Il diario di Elton: “Ultimi minuti dietro le sbarre” Redattore Sociale, 25 ottobre 2011 Da oggi finisce la galera per Elton Kalica. Ieri festa nella redazione di Ristretti Orizzonti, tra lacrime di felicità e tristezza allo stesso tempo. “Nella disgrazia del carcere, non tutto è da buttare via” Da oggi Elton Kalica è un uomo libero. A minuti finirà la sua detenzione nel carcere Due Palazzi di Padova, dove è recluso da quasi 15 anni. Anni scontati senza la possibilità di uscire nemmeno una volta, né in permesso né in misura alternativa. Elton è stato sempre dentro, per 15 dei suoi 35 anni di vita. La libertà, quindi, arriverà tutta d’un fiato. Era un ventenne quando è stato arrestato: ora esce da uomo, con una detenzione trascorsa in larga parte con la testa china sui libri o nella redazione di Ristretti Orizzonti, che ieri lo ha salutato con una commossa festa d’addio. Il destino di Elton, ora, è tutto da scrivere e le prossime ore saranno cruciali per capire ciò che lo aspetta. L’Agenzia Redattore sociale seguirà i suoi primi passi in libertà. Padova, 25 ottobre 2011 - Ormai la galera è finita, anche per me. Ho sempre visto la vita come il prodotto di una serie di coincidenze guidate dal caso e non nego che la mia infanzia e adolescenza siano da considerare fortunate. Solo dopo la maturità sono stato perseguitato da una serie angosciosa di sfortunate coincidenze che, unite a scelte sbagliate, mi hanno trattenuto qui dentro tanti anni. Tuttavia, confesso che le gioie non appartengono solo alla vita passata. Nella disgrazia del carcere, non tutto è da buttare via. Qui dentro ho conosciuto delle persone interessanti, dalla sorprendente umanità, ho fatto un lavoro che mi piace nella redazione di Ristretti, ho studiato e mi sono laureato, due volte: ovviamente i momenti di felicità sono ancora più brevi di quanto lo sono fuori, ma penso che la sfortuna a volte molli le briglie anche con me, giusto per farmi respirare. Negli ultimi quattordici anni, due mesi e dodici giorni, ho fatto i conti con un’esistenza sospesa, affrontando quotidianamente le umiliazioni e le frustrazioni che solo la galera sa produrre. Dal canto mio ho sempre cercato di non pensare al luogo in cui mi trovavo occupandomi d’altro, ma l’aria spesso è stata soffocante e la solitudine schiacciante. In quei momenti, l’istinto mi ha portato ad aggrapparmi ai ricordi, viaggiando nel labirinto di quel piccolo mondo che ho conosciuto prima di finire qui dentro. Ricordi che ho buttato nero su bianco con il desiderio di ribellarmi all’abbrutimento che questo posto rischiava di causarmi, ma anche per raccontare come qui dentro ci siano soprattutto persone, che provengono da vite “normali”, con storie spesso interessanti, e non mostri. Così ho scritto alcuni racconti in cui descrivevo il mio periodo scolastico e i miei compagni di scuola. Non nego che, spesso, ripercorrere quella fase della esistenza mi ha aiutato a trovare spunti per ragionare su questioni attuali, di politica e di società. Altre volte, invece, parlare dei miei compagni di scuola mi ha rallegrato nel richiamare la nostra immagine adolescenziale che conservo gelosamente nella mia mente. Da domani forse ritornerò nei luoghi che ho descritto in questi anni, ma il quartiere, le strade, il condominio, la casa non saranno quelli dei miei racconti. Non ci saranno più i miei amici di quando avevo diciannove anni, la mia ragazza di diciassette anni, e non chiederò più la paghetta a mia madre. Da domani dovrò essere la persona che il mondo reale si aspetta da me: un trentacinquenne con l’esperienza, le conoscenze e la testa di un trentacinquenne, mentre la mia vita vissuta si è fermata ai diciannove anni. Ma sono cose che non mi fanno paura. E mentre scalpito per riscoprire il mondo, concludo un lungo e sofferto capitolo della mia vita nella convinzione che, così come i ricordi più belli della mia vita hanno fatto da salvagente nei periodi più brutti della galera, anche negli immancabili momenti in cui la vita “libera” mi tratterà male ricorderò la galera, le persone che mi hanno voluto bene, le battaglie vinte e quelle perse, le lacrime e le gioie di questi anni e sono sicuro che ritroverò le forze per andare avanti, come ho fatto finora. E la galera non sarà più un incubo da cui scappare, ma una lezione di vita da tenere sempre in mente nella battaglia quotidiana della vita. Elton Kalica (in collaborazione con Ristretti Orizzonti) Un epilogo inaspettato: Elton "accompagnato" nel Cie di Modena Redattore Sociale, 25 ottobre 2011 Elton Kalica, il detenuto che ha raccontato per Redattore sociale i suoi ultimi giorni nel carcere Due Palazzi di Padova, è stato trasferito in un Cie. Così una giornata che doveva essere di ritrovata libertà ha riservato la peggiore delle sorprese. Una giornata che doveva essere di ritrovata libertà ha riservato la peggiore delle sorprese. Elton Kalica, il detenuto che ha raccontato per Redattore sociale i suoi ultimi giorni nel carcere Due Palazzi di Padova, questa mattina ha visto chiudersi per la prima volta dietro di sé i cancelli della galera. Ma questa sera non potrà dormire in un “vero letto”, come aveva tanto desiderato e riferito nel suo diario. Oggi stesso, infatti, contro ogni previsione è stato accompagnato nel Cie di Modena. Un giorno amaro, questo, per lui e per tutta la redazione di Ristretti Orizzonti, che ieri lo aveva salutato con un’affettuosa festa. Non è ancora chiaro quanto tempo dovrà trascorrere in questa nuova condizione. Tra domani e dopodomani il giudice dovrà decidere sulla convalida del provvedimento, disposto per la presenza di una vecchia denuncia a carico del 2003, dalla quale, però, era stato totalmente assolto. Tanto che gli erano perfino stati restituiti i 45 giorni di sconto di pena, precedentemente tolti per quella denuncia. Amarezza per Ornella Favero, di Ristretti Orizzonti, che ha assistito e sostenuto Elton durante questa giornata difficile. “Possibile che una persona che esce avendo pagato tutto il suo debito si trovi in queste condizioni la sera della libertà? E tutto per una presunta pendenza penale per cui è stato ampiamente assolto?”. La riflessione di Margara: quando va a finire così... il fallimento è tutto delle istituzioni Ristretti Orizzonti, 25 ottobre 2011 Le riflessioni di un grande magistrato, Alessandro Margara, sulla storia di Elton Kalica. “Quando, in presenza di un lavoro su se stesso e con gli altri come quello di Kalica, va a finire così, il fallimento è tutto delle istituzioni”. Queste sono parole di Alessandro Margara, che è stato un grande magistrato di Sorveglianza, uno dei padri della Legge Gozzini, e ora è Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Toscana. Sono parole che lui ha scritto perché conosce Elton, la sua storia e le “carte” dei processi che hanno decretato l’ impossibilità di accedere a una misura alternativa, per via di una di quelle leggi emergenziali che in Italia devastano la Giustizia ben oltre le emergenze. Margara non sapeva però come sarebbe finita la storia di Elton, ma ci ha “indovinato” lo stesso. Forse perché conosce bene il nostro Paese e certe nostre leggi. Queste parole di Margara sono, purtroppo, ancora più significative se si pensa all’epilogo della storia di Elton: scarcerato oggi dopo quindici anni e “reincarcerato” in un Centro di Identificazione ed Espulsione perché, ci è stato detto, non c’è la possibilità di espellerlo in quanto esiste nei suoi confronti un procedimento penale in corso. Con un piccolo particolare, che per quella denuncia per rissa, che risale al 2003, Elton è stato pienamente assolto, tanto è vero che il Magistrato di Sorveglianza gli ha “restituito” i 45 giorni di sconto di pena che gli erano stati tolti per quella denuncia. Ecco comunque quello che Alessandro Margara ha scritto di Elton Kalica: “Elton Kalica è ancora lì, uscirà a fine pena, non hanno ritenuto possibile