenuti attraverso iniziative per l’istruzione, la formazione professionale, le attività culturali e la garanzia della salute per i detenuti”. Buonasorte: con mozione si vuole arrivare amnistia “Con la scusa del sovraffollamento, i proponenti della mozione sulle carceri in effetti vogliono arrivare a ottenere una vera e propria amnistia. Ciò è dimostrato dalla bocciatura di un emendamento del presidente Storace che invece chiedeva l’esclusione di ogni forma di amnistia. Bocciatura con il voto delle sinistre e una parte dell’Udc, è stata una vergogna trasversale”. Lo dichiara in una nota Roberto Buonasorte, consigliere regionale del Lazio eletto nella lista La Destra-Storace. Montino: Storace cerca ruolo da leader, ma bocciato “In mezzo alle divisioni della maggioranza ancora una volta Storace cerca visibilità e un ruolo da leader che però, anche nei contenuti, non gli viene riconosciuto. Rimane il fatto che questa maggioranza è senza regia. Per fortuna gli emendamenti del capogruppo de La destra grazie all’opposizione non sono passati e i tentativi di Storace di buttarla in caciara non hanno portato a nulla”. È quanto afferma in una nota Esterino Montino, capogruppo Pd alla Pisana. Zaratti: criticità istituti pena non possono lasciarci indifferenti “Esprimo soddisfazione per l’approvazione in aula della Pisana della mozione sulla condizione dei detenuti negli istituti di penitenziari del Lazio. Le criticità che si riscontrano nelle carceri della nostra regione non possono lasciarci indifferenti. Un dato su tutti: a fronte di una capienza di 4.856 unità, al 31 agosto scorso erano 6.622 i detenuti. È evidente che questo quadro crea notevoli disagi alle persone in stato di ristrettezza di libertà. Va ricordato che la Costituzione italiana prevede garanzie nei confronti dei detenuti. E un paese civile deve far funzionare gli istituti di pena secondo la logica della rieducazione e del reinserimento sociale”. Lo dichiara Filiberto Zaratti, consigliere di Sinistra ecologia e libertà alla Regione Lazio Umbria: Verini e Bocci (Pd); situazione carceri pesantissima, Nitto Palma intervenga subito Asca, 5 ottobre 2011 La pesantissima situazione delle carceri umbre, legata in particolare alle cause del sovraffollamento di detenuti e del sottodimensionamento del personale di polizia penitenziaria, è stata rappresentata al ministro della Giustizia, Nitto Pama, in un colloquio alla Camera, dai parlamentari del Pd Giampiero Bocci e Walter Verini. Bocci e Verini, che nel mese di agosto avevano visitato il carcere di Capanne - Perugia e quello di Spoleto (a Terni e Orvieto i parlamentari PD andranno nei prossimi giorni) si erano già fatti interpreti della difficilissima situazione degli istituti di pena umbri presso il Capo del Dipartimento Affari penali Franco Ionta, che aveva assicurato - nel quadro di un inserimento nell’organico di alcune centinaia di agenti su scala nazionale - che anche l’Umbria avrebbe potuto contare su una parte di queste. La voce e l’impegno dei parlamentari umbri - è detto in una nota - si erano aggiunti all’iniziativa che anche la Giunta Regionale aveva assunto nello scorso mese di luglio. Il Ministro Nitto Palma ha ribadito ai due deputati del Pd il suo impegno a valutare ogni iniziativa per venire incontro a quanto richiesto. “Attendiamo atti concreti - hanno commentato Bocci e Verini. Le carceri umbre non possono sopportare ulteriori trasferimenti di detenuti né la grave mancanza di personale che già oggi rende particolarmnete difficile e problematica la situazione”. Puglia: piano-carceri; pubblicati due bandi realizzazione padiglioni a Taranto e Lecce Agi, 5 ottobre 2011 Il piano-carceri entra nel vivo con due bandi di gara per l’ampliamento delle case circondariali di Taranto e Lecce. Obiettivo della selezione è la progettazione esecutiva e la realizzazione, in ogni istituto penitenziario, di un nuovo padiglione da 200 posti, con un valore a base d’asta che sfiora i 10 milioni e 300 mila euro a Taranto e i 10 milioni e 200 mila euro a Lecce. Per il pagamento del 95% dell’importo dei lavori, che devono terminare entro 585 giorni, sono previste cinque rate, di cui quattro in acconto in corso d’opera e una liquidata contestualmente al pagamento del restante 5%, dopo il collaudo provvisorio, che deve essere rilasciato entro 6 mesi dalla fine dei lavori. L’affidamento si baserà sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. In particolare, la qualità edilizia sarà premiata con un massimo di 30 punti, gli aspetti ambientali con 20 punti e quelli di cantiere con 15 punti. Al prezzo, che deve essere calcolato al netto degli oneri di sicurezza, sono riconosciuti 25 punti, mentre alla riduzione dei tempi di realizzazione ne spettano al massimo 10. Le offerte dovranno essere presentare entro il 31 ottobre all’ufficio del commissario delegato, presso i punti di contatto indicati nel bando. Ricordiamo che oltre all’ampliamento delle strutture esistenti con la realizzazione di nuovi padiglioni, il Piano Carceri prevede la costruzione di undici nuovi istituti penitenziari per la soluzione del sovraffollamento e l’individuazione di scelte architettoniche più funzionali. Viterbo: nessun segno di violenza, l’ex camorrista impiccato è morto per suicidio Dire, 5 