Nessuno deve essere “buttato via” Il Mattino di Padova, 3 ottobre 2011 La seduta straordinaria del Senato dedicata al disastro delle carceri non ha destato neanche la centesima parte dell’interesse e della curiosità, suscitati nella nostra città dall’arrivo del figlio di Riina. Nessuno, e meno che mai noi, che ci occupiamo ogni giorno dei problemi legati al reinserimento dei detenuti, sottovaluta le difficoltà di un percorso di rientro nella società pensato per una persona cresciuta in un ambiente mafioso, vissuta anni accanto al padre latitante e finita a sua volta in galera. Ci piace allora ricordare quello che, in un incontro in carcere, ci ha detto Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse: “Noi non vogliamo buttare via nessuno, per me questo è fondamentale, noi siamo un Paese che non deve/vuole buttare via nessuno”. Avevamo chiesto una riflessione sul percorso di Giuseppe Salvatore Riina a Tina Ciccarelli, responsabile dell’associazione che lo ospiterà, e a due detenuti che ogni giorno si scontrano con il problema di essere accettati da una società, sempre più diffidente e incattivita. La notizia dell’ultima ora è che Riina è stato “rispedito” in Sicilia, noi riproponiamo comunque l’approfondimento che avevamo tentato di fare, e invitiamo a ragionare in modo meno emotivo su un problema, quello della mafia e delle altre organizzazioni criminali, che ci riguarda tutti, e non è solo un “affare” della Sicilia. Come è nato il percorso di reinserimento del figlio di Riina? Questa persona, che era stata in carcere a Padova, si è affidata al suo avvocato, che sapeva che io avevo accolto altri detenuti con reati analoghi. Quando l’avvocato me lo ha chiesto, abbiamo avuto un momento di riflessione, perché è una responsabilità pesante quella che ci prendiamo, non tanto rispetto al detenuto, ma rispetto all’aria che tira in giro. Quindi abbiamo valutato la situazione, abbiamo saputo che le relazioni delle carceri in cui questa persona è stata erano buone, e abbiamo pensato che una opportunità si deve offrire a chiunque. Certo c’è stata qualche resistenza anche da noi, soprattutto da parte di operatori che vengono dalla Sicilia, e che sono stati molto penalizzati dall’ambiente dove vivevano, ma ormai questo problema non riguarda solo la Sicilia, perché se noi focalizziamo l’attenzione sul fatto che la mafia è in Sicilia, la ndrangheta in Calabria e la camorra in Campania, allora abbiamo proprio sbagliato tutto, perché questa è una piovra capillare che ha invaso il mondo. Però a una persona giovane, che ha fatto tanti anni di carcere, che forse ha voglia di un percorso diverso, che è in grado di spendersi e di produrre qualcosa di positivo, noi vogliamo dare un’opportunità, peggio per lui se non saprà coglierla, noi ci tentiamo. Credo poi che i nostri trenta e passa anni di esperienza nell’ambito del disagio e anche con persone che arrivano dal carcere ci renda capaci di mettere dei paletti e dei controlli, sicuramente lui deve sottostare a delle regole e firmare un contratto quando arriverà da noi, un contratto che prevede la massima informazione sui suoi spostamenti, poi verrà inserito in una struttura a fare segretariato sociale, e sarà sempre a contatto con operatori, quindi difficilmente potrà mettersi in condizioni non chiare. Sarà compito di polizia e carabinieri stabilire delle forme di controllo, su cui noi vogliamo comunque essere collaborativi. Quest’uomo ha una grossa opportunità, io spero che la sappia tradurre al meglio altrimenti torna da dove è venuto, questo vale per lui come per tutti gli altri. Sicuramente lui ha espresso l’intenzione di laurearsi, di farsi una vita al nord, di non tornare in Sicilia, e mi dicono anche che il pensiero della madre è proprio quello di “salvare almeno uno” dei figli. Io poi non mi sono andata a guardare in internet chi è lui, chi è la sua famiglia, perché conosco bene la Sicilia e i siciliani, e so che il confine è labile, a volte c’è un ramo della famiglia in cui sono tutti bravissimi cittadini, e nell’altro ramo magari sono di stampo mafioso, quindi questi confini io non li voglio accettare. Certo mi preoccupa il fatto che lui trovi ostilità intorno, io penso che tutti noi dovremmo essere consapevoli che non siamo e non dobbiamo ergerci a giudici di nessuno, non è il nostro compito. Tina Ciccarelli, Associazione Famiglie Padovane Contro l’Emarginazione e la Droga Una comunità tanto spaventata e poco accogliente In un momento drammatico per le condizioni di vita di migliaia di detenuti, condizioni per altro stigmatizzate recentemente anche dal presidente Napolitano, le cronache dei quotidiani della nostra città sono occupate dalla venuta a Padova del figlio di Totò Riina, Salvatore, per scontare due anni di libertà vigilata. Le reazioni secondo me hanno alcuni elementi di irrazionalità, dovuti all’approccio schizofrenico con cui solitamente ci si avvicina a questi argomenti. Il paradosso più evidente è offerto da chi argomenta l’impossibilità di inserimento con il fatto che questa persona non ha in passato usufruito dei normali percorsi educativi perché sottoposta ad un rigido circuito di sorveglianza durante la permanenza in carcere. Il fatto è che è stabilita per legge l’esistenza di circuiti cosiddetti ad alta sicurezza, e unanimemente ritenuta dal mondo politico e giudiziario come elemento imprescindibile nella lotta al crimine, per cui non si può dire che i regimi di carcere duro vanno bene al momento di scontare la pena e non vanno più bene domani che una persona torna in società, perché evidentemente non sono educativi. Noi, che il carcere lo conosciamo bene, pensiamo che forse tutta questa vicenda ci dovrebbe far riflettere proprio sul senso di regimi carcerari, che annullano le persone, le isolano da ogni contesto sociale, e poi le dovrebbero far uscire migliori. Un altro elemento che desta perplessità è dato dal fatto di cosa significa “essere figlio di”. Dalla storia di Riina dovremmo dedurre che non solo il carcere è del tutto inutile a riabilitare le persone, contravvenendo quindi implicitamente i dettami costituzionali, ma che tutti i figli che hanno genitori appartenenti alla criminalità organizzata, e per estensione tutti quelli che hanno i genitori detenuti, sono destinati a perpetuare le gesta dei padri, decretando così l’invincibilità della criminalità. Ma oltre a questo credo vi sia qualcosa di molto più grave. Dietro le esternazioni di alcuni politici forse si nasconde la consapevolezza del degrado etico - sociale in cui è precipitato negli ultimi anni il nostro Paese, dove la sola presenza di un ragazzo, per quanto potenzialmente problematico, fa temere per la tenuta dell’intera comunità. Cominciare ad interrogarsi sui fondamenti e le regole che scandiscono il nostro vivere comune sarebbe forse più importante che demonizzare “il figlio di”. Oddone S. Quando essere mafioso sembra più un destino che una scelta Al momento in cui esci dal carcere, già rischi di essere automaticamente additato, classificato, escluso dalla società e tale rimarrai anche dopo aver “pagato il debito”. E allora che fare di una persona che magari ha riflettuto sui propri errori e sulle scelte sbagliate, forse indotte dal fatto di essere cresciuto in un contesto che non poteva che prevedere, prima o poi, un passaggio in galera? Se poi porti un nome che da anni ha “calcato” le scene dei media per fatti solo negativi, come puoi tu, figlio, staccarti dalle scelte di vita del padre? Come può la gente che definiamo “normale” sentirsi tranquilla e certa della tua volontà di staccare la spina dal vecchio ambiente familiare e malavitoso nel quale sei nato, cresciuto, magari indottrinato e convinto che quella era la parte giusta? Però ora hai deciso di recidere il cordone che ti lega al passato con tutta la volontà di ricostruirti una nuova vita, lontano dai luoghi che hai sempre frequentato, ma come fare per reinserirti in un ambiente che ti è già ostile per il nome che porti, per quello che anche tu hai condiviso e per i danni che hai fatto? La società spesso non perdona e non ha neppure la voglia di rimettere in discussione le proprie convinzioni, e quindi si attacca al passato e guarda solo quello, e preferisce ergere un muro insormontabile per allontanare te, che vorresti tornare a essere considerato una persona, e invece non hai più alcuna possibilità di dimostrare la sincerità della tua voglia di “rinascere” e di costruirti un semplice e modesto ingresso in una vita “normale”. Proviamo a porci una sola domanda: ma se tutto questo succedesse a me? Se come genitore avessi un figlio che ha sbagliato, e non gli venisse concesso di ricostruirsi una vita diversa, non più improntata a delinquere, ma tesa a mettere a disposizione quello che ognuno di noi ha comunque di positivo? Come mi sentirei? Come reagirei? Pensiamoci un pò e forse qualche porta aperta contribuirà a ricostruire ed allargare gli spazi a chi ha sbagliato, ma anche a pensare con più positività e non attaccarsi solo ai pregiudizi, alle paure che poi portano ad isolarci gli uni dagli altri, pronti ad azzannare chi, per un motivo o per un altro, ha commesso un errore. Se continuiamo con questi atteggiamenti, sarà sempre più difficile dare una risposta a quello che Benedetta Tobagi, la figlia di Walter Tobagi, il giornalista ucciso da un commando di terroristi, ha definito il bisogno di “spezzare la catena del male”. Ulderico G. Il diario di Elton: “Sogno il calore di un letto vero” Redattore Sociale, 3 ottobre 2011 In cella il bagno funge anche da cucina. Lì ci si prepara il caffè, si organizza la dispensa, si cucina. E la branda color mattone scuro è un letto, ma anche uno scomodo divano. Padova, 3 ottobre 2011 - La cosa di cui in questi anni ho sentito maggiormente la mancanza è il senso di accoglienza e di comfort che dà una casa. Quello che sogno è di passare una serata disteso su un divano. In cella c’è la branda di ferro, dipinta di antiruggine color mattone scuro, che durante l’arco della giornata, dei mesi e