che potesse uscire prima. Eppure, quando mi venne illustrato il suo caso, l’ammissibilità a una misura alternativa mi sembrava possibile. Ha fatto un percorso penitenziario costruttivo, si è occupato soprattutto degli altri e della Rivista e del sito di Ristretti Orizzonti: è da presumere che, attraverso tutte queste attività, abbia maturato interessi ben diversi da quelli che lo hanno portato in carcere. Ed io spero che non tragga conclusioni negative dall’avere constatato che il carcere, con le leggi scombinate che lo reggono, non ha avuto il modo di dargli atto di tutto quanto ha fatto e che si è ricordato sopra. Se mai, c’è da ricordare quanto è cambiata negli anni la legislazione penitenziaria, dimenticandosi di ciò che era uno degli aspetti portanti della legge Gozzini: trattamento uguale per tutti i detenuti. Tra il ‘91 ed il ‘92, si chiusero le porte del carcere per la grande delinquenza, legando le concessioni dei benefici alle collaborazioni con la giustizia. Ma poi si frazionarono i divieti, cresciuti in ogni direzione, per tutti i reati che avevano l’attenzione della stampa. Elton Kalica è rimasto in mezzo a tutte queste restrizioni, divenute via via incomprensibili agli stessi giudici. E così Elton Kalica ha espiato la sua pena con il modesto beneficio della sola liberazione anticipata, ma non ha potuto avere una misura alternativa, che oggi avrebbe potuto consentirgli soluzioni diverse dalla espulsione, che può aspettarlo, una volta in libertà. È possibile che ci siano fallimenti in situazioni che sono state seguite con altre possibilità di intervento. Quando, però, in presenza di un lavoro su se stesso e con gli altri, come quello di Kalica, va a finire così, il fallimento è tutto delle istituzioni”. A partire da una lettera di Lillo Di Mauro... la cena da Berlusconi e le leggi criminogene… di Valter Vecellio Notizie Radicali, 25 ottobre 2011 “Ristretti Orizzonti”, associazione che non si finirà mai di lodare per il quotidiano e instancabile impegno sulle questioni relative al carcere e la giustizia - e che non per un caso mille volte i radicali trovano al loro fianco - pubblica una “riflessione sulla delegazione dei Radicali a Palazzo Grazioli” di Lillo Di Mauro, Presidente della Consulta penitenziaria di Roma capitale: “Vorrei sapere se il popolo italiano, in nome del quale vengono emesse le sentenze, è d’accordo con questa sentenza”. Cito questa frase dell’avvocato difensore del giovane tunisino condannato ad un anno di prigione per aver venduto 5 euro di fumo e la giro alla delegazione dei radicali, che si sono incontrati a palazzo Grazioli con il presidente Berlusconi e che dopo l’incontro hanno dichiarato che “Sui temi dei quali avremmo voluto parlare con il Partito Democratico, con Bersani, in realtà abbiamo trovato ascolto da parte del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi”, per ricordare loro che, se le carceri italiane sono strapiene di persone che non dovrebbero starci, è anche e soprattutto grazie a leggi promosse e approvate dai vari governi Berlusconi, “Fini Giovanardi” sulle droghe, “Bossi Fini” sui migranti, “Ex Cirielli” sulla recidiva e via dicendo… Che se nelle carceri italiane non sono rispettati i più elementari diritti lo si deve al governo Berlusconi, per i tagli che il suo governo ha fatto ai fondi destinati al trattamento penitenziario, al vitto, al lavoro… Cerchiamo di riflettere allora davvero sulle reali responsabilità!”. Fa bene Di Mauro a chiedere conto ai radicali di quello che hanno detto a Berlusconi; chi scrive, a quella cena (che in alcune cronache è diventata, vai a capire perché un pranzo, ma non importa), è stato testimone, e dunque può fornire notizie per così dire di prima mano. La questione del sovraffollamento nelle carceri dovuta in buona parte - e provocata - da leggi criminogene come la Fini - Giovanardi e la Bossi - Fini, eccome se è stata sollevata! Dovrebbe farci un minimo di fiducia, di Mauro, e non dubitare del fatto che a Berlusconi si è scodellato tutto l’enorme quaderno di doglianze relativo al carcere e più in generale alla giustizia, di cui sono in buona parte responsabili; si è ricordata la mirabolante riforma della giustizia annunciata e sbandierata in un’ampia e non dimenticata intervista su “Panorama” dall’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano, cui è seguito il nulla…A Berlusconi, Alfano e Gianni Letta sono state puntualmente ricordate le parole del Presidente della Repubblica pronunciate a luglio, quando - parlando di carceri e di giustizia, dei circa 5.900.000 procedimenti penali pendenti (dei quali 200.000 cadono in prescrizione ogni anno) e dei quasi 6 milioni di processi civili pendenti, dicendo che c’è una “prepotente urgenza” di intervento e che la classe politica deve avere uno “scatto”. A Berlusconi, Alfano e Letta è stato fatto presente che questo “scatto” passa anche per una consapevolezza dell’opinione pubblica, che va informata e messa in condizione di conoscere quello che accade, e che attualmente sono tenuti all’oscuro di tutto, su questa battaglia. Sono state fornite anche a loro cifre e dati molto precisi, raccolti dal Centro d’Ascolto dell’Informazione Radiotelevisiva, e che dimostrano come Rai, Mediaset e La7 (nel periodo 1° luglio - 21 settembre) su questo tema abbiano dedicato lo 0,3% delle notizie nei telegiornali. Sono state fornite le cifre di quella vera e propria strage costituita dai suicidi e dei tentati suicidi dei detenuti, dei suicidi degli agenti di custodia… È stato ribadito che “L’amnistia non è negoziabile ed è l’unico strumento per interrompere la flagranza della violenza criminale… l’amnistia sarà il traino di una serie di provvedimenti. La tragedia italiana è il sovraffollamento, dei processi e dei reati” (Cito tra virgolette perché chi scrive ha tenuto una sorta di personale verbale dell’incontro, e questa frase se l’è ben appuntata). Pannella e i radicali, come non è noto, ritengono che l’amnistia può essere quel grimaldello che consentirà di interrompere lo stato di illegalità attuale nell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. C’è l’ostacolo della maggioranza qualificata da raggiungere, c’è la Lega che si oppone; c’è la parte ex Msi-An che non ne vuole sapere; c’è il nostro elettorato che è molto sensibile a “legge e ordine”; c’è…hanno provato a obiettare Berlusconi e Alfano (non Letta, che invece ha riconosciuto come su questi temi l’elettorato “cattolico” sia molto sensibile). Se non l’amnistia, cosa per ottenere un risultato analogo?, è stato chiesto. Hanno provato a obiettare che si stanno varano misure “che servono per affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri e a “disingolfare” gli uffici che sono affaticati in reati di non particolare gravità”. Alfano ha aggiunto che entro la fine del 2012 saranno terminati 11 penitenziari “a bassa sicurezza e costi minori” sul modello di quelli degli Stati Uniti; e che a breve saranno assunti 700 agenti di polizia penitenziaria. Puntualmente si è ribattuto che si tratta di pannicelli caldi: basterebbe pensare che attualmente i poliziotti “di prima linea” sono circa 33mila a fronte di una popolazione detenuta di 67.104 unità, stipate in spazi progettati per accogliere 45.647 persone. Solo il Trentino Alto Adige, dove i detenuti presenti sono 351 a fronte di una capienza poco superiore ai 500 posti, è immune al problema del sovraffollamento. Numeri da record in Emilia Romagna (4.077 detenuti per 2.394 posti), Lombardia (9.312 detenuti per 5.652 posti) e Sicilia (7.754 detenuti e una capienza di 5.419 posti). Tra gli istituti, la situazione è particolarmente difficile a Lecce, Napoli “Poggioreale”, la “Dozza” di Bologna, il “Due Palazzi” di Padova, Genova “Marassi” dove, periodicamente si registrano violente risse tra i detenuti di origine straniera. I condannati con sentenza definitiva sono 37.622 mentre più di un