ottobre 2011 Sembrerebbero confermare la tesi del suicidio i primi accertamenti sulla salma di Martino Galasso, l’ex camorrista e collaboratore di giustizia 53enne trovato morto la settimana scorsa a Viterbo. L’autopsia è stata eseguita nel fine settimana all’obitorio viterbese, da un’equipe medica dell’Università di Siena. La relazione del medico legale arriverà sulla scrivania del pm Stefano D’Arma entro i prossimi sessanta giorni. Ma qualcosa sull’esito sarebbe già trapelato. E le prime indiscrezioni, riporta tusciaweb.eu, porterebbero nella direzione opposta, rispetto alle prime ricostruzioni sulla dinamica della morte. Galasso si è quasi sicuramente impiccato da solo. Sul suo corpo non sarebbero stati trovati segni di violenza. E la pista del suicidio sarebbe avvalorata da un biglietto in cui l’ex camorrista esternava il suo malessere. Il rammarico per non essere riuscito ad assicurare ai figli la vita agiata che lui aveva condotto, alla loro età. Sempre meno credibile anche la tesi della “fragilità” del sostegno cui il corpo del pentito era impiccato: la ringhiera potrebbe aver retto benissimo il peso di Galasso. Altro punto che porterebbe a ritenere attendibile l’idea del suicidio, se si considera anche un precedente non secondario: negli anni Novanta Galasso avrebbe già tentato di togliersi la vita in carcere. A trovarlo cadavere, mercoledì scorso, nell’appartamento di via Pergolesi in cui Galasso viveva, sarebbe stato un familiare, e non un amico dell’ex boss, come rivelato in precedenza. A giorni, la riconsegna della salma ai famigliari per i funerali. Toscana: Sappe; niente carburante per trasporto detenuti, saltano le traduzioni 9Colonne, 5 ottobre 2011 A distanza di tre mesi dall’ultima denuncia, il Sappe torna a denunciare “come il servizio traduzioni detenuti di Firenze, e a seguire tutti gli altri, sia stato costretto a spegnere nuovamente i motori dei propri mezzi di trasporto” per mancanza di fondi per il carburante. “Solo oggi sarebbero saltate ben 5 traduzioni da Sollicciano e per domani si paventa il blocco totale dei servizi se nelle 24 ore non verranno stanziati i fondi necessari” afferma il vice segretario regionale toscano del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Francesco Falchi. Il Sappe si interroga, quindi, “sulla sostenibilità dell’intero sistema carcerario fondato su numeri attuali alla luce delle enormi difficoltà finanziarie con cui l’intero Paese è chiamato a confrontarsi e che sta mostrando i primi concreti e tangibili segni di cedimento. La polizia penitenziaria è fortemente preoccupata che il futuro possa riservarle tensioni e disordini se non verranno seriamente risolti i punti cruciali del sistema carcerario italiano”. Gorizia: non ci sono più soldi nemmeno per le pulizie del carcere di Francesco Fain Il Piccolo, 5 ottobre 2011 Non ci sono nemmeno i soldi per effettuare le pulizie. E da due anni non vengono stanziati fondi per gli interventi (anche minimali) di manutenzione. Questa è l’ulteriore riprova dello stato di abbandono in cui versa la casa circondariale di Gorizia. I sindacati ne hanno le tasche piene. Tant’è che Vito Marinelli (Sappe), Giovanni Montalto (Uil-Pa), Corrado Patruno (Cisl Fns) e Igor Zoch (Osapp) hanno indirizzato una sorta di lettera aperta indirizzata, fra gli altri, al capodipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al provveditore regionale, al prefetto, al sindaco e al direttore del penitenziario. I contenuti? Innanzitutto si lamenta la “situazione di decadimento della struttura” determinata negli anni “dalla assoluta mancanza di fondi assegnati alla struttura per qualsiasi intervento ordinario e straordinario. La situazione si è aggravata negli ultimi due anni per la carenza assoluta di finanziamenti - denunciano i sindacati - per effettuare le pur minime riparazioni e, addirittura, dalla mancanza di assegnazione di fondi necessari per poter effettuare le pulizie interne degli ambienti lavorativi e detentivi”. I sindacati ricordano che nella struttura lavorano 42 unità di polizia penitenziaria più 6 unità di personale amministrativo: inoltre, sono presenti 32 detenuti. Non bastasse ciò, “sono state chiuse due camere detentive perché non ci sono fondi per effettuare la tinteggiatura e non si capisce come mai per l’Ufficio esecuzione penale esterna di Gorizia, senza nessun operatore assegnato stabilmente e con apertura prevista un solo giorno a settimana, ci sia la copertura finanziaria per la pulizia di ambienti sottoutilizzati. Non vi è ragione - scrivono i sindacati nella lettera aperta - perché gli altri istituti penitenziari della Regione, nonostante i tagli di fondi operati a livello centrale, continuino comunque a ricevere fondi necessari e al contrario la casa circondariale di Gorizia sia inspiegabilmente completamente esclusa”. I sindacati ritengono che il territorio della provincia di Gorizia abbia necessità di una casa circondariale efficiente “anche in considerazione - spiegano - dell’estrema vicinanza del Centro identificazione ed espulsione (Cie) di Gradisca d’Isonzo che costringerebbe altrimenti gli operatori di polizia, in caso di eventuali arresti, a viaggi verso Udine o Trieste sottraendo quindi unità al territorio. In Italia ci sono carceri in numero più del