degli anni, assume funzioni diverse, sempre fredde, incomplete: per metà del tempo è uno scomodo divano che invece di favorire, contrasta le cose piacevoli che io tento di fare, come la colazione, leggere, studiare, sognare a occhi aperti. Per l’altra metà, ritorna a essere un letto, ma che con cinismo distrugge la tranquillità della notte scagliandomi contro i pensieri più irrequieti, che mi agitano l’anima. A mezzo metro dalla branda c’è la porta che chiude il bagno - cucina, dove il lavandino è ornato da mensole di cartone rivestito di una carta azzurra e attaccate al muro con vinavil. Questo rischioso arredamento serve per metterci sopra il contenitore del caffè e quello dello zucchero, la caffettiera, i bicchieri di plastica. Poi su un’altra mensola ho depositato il sale, le varie spezie, la bottiglietta di olio e quella d’aceto, fondamentali per dare un po’ di sapore ai pasti che offre il carcere. Su un terzo cartone ho disposto il bicchiere con dentro lo spazzolino da denti e il dentifricio, i cotton - fioc e la boccetta di profumo dall’essenza di un fiore anonimo. In mezzo alle mensole di cartone, attaccato al muro, c’è uno specchietto di plastica. Ho cercato di dare a quel posto le sembianze del bagno di casa mia ma, sarà per lo spazio è piccolo e soffocante, sarà per le mensole di cartone attaccate al muro grigio, continuo a trovare orrendo il bagno della mia cella. Vi rimango soltanto il tempo necessario per fare i miei bisogni, lavarmi, fare il caffè, le uova (perché in galera il bagno serve anche da cucina) e poi scappo verso la branda di ferro, della quale vorrei però ugualmente liberarmi. Non vedo l’ora di ritornare a casa, di affondare in un divano vero, di ritrovare un letto che non sarà più la branda, ma un posto dagli spazi generosi e dalla natura rassicurante, che saprà accogliermi e proteggere il mio sonno fino al risveglio. Elton Kalica (in collaborazione con Ristretti Orizzonti) Elton è un 35 enne albanese, detenuto nel carcere Due Palazzi di Padova con una condanna a 14 anni e 8 mesi per sequestro di persona a scopo di estorsione (senza armi e durato due giorni). Il prossimo 25 ottobre finirà di scontare la sua pena e tornerà libero. Firma storica della rivista Ristretti Orizzonti, attende di sapere se sarà rimpatriato in Albania o se potrà restare in Italia e lavorare da esterno per Ristretti. Ha deciso di raccontare su “Redattore sociale” i suoi ultimi giorni dentro. Giustizia: amnistia, da Pannella nuovo appello al Quirinale Il Mattino, 3 ottobre 2011 Dagli schermi di Rai News, Marco Pannella si rivolge a Giorgio Napolitano per un nuovo intervento pro amnistia: “Tu come garante - ha detto Pannella dando confidenzialmente del tu al presidente della Repubblica - devi indicarmi, magari in privato, se c’è una proposta qualsiasi alternativa alla velocità e alla radicalità dell’amnistia”. Secondo il leader Radicale, l’amnistia era ed è tuttora il primo provvedimento in materia di giustizia, quello che può fare da traino a ogni altra misura. Dal leader radicale infine, arriva un attestato di solidarietà nei confronti della situazione in cui versa Rai News: “Siete efficienti e i dati lo dimostrano - ha detto Pannella. Ma voi siete un po’ come noi: abbiamo fatto qualcosa di utile per il Paese e veniamo puniti”. Si ricorderà: nel pieno dell’estate Pannella si era fatto promotore di uno sciopero della fame e della sete per sollevare il problema delle carceri e del sovraffollamento determinato da più di 67mila detenuti. E il presidente della Repubblica aveva scritto un’accorata lettera a Pannella - che in quei giorni era ricoverato in ospedale - nella quale riconosceva l’importanza e il valore della sua protesta: “Credo che l’Italia ti debba il giusto riconoscimento” per battaglie che nel tempo sono diventate “patrimonio culturale comune”. La “drammaticità” della situazione non permette “sottovalutazioni”, aveva concordato il capo dello Stato. Che inoltre aveva ricordato numerose delle “lungimiranti” battaglie di Pannella. “Non sono ammissibili sottovalutazioni e fatalismi di fronte a situazioni drammaticamente incompatibili con il rispetto della dignità delle persone e con la necessità di fornire un “servizio giustizia” efficiente, a garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini”, aveva scritto Napolitano. Il presidente si era detto “particolarmente sensibile” alla battaglia di Pannella, confermando il proprio impegno in tal senso e gli aveva chiesto ili non mettere a rischio la sua salute con “forme estreme” di protesta. Successivamente il capo dello Stato aveva partecipato nel mese di luglio ad un’iniziativa dei radicali - un convegno sulle carceri - insieme a Pannella. Giustizia: Opg; l’unica riforma possibile è la chiusura di Marzia Coronati www.amisnet.org, 3 ottobre 2011 È stato approvato il 27 settembre al Senato il testo sugli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) licenziato dalla Commissione d’inchiesta sul sistema sanitario. La risoluzione prevede una riforma del sistema di detenzione psichiatrica. “Un primo passo di un lungo percorso” ha dichiarato Stefano Cecconi, del comitato Stop opg. Secondo il comitato, che si batte per un nuovo approccio alla salute mentale in Italia, il testo ha significato una tappa di una riforma che dovrà necessariamente prevedere la chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani, dove 1500 cittadini vivono in condizioni disumane. In base alla risoluzione, il governo si è impegnato a riorganizzare le strutture interne degli opg ai fini di renderle compatibili con quelle degli ospedali, a decongestionare l’affollamento riportando parte degli internati in apposite sezioni delle carceri in grado di offrire assistenza psichiatrica, a stipulare convenzioni con le Regioni che ospitano le sei strutture (Sicilia, Campania, Toscana, Emilia Romagna e Lombardia) affinché gli Opg possano diventare luoghi più umani e meno repressivi. “Gli opg non sono altro che carceri sovraffollate per malati di mente, che invece di essere curati vivono in ambienti degradati” commenta Cecconi “per cui gli atti che prevedono il testo sono importanti, ma non risolvono il problema. La soluzione non è ricostruire le sei strutture e metterle a nuovo, ma chiudere gli opg. La nostra battaglia non si ferma qui: alla logica della custodia e della carcerazione bisogna sostituire quella della assistenza e della cura”. Giustizia: Girlanda (Pdl); proposta di legge per refettorio comune e niente fornelli in cella Adnkronos, 3 ottobre 2011 Un refettorio comune per i detenuti, come nei penitenziari a stelle e strisce, in alternativa alla distribuzione dei pasti in cella. È quanto prevede la proposta di legge presentata dal deputato del Pdl Rocco Girlanda. Un modo, spiega, “per ottimizzare la gestione di alcune operazioni potenzialmente critiche per il lavoro degli agenti e per la stessa sicurezza dei detenuti”. Negli istituti di pena italiani, sottolinea Girlanda, il cibo viene distribuito in cella, sia per la colazione del mattino, sia per il pranzo, sia per la cena, “obbligando il detenuto a rimanere in cella anche in quei momenti e privandolo di un possibile elemento di socialità che potrebbe essere rappresentato dal pasto comune”. Il ricorso ad un refettorio, “come previsto in ogni carcere americano, consentirebbe - insiste il parlamentare del centrodestra - notevoli vantaggi sia per la struttura carceraria, sia per la socialità e il recupero del detenuto: sarebbe molto più pratico centralizzare la distribuzione del cibo in una mensa anziché trasportarlo cella per cella. E questo consentirebbe anche alla polizia penitenziaria di osservare i detenuti e il loro comportamento”. Sotto il profilo della sicurezza, “si abolirebbe una fonte di disparità come l’acquisto e la cottura del cibo nelle proprie celle”, perché “c’è chi non può pagare per integrare il vitto” e costringe la struttura penitenziaria “a tollerare bombolette di gas per la cottura che spesso sono state utilizzate per atti impropri, fino al suicidio del detenuto”. È vero, sottolinea Girlanda, che molte strutture carcerarie sono vecchie e difficilmente in questi istituti potrebbero essere modificate per allestire mense comuni. Ma nelle strutture più moderne si potrebbero “con facilità riconvertire spazi non utilizzati, come magazzini o palestre, mentre per le nuove opere di edilizia carceraria annunciate dal governo è possibile prevedere nella fase progettuale la definizione di un refettorio”. Misure che consentirebbero al sistema carcerario italiano di avvicinare gli standard internazionali, “anche con un risparmio nel medio e lungo termine dei costi necessari per il trasporto del cibo cella per cella, che viene effettuato da detenuti pagati dall’istituto penitenziario”. Inoltre, la gestione di un refettorio comune necessiterebbe di minore personale, con un conseguente taglio dei costi per ogni istituto penitenziario. Ma soprattutto, il divieto di utilizzare in cella bombolette di gas e fornelli “aumenterebbe di molto lo standard di sicurezza” degli istituti. Giustizia: il figlio di Riina è a Corleone ma nei prossimi giorni dovrebbe arrivare a Padova Corriere della Sera, 3 ottobre 2011 Il profumo della libertà lo sta respirando a Corleone dove è giunto dopo avere scontato un residuo di pena di tre anni e un mese di carcere in seguito ad una condanna a otto anni e dieci mesi di reclusione. Un ritorno a casa che Giuseppe Salvatore Riina, 34 anni, figlio minore del capo mafia Totò, non si aspettava pensando che sarebbe andato, dopo la detenzione, a lavorare in una Onlus a tutela delle famiglie contro la droga che si trova a Padova. Un cambio di programma che Riina jr commenta sostenendo di sentirsi “confuso ma felice”. A Corleone, il magistrato gli ha imposto l’obbligo di dimora e di rientro in casa entro le 21. Domenica mattina è stato in commissariato. “Ho avuto la conferma che Riina jr è in paese - dice il sindaco del comune nel Palermitano - Antonio Iannazzo - e queste sono le limitazioni alle quali deve