terzo delle persone che attualmente si trovano dietro le sbarre (per la precisione 27.808) sono in carcere in attesa di una sentenza definitiva…e che in questa situazione si consumano tragedie quotidiane come all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, una sorta di suicidio istigato: M.S., il paziente - detenuto di quell’Opg si toglie la vita; era reduce (ma più propriamente bisognerebbe dire vittima) di ben sette proroghe della misura di sicurezza. È stato internato dal 2006 al 2008. Per qualche tempo era anche stato ospite della Casa di solidarietà e accoglienza di padre Pippo Insana, una “licenza d’esperimento”. “Si era mostrato sereno, collaborativo e d’iniziativa”, racconta padre Insana. “Aveva in cuore la libertà. Ad agosto sarebbe stato libero e si sarebbe nuovamente avvicinato alla madre. Ma il magistrato di sorveglianza di Messina, pur in presenza di una relazione positiva dell’Opg, aveva rinnovato la proroga di ulteriori sei mesi perché i Centri psichiatrici sociali e i Sert di Cremona non avevano prodotto alcun progetto riabilitativo personalizzato. Provo molta rabbia per quello che è successo. Purtroppo la Lombardia è totalmente assente, e i Cps si giustificano sostenendo di non avere posto in comunità o risorse finanziarie…”. A Barcellona Pozzo di Gotto su 173 internati definitivi, ben 118 sono in proroga della misura di sicurezza. Forse (probabilmente; qui il giudizio coinvolge solo chi scrive), quella cena è stato tempo perso; forse (e anche questa è un’impressione che riguarda solo chi scrive) solo Letta ha compreso quello che i radicali hanno cercato di dire e propongono; ma, come dice il proverbio, tentar non nuoce. Di Mauro - i tanti Di Mauro che sono rimasti perplessi alla notizia di quell’incontro - non hanno ragione comunque di dubitare del fatto che Pannella, nel corso di quella cena, abbia rinunciato a squadernare i problemi sul tappeto e indicare, oltre alle possibili soluzioni, responsabilità e responsabili. Giustizia: torturavano i detenuti, cinque agenti del carcere di Asti rinviati a giudizio di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone) Il Manifesto, 25 ottobre 2011 Un’indagine ben condotta, con testimonianze e intercettazioni, porta alla sbarra i cinque poliziotti accusati di maltrattamenti. Ma ora incombe la beffa della prescrizione. Va a processo la “squadretta di pestatori”. Le denunce di due reclusi hanno rotto il silenzio. Altri agenti hanno parlato. Questa è una intercettazione telefonica tra due agenti di polizia penitenziaria (P. e B.) del reparto di isolamento del carcere di Asti. P.: ...Invece da noi non è così... a parte il fatto che... da noi tutta la maggior parte che sono... è tutta gentaglia... è tutta gente che prima... e poi scappa... Poi vengono solo... quando sono in quattro cinque... così è facile picchiare le persone” B.: E bello... P.: Ma che uomo sei... devi avere pure le palle... lo devi picchiare... lo becchi da solo e lo picchi... io la maggior parte che ho picchiato li ho picchiati da solo... B.: Sì... sì P.: Ma perché comunque non c’hai grattacapi... non c’hai niente... perché con sta gente di merda... hai capito... perché qua... oramai... sono tutti bastardi... oramai c’abbiamo il grande Puffo... che deve fare le indagini... hai capito? B.: Chi? P.: Eh P.!!! Ha rotto i coglioni... mo’ dice che ha mandato la cosa di S... in Procura... B.: Quale S? P.: S... dice che ha picchiato non so a chi... là... ha mandato tutto in Procura... ha preso a testimoniare un detenuto... cioè noi dobbiamo stare attenti pure su... se c’è un... pure con le mani bisogna stare attenti. Eh anche perché rovinarti per uno così a me l’altra volta che io e D. picchiammo... Gli agenti P. e B. sono accusati di far parte di una squadretta di pestatori che aveva in gestione monopolistica, incontrollata e violenta il reparto di isolamento della casa circondariale piemontese. Per loro e altri tre poliziotti (su dodici indagati) i giudici hanno disposto il rinvio a giudizio. Per usare le parole dei magistrati, sottoponevano i detenuti, senza alcun motivo plausibile, a un “tormentoso e vessatorio regime” di vita all’interno del carcere. Giovani detenuti, italiani e stranieri, ad Asti erano picchiati sistematicamente in modo brutale; erano lasciati nudi e senza cibo per giorni, nutriti a pane e acqua come nei peggiori prison movies. A un ragazzo gli avrebbero fatto letteralmente lo scalpo. Il Grande Puffo invece è un onesto ispettore di polizia penitenziaria che non ha coperto i suoi sottoposti usi a imitare i torturatori di Garage Olimpo. Il 27 ottobre inizierà il processo. L’accusa per i cinque è di maltrattamenti. Due sono i detenuti coraggiosi che si sono costituiti parte civile e che con le loro dichiarazioni hanno reso possibile l’avvio dell’azione giudiziaria. Le loro dichiarazioni sono confermate da alcuni agenti di polizia penitenziaria. Così testimonia un agente in servizio ad Asti. “Io ho assistito personalmente al pestaggio del R. da parte di B. e G... Per quanto ne so non vengono mai refertate le lesioni, in parte perché si cerca di evitare di lasciare segni mentre si picchia, in parte perché in ogni caso l’altro detenuto la cui cella viene lasciata aperta, viene utilizzato per testimoniare, se necessario, che l’agente aveva subito un’aggressione dalla persona che l’aveva invece subita... Nel caso in cui i detenuti risultino avere segni esterni delle lesioni, spesso i medici di turno evitano di refertarli e mandano via il detenuto dicendogli che non si è fatto niente o comunque chissà come si è procurato le lesioni. Inoltre convincono a non fare la denuncia dicendogli che poi vengono portati in isolamento dove non ci sono le telecamere e poi picchiati nuovamente. So che B. prima di effettuare pestaggi verifica quale è il medico di turno... So che anche il collega S. è solito picchiare i detenuti. S. beve super alcolici sistematicamente anche in servizio; specialmente nel turno serale è quasi impossibile parlarci per quanto ha bevuto. Spesso picchia i detenuti quando è in questo stato. Oltre ai pestaggi punitivi, tra noi agenti che facevamo servizio in isolamento, ci passavamo la consegna di non dare da mangiare al detenuto “punito”. Quando un detenuto andava punito si faceva in modo che si facesse una relazione per farlo mandare in isolamento perché lì si poteva picchiare o togliere i pasti senza problemi”. Quello descritto è un terrificante mix di violenza, degrado morale, abusi di alcool e droga, come si legge in altre parti della relazione della polizia giudiziaria. Sembra un carcere birmano, invece siamo ad Asti. Le intercettazioni pubblicate ben spiegano quale sia lo scandalo delle torture di Asti. Sì, torture. Non sarà l’assenza del crimine nel codice penale italiano a impedire una definizione così appropriata. Ad Asti operava fuori dalla legalità una squadretta di poliziotti penitenziari senza troppi intoppi da parte di medici e superiori. A dirlo sono i magistrati che hanno condotto e chiuso le indagini. Indagini ben fatte, questa volta. Questa inchiesta, a differenza di altre finite su binari morti, è per ora arrivata a processo. In questo caso sono accaduti fatti nuovi: lo spirito di corpo non è prevalso, alcuni poliziotti hanno rotto il muro dell’omertà che in altri casi è stato erto a protezione dei violenti. Incombe sempre però la beffa della prescrizione. L’associazione Antigone ha chiesto di entrare nel processo come parte civile. Vorremmo lo facesse anche il ministero della Giustizia. Sarebbe un bel gesto riparatore, un bel segnale alla comunità penitenziaria. Giustizia: Andrea; in quella cella era un incubo, ma non ho mai tentato il suicidio di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 ottobre 2011 Parla Andrea Cirino, il carcerato che ha aperto il caso. Era arrivato nel carcere di Asti da un paio di mesi, Andrea Cirino, 33 anni, di Torino, all’epoca