doppio rispetto alle province e c’è semmai un problema di sovraffollamento per cui chiuderne uno anche piccolo, l’unico della provincia, non risolve i problemi di spesa: mantenerlo e magari potenziarlo, invece, è un segno di rispetto alle esigenze del territorio”. L’appello Sappe, Cisl, Uil e Osapp ritengono, nell’immediato, difficilmente praticabile l’ipotesi di costruzione di un nuovo istituto penitenziario per tempi e per costi elevati. “Vista anche l’espressa disponibilità del Comune di Gorizia a mettere a disposizione parte dei fondi necessari, chiediamo alle autorità competenti di convergere, ciascuno per quanto di competenza e a breve termine, verso l’ipotesi di ristrutturazione dell’attuale edificio. La ristrutturazione potrà avvenire con spesa ridotta all’ipotesi di una nuova struttura e con recupero degli spazi attualmente in disuso portando nuovamente la capienza della casa circondariale a circa 80/100 detenuti”. Monza: Osapp; problemi per il sovraffollamento, i detenuti superano quota 1.100 Adnkronos, 5 ottobre 2011 L’Osapp denuncia problemi di sovraffollamento all’istituto penitenziario di Monza. “Mentre le condizioni dell’istituto di Bollate si presentano comunque accettabili per numero di detenuti presenti (1.138 presenze rispetto ad una capienza regolamentare di 976) e precarie solo rispetto ad una carenze nell’organico di polizia penitenziaria del 25% (400 unità presenti per 500 previste) - osserva Leo Beneduci - le condizioni della casa circondariale di Monza presentano molteplici criticità rispetto al sovraffollamento (842 presenti rispetto ad un capienza massima tollerabile di 726), alle carenze di organico (350 presenze rispetto alle 470 previste) e alle numerose pecche dell’infrastruttura, tali da rendere la situazione a grave rischio di improvvise deflagrazioni”. “Nell’istituto di Monza, in particolare, sono evidenti e cospicue le infiltrazioni d’acqua in molteplici locali ad uso detentivo, o utilizzati quali postazioni di lavoro dalla locale polizia penitenziaria e persino nella caserma agenti , tanto da averne richiesto la chiusura per evidente insalubrità in attesa dei sopralluoghi della Asl”. Sempre per quanto attiene all’istituto di Monza, aggiunge Beneduci, “si sono rilevati crepe e dissesti negli intonaci e nelle pavimentazioni all’interno degli uffici e degli alloggi demaniali e persino nella caserma ‘Pastrengò situata al centro della citta”. Bologna: Sappe; sciopero della mensa, aderiscono 130 agenti e solo 2 consumano il pasto Dire, 5 ottobre 2011 Non bastavano il sovraffollamento, la mancanza di guardie e l’esiguità delle risorse, ora al carcere della Dozza di Bologna ci sono problemi anche alla mensa, quella in cui gli agenti della Polizia penitenziaria mangiano ogni giorno. I locali sono in cattive condizioni e pasti e servizio sono insufficienti, denuncia in una nota il sindacato del Sappe, che oggi ha inaugurato una forma di protesta originale: lo sciopero della mensa. Su 132 agenti in servizio e aventi diritto al pasto, infatti, soltanto due sono andati a mangiare, spiega il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante. Gli altri, si arrangeranno in altro modo, o aspetteranno di arrivare a casa la sera per rifocillarsi. “La protesta continuerà fino a quando non ci saranno adeguati riscontri alle inefficienze segnalate”, dice Durante, ricordando che prima di arrivare alla protesta di oggi c’erano state parecchie segnalazioni rimaste senza esito. Proprio alla luce del silenzio ricevuto, il sindacato oggi ha deciso di proclamare lo stato di agitazione alla Dozza e, su richiesta del personale della Dozza, ha deciso di farlo con un segnale forte: l’astensione dal pasto. La questione della mensa (gli agenti lamentano “la condizione dei locali non adeguata e l’insufficienza del servizio mensa e dei pasti”) è solo l’ultima goccia che si abbatte sulla casa circondariale di Bologna, dove le criticità sono note: all’appello mancano circa 200 agenti e il sovraffollamento è tra i più alti in Italia: ci sono infatti circa 700 detenuti in più rispetto ai 450 posti previsti dal regolamento. Il Sappe, che conta in Emilia - Romagna 750 iscritti (di cui 230 sono a Bologna), continuerà la protesta “fino a quando non ci saranno adeguati riscontri, da parte dell’amministrazione, alle inefficienze segnalate”. Firenze: agente salva la vita a detenuto aggredito da ul compagno con problemi psichici Comunicato stampa, 5 ottobre 2011 È salvo solo grazie all’intervento di un Poliziotto Penitenziario il detenuto di Sollicciano aggredito ieri in cella dal suo compagno. Deve la vita a R.S. il detenuto che nella serata di ieri 4 ottobre 2011 si è visto vincere dal suo compagno con turbe psichiche e subire un tentativo di strangolamento e di recisione della gola con un’arma bianca di metallo. Mentre l’intero reparto dove sono ristretti i detenuti con problemi di natura sanitaria era temporaneamente sguarnito di altro personale, è avvenuto il repentino tentativo di omicidio in cella. La capacità d’intervento del singolo Poliziotto Penitenziario, che si è esposto agli stessi rischi della vittima, ha evitato il peggio e solo a lui che l’aggredito deve la propria vita. È per questo che il Sappe a nome di tutto il Corpo di Polizia Penitenziaria intende