sottoporsi”. La svolta improvvisa è arrivata nel primo pomeriggio di ieri quando, prima di lasciare il carcere di Voghera, a Riina è stato “sospeso” il provvedimento di sorveglianza che gli avrebbe permesso, come previsto dal magistrato di Pavia, di arrivare in Veneto e notificato invece la norma di prevenzione emessa nel 2002 dal tribunale di Palermo. Un provvedimento, quest’ultimo, che, come indica l’avvocato, “cancella” quello relativo alla sorveglianza. Il legale ha annunciato la presentazione di un ricorso in Cassazione contro la prevenzione poiché sarebbero trascorsi più di due dall’emissione di quest’ultima notifica alla sua applicazione. Dura la reazione del sindaco Iannazzo: “Credo che la presenza a Corleone di Giuseppe Salvatore Riina sia pericolosa per la comunità”. “Non abbiamo d’altronde registrato da parte sua - aggiunge Iannazzo - alcuna dichiarazione di dissociarsi da Cosa Nostra o di essersi pentito delle azioni per le quali è stato condannato. Pertanto non è Corleone il luogo dove lui possa sperimentare un’ipotetica volontà di cambiamento”. “Certamente del suo arrivo - osserva - i suoi familiari con la madre in testa sono molto contenti. Ma sicuramente vi sono tanti altri miei concittadini che non hanno gradito questa suo rientro. La sua permanenza qui però, a quanto ho sentito, dovrebbe essere temporanea. Possibilmente Riina junior dovrebbe ripartire per Padova per lavorare nella onlus”. Ed è stata proprio la sua possibile presenza nel Veneto a scatenare nei giorni scorsi le proteste della Lega con l’annuncio anche della presentazione di una interrogazione parlamentare. Reazioni di cui oggi si è fatto portavoce il governatore Luca Zaia: “La nostra regione ha già dato il suo tributo sui delinquenti importati da fuori e non intende darne ancora i veneti sono stanchi di sentirsi trattare periferia dell’impero”. E d’altra parte il curriculum criminale del rampollo di casa Riina non è incoraggiante. “Un vero capo mafia”. Fu questa una delle motivazioni della sentenza della Cassazione che riportò l’8 gennaio 2009 il giovane “Salvuccio”, come è chiamato dai suoi familiari, dietro le sbarre. In quella data doveva scontare la pena residua di tre anni e un mese. Il figlio del boss Totò era già infatti finito in cella per la prima volta nel giugno 2002 perché accusato di associazione mafiosa ed estorsione. La Corte d’appello di Palermo gli aveva inflitto appunto una pena a otto anni e dieci mesi. Nel febbraio 2008 la Cassazione aveva disposto la sua scarcerazione per scadenza dei termini. Il giovane era allora detenuto a Sulmona e sottoposto al 41 bis. Ma dopo la conferma della condanna Riina jr ritornò fino ad oggi ad indossare gli abiti di detenuto. Ma ora secondo l’ex sindaco Pippo Cipriani che durante il suo mandato dal 1993 al 2001 ha condotto tante battaglie contro i boss: “Il giovane Riina ha tutto il tempo per cambiare rotta e collaborare con la giustizia soltanto così può avere comprensione per una vita diversa”. Intervista: dopo otto anni ho pagato il conto e ho il diritto di rifarmi una vita Intanto, sembra di parlare con il suo avvocato. Per la precisione del linguaggio, per il garbo, per l’attenzione a sfumature e congiuntivi. Lontano mille miglia dall’idioma paterno impastato di un siculo - italiano alla Camilleri. Niente da vedere con l’aria del contadino dimesso offerta da Totò Riina per il terzogenito del padrino, Salvuccio, 34 anni, appena uscito dal carcere di Voghera. Sembra di parlare col suo avvocato e, invece, eccolo solo a Corleone, sotto casa di mamma Ninetta, in via Scorsone, pronto per andare al commissariato di polizia, attraversando stradine dove nessuno s’aspetta di vedere Salvuccio, dato dai giornali in arrivo a Padova. E invece è tornato. Senza che nessuno sapesse. Nemmeno lui che, dopo la mediazione del suo avvocato, aveva accettato di buon grado l’offerta di un lavoro da impiegato in una Onlus padovana. Ma un vecchio provvedimento impone il passaggio e la firma al commissariato di Corleone. E lui ha preso un aereo. Anonimo e non riconosciuto all’arrivo al “Falcone e Borsellino”. Poi, l’abbraccio con i cognati e i curvoni della strada ripercorsa dopo tanti anni, sempre zeppa di fossi e avvallamenti, con o senza i Riina. E adesso? Adesso che il sindaco di Corleone, appresa la notizia, la dichiara “persona non gradita”? Adesso che il governatore del Veneto chiede di non farla andare a Padova perché non vuole più “delinquenti importati da fuori”? “Adesso, dopo 8 anni e 10 mesi sono un uomo libero. Un uomo che ha studiato, si è diplomato, studia all’università e vuole vivere la sua vita da cittadino di questo Stato riprendendo a lavorare, come è diritto di chi ha pagato il suo conto, come vorrei ricordare a quanti richiamano sempre le regole e le norme della Costituzione”. Forse continuano a rimproverare a lei condannato per mafia e alla sua famiglia un conto aperto con lo Stato e il popolo italiano. “Chi ha pagato ha diritto o no in questo Paese di rifarsi una vita, anzi a riprendersi quanto, a torto o a ragione, gli hanno tolto?”. Che cosa le avrebbero tolto? “Parlo del lavoro che mi hanno impedito di svolgere. Con provvedimenti amministrativi che non capirò mai. Io facevo il rappresentante, vendevo macchine agricole, qui a Corleone”. L’hanno anche accusata di ricostruire un clan mafioso. “Per le accuse a torto o ragione mosse, ho pagato. Resta il fatto che il mio lavoro non era un reato. Eppure si decise con le carte bollate che io non potevo, che dovevo chiudere per colpa di un cognome”. L’avverte come un marchio? “Rischia di diventarlo. Ma anche questo è fuori dalla regole del Paese, dello Stato”. Qualcuno si sorprenderà a sentir invocare lo Stato al figlio di Riina. “Può sorprendersi chi si lascia condizionare da cronache di giornali e rappresentazioni di storie spesso inventate, senza alcun riferimento alla realtà, a quello che ognuno di noi pensa”. Dica che cosa è lo Stato per lei. “Dico che la Costituzione prevede non il recupero, ma il reinserimento degli ex detenuti. È stata Francesca Casarotto, il mio avvocato, a stabilire contatti con i dirigenti della Onlus di Padova. Non debbo andarci perché i leghisti e il governatore Zaia non vogliono? Beh, ditemi dove andare. Io nemmeno a Corleone volevo tornare”. Il sindaco dice che la gente non vuol vederla in giro per Corleone. “Veramente non mi è sembrato. Ma io non faccio niente per restare. Sarei andato direttamente e volentieri a Padova se non mi avessero detto che avevo l’obbligo di firmare qui al commissariato. E visto che è un obbligo io lo rispetto, lo osservo. Ma ci sarà la libertà di vivere e lavorare da qualche parte. Non mi vogliono qui, non mi vogliono lì, al Sud, al Nord... Non è questo lo spirito della Costituzione, bisognerebbe ricordare a sindaci e governatori”. Molti hanno paura che lei a Corleone riannodi dei fili mafiosi... “So che non posso sbagliare. E non sbaglierò. Ma uno per non sbagliare deve essere messo nelle condizioni di vivere, di lavorare. Per tutto questo io sono pronto a ricominciare lontano dal mio paese, dalle mie sorelle, dalla casa dove vive mia madre...”. Dalla casa in cui è rimasto l’unico maschio. “Lo vede che l’ha capito...”. Condizione di maggiore rischio. “Nessun rischio ma io sono pronto ad andare ovunque. Pur di non essere perseguitato. Anche da voi giornalisti”. Cosa dice sua madre? “Posso solo dire che è commossa. Chi è figlio o ha un figlio sa quanta commozione può esserci dopo un ritorno”. Riesce a rivedere come un orrore la storia della sua famiglia, di suo padre, gli anni della latitanza...? “Dico solo che io ho pagato e voglio lavorare. Per il resto, se mi daranno il permesso, vorrei rivedere mio padre. E andare a trovare in carcere mio fratello Giovanni. Io lo chiederò, secondo le regole”. C’è sempre la regola del 41 bis, dei vetri blindati. “Attenderò. Ma le regole dovrebbero consentire a un figlio di rivedere il padre, a un uomo di riabbracciare il fratello”. E salta su una Golf marrone, dopo la prima notte a casa, asciutto e sereno, allegro e forbito. Un figurino. Scarpe rosse come la polo griffata, manica lunga, rifiniture bianche e blu. Occhiali Rayban con montatura nera e filo azzurro. Orologio con cinghietta gialla. Un ragazzo come tanti. In apparenza. Ma con un documento giudiziario arrotolato a mò di pergamena. Necessario per la prima firma in commissariato. Giustizia: Alfonso Papa resta in carcere, nuovamente respinta istanza di scarcerazione Tm News, 3 ottobre 2011 Nuovo no alla richiesta di scarcerazione presentata da Alfonso Papa tramite i suoi difensori. Il gip del Tribunale di Napoli, Luigi Giordano, ha respinto infatti l’istanza presentata dagli avvocati Giuseppe D’Alise e Carlo di Casola, allineandosi al parere dei pubblici ministeri e del tribunale del Riesame che si era già pronunciato sulla posizione del parlamentare del Pdl in cella dal 20 luglio scorso nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4. Nella nuova istanza al gip, i difensori di Papa avevano chiesto la scarcerazione del deputato, e in alternativa gli arresti domiciliari, sollevando il problema delle condizioni di salute di Papa e chiedendo che fosse acquisita la cartella sanitaria del detenuto. Ma il gip, stando a quanto si è appreso, non si sarebbe pronunciato sulla questione rimettendosi, nella decisione, al giudicato cautelare e quindi alla pronuncia del Riesame che aveva già respinto l’istanza di revoca della misura cautelare. La difesa, tuttavia, insiste sostenendo che Papa in cella stia male, sia dimagrito e psicologicamente provato dalla detenzione. Il parlamentare Pdl è indagato per concussione, favoreggiamento e rivelazione di segreto e a breve, assieme al faccendiere Luigi Bisignani, sarà davanti ai giudici per l’inizio del processo, stabilito con giudizio immediato. Lettere: la rieducazione penitenziaria è una scommessa… se non ora, quando? di Evelina Cataldo www.linkontro.info, 3 ottobre 2011 La seduta straordinaria del Senato indetta per l’emergenza carceri si è risolta