dei fatti tossicodipendente. È uno dei due detenuti (insieme a Claudio Renne, di 29 anni) sulla base delle cui deposizioni la procura astigiana aveva chiesto il rinvio a giudizio di 12 poliziotti penitenziari. Sette sono stati prosciolti, cinque andranno a processo il 27 ottobre prossimo. Cirino, nel dicembre 2004, era rinchiuso ad Asti nella sezione B2 per rapina con lesioni quando un giorno litigò con un agente e gli mise le mani addosso. “L’ho aggredito io, mentre Renne, mio compagno di cella, cercò di dividerci”, racconta. Sorvolando su quella che lui descrive come una vera e proprio ritorsione immediata, con gli “agenti che mi prendono a calci e pugni mentre vengo accompagnato dal comandante”, partiamo dal suo racconto di quei venti giorni passati da allora in cella di isolamento. Ovviamente, la sua testimonianza è per ora solo un atto di accusa. E gli agenti in questione sono innocenti, fino a condanna definitiva. Dove la portano? Cosa succede? Vengo rinchiuso nell’ultima cella a sinistra, Renne nell’ultima a destra: dalla parte opposta. C’erano altri detenuti in altre celle. Da subito iniziano le violenze: mi lasciano completamente nudo, con una branda senza materasso né coperte, alle finestre non c’erano vetri e faceva molto freddo. C’era un piccolo termosifone acceso ma se provavo ad appoggiarmi gli agenti battevano sulle sbarre e mi insultavano. Io non dormivo mai perché sapevo che quando bevevano o si drogavano poi venivano a picchiarci. Si drogavano? È un’accusa grave questa. Ho raccontato tutto all’ispettrice di polizia a capo delle indagini (Antonella Reggio, ndr) e ai pm: si vedeva dagli occhi che avevano tirato cocaina. O bevuto. Erano troppo esaltati e con una cattiveria che non era normale. Non mi davano quasi mai nulla da mangiare o da bere e quando lo facevano ero sicuro che ci avessero sputato o urinato dentro. Quindi rifiutavo e rispondevo ai loro insulti. E loro si scatenavano: mi picchiavano di giorno e di notte con gli anfibi e io rannicchiato per terra cercavo di coprire faccia e testicoli. Non lo facevano solo con me, ho sentito le grida anche di altri detenuti malgrado chiudessero i blindati. A volte al pestaggio partecipava anche qualche detenuto loro alleato. Chi poteva accedere al reparto? Il medico, ma non veniva mai, e l’infermiera per le terapie. Io prendevo dei tranquillanti altrimenti impazzivo, eppure non riuscivo a dormivo per paura. L’inchiesta sul carcere di Asti si apre dopo che un assistente di polizia penitenziaria e la sua convivente vengono arrestati per droga. Da lì partono le intercettazioni e la prima testimonianza raccolta è quella di Renne. Lei però nega tutto, perché? Perché ero stato trasferito ad Aosta, dove non conoscevo nessuno e avevo paura. Renne invece era ancora nel carcere di Asti e a quel punto nessuno poteva più toccarlo. Possibile che tutti gli agenti fossero collusi? C’era un brigadiere siciliano che a un certo punto cercò di farli smettere. Me lo disse un detenuto che partecipava ai pestaggi e i miei amici che dalle finestre di sotto mi urlavano di resistere, che stavano cercando di aiutarmi. Lei ha mai tentato di suicidarsi? No, ho fatto un gesto di autolesionismo solo una volta perché mia figlia stava per morire e io volevo uscire per vederla. E invece gli agenti sostengono di averla salvata da un tentato suicidio. Un giorno mi portano un bel piatto di pasta e io, sfinito, accetto anche se penso a cosa possano averci messo dentro. Poi non mi ricordo più nulla e mi sveglio in ospedale col collo tutto viola. Mi dicono che ho tentato di suicidarmi. Ma non è vero: io ero completamente nudo, dove avrei trovato il laccio di scarpe? E il gancetto dove dicono che mi sarei impiccato non avrebbe mai retto il mio peso. Mi hanno riferito che al cambio di turno delle 16 una guardia mi avrebbe trovato in quelle condizioni. Ma se avessero voluto ucciderla non lo avrebbero fatto nel cambio di turno. Non so, forse erano solo mossi da impulsi bestiali. Come vive adesso? Ho sempre paura di uscire, ho paura di vederli anche in tribunale. Soffro di attacchi di panico. Sto cercando lavoro, ogni tanto faccio l’elettricista, ma non è facile. Giustizia: Bernardini; interrogazione al ministro sulle violenze ai detenuti ad Asti Agenparl, 25 ottobre 2011 L’onorevole Rita Bernardini vuole vederci chiaro sulla vicenda, balzata negli scorsi giorni, all’onore delle cronache che racconta di un altro caso di violenze dietro le sbarre. Il riferimento è agli episodi denunciati da due detenuti della casa circondariale di Asti e delle quali dovranno rispondere cinque agenti. Rita Bernardini su questa ha presentato un’interrogazione scritta al ministro della Giustizia, Nitto Palma, pubblicata integralmente sul blog della parlamentare radicale. “Il 24 ottobre il quotidiano online Corriere.it riportava la notizia riguardante il Carcere di Asti e intitolata “Detenuti denudati e picchiati” si legge nell’interrogazione di Bernardini - secondo l’articolo di Corrierere.it, 5 agenti di polizia penitenziaria sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di aver picchiato e sottoposto a vessazioni due detenuti”. Nel testo dell’interrogazione, dopo l’esplicazione dettagliata dei fatti, attraverso il testi degli articoli di stampa e alla dichiarazioni rilasciate alle agenzie da diversi attori sociali, Bernardini chiede a Nitto Palma: “Se sia a conoscenza di quanto riportato in premessa; se risulta al Ministro della Giustizia che il Ministro dell’epoca avesse predisposto un’indagine amministrativa interna per approfondire l’accaduto; se risultano al Ministro le ragioni per le quali fu ordinato un periodo così lungo di isolamento dei due detenuti e per quale motivo non fosse stato disposto il trasferimento dei detenuti o degli agenti in altri istituti; se da qualche documento risalente al periodo in cui si verificarono i fatti, sia oggi possibile evincere un particolare clima di violenza da parte di alcuni agenti nei confronti dei detenuti e di indifferenza da parte di medici e direttore che avrebbero dovuto vigilare sull’incolumità della popolazione detenuta; se i 5 agenti rinviati a giudizio siano ancora in servizio presso il carcere di Asti e, in caso affermativo, in quali ruoli di servizio; se sia mai stato fatto uno studio della portata degli episodi di violenza del corpo degli agenti di polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti; quando il Governo presenterà il Ddl riguardante l’introduzione nel nostro codice penale del reato di tortura cos come previsto dall’Odg n. 9/1439 - A/2 presentato dall’interrogante e accolto l’8 giugno scorso”. Giustizia: la verità scomoda che riapre il caso di Giuseppe Uva di Giorgio Salvetti Il Manifesto, 25 ottobre 2011 Lucia Uva non vuole un risarcimento. Vuole la verità. Dopo più di tre anni di lotta, una perizia ordinata dal tribunale ha riaperto il processo sul decesso di suo fratello. Giuseppe Uva è morto nella notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008. È stato fermato per schiamazzi, portato nella caserma dei Carabinieri di Varese dove è stato trattenuto per ore. L’amico che era con lui, Alberto Biggiogero, giura di averlo sentito gridare tanto che ha chiamato il 118 perché “qui stanno massacrando un ragazzo”. Nessuno, però, ha mai voluto sentire la sua testimonianza. Eppure sono stati gli stessi carabinieri poco dopo a chiamare l’ambulanza per trasferire Uva all’ospedale psichiatrico dove è deceduto. È stata proprio sua sorella in obitorio a fotografare la sua salma sfigurata. Foto orribili che, come in altri casi analoghi, certificano con brutale evidenza lo stato di quel cadavere: un corpo martoriato con ecchimosi estese e bruciature simili a quelle causate da sigarette. Si tratta di un dato di fatto che da solo avrebbe dovuto portare ad un’indagine seria su ciò che è avvenuto quella notte nella caserma dei Carabinieri di via Saffi. Invece