ringraziare il collega per il gesto di grande generosità e coraggio che darà lustro a tutti noi. Un sistema detentivo che non può garantire l’incolumità dei ristretti se non grazie all’abnegazione dell’intera categoria dei baschi blu non è degno di un paese civile. Il Sappe denuncia ancora una volta le importanti e gravi carenze strutturali, organizzative, materiali, finanziarie e di personale che affliggono l’intero sistema carcere che ci trasportano a velocità sempre maggiore verso momenti di tensione e di disordine. Piacenza: interrogazione dell’On. De Micheli (Pd) sulla carenza di educatori Dire, 5 ottobre 2011 “A seguito di tagli e ridimensionamenti, presso la casa circondariale di Piacenza operano soltanto due educatori penitenziari a fronte di 361 detenuti attualmente presenti”. Lo denuncia la parlamentare piacentina del Partito democratico Paola De Micheli con un’interrogazione al Ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma. “Nel marzo scorso il garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Piacenza, Alberto Gromi - rammenta la De Micheli - ha inviato una lettera al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna per segnalare all’autorità competente la situazione della casa circondariale di Piacenza. Nonostante le recenti assegnazioni, effettuate in seguito all’espletamento dell’ultimo concorso e che porterebbero a sei unità il numero degli educatori operanti presso la casa circondariale di Piacenza, la consistenza effettiva è tutt’oggi ferma a due educatori”. L’interrogazione firmata dalla De Micheli pertanto chiede al Ministro Nitto Palma se “sia a conoscenza della grave situazione del carcere delle Novate, che lede fortemente i diritti delle persone detenute, e quali urgenti iniziative intenda intraprendere per porre rimedio alla carenza di educatori”. Sanremo: sovraffollamento nel carcere di Valle Armea, il grido d’allarme della Uil Savona News, 5 ottobre 2011 Situazione sempre più critica nel Carcere di Sanremo dove i crudi numeri hanno chiuso la giornata di ieri con ben 374 detenuti conto una capienza effettiva di 209. “Condizioni alquanto disumane - afferma il sindacalista della Uil Penitenziari Filippo Federico - , condizioni che oltre a rendere invivibile la detenzione, di conseguenza influenzano anche il lavoro della Polizia Penitenziaria, ormai stremata!”. “Non è bastato il monito Presidente della Repubblica, non è bastata la sua descrizione delle carceri italiane che lo stesso ha definito indegne. Il tutto non fa altro che rispecchiare nel grido d’allarme che la Uil Penitenziari invoca da tempo, un abisso - afferma Federico - che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e sui diritti e la dignità della persona”. “Presto anche a Sanremo lo strano caso leccese di questi ultimi giorni rischia di consolidarsi - aggiunge - dove il magistrato Tarantino ha ritenuto di intervenire giustamente prima di un eventuale ricorso alla Cedu (che ricordo, può agire solo in seguito all’esaurimento dell’iter di tutti i gradi di giudizio previsti dalle legislazioni nazionali), dando ragione al detenuto dei danni patiti per violazione degli spazi e delle condizioni prescritte dall’ordinamento penitenziario. Proprio in queste condizioni vive l’Istituto di Valle Armea, dove unico intento dell’Amministrazione sembra quello di ammassare i detenuti nelle stanze, con l’introduzione della terza branda (a castello). Ormai questo sistema rischia di far parte della quotidianità o meglio della ordinarietà, una prassi che proprio in questi giorni ha rischiato di causare un’altra vittima, un detenuto è caduto dalla terza branda, ma fortuna ha voluto che il tempestivo intervento della Polizia Penitenziaria è riuscita ad evitare sorte peggiore”, sostiene il sindacalista. “È impensabile - conclude il Vice Segretario regionale della Uil Penitenziari, rivolgendosi infine agli Angeli della Penitenziaria, che si possa continuare a chiedere a questi operatori dello Stato di lavorare subendo la sistematica prevaricazione dei propri diritti”. Pordenone: Cisl; ma quale nuovo carcere?... il Ministero non ha previsto fondi Messaggero Veneto, 5 ottobre 2011 Carcere nuovo a Pordenone? Il progetto, secondo la Federazione della sicurezza in seno alla Cisl, che ha riunito il suo coordinamento interregionale Triveneto (alla presenza del segretario del Friuli Venezia Giulia Renato Pizzolitto e dei referenti nazionali di categoria Mattia D’Ambrosio e Raimondo Inganni) lascia alcune ombre. “Perché, se è vero che da un accordo sottoscritto tra l’Amministrazione penitenziaria, la Regione e gli Enti locali emerge che proprio la Regione metterà le risorse per l’avvio dei lavori - dice in una nota il sindacato - , è altrettanto vero che le risorse a disposizione non paiono sufficienti e soprattutto nel Piano emergenza carceri manca qualsiasi riferimento ad un intervento finanziario del ministero competente”. La situazione delle strutture carcerarie in regione, secondo Cisl, è “insostenibile”. Sovraffollamento e carenza di organici sono i problemi principali: “Circa 800 detenuti suddivisi in strutture che ne dovrebbero racchiudere non più di 600” mentre per quel che riguarda il personale è “la carenza di operatori arriva a sfiorare addirittura il 30 per cento”. “Il