con tanta retorica e con fumosa determinazione. L’amnistia, osteggiata anche dall’opposizione e percepita come un provvedimento di estrema defezione ideologica, viene considerato un atto impraticabile, ostacolato forse dalla difficoltà di dare attuazione a idonee politiche “extra murarie”. Le soluzioni finora prospettate sembrano seguire orientamenti della sola maggioranza tralasciando questioni ad esse collegate e di pari urgenza. La depenalizzazione avrà presto avvio, quindi in un futuro remoto; nuove carceri saranno costruite ma bisognerà prima esperire le procedure relative ai bandi di gara; l’assunzione di un migliaio di agenti di polizia penitenziaria sarà avviata con rapidità, anche se mille unità rappresentano una goccia nell’oceano quando saranno ripartite tra gli innumerevoli istituti penitenziari italiani. Si persevera nel mantenimento dell’attuale sistema giustizia sebbene sia ritenuto obsoleto da più voci e indirizzi politici. Identificare e rafforzare il pianeta carcere attraverso incentivi alle sole strutture e al comparto sicurezza significa ridurre la pena a mero intervento custodialistico. Il richiamo del Presidente della Repubblica - organo sovrano e garante supremo del dettato costituzionale - e la Sua esortazione a porre in essere interventi organici e urgenti al fine di rendere l’esecuzione penale umana e improntata ai principi del trattamento hanno spianato un’unica strada maestra onde evitare un cieco passo all’indietro. L’esecuzione della pena richiede in primis un mirato investimento di risorse economiche nelle figure esperte nel recupero intramurario. Le carceri possono funzionare solo attraverso un meccanismo sinergico di risorse umane: agenti e ispettori ma anche educatori, psicologi e direttori. La sinergia deve essere messa al servizio del rispetto della Legge e proprio le leggi già in vigore impongono la trasformazione della pena da penitenza a occasione per il recupero sociale. Ogni detenuto rieducato rappresenterà un’affermazione della legalità dello Stato, uno Stato che non abbandona nella gabbia della criminogenesi chi ha commesso un reato ma che si prodiga nel concedere un riscatto offrendo un’opportunità di ravvedimento. Una recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria afferma in maniera incisiva che il carcere non può configurarsi come un’inutile sofferenza ma solo come una parentesi per la ricostruzione della persona nei suoi molteplici aspetti: personale, culturale, affettivo, sanitario, lavorativo. La professione dell’educatore penitenziario non si risolve, difatti, in un’attività burocratica o di mera intermediazione tra Amministrazione Penitenziaria e Magistratura di Sorveglianza ma è più pregnante perché multi sfaccettata: si muove dall’osservazione scientifica della personalità, passa per i colloqui di sostegno, comprende i bisogni dei condannati fino a delineare un rinnovato progetto esistenziale. L’educatore è il deus ex machina nonché la liaison necessaria per unificare i contributi dell’intero gruppo di osservazione e trattamento. Dalla somma di questi interventi viene formulata un’ipotesi di futuro per ciascun detenuto. Disconoscere la sua funzione in un momento di così grande criticità non farà altro che aggiungere l’ennesimo tassello all’involuzione civile, economica e sociale già in atto nel nostro paese. Lettere: risarcimento per ingiusta detenzione negato, segnalazione anche ad AI e HRW di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti, 3 ottobre 2011 La battaglia per il riconoscimento di un risarcimento economico e morale per ingiusta detenzione, subita da me e da molti altri cittadini di questo paese, spesso protratta per lunghi anni e causa di esperienze di vita rubate, continua con ricorsi e denunce puntuali. Dopo la Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo e la denuncia al Tribunale Penale dell’Aja, dai quali chi scrive è in attesa di risposta, sono state inoltrate in questi giorni segnalazioni simili a due delle organizzazioni mondiali più accreditate sui temi dei diritti umani, detenzioni illegali e torture: Amnesty International e Human Rights Watch. Le segnalazioni vertono sia sui temi della prolungata e ingiusta detenzione, sia sui luoghi e le condizioni della stessa. A mio giudizio, infatti, l’isolamento totale non può che configurarsi come una vera e propria tortura fisica e psicologica. La denuncia quindi contempla due fenomeni di ingiustizia sociale che le associazioni menzionate combattono in tutto il mondo: detenzione illegale e tortura. Credo che questa battaglia sia oggettivamente importante per l’ottenimento del diritto di chiunque ad avere un risarcimento in caso di ingiusta detenzione e, più in generale, in caso di errori giudiziari. Infine penso che la stessa battaglia debba porsi l’obiettivo di evidenziare che una nazione che si proclami civile, quale la nostra, non possa contemplare modalità detentive cosi estreme da essere etichettate come forme di tortura, oggi come ieri strumento di potere che si oppone al riconoscimento di qualsiasi diritto umano. Veneto: viaggio nell’inferno del carcere veneziano di Santa Maria Maggiore di Giuseppe Pietrobelli Il Gazzettino, 3 ottobre 2011 L’inquilino del terzo piano-letto del carcere di Santa Maria Maggiore deve dormire legato. Perché cadendo da quell’altezza potrebbe farsi davvero male, anche se in qualche caso il volo verrebbe paradossalmente attutito da altri detenuti, costretti a dormire sul pavimento. Il recluso non può restare sempre in piedi, nella propria cella, ma deve farlo a turno con gli altri occupanti, perché non c’è spazio a sufficienza per consentire a tutti - e contemporaneamente - di usufruire del sacrosanto diritto di sgranchirsi le gambe. Che sia o meno in attesa di giudizio, il detenuto non può lavorare ne andare in biblioteca, non può occupare il proprio tempo con qualche attività, ma è costretto a restare per 22 ore della giornata nello stesso luogo dove mangia, dorme, fa i propri bisogni. Il mondo di chi occupa una cella è uno spazio individuale di meno di tre metri quadrati, quando per legge dovrebbe essere tre volte maggiore. Significa che la popolazione carceraria vive ammassata, accatastata, dentro un formicaio di ferro e cemento senza speranza. Si è concluso da poco il dibattito in Senato sulle condizioni di vita dei detenuti italiani, innescato dagli scioperi della fame di Marco Pannella, dalle iniziative dei radicali italiani e dalle proteste degli avvocati penalisti. Nel pianeta - carcere si vive e si muore in condizioni disumane. Lo dimostra anche la situazione dei 16 istituti di pena del Nordest, al collasso. perché a fronte di una capienza di circa 3mila posti, le persone presenti sono oltre 4.400. Ogni due detenuti ce n’è uno in più che divide lo stesso spazio angusto, respira la stessa aria viziata e usa l’unico servizio sanitario della cella. Le tabelle di questa pagine forniscono solo i numeri, impersonali, seppur eloquenti. Ci sono carceri come Vicenza (più 144 per cento), Treviso (più 112 per cento) e Tolmezzo (più 104 per cento) dove le presenze sono più del doppio di quelle previste. Ci sono la casa di reclusione di Padova (più 95 per cento), Santa Maria Maggiore a Venezia (più 89 per cento) e Udine (più 95 per cento) dove si sfiora il raddoppio del numero di persone. Dietro le cifre ci sono le storie, le sofferenze di chi condannato a espiare pene o detenuto in attesa di giudizio - si trova in una situazione ambientale disumana. Allo sciopero della fame hanno aderito perfino alcuni direttori di istituti penitenziari e questo la dice lunga su quanto gli operatori carcerari si rendano conto del dramma quotidiano in cui anche loro sono immersi. “La tensione nelle carceri quest’estate è cresciuta in maniera esponenziale, perché il caldo e l’afa hanno acuito i problemi connessi alla detenzione e alla promiscuità”. spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria. Che aggiunge: “Il governo e il Parlamento devono mettere concretamente mano a uno stato delle cose giunto a un livello di emergenza”. Cosa fare? “Serve una nuova politica della pena, non più differibile, che ripensi organicamente il carcere. L’unica via d’uscita è il ricorrere alle misure alternative alla detenzione che come dimostrano i numeri sono lo strumento migliore per garantire la vera sicurezza per i cittadini”. Chi si allontana dal carcere per una seria prospettiva di lavoro all’esterno, quasi sempre non tenta di commettere altri reati. Veneto: Fois (Radicali); così lo Stato italiano dimostra il vero volto dell’illegalità Il Gazzettino, 3 ottobre 2011 “La situazione? Un disastro. Lo Stato dimostra il vero volto dell’illegalità proprio nel luogo dove la gente finisce per aver violato la legge. E dove dovrebbe redimersi”. Il veneziano Franco Fois, dei Radicali Italiani, conosce molto bene la realtà del Nordest. Cosa denunciate? “Il sovraffollamento, ma non solo. Il mancato rispetto dei livelli minimi di spazio per persona. La mancanza di attività lavorative o di locali per attività culturali. Personale sotto organico e costretto a ritmi massacranti”. Ministri e sottosegretari dicono che si sta lavorando per realizzare nuove strutture… “Si può replicare con qualche esempio. A maggio la direzione di Santa Maria Maggiore a Venezia aveva già esaurito il fondo di 5 mila euro per la manutenzione del carcere. Se si rompe una lampadina non ci sono soldi per sostituirla. E sempre a Venezia i fondi sono stati ridotti nella previsione che venga costruito un nuovo carcere che è appena sulla carta. E non usano dal 2008 una struttura come il Sat alla Giudecca che è vuoto perché manca il personale”. A Rovigo dovrebbe essere pronto il nuovo carcere tra un anno… “La situazione dei detenuti di Rovigo è indegna, costituisce la riprova di quanto le carceri siano una discarica umana. Stanno costruendo dal 2003 e i lavori sono ancora in corso. Siccome non ci sono più soldi non faranno nemmeno gli alloggi delle guardie”. La sicurezza? “Entri nella sala di regia a Venezia con