il procuratore di Varese Agostino Abate ha deciso di concentrarsi solo su ciò che è successo dopo, in ospedale. Il pm infatti ha dato corso ad un processo che vede come unico imputato per omicidio colposo un medico che avrebbe ucciso Uva somministrandogli un’improvvida dose di calmanti. Questo processo però settimana scorsa è stato completamente messo in discussione da una perizia disposta dal giudice Orazio Muscato. I tre esperti incaricati del lavoro hanno certificato che Giuseppe Uva non è morto a causa dei calmanti. “Le dosi somministrate - si legge nella perizia - risultano inidonee a causare il decesso”. Non solo. Sui jeans indossati da Uva quella notte sono state riscontrate tracce ematiche, ma anche tracce di feci, urina e sperma. Per questo hanno richiesto di completare la perizia riesumando la salma e effettuando una Tac. A questo punto il procuratore Agotino Abate deve spiegare alla sorella, ma anche alla città di Varese e a tutto il paese, il perché di così tante ed evidenti incongruenze tra la vicenda processuale da lui condotta e la realtà che emerge da una perizia che poteva essere compiuta molto tempo prima. Perché il fascicolo aperto sul fermo di Uva è rimasto e rimane chiuso nei cassetti della procura? Perché l’autopsia effettuata sul cadavere e resa nota dopo mesi dal decesso parla solo di “lievi escoriazioni”? Perché il medico legale di cui si è avvalsa la procura, il dottor Marco Motta, ha ritenuto di indirizzare le indagini esclusivamente sulla pista del farmaco letale? Perché quei jeans macchiati di sangue sono stati riconsegnati subito alla famiglia la quale, per sua iniziativa, li ha immediatamente riportati alla polizia? E perché si è dovuto attendere l’esito della perizia per sapere ciò che si poteva presumere sin da subito? Gli esperti interpellati dal tribunale dicono che su quei jeans c’è una macchia di sangue di 16 centimetri per 10 all’altezza del cavallo. Una traccia macroscopica che, come ricorda l’avvocato di Lucia Uva, Fabio Anselmo, è stata derubricata dai pm a “macchia di pomodoro”. Infine è lecito chiedere, come fa l’associazione a “Buon Diritto” di Luigi Manconi: “si può escludere che Uva abbia subito violenza sessuale?”. Per avere risposta a queste domande l’unica via è che il tribunale di Varese disponga la continuazione di quella perizia senza ulteriori perdite di tempo. E c’è da giurare che il senso di giustizia del procuratore Abate lo porterà a sottoscrivere questa richiesta. Lo merita Lucia Uva e lo pretendono tutti coloro che hanno diritto di sapere che cosa è successo davvero. Giustizia: i Nocs violenti e i misteri del caso Soffiantini di Federica Angeli e Marco Mensurati La Repubblica, 25 ottobre 2011 Dalla morte di Donatoni agli abusi in caserma: l’ombra di un patto di sangue. I magistrati: le indagini sull’accaduto condizionate da pesanti depistaggi. L’ultima sentenza su quella notte del 1997 dice che il poliziotto fu vittima del “fuoco amico”. Due morti, un suicidio, un pestaggio e un fascicolo insabbiato. Non erano solo nonnismo i morsi nella caserma dei Nocs denunciati da Repubblica a inizio settembre. Dietro quelle violenze ci sarebbe qualcosa di più: una sorta di patto di sangue che fu stretto tra una manciata di teste di cuoio e i loro dirigenti in una notte di ottobre di 14 anni fa. Quella in cui morì l’agente speciale Samuele Donatoni durante un blitz per liberare l’imprenditore Giuseppe Soffiantini dai suoi sequestratori. Quella notte, tra i pruni e le ginestre insanguinate sul ciglio dell’autostrada Roma - Pescara, vicino a Riofreddo, prima dell’arrivo dei soccorsi e della polizia “ordinaria”, con il rumore degli spari ancora nelle orecchie e il loro collega a terra agonizzante, quegli agenti si guardarono in faccia per qualche interminabile secondo, poi decisero che mai nessuno avrebbe raccontato cosa era successo. Nemmeno ai magistrati, a cui avrebbero offerto una versione preconfezionata. Un accordo di ferro, che negli anni è degenerato, lasciando nella mani di “chi sa” un potere abnorme all’interno dei Nocs: e così oggi quegli uomini sono ancora tutti lì, nel reparto d’eccellenza della polizia di Stato, dove dettano, indisturbati, la propria legge. La notte della tragedia Il 17 ottobre del 1997, nel pieno del sequestro Soffiantini, la polizia tenta un blitz per la cattura dei rapitori attraverso un finto pagamento del riscatto. L’operazione fallisce. Uno dei banditi, Mario Moro, al momento di prendere le valigie con i soldi, sente un fruscio, almeno così racconterà, ed esplode una raffica di kalashnikov, alla cieca. I Nocs rispondono al fuoco ma i sequestratori gettano le armi e fuggono. A terra rimane l’agente Samuele Donatoni; morirà dissanguato in pochi minuti. Per quel fatto, oggi, esistono due verità. La prima è quella arrivata al termine del processo istruito dal pm di Roma, Franco Ionta, che nel 2000 condannò i 19 sequestratori di Soffiantini anche per l’omicidio (concorso morale) di Donatoni: il colpo mortale, secondo quel processo, sarebbe stato esploso dal kalashnikov di uno dei banditi. La seconda sentenza è quella con cui la quarta Corte d’assise di Roma, presieduta dal giudice Mario Almerighi, nel 2005, ha assolto dallo stesso reato il ventesimo bandito (arrestato più tardi a Sidney e processato separatamente). In quel processo si stabilì in via definitiva che il proiettile che uccise l’agente Donatoni era stato sparato a bruciapelo e da dietro. Non da Moro, ma da qualcun altro (ancora oggi sconosciuto) che stava dalla parte dei Nocs. Fuoco amico. Questa seconda sentenza che, nonostante l’impugnazione del pm Ionta, venne confermata sia in Appello sia in Cassazione, arrivava anche all’inquietante conclusione che le forze dell’ordine operarono una sconsiderata attività di inquinamento probatorio. Chi depistò le indagini sulla morte di Donatoni? Con quali appoggi? Chi c’era? Domande che andrebbero girate in blocco a “quelli del morso”, cioè al “sottocomando” che da anni con violenze fisiche e psicologiche detta legge all’interno della caserma dei Nocs. Perché, adesso che la notizia di quelle violenze è pubblica, adesso che la procura e la polizia hanno avviato le proprie indagini, si è scoperto che tutti i “membri” del “sottocomando”, quella notte erano a Riofrreddo. C’era, a esempio, l’agente Nello Simone, l’autore della fotografia con cui Repubblica ha documentato i morsi nella caserma. Fu proprio lui, dopo il conflitto a fuoco, a ritrovare il kalashnikov di Moro e fu proprio lui, secondo la quarta Corte d’assise di Roma, uno dei depistatori del primo processo, uno di quelli che dichiararono il falso in tribunale, smentito dall’unico testimone considerato attendibile: l’allora dirigente della Criminalpol Nicola Calipari (ucciso nel 2005 in Iraq durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, anche lui per mano del fuoco amico). Insieme a Nello Simone sull’autostrada c’era poi l’agente Roberto Miscali: l’uomo che nel momento cruciale del blitz si trovava più vicino a Donatoni. Anche lui, oggi, è uno del gruppetto fuori controllo. Secondo molti testimoni (ci sarebbe anche un video) Miscali è il protagonista di uno degli episodi più surreali della banda del morso: quello in cui alcuni Nocs hanno pestato a sangue un agente ricoverato in ospedale, perché non aveva reso onore al nome del reparto; era intervenuto per sedare una rissa in discoteca e aveva rimediato una coltellata. E ancora, quella notte di 14 anni fa, sulla strada per Riofredo c’erano l’ispettore Vittorio Filipponi, anche lui vicino al “sottocomando”, e a bordo dell’automedica pronto a intervenire c’era persino il dottor Gianluca Magliani: il medico che ha dato un solo giorno di prognosi all’agente che, pestato dal gruppo nel 2009, ha denunciato a Repubblica le violenze in caserma (e che, visitato da un altro medico venne giudicato guaribile in 108 giorni). Il ruolo del capo I protagonisti