quadro - commenta il segretario generale della Fns, Ivano Signor - è davvero preoccupante”. Attenzione puntata anche su Gorizia, dove, dopo la chiusura di due celle per inagibilità, la situazione risulta drammatica. “Attendiamo - spiega Signor - che il nuovo Guardasigilli Palma chiarisca cosa il ministero vuole fare di Gorizia. Quello che ad oggi è certo è che per recuperare la struttura occorrerebbero attorno ai 2,5 milioni, importo che non risulta nè nelle voci della spesa annua, nè nel Piano d’emergenza per le carceri”. Ma la Cisl richiama anche la Regione: “Chiediamo - conclude Signor - che la Regione si faccia interprete di questi problemi con il Ministero, prendendosene carico, perché così proprio non si può andare avanti”. Viterbo: carcere di Mammagialla, presidente Provincia propone un tavolo istituzionale www.ontuscia.it, 5 ottobre 2011 “Urge un tavolo di discussione per affrontare la grave situazione che ormai da troppo tempo sta interessando il penitenziario di Mammagialla e mettere in atto una strategia ampiamente condivisa”. Il presidente Marcello Meroi ha inviato una nota ai parlamentari viterbesi, agli assessori, ai consiglieri regionali e per conoscenza al Prefetto Antonella Scolamiero illustrando le ragioni dell’iniziativa e chiedendo un apposito incontro. “La situazione del penitenziario Mammagialla di Viterbo - scrive Meroi - si aggrava ogni giorno di più. Ai problemi cronici che si trascinano ormai da troppo tempo, con particolare riguardo al sovraffollamento della popolazione carceraria, all’assenza di spazi adeguati a contenere la mole di detenuti, ad una gravissima carenza di organico che costringe gli operatori della Polizia Penitenziaria a lavorare in un contesto precario e di assoluta mancanza di sicurezza, si è aggiunta da qualche mese anche l’assenza dell’organo di vertice. Il direttore Giampaolo D’Andria è stato infatti trasferito ad altro incarico e il Dap non ha ancora provveduto a sostituirlo. Manca quindi un interlocutore con il quale rapportarsi per affrontare le tante problematiche che affliggono il Penitenziario. La scorsa settimana ho incontrato i Sindacati della Polizia Penitenziaria che mi hanno rappresentato quanto ormai la situazione sia diventata insostenibile, in primo luogo per loro ma anche per i detenuti, umiliati nella loro dignità di esseri umani. Fatto questo che si può evincere anche dai recenti e sconcertanti episodi avvenuti dietro le sbarre e riportati da tutte le testate giornalistiche locali e nazionali”. “È necessaria quindi un’azione unitaria di tutte le Istituzioni presenti sul territorio - conclude il presidente - e proprio al fine di creare le condizioni per programmare un intervento concertato che porti ad una rapida risoluzione dell’emergenza, sono a richiedere la disponibilità di un incontro nel corso del quale, anche con il contributo dei sindacati di categoria, si possa discutere della situazione e delle modalità di azione più efficaci”. Anche il vicesindaco Soriano in piazza per il carcere “Raccolgo con convinzione l’appello lanciato dall’assessore provinciale Paolo Bianchini a scendere in piazza il prossimo 17 ottobre al fianco della Polizia Penitenziaria in servizio nella casa circondariale viterbese. È opportuno che cittadini ed istituzioni si mobilitino compatti, al di là delle differenze ideologiche e dei colori politici, per far fronte a quella che ormai è diventata una vera e propria emergenza”. Lo dichiara Alessandro Troili, vice sindaco di Soriano nel Cimino (Viterbo). “Il carcere Mammagialla, infatti, presenta notevoli criticità: sovraffollamento, carenza di organico, presenza di malati psichiatrici che meriterebbero un’assistenza dedicata, pericolo di infiltrazioni mafiose sul territorio e, soprattutto, l’assenza di un direttore titolare della struttura penitenziaria. Tengo inoltre a sottolineare - prosegue Troili - che il sovraffollamento non ha conseguenza negative solo per chi in carcere è recluso, ma anche per chi ci lavora e, parzialmente, si può dire che ci vive. Gli agenti di polizia penitenziaria da anni vivono e lavorano in condizioni difficili: sottorganico, costretti a sdoppiarsi in diversi ruoli, non riconosciuti dalla società”. “Pertanto - conclude il vicesindaco - è importante lunedì 17 ottobre, scendere in piazza al loro fianco e protestare in modo pacifico e corretto, affinché il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia dia le risposte che il nostro territorio merita”. Teramo: respinta richiesta archiviazione, si riapre processo per pestaggio in carcere Il Centro, 5 ottobre 2011 “Massacrato al punto di rischiare una rivolta dei detenuti”: non usa mezzi termini il giudice Angela Di Girolamo. Nelle otto pagine di motivazioni, il magistrato (all’epoca dei fatti in servizio a Teramo e ora all’Aquila) mette nero su bianco il perché dell’assoluzione di Mario Lombardi. L’uomo, 46 anni, di Chieti, è il detenuto pestato a cui si fa riferimento nell’audio shock sul carcere di Castrogno che rivelava un pestaggio avvenuto nel penitenziario. Un caso che due anni finì sulle prime pagine di tutti i giornali. Lombardi (assistito dall’avvocato Filippo Torretta) era andato a processo con l’accusa di lesioni e resistenza ad un agente di polizia penitenziaria e a gennaio è stato