i monitor vecchi di trent’anni, senza zoom, in parte inutilizzabili. E poi ne riparliamo in quanto a sicurezza”. Veneto: Franchini (Avvocato); denuncia in Procura cinque anni fa… non è cambiato nulla Il Gazzettino, 3 ottobre 2011 Neanche gli avvocati sono riusciti a configgere l’apatia istituzionale che circonda il pianeta carcere. Risale al 2006 il primo esposto che la Camera Penale di Venezia depositò in Procura per denunciare le scandalose condizioni di vita a Santa Maria Maggiore e chiedere una “verifica urgente” sulla situazione logistica e igienico - sanitaria da parte dell’Ulss 12. “Non abbiamo avuto alcun risultato...” allarga sconfortato le braccia l’avvocato Antonio Franchini, presidente della Camere Penale. Cosa scrivevate nell’esposto? “Dati che oggi risultano perfino aggravati: 270 detenuti presenti a fronte di 160 posti letto regolamentari, insopportabili livelli minimi di vivibilità nelle celle, stipate di letti e dagli spazi ridottissimi. Il fatto che il “reparto lavorazione” fosse impiegato come dormitorio. L’impossibilità di avere spazi di socialità”. Poco spazio cosa significa? “Che le celle, già anguste, con gli attuali livelli di occupazione assegnano uno spazio di 3 metri quadrati per detenuto, quando dovrebbero avere una superficie minima di 9 metri per una persona e 14 metri per due persone, “poi 5 metri quadrati per ogni persona in più”. Lo spazio è ridotto a meno della metà… “Infatti, ma l’Ordinamento Penitenziario prevede anche che i locali debbano permettere il lavoro e la lettura e che gli spazi destinati al trattamento debbano essere distinti da quelli destinati al pernottamento. Questa situazione è da Quarto Mondo. E ciò è ancor più grave se si pensa che metà dei detenuti sono in attesa di giudizio e che il 60 per cento sarà poi assolto. Bene ha fatto il ministro a dire che va ridotta la custodia cautelare”. Voi avete organizzato manifestazioni, qualche mese fa un dibattito sul nuovo carcere. Che cosa si può fare? “Una strada percorribile da subito c’è e l’abbiamo indicata. Il vero problema è la turnazione dei detenuti, il via vai di chi resta in cella pochi giorni, perché ha il processo per direttissima, o viene scarcerato dopo l’udienza di convalida. Queste persone non dovrebbero entrare neppure in carcere”. Dovrebbero stare in cella di sicurezza? “Certo, nelle strutture di Polizia. L’allora procuratore di Vicenza, Salvarani, aveva dimostrato che la soluzione era possibile e funzionava. Perché riduce la burocrazia penitenziaria e diminuisce il numero di persone che entrano ed escono”. Cosa dite del progetto di nuovo carcere? “Che il ministero deve farsi carico di decidere il luogo dove costruirlo, altrimenti si rimane tutti ostaggio degli egoismi localistici”. I penalisti aderiscono alla catena dello sciopero della fame promossa dall’Unione delle Camere Penali in appoggio alle iniziative di Marco Pannella e dei radicali. Un avvocato al giorno beve solo liquidi senza zucchero. La prima toga veneta è stata Carmela Parziale. Ad ottobre è il turno di altri undici: Ravagnan, Simonetti, Zampieron, Cagnin, De Biasi, Vassallo, Andreatta, Bortolotto, Marin, Stocco, Pauro. Umbria: il Segretario del Lisiapp incontra il vice presidente della commissione giustizia www.spoletocity.com, 3 ottobre 2011 Rosati (Lisiapp): “il vice presidente (senatore Domenico Benedetti Valentini) si è impegnato a riferire le problematiche al sottosegretario Caliendo”. In Umbria come il resto del paese , si vive nelle strutture penitenziarie e per gli uomini e le donne della polizia penitenziaria una situazione di vera emergenza aldilà dei proclami e slogan di gruppi extra - parlamentare che vogliono esclusivamente attuare un provvedimento di amnistia o comunque liberare la maggior parte dei detenuti anche fatta di delinquenti comuni. L’incontro è stato promosso dal Lisiapp (Libero sindacato appartenenti Polizia penitenziaria) dove era presente il Segretario generale aggiunto Daniele Rosati per esporre al senatore Domenico Benedetti Valentini vice presidente della seconda commissione giustizia tutto ciò che sta vivendo il corpo della polizia penitenziaria. La situazione in cui versano le strutture penitenziarie della regione Umbria, sottolinea sempre Rosati , si ripercuote inevitabilmente sul personale di polizia, in quanto siamo presenti ad una vera mancata assegnazione di personale da parte del Dipartimento Dap a causa della assenza di determinazione della pianta organica. Rosati ha inoltre spiegato, “producendo anche a sostegno della propria tesi documentazione e prove rilevanti, la grave penalizzazione che ha subito la regione Umbria rispetto alle altre regioni italiane dalla mancata assegnazione di personale nelle ultime movimentazioni di personale di polizia Penitenziaria effettuate dal dipartimento già dall’anno 2009 con il termine dei corsi di neo agenti 160°, 161°, 162° e ultimo 163°”. In effetti, Capanne risulta essere un carcere fantasma afferma Mirko Manna leader numero uno del Lisiapp. In sostanza, l’istituto di Capanne non figura nella determinazione delle piante organiche (documento che definisce il numero di agenti che devono essere assegnati all’istituto di pena) inserite nel decreto ministeriale del 2001. Il carcere perugino, viene da sé, non risulta nel provvedimento dieci anni fa era in fase di realizzazione e quindi non funzionante. Ai tempi infatti era ancora aperto il penitenziario di piazza Partigiani lo stesso che il provveditore, logicamente, segnalò al Dap per il decreto del 2001. Poi però nel 2005, come noto, le cose cambiarono: Capanne venne inaugurato e il carcere di piazza Partigiani chiuso. Ma al Dap ancora non se n’è accorto nessuno. L’errore del dipartimento però - continua Manna - non si limiterà a danneggiare i già vessatissimi agenti in servizio a Capanne, ma colpirà indiscriminatamente ogni unità attiva all’interno di uno dei quattro carceri umbri. Già, perché se fino a ieri i calcoli sballati erano stati scevri di conseguenze, oggi la questione è ben diversa. Con il dato di 531 agenti sufficienti a gestire i quattro carceri, il Dap ha deliberato che in Umbria non c’è alcuna carenza di personale. Ergo: dei 750 nuovi agenti pronti per essere assegnati ai vari penitenziari del Paese neanche uno ne verrà trasferito in Umbria. L’Incontro - Il senatore Domenico Benedetti Valentini è rimasto esterrefatto di fronte alle delucidazioni del segretario del Lisiapp, definire kafkiana la situazione sarebbe un commento veramente calzante, se non altro che sorge il dubbio sulla buona fede dei dirigenti del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, i quali sono sembrati irremovibili durante l’ultimo incontro tenuto presso lo stesso DAP, malgrado anche in quella occasione il segretario Rosati aveva rappresentato la questione di cui sopra, per di più anche in altre occasioni la stessa era stata descritta analiticamente con diverse missive indirizzate al presidente Ionta e al Capo del Personale consigliere Turrini Vita. A pensar Male si fa peccato e noi siamo peccatori. Il senatore Benedetti Valentini, si è comunque assunto l’impegno di rappresentare la situazione come illustrata nell’incontro al sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo, e l’incontro si conclude con l’impegno del senatore ad informare appena avrebbe avuto chiarimenti soddisfacenti e magari positivi. Campania: Garante detenuti; un dossier sui troppi morti in carcere e per malagiustizia Il Velino, 3 ottobre 2011 È allarme per le “Morti di carcere e malagiustizia”, secondo un dossier voluto a Napoli dal Garante campano delle misure sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Un osservatorio permanente sulle morti in carcere che ha rivelato dati scioccanti: su 12 morti, dieci si sono suicidati. Il problema dei penitenziari e il loro affollamento, questo il comune denominatore che ha visto confrontarsi al tavolo dei relatori, in Regione Campania, l’assessore comunale alle Politiche sociali, Sergio D’Angelo, il presidente del Consiglio regionale campano, Paolo Romano, la Garante dei detenuti della Regione Campania, Adriana Tocco, il provveditore regionale per l’Amministrazione Penitenziaria, Tommaso Contestabile, il presidente del Tribunale di Sorveglianza partenopeo, Carminantonio Esposito. Un fronte comune a difesa dei diritti dei detenuti su cui l’assessore D’Angelo ha posto l’accento sulla “mancanza di soluzioni risolutive al problema nella città di Napoli. Qui - ha aggiunto l’assessore - non ci sono più comunità idonee ad accogliere i tossicodipendenti quando lasciano le carceri, dovremmo fare degli sforzi, modificare leggi che hanno permesso l’affollamento di istituti penitenziari”. Una situazione drammatica che non aiuta il detenuto, secondo la Tocco: “Il nostro obiettivo è sollevare il problema di avvicinare i detenuti alle loro famiglie, quindi di espiare la sua pena nel paese della famiglia, parliamo dei detenuti comuni, no di alta criminalità, perché è l’allontanamento dai propri cari che per loro diventa insopportabile, e noi abbiamo una ricerca che dimostra come il 59 per cento dei suicidi sia successiva al trasferimento”. Campania Lisiapp; attuare dei piani alternativi per fronteggiare il sovraffollamento www.casertanews.it, 3 ottobre 2011 Il tema del sovraffollamento delle carceri torna prepotentemente alla ribalta anche nella regione Campania. Ad affermarlo è segretario nazionale del Lisiapp Luca Santin, che sottolinea, lo stesso guardasigilli che è il magistrato Nitto Palma ha dichiarato che occorre impegnarsi per depenalizzare i reati minori ma senza attuare nessun provvedimento di amnistia. È difficile, oggi, anche per chi ha minore sensibilità sul tema, negare che il carcere, in Campania, come nel resto dell’Italia, stia attraversando una fase di grande emergenza. È difficile perché questo stato è stato ufficialmente proclamato dal Governo e perché i numeri, le storie e le testimonianze, raccontano di una situazione che va ben oltre il senso. Dati alla mano, - afferma Santin - al 31 agosto 2011, in Campania sono 8.061 i detenuti reclusi su una capienza totale di 5.593 di cui 352 donne e 979 stranieri. 