dei morsi erano tutti là, quella notte, dunque. Tutti tranne uno: il capo del “sottocomando”, Fernando Olivieri. Anche lui però ha più di qualcosa a che vedere con quanto accadde a Donatoni. E non solo perché fu proprio lui a svuotare l’armadietto del collega ucciso, pur non essendo uno dei suoi più stretti amici. Ma anche perché pochi giorni dopo la notte di Riofreddo, insieme ad altri agenti, fermò in una galleria della Roma - L’Aquila una macchina con alcuni dei sequestratori. Tra questi, Mario Moro. Il bandito venne ferito da numerosi colpi d’arma da fuoco e morì pochi giorni dopo. In un processo per altra causa uno dei sequestratori, pentito e ritenuto attendibile dai giudici (nonostante le sue parole non fossero utilizzabili per motivi procedurali), raccontò: “Fu una vera esecuzione: eravamo a terra tramortiti e i Nocs continuarono a sparare”. La versione ufficiale parla di una non meglio precisata reazione da parte dei banditi. Moro morì dopo aver ammesso ogni responsabilità nella vicenda Soffiantini. Tranne una: quella dell’omicidio Donatoni. Il suicidio e i sospetti La domanda che in queste ore ha ricominciato a tormentare gli uomini incaricati dal capo della Polizia Antonio Manganelli di indagare sullo strapotere del “sottocomando” e su quanto accade all’interno della caserma di Spinaceto è dunque questa: quali segreti custodiscono Olivieri, Simone e gli altri per aver potuto trasformare la caserma nel proprio regno? Chi, o cosa coprono? Domande tanto più inquietanti quanto più si considera il livello di copertura di cui questi agenti hanno goduto. Basti pensare che poco prima della denuncia dell’agente pestato nella mensa, il “sottogruppo” aveva preso di mira un altro poliziotto che aveva osato ribellarsi a quei sistemi, Paolo Di Carli. E anche in quel caso era finita con un violento pestaggio di cui le relazioni interne indicavano come “protagonista assoluto” Fernando Olivieri. Di Carli tenne tutto dentro e pochi mesi dopo si suicidò, sparandosi un colpo al cuore in caserma. In sintesi: Olivieri pesta due persone, una si suicida l’altro fa denuncia. I vertici nel primo caso fanno finta di niente, nel secondo puniscono il denunciante. Perché? Il fascicolo fantasma Una risposta potrebbe essere contenuta nel fascicolo nato dalla sentenza della quarta Corte d’assise del 2005. Il giudice Almerighi infatti rimandò gli atti alla procura di Roma affinché ricominciasse l’inchiesta, partendo da chi depistò indagini e processo. Di quel fascicolo non si sa più nulla. O quasi. Quel che si sa è che, il procuratore capo lo affidò, con una scelta insolita, proprio a Ionta e che questi, pochi giorni prima di passare al Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (su proposta del ministro Alfano) ne chiese l’archiviazione. Oggi, a distanza di tre anni dalla richiesta, di quel procedimento non vuole più parlare nessuno. Giustizia: incontro con Alfonso Papa nel carcere di Poggioreale…. “qua mi vogliono morto” di Annalisa Chirico Panorama, 25 ottobre 2011 A Poggioreale notte e giorno hanno lo stesso sapore. Non esistono aree di socialità né zone all’aperto, semplicemente manca lo spazio. Soltanto celle gravide di duemila seicentocinquanta corpi, quando la capienza ottimale sarebbe, al massimo, di millequattrocento. Dei detenuti ben duemila sono in attesa di giudizio, e di questa schiera di presunti innocenti fa parte Alfonso Papa. Un detenuto come un altro? Sì, se si dimentica che Alfonso Papa è anche parlamentare, il primo nella storia repubblicana ad essere stato spedito in carcere con l’autorizzazione della Camera per reati non di sangue. Va a fargli visita il deputato Pdl Luigi Vitali, e io lo accompagno. Visibilmente depresso, barba incolta, venti chili in meno. Quello, che ci troviamo di fronte, è un uomo molto diverso dalle immagini diffuse sui media. Un uomo provato. Riposa su una brandina, sono in cinque in poco più di 15 metri quadri. Quando ci vede, si tira giù dal letto e si passa una mano sul viso, come per sistemarsi. Sembra contento. Nonostante tutto, mantiene un contegno che lo distacca dal resto. Ci parla tenendosi la testa con la mano destra. La concentrazione va e viene, è sotto terapia farmacologica. Il colloquio non è privato. Ci sono molti occhi indiscreti, e tra gli interstizi delle parole si incunea il codice delle pause e degli sguardi bassi. “Qua mi vogliono morto”, bisbiglia al collega di partito. Del resto, Papa ha già denunciato le pressioni indotte in forma diretta e indiretta nei suoi confronti. Metodi da Tangentopoli al fine di estorcere, spremere, sfinire. L’ultimo episodio risale a tre giorni fa, nella sala avvocati, con i pm che gli chiedono perché lui si ostini a voler parlare soltanto con Lepore (il quale, dal canto suo, si guarda bene dall’incontrarlo). Papa non è uno che sa provare odio, ma, anche qualora riuscisse, quello che sta vivendo non lo augurerebbe neppure al peggiore dei suoi nemici. Un cenno a Milanese “graziato” dalla Lega. Papa si dice molto contento per lui. I grandi occhi celesti, contornati da prepotenti occhiaie, sono occhi che non mentono. E che ancora rapiscono. Vitali gli chiede se si è sentito abbandonato da qualcuno, e lui risponde di aver ricevuto grandi attestazioni di solidarietà da tutto il partito, dal Presidente in giù. E poi dall’opinione pubblica. Mi invita ad aprire un mobiletto alle mie spalle. Il ripiano è carico di lettere, in bella mostra il ricamo di una sua ammiratrice. Accanto al ricamo è disegnato a mano il volto di Padre Pio. Papa passa il tempo nell’ozio dell’impotenza. Non può interagire con l’esterno, la sua unica fonte di informazione è il Mattino di Napoli e le sue condizioni psicofisiche non gli consentono di fare granché, a parte scrivere ai suoi familiari. Il primo pensiero, del resto, va ai figli. Ce l’ha con Fini, che non ha risposto alle sue istanze. Tiene un contatto con Radio Carcere di Riccardo Arena, e con orgoglio ricorda la sua partecipazione a tutte le iniziative promosse dai Radicali, l’ultima risalente al 14 agosto scorso. I Radicali sono gli stessi che hanno votato a favore del suo arresto, e lui se lo ricorda bene. A differenza dei radicali però l’ex pm ha scoperto il dramma delle carceri soltanto da detenuto, meglio tardi che mai. Oggi Papa vuole fare della riforma della giustizia la ragione principale della sua battaglia politica. Serve una grande campagna culturale, e il partito deve promuoverla con lui. Nel mirino l’abuso della carcerazione preventiva. Ha già pronti quattro disegni di legge, e ne ha messo a parte anche Cicchitto. Cita uno studio dell’Istituto Max Planck, secondo il quale l’Italia è l’unico Paese occidentale dell’area Ocse ad avere il più alto ricorso alla carcerazione preventiva (seguito dalla Francia) e la maggiore durata dei processi (in barba all’articolo 111). Un sistema schizofrenico. Papa lo spiega col puntiglio dell’esperto, sciorina dati e articoli di legge. In un Paese col 42% di popolazione carceraria in attesa di giudizio o si creano misure alternative oppure si crea un sistema a doppio binario. Tertium non datur. Accanto a lui il compagno di cella lo ascolta un pò interdetto, ma con rispetto. Non so quanto stia capendo, ma appare ammirato da cotanto scibile ristretto in quella tuta stanca. Papa non riesce a tesserarsi da lì, e non sa come fare. Chiede a Vitali di comunicarlo al partito. Vuole far sentire che c’è, il partito può contare su di lui. Con il partito vuole fare del suo caso individuale un caso politico. Intanto il tempo è scaduto, noi dobbiamo andare. Per Papa sta per concludersi il novantaquattresimo giorno dietro alle sbarre. L’ex pm, che ha scoperto il carcere da detenuto, attende il processo che si apre il 26 ottobre. Non ha nulla da temere, dice. Quale che ne sarà l’esito, rimane che il carcere come anticipo di pena o, peggio, come arma di pressione è un’aberrazione umana prima ancora