assolto perché il fatto non sussiste. L’uomo, che nel frattempo ha finito di scontare la pena ed è uscito dal carcere, ha sempre sostenuto di essere stato picchiato dagli agenti come atto di ritorsione proprio per la sua resistenza nei confronti di uno di loro. “Nessuna violenza a pubblico ufficiale è ipotizzabile”, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza, “nessuna prova è emersa sulla circostanza che il prevenuto abbia voluto opporsi con violenza e minaccia all’agente. Tenuto conto delle contraddittorie risultanze processuali e delle gravi lesioni riportate dal detenuto Lombardi non può ritenersi raggiunta la prova della penale responsabilità in capo all’imputato”. Nel corso del processo sono stati ascoltati vari testi, tra cui anche la moglie di Uzoma Emeka, ritenuto il testimone chiave del pestaggio in carcere morto nel novembre del 2009 a Castrogno per un cancro non diagnosticato. “Mio marito era in carcere e mi disse di aver visto un agente picchiare un detenuto” ha raccontato la donna al giudice. nei mesi scorsi il gip Marina Tommolini ha riaperto il caso Castrogno, respingendo la richiesta di archiviazione presentata dalla procura per l’ex comandante della polizia penitenziaria Giuseppe Luzi e per cinque agenti. Ad opporsi è stato proprio Lombardi che ha sempre sostenuto di essere stato picchiato per vendetta. Il pm David Mancini, dopo mesi di indagine, aveva chiesto l’archiviazione per l’ex comandante Luzi e i cinque agenti, sottolineando e rimarcando l’impossibilità di poter dimostrare i fatti per l’omertà registrata proprio nell’ambiente carcerario. Roma: i familiari delle “vittime del carcere” a piazza Montecitorio per chiedere giustizia Agenparl, 5 ottobre 2011 Marcello Lonzi, Stefano Cucchi, Giuseppe Saladino, Niki Aprile Gatti. Sono solo alcuni dei nomi, già noti, dei ragazzi morti inspiegabilmente durante la loro detenzione in carcere. Questa mattina le foto di alcuni di loro, con i loro corpi massacrati, erano appese in piazza Montecitorio. I familiari sono scesi in piazza, l’ennesima volta, per chiedere giustizia. Per raccontare la loro storia e chiedere ancora il perché. “Vogliamo la verità perché chi li ha uccisi deve perdere il posto di lavoro, per noi non c’è risarcimento - dice la sorella di una vittima. A Varese i magistrati hanno nascosto la verità sulla morte di mio fratello. È la legge che avrebbe dovuto punirlo e non le forze dell’ordine che vengono pagate da noi cittadini”. I familiari, che si sono riuniti nell’Associazione familiari dei ragazzi morti nelle carceri, sono stati raggiunti, intorno alle 13, dall’on. Rocco Buttiglione (Udc): “Queste violenze non devono esistere - ha affermato -. Presenteremo un’interpellanza urgente e chiederemo al Ministro della Giustizia di venire a riferire in Aula su queste terribili vicende”. Reggio Calabria: quarta edizione del Premio Castelli… tema “riconciliarsi con le vittime” Tm News, 5 ottobre 2011 Per un detenuto è più facile pentirsi davanti a un magistrato, magari per ottenere uno sconto di pena, che riconciliarsi con la vittima, o con i parenti della vittima, del suo reato. Per favorire proprio un percorso di riflessione e di riconciliazione, la Fondazione Federico Ozanam-Vincenzo de Paoli ha dedicato il quarto “Premio Castelli per la solidarietà” al tema “Riconciliarsi con le vittime: follia o guarigione?” invitando i detenuti a inviare un elaborato scritto sulla loro esperienza. I testi scelti riceveranno un premio di mille, ottocento e seicento euro ai primi tre classificati in una cerimonia che si terrà il prossimo 13 ottobre nel carcere di Reggio Calabria. I tre elaborati, insieme a quelli di altri dieci detenuti che la giuria (presieduta dal vaticanista di Repubblica Giancarlo Zizola, deceduto il mese scorso) ha considerato meritevoli di segnalazione, sono stati raccolti in un volumetto presentato oggi alla stampa in un incontro a Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma. L’iniziativa è stata illustrata da Romolo Pietrobelli e Italo de Curtis della Fondazione e da Claudio Messina della San Vincenzo. Di fronte ai gravi problemi del sistema carcerario italiano - sovraffollamento, promiscuità, suicidi (già cinquanta quest’anno) - che non sarà certo un’amnistia a risolvere, la Fondazione si è assunto un piccolo compito ma di grande impegno: trovare uno spazio per l’avvio del dialogo tra i detenuti e le loro vittime, attraverso il quale far recuperare al singolo carcerato quella dignità che lo può rendere libero nella coscienza, se non nella realtà di fatto. A questo mira il Premio Castelli, che ha ottenuto tre medaglie della Presidenza della Repubblica e il patrocinio di Senato, Camera e ministero della Giustizia. Stati Uniti: quattrocento gli italiani detenuti… i casi di Chico Forti e Carlo Parlanti La Nazione, 5 ottobre 2011 Se l’America ha mostrato perplessità nei confronti della giustizia italiana riguardo alla condotta del Tribunale di Perugia sul caso Meredith, molti sono i casi giudiziari dubbi che hanno coinvolto gli italiani all’estero, alcuni negli Stati Uniti. I dati della Farnesina sui detenuti italiani all’estero contano quasi tremila casi, distribuiti dall’India alla Repubblica Dominicana, dal Perù al Brasile. L’America ha arrestato 426 italiani e