4.298 il totale degli imputati, 3.341 condannati in via definitiva, 1.899 tra condannati in primo e in secondo grado e 2.399 quelli in attesa di primo giudizio. Ma, continua il Segretario nazionale Lisiapp , vediamo nel dettaglio alcuni dati che riguardano gli istituti penitenziari più importanti in Campania, provincia per provincia. L’istituto di Bellizzi Irpino ospita 529 detenuti su una capienza di 407. Non va meglio per Benevento, dove, presso il Carcere di Capodimonte, attualmente ci sono 417 reclusi a fronte dei 277 ospitabili. Salgono di molto i numeri a Santa Maria Capua Vetere dove sono 921 i presenti su una capienza di 547. Male anche per Poggioreale dove i detenuti ospitati sono 2.763 ma dovrebbero essere solo 1.679. Infine, altro carcere campano che vive il fenomeno del sovraffollamento è quello di Secondigliano dove attualmente sono 1395 i detenuti che vi risiedono a fronte di una capienza pari a 988. La preoccupazione per questo stato di cose - rimarca Santin, si ripercuote sistematicamente sull’operato della polizia penitenziaria chiamata a svolgere un compito gravoso, fronteggiare l’emergenza carceri in prima linea. La situazione di tensione che si sta determinando in molti istituti penitenziari del Paese, fatta di aggressioni a personale di Polizia Penitenziaria, risse e manifestazioni di protesta dei detenuti, tentati suicidi e suicidi nelle celle rischia di degenerare. Credo quindi conclude Santin che ci voglia l’impegno serio di tutte le istituzioni politiche e sociali, e non si possa perdere ulteriore tempo ma si debba prevedere interventi urgenti e non più procrastinabili nel sistema penitenziario italiano. Friuli Venezia Giulia: Cisl; nelle carceri è emergenza, la Regione intervenga Agenparl, 3 ottobre 2011 “Sovraffollamento e carenza di organici per gli istituti penitenziari italiani, ma anche per le case circondariali del Friuli Venezia Giulia. A lanciare l’allarme è la Federazione cislina della sicurezza che, riunito il suo coordinamento interregionale Triveneto alla presenza del segretario della Cisl Fvg Renato Pizzolitto e dei nazionali di categoria Mattia D’Ambrosio e Raimondo Inganni, punta il dito contro una situazione ormai “insostenibile”. Tra le emergenze spiccano senz’altro quelle della eccessiva densità delle carceri regionali - con circa 800 detenuti suddivisi principalmente in tre strutture (Tolmezzo, Trieste e Udine) che ne dovrebbero racchiudere non più di 600 - e del personale ridotto all’osso, se si pensa che la carenza di operatori arriva a sfiorare addirittura il 30%”. Lo si legge in una nota della Fns Cisl del Friuli Venezia Giulia. “Il quadro - commenta il segretario generale della Fns, Ivano Signor - è davvero preoccupante, tenuto conto che i problemi macroscopici del personale e del sovraffollamento non sono le uniche criticità da affrontare”. Resta, ad esempio, altissima l’attenzione sul futuro del carcere di Gorizia, dove, dopo la chiusura di due celle per inagibilità, la situazione risulta drammatica. “Attendiamo - spiega Signor - che il nuovo Guardasigilli Palma chiarisca cosa il ministero vuole fare di Gorizia. Quello che ad oggi è certo è che per recuperare la struttura occorrerebbero attorno ai 2,5 milioni, importo che non risulta né nelle voci della spesa annua, né nel Piano d’emergenza per le carceri”. E se la situazione in cui versa la casa circondariale isontina resta la più allarmante, non va esente dalla preoccupazione della Fns neppure quella del carcere di via Spalato a Udine, dove per altro si è riunito il coordinamento. “Siamo di fronte - interviene il segretario di categoria - ad un’operazione di riordino lasciata a metà, con la conseguenza che oggi l’agibilità della struttura non risulta completata”. Ultima, ma non ultima, per la Fns è la vicenda del penitenziario di Pordenone, rispetto alla quale permangono alcune ombre, perché, se è vero che da un accordo sottoscritto tra l’Amministrazione penitenziaria, la Regione e gli Enti locali emerge che proprio la Regione metterà le risorse per l’avvio dei lavori, è altrettanto vero che le risorse a disposizione non paiono sufficienti e soprattutto nel Piano emergenza carceri manca qualsiasi riferimento ad un intervento finanziario del ministero competente. Insomma, la situazione è grave, se si aggiunge che in diversi istituti addirittura i soldi delle missioni per il trasferimento dei detenuti devono essere anticipati dagli stessi dipendenti della scorta. Prendendo ad esempio Tolmezzo, i dipendenti delle scorte attendono tutt’ora il saldo delle missioni dell’anno 2010. “Chiediamo - conclude Signor - che la Regione si faccia interprete e portavoce di questi problemi presso il ministero, prendendosene carico, perché così proprio non si può andare avanti”. Palermo: Fns-Cisl; all’Ucciardone la situazione igienica è allucinante Adnkronos, 3 ottobre 2011 “La situazione igienico-sanitaria del carcere dell’Ucciardone di Palermo è, letteralmente, allucinante”. A dirlo è la federazione Cisl della sicurezza (Fns Cisl) per la quale ‘le dichiarazioni del ministro della Giustizia Nitto Palma, rilasciate dopo aver visitato il carcere dell’Ucciardone, non sono false ma certamente ingannevoli poiché al ministro è stato fatto visitare solo un reparto detentivo appena ripristinato secondo le direttive Ue”. Gli agenti di custodia sono “stanchi e irritati per l’invivibilità della struttura”, afferma in una nota la Fns Cisl che denuncia, tra l’altro, la realtà dei servizi igienici. “Per chi lavora all’Ucciardone, l’esigenza banalissima di andare in bagno si trasforma in qualcosa di avventuroso oltre che rischioso”, sostiene Paolino Campanella, segretario provinciale della Fns. Infatti, “di igienico, i servizi per il personale, all’Ucciardone, non hanno praticamente nulla”. “Il water - rende noto il sindacalista - è giallo - scuro e mostra tutti i segni del tempo, e spesso è anche otturato. Lo sciacquone solitamente non funziona e la tazza è quasi sempre otturata. Il lavandino ha il tubo di scarico staccato e un secchio è messo sotto per raccogliere l’acqua che, una volta tracimata dal secchio, si riversa sul pavimento per incontrare un foro che dovrebbe servire a farla defluire. Ma, ahimè, anche quello è otturato”. Il rubinetto del lavandino, continua la Fns, è del tipo che “per sciacquarti le mani, ti fai la doccia alla pancia”. Le muffe sui muri danno un tocco naif all’ambiente, arricchito di sfumature nero - verdastre alle pareti. “Sapone?” si domanda provocatoriamente il sindacato. “È come gli Ufo - è la risposta - ogni tanto appaiono senza che nessuno riesca mai a capire cosa sono e se ne vedranno ancora. Idem per asciugamani, carta igienica e così via”. C’è solo il porta-rotolo, incalza la Fns Cisl, a ricordare che quella dovrebbe essere una toilette. Insomma, sottolinea Giovanni Saccone, segretario della Fns Cisl Sicilia, “il personale dell’Ucciardone è costretto a fare i conti con una realtà di totale degrado che, certo, non aiuta nessuno”. Il fatto è, fa notare la Fns Cisl, che “tanto chi ci governa, in quelle condizioni non è costretto a viverci”. Cagliari: Sdr; atteggiamento impresa costruttrice rinvia completamento nuovo carcere Ristretti Orizzonti, 3 ottobre 2011 “Un inatteso e sorprendente atteggiamento di “Opere Pubbliche”, l’impresa che sta realizzando il nuovo carcere di Uta, rischia di rinviare nel tempo il completamento dell’opera vanificando i propositi dell’amministrazione penitenziaria intenzionata ad attivare la struttura nel primo semestre dell’anno prossimo”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che ha incontrato una delegazione degli operai in lotta esprimendo con il Segretario Gianni Massa solidarietà e partecipazione. “È inspiegabile - sottolinea Caligaris - che l’impresa abbia licenziato 30 dipendenti e da agosto non paghi gli stipendi ad oltre una sessantina di lavoratori mentre non si sa nulla sul contenzioso relativo all’esproprio delle aree. Al Ministero delle Infrastrutture sostengono che “Opere Pubbliche” riceve regolarmente quanto previsto dall’appalto assegnato con procedura d’urgenza, e quindi senza gara, nell’ambito dell’emergenza carceri. Nel frattempo però è stato modificato, per la quarta volta, il cartello d’inizio lavori da dove è scomparsa la data prevista per la loro conclusione. Una cancellazione che alimenta i dubbi sulla imminente consegna”. Non convincono peraltro le motivazioni addotte dall’azienda che, secondo quanto riferito dagli operai e dai dirigenti sindacali, attribuisce i ritardi nel pagamento degli stipendi a scarsa liquidità e ad adempimenti burocratici. Non è la prima volta che gli operai hanno dovuto sospendere i lavori per ottenere i salari e nei prossimi giorni è previsto un ulteriore incontro negli uffici regionali del Ministero delle Infrastrutture per definire i diversi aspetti della vertenza. “Dal nostro sopralluogo - conclude la presidente di Sdr - è emerso un altro dato preoccupante difficilmente il carcere potrà essere reso agibile prima della fine del 2013. Oltre al completamento delle opere murarie sono infatti da realizzare quelle fognarie, idriche, viarie e della depurazione. Mancano inoltre le strutture per l’accoglienza degli operatori penitenziari e dei familiari dei detenuti ed è ancora irrisolto il problema della bonifica dell’intera area. Tutto ciò senza che da nessuna parte si assuma l’iniziativa di una conferenza dei servizi”. Chieti: a Lanciano tre detenuti devono vivere in celle da nove metri quadrati Agi, 3 ottobre 2011 Tre detenuti in una cella da 9 metri quadrati, con il terzo dei tre letti a castello a 57 centimetri dal soffitto e un bagno con lavandino e water di un metro quadro. Sono le condizioni “molto disagiate” in cui vivono per gran parte della giornata i 300 detenuti della casa circondariale di Lanciano (Chieti), terzo istituto penitenziario della regione Abruzzo dopo quelli di Sulmona e Teramo la cui