che giuridica. Vitali intende portare il caso al Consiglio d’Europa come esempio dello strapotere giudiziario in Italia. “In carcere - afferma Vitali - dovrebbe andarci soltanto chi è condannato in via definitiva o, tutt’al più, in secondo grado”. Papa si leva in piedi stancamente, ci saluta. Sarà pure uno dei duemila in attesa di giudizio, ma la sua immagine in quella cella racconta molto di più di noi, della nostra democrazia malata, dell’egemonia giudiziaria dinanzi a una politica sempre più debole e incapace. Un ultimo sguardo e via. A presto, onorevole. Giustizia: Orlando (Idv); gravissima situazione sanitaria detenuti, domani audizione di Ionta 9Colonne, 25 ottobre 2011 Il direttore del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, verrà ascoltato domani, alle 14.15, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari e le cause dei disavanzi sanitari regionali, presieduta dal Leoluca Orlando (Idv). L’audizione si colloca nell’ambito del filone di inchiesta sulla tutela della salute nelle carceri, coordinato dalle onorevoli Doris Lo Moro, Melania De Nichilo e Laura Molteni, ed è finalizzata ad acquisire informazioni sul processo di transizione delle relative competenze dall’Amministrazione penitenziaria alle aziende sanitarie locali. Particolare attenzione sarà rivolta ai profili gestionali connessi alla traduzione dei detenuti nelle strutture sanitarie territoriali e alla qualità della tutela sanitaria di detenuti e personale di polizia penitenziaria in tale fase di passaggio di competenze. “Garantire la tutela della salute a chi sta dentro così come a chi sta fuori dal carcere è un principio costituzionale e, come tale, impone di essere rispettato - ha dichiarato il presidente della Commissione Leoluca Orlando. Attualmente, però, nella maggior parte delle carceri italiane, caratterizzate da un generale contesto di promiscuità e sovraffollamento, la possibilità di imporre adeguate profilassi non sembra poter essere garantita a causa delle precarie condizioni igienico sanitarie e a causa del depauperamento delle risorse umane, ovvero del necessario personale specialistico socio-sanitario e del personale di Polizia penitenziaria, incaricato di gestire il trasporto dall’interno all’esterno delle strutture penitenziarie. Una situazione di quotidiano allarme tollerata oltre il tollerabile, che rischia continuamente di veder trasformato il disagio in tragedia”, ha concluso il presidente Orlando. Giustizia: in bozza Decreto Sviluppo permuta immobili Stato dismessi per nuove carceri Agi, 25 ottobre 2011 Per fronteggiare l’eccessivo affollamento delle carceri nazionali arrivano meccanismi che agevolano la dismissione e valorizzazione di beni immobili statali in uso al Ministero della Giustizia, mediante permuta, anche parziale, con immobili anche in costruendo, da destinare a nuovi istituti penitenziari. È quanto prevede la bozza del decreto sviluppo all’esame del consiglio dei ministri. “Le procedure di valorizzazione e dismissione - si legge nel testo - sono effettuate dal Ministero della giustizia, sentita l’Agenzia del demanio, anche in deroga alle norme in materia di contabilità generale dello Stato, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico contabile”. Puglia: intesa su salute dei detenuti tra Regione, Amministrazione Penitenziaria e Cgm Adnkronos, 25 ottobre 2011 Un protocollo di intesa tra Regione Puglia, amministrazione penitenziaria e Centro di giustizia minorile è stata firmata stamane a Bari con l’obiettivo di definire le forme di collaborazione tra i diversi livelli istituzionali per garantire la tutela della salute ed il recupero dei detenuti adulti e minorenni e assicurare loro l’assistenza sanitaria. Erano presenti il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, il provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per la Puglia Giuseppe Martone e il direttore del Centro Giustizia Minorile per la Puglia Francesca Perrini. “Pur mettendo in piedi modelli evoluti di relazioni tra diverse Amministrazioni dello Stato per mettere al centro i diritti dei detenuti, come quello contenuto nel Protocollo d’Intesa che firmiamo oggi - ha detto Vedola - rischiamo di scivolare, giorno dopo giorno, in una condizione di assoluta drammaticità. Oggi siamo seduti su una polveriera. Settantamila detenuti sono un dato assolutamente inedito nella storia nazionale”. Il presidente ha ricordato che fino ad alcuni anni fa “quando si toccava quota 45mila detenuti c’era, in genere, una sollevazione di coscienze, maturava il sentimento dello scandalo: giornali e televisioni raccontavano l’insopportabilità, perché il sovraffollamento carcerario è di per sé la negazione del precetto costituzionale dell’umanità della pena”. Puglia: Vendola; tra austerità e sovraffollamento, abbiamo carceri di cui vergognarci Agi, 25 ottobre 2011 “Il combinato disposto dell’austerità coatta e della condizione di sovraffollamento è che noi possiamo andare incontro a storie di cui vergognarsi per svariati secoli”. Il presidente della regione Puglia, Nichi Vendola, lo ha detto firmando il protocollo d’intesa tra la Regione Puglia, il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per la Puglia e il Centro Giustizia minorile per la Puglia, per l’applicazione dell’art. 7 del decreto dell’1 aprile 2008, relativo alla definizione delle riforme di collaborazione tra l’ordinamento sanitario e l’ordinamento penitenziario. Secondo Vendola, “in ogni istituto penitenziario si riproducono autentici gironi dell’inferno dantesco: gli organici sono quelli che sono - ha ricordato - i budget sono quelli che sono per i servizi sanitari e per la farmaceutica”. “Noi rischiamo di mettere in piedi modelli evoluti di relazione tra diverse amministrazioni dello Stato, come quello che è dentro il protocollo che firmiamo - ha aggiunto - per mettere al centro i diritti del detenuto, che è un cittadino che è soltanto privato dei diritto alla libertà, non è privato del diritto alla salute, non è condannato a morte”. “Questo protocollo - ha detto Vendola - a noi serve per fare tutto quello che possiamo fare; cioè per non nasconderci dietro la foglia di fico di questa situazione gravissima. Noi dobbiamo fare tutto quello che si può fare. Tuttavia, le condizioni di contesto lasciano prevedere una tendenza naturale a non occuparsi più degli ultimi”. Un carcere “disumano e barbarico - ha concluso - in qualche maniera ci predispone a vivere in una società disumana e barbarica. Per quello, tutto ciò che è necessario fare dobbiamo fare ma senza mai coprire criticità e orrori che dobbiamo, invece, raccontare affinché la coscienza collettiva e la politica, con la P maiuscola, possano finalmente darsi una sveglia”. Lazio: Uil-Pa; il più grave sovraffollamento della nostra storia… servono interventi urgenti Ansa, 25 ottobre 2011 Oltre 6.500 detenuti rispetto ai 4.880 posti letto, distribuiti in sovrannumero negli istituti penitenziari di Civitavecchia, Viterbo, Frosinone, Roma, Velletri ecc., sono un fatto reale come i circa 3.000 agenti presenti negli stessi siti, dove in realtà sarebbero dovuti essere 4.136 unità. Ogni città di questa regione si trova a combattere con il più grave sovraffollamento detentivo e il più basso numero di poliziotti penitenziari della storia della Repubblica Italiana, dove viene prevaricato il diritto costituzionale a chi sconta la pena e ha chi è chiamato a svolgere il proprio dovere di sorveglianza e recupero alla società civile. A giorni dovrebbe essere aperto il padiglione di Velletri per 200 posti, mentre rimane inutilizzato il penitenziario di Rieti per circa 400 posti, senza alcuna possibilità di comprendere in tutti e due i casi come questa amministrazione intenda fare. Si forniscono dati di personale d’assegnare, senza alcuna ragionamento con chi in effetti conosce le realtà locali. Nel frattempo c’è qualcuno che difende le caste