di questi ne ha già condannati più della metà: 214. Enrico Chico Forti è uno di questi: 50 anni, trentino, campione di windsurf, produttore televisivo e cineoperatore d’assalto, sconta una condanna per l’omicidio di Dale Pike, figlio del proprietario dell’hotel di Ibiza che Forti aveva acquistato. È in carcere da quasi 12 anni: ha rischiato la sedia elettrica, ma gli hanno dato l’ergastolo, senza appello. Dal 15 giugno 2000, giorno del verdetto, Chico si dice vittima di un complotto. Pike fu trovato morto in un boschetto che limita una spiaggia, a poca distanza dal parcheggio dove lui stesso aveva chiesto a Forti di accompagnarlo, dopo averlo prelevato all’aeroporto. La morte fu fatta risalire tra le ore 20 e 22 del giorno precedente, poco tempo dopo il suo commiato da Enrico Forti. Secondo la sentenza, non appellabile, Forti è stato condannato all’ergastolo per “aver personalmente e/o con altra persona o persone allo Stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta partecipata, e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamene, la morte di Dale Pike”. La storia di Forti è legata a doppio filo all’omicidio di Gianni Versace, avvenuto il 15 luglio 1997, a Miami Beach, due chilometri in linea d’aria dal luogo dove, sette mesi dopo (il 15 febbraio 1998), fu trovato cadavere Dale Pike, ucciso fra l’altro con lo stesso tipo di pistola che esplose i suoi colpi mortali contro Versace; due proiettili alla testa, come per Pike. Altro caso dubbio, peraltro ricordato dallo stesso ministro degli Esteri, Franco Frattini, all’indomani della sentenza di condanna in primo grado dell’omicidio Meredith, è quello Carlo Parlanti, manager informatico originario di Montecatini Terme, accusato di stupro, violenza e sequestro di persona dall’ex compagna Rebecca Mckay White, con la quale conviveva negli Stati Uniti, il 4 luglio del 2004. Parlanti è stato arrestato dalla polizia tedesca all’aeroporto di Duesseldorf, tenuto in carcere per 11 mesi e poi estradato in California. La vicenda, ricordano i tanti che si battono per la libertà di Parlanti, è kafkiana: durante il processo la White fornisce versioni dei fatti sempre diverse ed oggetto di continue ritrattazioni e revisioni, rese necessarie dalle controdeduzioni dell’avvocato della difesa e dalle richieste di chiarimenti da parte dell’accusa. A Parlanti non viene dato l’ausilio di alcun interprete: il 7 aprile 2006, la giuria popolare emette un verdetto di colpevolezza in ordine a tutti i capi di accusa. “Il sistema giudiziario italiano fondato su tre gradi giudizio è molto più garantista di quello americano, in cui, nella maggior parte dei casi, i processi si concludono in Prima Istanza perché i pubblici ministeri spingono per il patteggiamento, fanno accordi con gli avvocati difensori, che spesso non vengono neppure rispettati a scapito dell’imputato”, sottolinea all’Adnkronos Katia Anedda, moglie di Parlanti e presidente dell’associazione ‘Prigionieri del silenziò, che si occupa dei detenuti italiani all’estero. “Sul caso di Chico Forti, condannato per omicidio e detenuto a Miami, sono emerse contraddizioni insolute nel corso delle indagini - spiega ancora Anedda - sulla vicenda di Carlo Parlanti, condannato per violenza sessuale, le indagini non sono praticamente mai state fatte né è stato convocato un grand jury”. “Alcuni professionisti in Italia - aggiunge Katia Anedda - si sono occupati del caso, come il professor Mastronardi che ha scritto un libro (Stupro. Processi perversi. Il caso Parlanti, Armando editore, 2010), ma questo non ha prodotto nessun effetto sulla vicenda. Parlanti uscirà a febbraio 2012 e per la giustizia americana resterà colpevole del reato e non sarà possibile dimostrarne l’innocenza”. La vicenda di Silvia Baraldini, che sollevò polemiche politiche, estradata in Italia nel 1999 e scarcerata nel 2006 per effetto dell’indulto, fu condannata nel 1983 negli Stati Uniti a una pena complessiva di 43 anni per la sua attività, secondo l’accusa, a sostegno del Black Liberation Army, che le valse le accuse di concorso in evasione, associazione sovversiva, due tentate rapine e ingiuria al tribunale. In seguito alla sua condanna, a un regime carcerario particolarmente duro e a successivi problemi di salute, nacquero movimenti di sensibilizzazione, sia in Italia che negli Stati Uniti, a sostegno della tesi che la pena, eccessivamente dura, era stata dettata da ragioni politiche. Particolarmente attivo per favorire l’estradizione della Baraldini in Italia fu l’allora ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto. Stati Uniti: il “caso Knox” al contrario; Chico Forti, condannato all’ergastolo in Florida Corriere della Sera, 5 ottobre 2011 “Nessuno più di noi comprende quello che Amanda, Raffaele e le loro famiglie hanno sofferto in questi quattro anni di carcere. Oggi, parallelamente, viviamo ancora una volta l’angoscia terribile nel constatare come, negli Usa, Chico sia stato invece abbandonato a se stesso in una simile situazione. Raffaele Sollecito, nel suo appello alla Corte, ha detto che ogni sera passata in carcere era come morire, per 1.453 notti. Lo sappiamo benissimo che è davvero così: quelle di Chico sono ormai 4.480. E le carceri italiane in confronto a quelle americane sono alberghi