capienza regolamentare è di 180 detenuti. “Le condizioni di vita all’interno del carcere sono molto disagiate - ha dichiarato il direttore Massimo Di Rienzo, che ha accompagnato il cronista nella visita alle sezioni di detenzione - anche perché a fronte di un sovraffollamento di detenuti abbiamo una carenza di organico nel personale di polizia penitenziaria di circa 30 unità”. Gli agenti in servizio nel carcere di Lanciano sono attualmente 160, a fronte dei 188 previsti dalla pianta organica, mentre gli educatori sono 5, 1 ogni 60 detenuti. Nel super carcere frentano sono ospitati 130 detenuti definiti di “alta sicurezza”, condannati a pene definitive con sentenze passate in giudicato per reati gravi, come ad esempio associazione di stampo mafioso, estorsione, omicidio, rapina. Inoltre il carcere di Lanciano è uno dei tre in Italia ad avere una sezione riservata ai detenuti, 60 attualmente, che hanno rapporti di parentela con quei detenuti che hanno scelto di collaborare con la giustizia. Ci sono poi altri 106 detenuti “comuni”, condannati per reati meno gravi. “Il rispetto della dignità umana del detenuto è il principio cardine del lavoro di tutti gli operatori all’interno di questo penitenziario, dagli agenti agli educatori - spiega il direttore Di Rienzo - facciamo il possibile affinché venga garantita la funzione rieducativa della pena, oltre a quella repressiva. Certo, con questi numeri è difficile lavorare, soprattutto per la specificità dei detenuti”, tra i quali ci sono alcuni esponenti di spicco della camorra e della ‘ndrangheta. I colloqui, sei ore al mese per ogni detenuto, “fino a quando le condizioni meteo lo permettono”, si tengono in una zona all’aperto dell’istituto dove, oltre ai tavolini e alle sedie, sono state sistemate delle altalene e degli scivoli per i bambini. Il 25 maggio scorso i detenuti del carcere di Lanciano hanno aderito, per due giorni, allo sciopero della fame promosso dal deputato radicale Marco Pannella per denunciare le condizioni di sovraffollamento delle carceri italiane e “per chiedere di scontare il debito con lo Stato in maniera dignitosa”. Firenze: un ponte tra il “prima” l’Opg e un “dopo” di ricostruzione e di speranza Adnkronos, 3 ottobre 2011 Un “ponte” tra il prima dell’ospedale psichiatrico giudiziario e un dopo di ricostruzione e di speranza. Così è stata definita la struttura residenziale psichiatrica Le Querce, che dal 10 settembre 2001 (anno della sua apertura) ad oggi ha accolto 63 persone con gravi problemi psichici e autori di reati, provenienti dall’Opg di Montelupo, ma anche dalle carceri ordinarie. Ai dieci anni di attività della struttura residenziale psichiatrica Le Querce è dedicato il convegno “We can, ovvero la costruzione perseverante di un’alternativa all’ospedale psichiatrico giudiziario”, organizzato da Regione Toscana a Caritas Diocesana di Firenze per venerdì 7 ottobre nella Sala blu dell’Educatorio del Fuligno, via Faenza 48. Il convegno, che durerà l’intera giornata, dalle 9 alle 18, e al quale parteciperanno amministratori, operatori sanitari e sociali, volontari, è l’occasione per tracciare un bilancio dell’esperienza e passare in rassegna esperienze simili nel resto del Paese. Alle 11 è prevista una tavola rotonda su “Salute e giustizia: percorsi condivisi per la persona con disturbi psichici autrice di reato”, alla quale prenderà parte anche l’assessore Scaramuccia. A chiudere i lavori, alle 18, sarà il garante dei detenuti della Regione Toscana Alessandro Margara. Le Querce, situata nella canonica della chiesa di San Pietro a Sollicciano, a Firenze, è gestita dalla cooperativa sociale San Pietro a Sollicciano onlus, in collaborazione con la Asl 10 di Firenze. È una delle poche strutture psichiatriche residenziali in Italia, e costituisce un tramite tra lo stato di internamento - detenzione e la libertà. Gli invii dall’Opg sono attuati in una stretta collaborazione con l’Unità Operativa della Asl 11, nella garanzia di una continuità terapeutica; ogni Dipartimento di Salute Mentale dell’Area Vasta Centro ha un costante monitoraggio ed informazione sull’inserimento. La struttura dispone di 5 camere per gli ospiti, ciascuna dotata di bagno, di una cucina e di locali per i pasti, la attività riabilitative e cliniche, i colloqui terapeutici; all’esterno terrazza, corte e giardino. La struttura ha come responsabile uno psichiatra della Asl 10. Una volta entrato nella residenza, l’ospite viene tenuto in osservazione per un mese, poi gli operatori formulano per lui un piano terapeutico individualizzato. Il paziente viene preso in cura da un’èquipe terapeutica costituita da uno psichiatra interno, talora dallo psicologo, da un educatore e da due operatori di base. Il tempo di permanenza previsto è di circa un anno. La stragrande maggioranza degli ospiti che sono passati da Le Querce - dicono gli operatori - hanno ottenuto risultati clinici e giuridici davvero buoni, superiori a ogni più rosea aspettativa. “Come Regione Toscana abbiamo intrapreso da tempo un percorso per l’effettivo superamento dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo - dice l’assessore al diritto alla salute della Regione, Daniela Scaramuccia - Pur continuando a intervenire sulla struttura penitenziaria, proseguiamo con un intenso programma di dimissioni. Nel 2011 sono stati dimessi più di 60 pazienti. Esperienze come quella de Le Querce sono la dimostrazione che è possibile realizzare una struttura intermedia tra lo stato detentivo e la piena libertà, dove i pazienti possono attraversare un periodo speciale di riabilitazione prima di affrontare di nuovo la società e la vita di relazione”. “L’esperienza de Le Querce è per noi della Caritas - dice Alessandro Martini, direttore della Caritas Diocesana di Firenze - la testimonianza concreta di come, ottimizzando le risorse e lavorando insieme tra Regione Toscana, terzo settore, soggetti del privato sociale, si ottengono vantaggi non solo per l’economia, ma anche e soprattutto per il rispetto e la tutela delle persone con situazioni difficili alle spalle, che hanno bisogno di trovare luoghi dove costruire un futuro diverso e migliore. Le Querce è un luogo - ponte tra l’esperienza drammatica dell’Opg e un dopo che vuole essere positivo. Un grazie ai responsabili del servizio sanitario pubblico che hanno creduto in questo progetto, a chi dirige Le Querce e agli operatori che ci lavorano”. I dati sull’Opg di Montelupo - Nel 2010, a fronte di una degenza media di 175 persone all’interno dell’Opg, sono state attuate dimissioni per un totale di 84 persone (ampiamente superiore all’obiettivo di 48 indicato dal Dpcm), di cui 28 pazienti toscani, inviati per il 65% in comunità terapeutica, per il 25% al domicilio proprio o dei familiari, per il 10% in residenze sociali. Nel 2011 sono stati dimessi complessivamente oltre 60 pazienti, di cui 20 toscani; i non toscani hanno fatto ritorno nei propri territori di residenza. Questo lavoro di dimissione ha consentito di ridurre le presenze da oltre 165 (registrate alla fine del 2010) a 124 (dato del 20 settembre 2011). Dopo il passaggio delle competenze, la Asl 11 di Empoli ha arricchito la dotazione organica dell’Opg con ulteriori 9 unità di personale: 2 psicologi, 2 infermieri, 2 operatori socio sanitari, 2 educatori professionali, 1 medico specialista psichiatra. Torino: fornellino a gas esplode in faccia a detenuto, ricoverato in gravi condizioni Ansa, 3 ottobre 2011 È ricoverato in rianimazione con ustioni al volto all’ospedale Cto di Torino Domenico Racco, detenuto di 57 anni del carcere delle Vallette di Torino. Sembra che, per cause ancora da accertare, una bomboletta di gas gli sia esplosa in viso mentre la stava sostituendo a un fornellino nella sua cella. È successo ieri intorno alle 15,30 nel padiglione A, IV° sezione, del carcere del capoluogo piemontese. L’uomo è stato immediatamente soccorso dagli agenti della polizia penitenziaria e trasportato al Cto. Racco era stato arrestato a giugno nell’ambito dell’operazione Minotauro contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta nel torinese. L’Osapp, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che ha riferito l’accaduto, sottolinea che “le bombolette usate in un luogo chiuso come una cella, secondo noi fuorilegge - spiega il segretario generale, Leo Beneduci - sono state spesso usate come vere e proprie armi. L’inalare il gas da una bomboletta richiudendo la testa in un sacchetto per creare un effetto simile a quello delle sostanze stupefacenti - prosegue - è da sempre una delle principali cause di morte in carcere. Per questo da anni ne chiediamo l’abolizione, ma nessuno ci ascolta”. Milano: domani convegno su responsabilità sociale d’impresa e lavoro penitenziario Agi, 3 ottobre 2011 Domani, alle 11, presso il Palazzo Giureconsulti, in Piazza Mercanti 8, Regione Lombardia e Unioncamere Lombardia, congiuntamente con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap), promuovono il progetto “Responsabilità Sociale d’Impresa e lavoro penitenziario”, iniziativa finalizzata a favorire l’incontro tra mondo penitenziario e mondo delle imprese per agevolare il reinserimento lavorativo e sociale dei soggetti detenuti. L’incontro, indetto dalla Camera di Commercio di Milano, partner del progetto insieme alle Camere di Commercio di Bergamo, Monza Brianza e Cremona, permetterà di presentare: il progetto e le attività in corso di realizzazione o da realizzare nel 2011; il vademecum delle opportunità per le imprese, pubblicazione che riassume leggi, procedure e benefici a disposizione delle imprese interessate ad effettuare inserimenti lavorativi di persone sottoposte a provvedimenti giudiziari; il catalogo delle attività imprenditoriali attive nei singoli istituti penitenziari e le professionalità disponibili nelle Casa di reclusione di Milano (Bollate e Opera); il calendario e la sede dei 2 incontri che nei prossimi mesi (ottobre e novembre) permetteranno ai referenti del mondo penitenziario di incontrare gli imprenditori profit e non profit del territorio interessati al tema dell’inserimento lavorativo di soggetti detenuti. All’incontro, oltre alla Camera di Commercio di Milano, saranno presenti i diversi partner coinvolti nell’iniziativa: Regione Lombardia, Unioncamere Lombardia, Prap, Casa di reclusione di Milano - Bollate e Casa di reclusione di Milano - Opera. Turi (Ba): la testimonianza dei volontari di “Missione Giovani” arriva anche nel carcere di Cinzia Debiase www.turiweb.it, 3 ottobre 2011 Testimonianze, solidarietà e amore, le parole chiave che racchiudono la serata di sabato 24 settembre, tutta dedicata alla difficile condizione dei carcerati raccontata dai ragazzi del Seminario di Molfetta. All’interno del programma organizzato per Turi in “Missione Giovani”, la parola del Signore è giunta fino alle celle del Carcere dove, la cittadinanza turese ha conosciuto Elia, un giovane detenuto che ha compreso la conversione. A raccontare l’importanza della fede nella comunità carceraria la dott.ssa Susca, Don Giovanni Amodio, il Sindaco di Turi, V. Gigantelli, Michele, un seminarista e due volontarie dell’Ass. “Fratello Lupo”. Un momento di incontro tra le due realtà così vicine nello spazio, ma così distanti e separate, che non si incontrano mai, divise da “un muro che le allontana” - ha così dichiarato la direttrice del carcere turese, la dott.ssa Susca. “Molto spesso manca la consapevolezza del ‘bisognò della comunità carceraria” - ha continuato, sottolineando l’attenzione che a questo mondo, o meglio ai suoi abitanti, hanno dato e continuano a dare chi, entrandovi, può materialmente toccare con mano le necessità dei detenuti. Necessità che non si esplicano in oggetti concreti, ma nella vicinanza, nell’affetto, nell’amicizia, nell’ascolto, nella preghiera, tutti elementi che difficilmente chi giunge in carcere ha trovato nel suo percorso di vita. “Ringraziamo Don Lino Fanelli, per il lavoro svolto con tutti i detenuti, per tutto quello che ha lasciato ai ragazzi - ha aggiunto la direttrice - e ringrazio i volontari dell’Ass. onlus Fratello Lupo”. “Un grazie va a Don Lino” - esprime con voce tremante Elia, che dal carcere dà forza alle parole di speranza e di fede che a lui sono giunte dal parroco di San Giovanni che - “mi ha dato la fiducia per credere in un futuro migliore e mi ha guidato nella riscoperta della fede”. Suggestiva ed emozionante la sua testimonianza che è stata rafforzata dalla lettura di due lettere di conversione di altri due detenuti, pronunciate da due volontarie dell’Ass. Fratello Lupo. Dobbiamo essere “lupi dell’amore”, ha commentato il giovane seminarista Michele, al quinto anno di Teologia a Molfetta che non ha mancato di soffermarsi sul carcere non fisico, ma spesso mentale e sociale nel quale a volte si vive. “In questi giorni di Missione Giovani vogliamo dimostrare che si può uscire dal carcere e liberarsi delle proprie prigioni camminando nella strada della fede”. Non abbandonare, non emarginare, non lasciare soli, è questo il compito di tutti, ha sostenuto Don Giovanni Amodio e il Sindaco Gigantelli che non ha mancato di dar forza al progetto di un nuovo carcere che possa rispondere alle esigenze dei detenuti e delle rispettive famiglie. Medio Oriente: sciopero della fame dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane Infopal, 3 ottobre 2011 Da due giorni i prigionieri palestinesi nelle prigioni israeliane stanno portando avanti uno sciopero della fame per chiedere il miglioramento delle loro condizioni. Di fronte alla croce rossa di Gaza è stato allestito un presidio in loro solidarietà. Ai prigionieri è proibito comunicare con chi si trova fuori dal carcere, vengono torturati, tenuti in isolamento o in prigioni sovraffollate, non vengono loro fornite le cure adeguate in caso di malattia, e in diversi casi vengono uccisi. “Sono stato in prigione dal 15 ottobre 2003 al 31 dicembre del 2005” racconta Mohammed Abu Uda, uno dei tantissimi esempi di prigionieri di Gaza. Lo hanno arrestato perché qualcuno aveva fatto il suo nome, sostenendo che faceva parte della resistenza. Racconta che secondo la legge Tamir le dichiarazioni di chiunque che faccia il nome di qualcuno equivalgono alla confessione di chi viene nominato: qualcuno sotto tortura aveva fatto il nome di Mohammed e lui viene portato nella prigione di Askelon, dove viene sottoposto a 68 giorni di investigazione. “mi hanno tenuto 30 giorni in isolamento, uscivo solo per l’interrogatorio. Questi interrogatori duravano dalle 8 alle 24 ore, periodi nei quali non potevo mangiare nè bere nè dormire. Una volta mi hanno interrogato per 64 ore di seguito...”. Dopo l’investigazione è stato portato nella cosiddetta stanza degli uccelli, dove c’erano uomini che si fingevano suoi amici solo per carpire informazioni e riferirle ai sionisti. “mi avevano condannato a 5 anni e 6 mesi, ma alla fine sono rimasto dentro 6 anni e 6 mesi. Sai, in prigione si imparano tante cose, che poi non si dimenticano più per tutta la vita. Per questo noi chiamiamo la prigione “università”“. Abu Hamzi, uno degli organizzatori del presidio alla croce rossa, spiega le ragioni della protesta: “vengono imprigionati i nostri leader, come Sàadat e Bargouti, vengono tenuti in isolamento, viene loro impedito di comunicare con la famiglia o con chiunque”. Il loro scopo, sostiene, è quello di tagliare i ponti dei contatti politici dei detenuti con chi resta fuori Fa alcuni nomi: Khaleel Abu Khandeeja, Ishaq Haraga, Ali El Jaafri, Ibrahim Elraiy, dicendo che sono morti in carcere, per le torture subite durante l’investigazione, o per la mancanza di medicine o durante uno sciopero della fame (che solitamente vengono repressi con la forza). Ad oggi sono presenti circa 6.000 palestinesi nelle carceri israeliane, e 203 detenuti palestinesi sono stati uccisi dopo l’arresto o sono morti nelle carceri israeliane. La presenza stessa di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane è illegale anche secondo la legge internazionale, in quanto in situazioni di guerra è possibile avere prigionieri, mentre in situazioni come quella palestinese di occupazione, si possono avere solo detenuti, ed essi devono essere sottoposti ad un processo civile ed essere detenuti all’interno del territorio occupato (e quindi a Gaza e non nei territori del ‘48). La situazione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane è resa poi particolarmente grave da alcuni fattori: vengono imprigionati minori, i prigionieri vengono sottoposti a tortura, esiste ancora la detenzione amministrativa (cioè è possibile rimanere in carcere fino a diversi anni senza un’accusa formale) e da parte dei prigionieri non è possibile comunicare con le proprie famiglie. Ogni lunedì, a Gaza, si trovano le madri e le mogli dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane davanti alla croce rossa, per ribadire il loro diritto a poter comunicare con i parenti imprigionati, e per cercare di mantenere alta l’attenzione sulla questione. Da domani alcune di queste donne inizieranno uno sciopero della fame in solidarietà con i prigionieri. Il ministero dei detenuti ha annunciato diverse manifestazioni ed iniziative, tra cui lo stop delle visite. “Noi palestinesi continueremo a sostenere anche con lo sciopero della fame i prigionieri, fino alla vittoria!” dichiara Abu Hamzi “e chiediamo al mondo che si dice democratico di schierarsi al fianco dei nostri prigionieri e contro l’occupazione israeliana, perché è appunto l’occupazione ad essere causa di tutti questi mali.” Bahrein: nuovo giro vite contro manifestanti, carcerati 36 sciiti Agi, 3 ottobre 2011 Nuovo giro di vite contro i manifestanti sciiti in Bahrein, che da mesi invocano la cacciata della famiglia reale sunnita Al Khalifa: un tribunale speciale ha ordinato la carcerazione di 36 sciiti, 14 dei quali sono stati condannati all’ergastolo o a 25 anni con diversi capi d’accusa, tra cui “raduno a scopo di sommossa” e omicidio di un pakistano “con finalità terroristiche”. A riferirlo è stato il procuratore Yusof Fleifel, secondo quanto riportato dall’agenzia di Stato Bna. In un diverso procedimento, altri 15 sciiti sono stati riconosciuti colpevoli di “atti di vandalismo” commessi all’università di Manama e “tentato omicidio” di personale appartenente alle forze di sicurezza: per loro la pena da scontare è pari a 15 anni. Condannati alla stessa pena anche sei studenti universitari, sempre per “tentato omicidio”; a un settimo studente la pena inflitta è stata innalzata a 16 anni. Intanto si è appreso che i medici condannati per aver curato i dimostranti feriti - e al momento liberi su cauzione - hanno presentato appello: l’udienza, ha fatto sapere il capo - procuratore del Regno, Abdulrahman al-Sayyed, si svolgerà il 23 ottobre davanti a un tribunale civile. Lo scorso giovedì la Corte per la Sicurezza Nazionale, un tribunale speciale creato appositamente per i processi ai manifestanti, aveva condannato un gruppo di 20 medici, paramedici e infermieri a pene detentive che variano dai 5 ai 15 anni. Il gruppo lavorava all’ospedale di Salmaniya, a Manama, che si trova vicino a piazza delle Perle, epicentro delle proteste contro il regime. Iran: impiccati 7 trafficanti di droga a Shiraz, da inizio anno oltre 200 esecuzioni Aki, 3 ottobre 2011 Sette trafficanti di droga sono stati impiccati a Shiraz, nel sud della Repubblica Islamica. Lo ha riferito il quotidiano Shargh, precisando che i condannati a morte erano stati arrestati nei mesi scorsi nella provincia meridionale del Fars. Dall’inizio dell’anno sono oltre 200 le condanne capitali eseguite in Iran, stando ai dati forniti da varie Ong. Per i media ufficiali, lo scorso anno le esecuzioni sono state 179, ma le organizzazioni internazionali per i diritti umani ritengono che il numero sia ben più elevato e che l’Iran sia stato il secondo paese al mondo per condanne a morte eseguite dopo la Cina. Omicidio, stupro, traffico di droga e apostasia sono alcuni dei reati punibili con la pena capitale nella Repubblica Islamica.