a cinque stelle”. Si sfoga Gianni Forti, zio di Enrico “Chico” Forti, l’imprenditore trentino cinquantenne da dodici anni in carcere all’ergastolo in Florida con l’accusa di omicidio e al quale la giustizia Usa non ha mai concesso l’appello. Parla a nome della famiglia, che di recente è stata visitata da Francesco Forti, il figlio tredicenne di Chico che di fatto non ha mai visto il padre ma ha voluto conoscere la nonna e la sua terra. La giustizia italiana ha garantito alla cittadina Usa Amanda Knox un diritto fondamentale in una società civile: potersi difendere davanti ai giudici senza pregiudizi. Pare che, in questo caso, sia stato negato a Chico Forti. Condannato in un processo indiziario non ha mai riuscito a ottenere dalla giustizia Usa ciò che la signora Knox ha avuto in Italia: un processo di appello per poter dimostrare la propria innocenza. “Per questo dopo la sentenza di Perugia, torniamo a richiedere giustizia per Chico e finalmente un vero processo d’appello”. Lo afferma il gruppo di amici - industriali, avvocati, imprenditori, manager e giornalisti - che da anni si batte per permettere a Enrico ‘Chicò Forti di avere un processo di appello cosa sinora negata. “Se alla signora Knox fosse stato riservato un analogo trattamento oggi non sarebbe all’aeroporto di Fiunicino per volare verso casa negli Usa ma si troverebbe ancora in carcere. Chico è ospite di un penitenziario di massima sicurezza in mezzo alle paludi della Florida tra ergastolani. Certamente in condizioni peggiori di quelle riservate in Italia alla signora Knox. A lei chiediamo di farsi interprete negli Usa di questa vicenda. Sarebbe un bel modo per rendere giustizia all’Italia. Quella che Lei ha avuto”. Di qui l’appello di giustizia rivolto ai governi d’Italia e Usa. Nei giorni scorsi in Trentino è giunto Francesco, il figlio tredicenne di Chico, e in quell’occasione, la criminologa Roberta Bruzzone ha dato un filo di speranza. “Ci sono elementi oggettivi che mostrano la violazione dei diritti dell’imputato e, spiace dirlo, tale fatto è imputabile alla difesa, che ha intrapreso strategie suicide per non far interrogare Chico davanti ai giudici”. Per la Bruzzone “ci sono elementi, nuove testimonianze anche relative all’arma mai trovata del delitto di Dale Pike”. Quest’ultimo era il figlio di un imprenditore tedesco - australiano con cui Forti stava trattando l’acquisto di un albergo in Spagna. “Nessuno ha poi mai avvisato Forti - chiarisce la criminologa - che il suo avvocato difensore lavorava come accusatore nella Procura di Miami”. L’associazione “Una chance per Chico” chiede anche una trasmissione di “Porta a Porta” ad hoc sul caso del trentino per rilanciare l’attenzione sul caso. Enrico “Chico” Forti, dopo un processo di ventiquattro giorni, il 15 giugno 2000 è stato ritenuto colpevole di omicidio da una giuria popolare della Dade County di Miami, “per aver personalmente e/o con altra persona o persone allo Stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta partecipata, e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamente, la morte di Dale Pike”. La sentenza ha lasciato esterrefatti quanti avevano seguito il dibattimento processuale, increduli che una giuria abbia potuto emettere, “oltre ogni ragionevole dubbio”, un verdetto di colpevolezza sulla base di così flebili e confuse prove circostanziali. Attente verifiche e valutazioni, sulla fondatezza di quest’e “prove circostanziali”, produssero una tale quantità di dubbi che il sospetto che i fatti siano andati in modo completamente diverso da come sono stati presentati dall’accusa è divenuto certezza. Valutando meticolosamente una per una tutte le accuse basate su fatti ed antefatti, si è scoperta una serie infinita di brogli e manomissioni, mezzi usati dall’accusa con il preciso scopo di ottenere un verdetto di condanna: deciso in largo anticipo. Bahrain: 13 attivisti condannati a 5 anni di carcere per cortei anti-regime Adnkronos, 5 ottobre 2011 Un Tribunale speciale del Bahrain ha condannato tredici attivisti sciiti a cinque anni di carcere per aver tentato di dare fuoco a una stazione di polizia durante le manifestazioni di protesta dei mesi scorsi. Lo ha annunciato il procuratore capo militare. Il Tribunale per la salvezza nazionale, creato dal regno guidato dalla dinastia sunnita per giudicare i rivoltosi sciiti, ha condannato altri sei manifestanti a un anno di carcere per lo stesso reato, ha detto il colonnello Yusuf Fleifel, citato dall’agenzia di stampa statale Bna. Il gruppo è stato condannato per aver tentato di dare fuoco alla stazione di polizia Al-Khamees, che si trova vicino a piazza della Perla a Manama, l’epicentro delle rivolte anti - regime ispirate dalla Primavera araba. I manifestanti hanno “preparato Molotov cocktail” e bloccato le strade che portano al centro della capitale, si legge sulla Bna, ma le forze della sicurezza sono riuscite a impedir loro di dare alle fiamme la stazione di polizia. I manifestanti sono anche accusati di aver partecipato a proteste di piazza “con l’obiettivo di commettere reati e danneggiare la sicurezza”, riferisce ancora l’agenzia. La sentenza può essere appellata presso un tribunale civile, ha spiegato il procuratore militare, in linea con quanto stabilito da re Hamad.