del palazzo, si pone problemi se qualche suonatore rientra in istituto per dare una mano, mentre in tutta franchezza nessuno pone la stessa considerazione di chi rimane nelle trincee delle sezioni detentivi, sui furgoni malridotti delle traduzioni o addirittura e costretto a svolgere i piantonamenti di detenuti in corsie di ospedali ecc. La Uil-pa penitenziari chiede con urgenza a chiunque abbia il potere e la voglia di fare, di intervenire, anche prendendo qualche decina di unità distaccati o in forza nei palazzi ministeriali di Roma che superano le 2.000 unità, mentre solo dieci anni fa erano mille! Daniele Nicastrini Coordinatore regionale Lazio Uilpa Penitenziari Napoli: Vitali (Pdl); a Poggioreale 2.600 detenuti su capienza di 1.700, il Governo intervenga Adnkronos, 25 ottobre 2011 “La visita odierna al collega Papa nel carcere di Poggioreale a Napoli mi ha dato la possibilità di visitare una delle strutture più affollate d’Italia. Oltre 2.600 detenuti su una capienza di 1.700. Il Governo deve fare qualcosa e anche il Parlamento deve intervenire”. È quanto dichiara Luigi Vitali, responsabile nazionale dell’ordinamento penitenziario del Pdl, all’uscita dal carcere partenopeo, dove ha fatto visita al deputato Alfonso Papa. “Capisco che non vi sono le condizioni per un’amnistia ma allo stesso tempo bisogna prendere atto che così non si può andare avanti - denuncia Vitali - Non ci sono i soldi nemmeno per i detersivi e la carta igienica. Non parliamo di quelli necessari per gli interventi ordinari e straordinari. È sotto organico la polizia penitenziaria, mancano gli erogatori, gli psicologi e gli amministrativi”. “In più questo piano carceri non decolla adeguatamente; per non parlare dell’uso e abuso della carcerazione preventiva che peggiora molto il problema. Portare avanti la depenalizzazione, come intende fare giustamente il Ministro Palma - sottolinea - rappresenta un ottimo rimedio ma i suoi effetti si avranno almeno fra due anni. E non si può aspettare. Allora si utilizzino i soldi del piano carceri anche per manutenere e ristrutturare le carceri. Si vari un provvedimento per far espiare fuori gli ultimi due anni di pena. Si attivino strutture di detenzione differenziata per reclusi. Queste iniziative proporrò - conclude Vitali - sicuro che il ministro Palma sarà interprete autorevole di queste esigenze”. Roma: Cgil; affollamento e mancanza di fondi, carcere di Civitavecchia tra le peggiori Ansa, 25 ottobre 2011 Solo 210 agenti di Polizia penitenziaria effettivi, a fronte dei 350 previsti al supercarcere di Borgata Aurelia, il che equivale a una carenza di personale di almeno il 30%. Non solo. Al Bagno penale gli agenti sono poco meno di 50, a fronte degli 82 che invece dovrebbero esserci. Il tutto in un contesto in cui la popolazione carceraria è maggiore di quella che dovrebbe essere, mentre un terzo dei circa 550 detenuti di Aurelia ben presto potrebbe diventare ad alta sicurezza, raddoppiando, se non triplicando, i carichi di lavoro per gli agenti. Questo il quadro impietoso della situazione delle due carceri cittadine, emerso questa mattina nel corso di una conferenza stampa presso la sede della Cgil, al termine della visita che hanno effettuato in entrambi gli istituti il segretario generale della Cgil Funzione Pubblica Lazio, Lorenzo Mazzoli, e Stefano Branchi e Massimiliano Prestili, membri del coordinamento regionale della Polizia Penitenziaria, accompagnati da Diego Nunzi, della Cgil Fp Civitavecchia. Una situazione doppiamente grave, hanno messo in evidenza tutti e tre, sia in termini di sicurezza sia in riferimento al venir meno della funzione di rieducazione e reinserimento degli istituti carcerari, rispetto alla quale Civitavecchia rischia di avere - anche su questo fronte - il primato in negativo tra tutte le carceri del Lazio. “Al momento dobbiamo solo augurarci che i detenuti si comportino bene - ha detto senza mezzi termini Mazzoli - visto che una volta dentro il carcere si trovano a vivere in un contesto che non lascia loro alcuna dignità”. Il problema non è solo - e non è poco - l’assistenza sanitaria che è diventata più carente, con gli stessi farmaci cominciano a scarseggiare, e gli psicologi (solo due ad Aurelia) che non bastano, anche gli educatori sono sotto organico e tutte le attività del carcere, fondamentali per il recupero dei detenuti, vacillano, sotto la scure dei tagli del governo Berlusconi. Dalla scuola al teatro, fino alle attività professionali, tutto sparisce, perché non si riesce a finanziare gli interventi. Da parte sua la Cgil attende da parte del Provveditorato Regionale del Lazio “l’invio di 30 unità di Polizia Penitenziaria per Aurelia e 10 per la Casa di Reclusione - ha precisato Prestili, ciò che rappresenta il minimo per poter pensare di gestire una situazione al momento insostenibile”. Ma come ha messo in evidenza anche Branchi “già molto aiuterebbe avere a disposizione parte del personale che, per i più svariati motivi, è finito distaccato nell’amministrazione, addirittura in certi casi nelle segreterie dei ministeri”. Se le risposte dovessero essere negative la Cgil Fp è pronta a inasprire la vertenza, mentre Nunzi ha chiesto “un aiuto alle istituzioni locali”, proponendo la realizzazione del nuovo canile municipale, in cui poter far lavorare i detenuti articolo 21 (quelli che possono uscire dalle mura), nell’area a ridosso del supercarcere. Prato: Lisiapp; domani scatta autoconsegna degli agenti della polizia penitenziaria Agenparl, 25 ottobre 2011 “Lisiapp: auspichiamo che la nostra protesta insieme alle altre sigle serva a prendere coscienza delle problematiche” Autoconsegna ad oltranza. È questa l’intenzione dei poliziotti penitenziari della struttura detentiva di Prato. Siamo stanchi - sottolinea Giuseppe Boccino segretario generale aggiunto del Lisiapp (Libero Sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria), di tagli e ristrettezze all’intero comparto sicurezza ed in particolare nel corpo di polizia penitenziaria. Tutto questo aggiunge Boccino , poche settimane fà nella regione si è rischiato di fermare interi processi in quanto non si riusciva a tradurre i detenuti per mancanza di carburante ai mezzi della polizia penitenziaria. Inoltre, esiste un problema di sovraffollamento carcerario che rischia di peggiorare con la diminuzione dei fondi prevista dal governo: il ddl stabilità contiene tagli lineari al comparto sicurezza per 60 milioni di euro. Nel settore penitenziario significa un abbattimento delle possibilità di spesa che va dal quindici al venticinque per cento. Certamente era più logico tagliare sulla sicurezza dei cittadini e del sistema penitenziario chiosa Boccino, per la classe politica, che non abbassarsi gli stipendi, e diminuire il numero del milione e trecentomila beneficiari dello spoil system italiano sparpagliati ovunque. Purtroppo da tempo - conclude il segretario Lisiapp - gli istituti penitenziari della Regione Toscana vivono in situazioni drammatiche orami esplosive derivanti dalla grave carenza di organico stimata in circa 700 agenti rispetto ai 3021 previsti dal decreto ministeriale del 2001, dato che ritengo già sottostimato. Genova: oltre le sbarre, per fare i giardinieri… Marassi apre le celle a dodici reclusi di Stefano Origone La Repubblica, 25 ottobre 2011 Sette italiani, gli altri 5 sono nordafricani e ecuadoriani. Hanno un’età compresa tra i 25 e i 64 anni. Percepiscono 450 euro al mese. Un progetto pilota unico in Italia: domani con cesoie e rastrelli a Staglieno Detenuti “giardinieri”. Dopo la pulizia del Bisagno, con falcetti, cesoie e rastrelli si occuperanno del verde del cimitero di Staglieno. Puliranno le gallerie monumentali, riordineranno i campi trentennali, quello dei partigiani e daranno assistenza agli anziani e alle persone disabili. “Un amico a Staglieno”, è un progetto unico in Italia, che nasce dalla collaborazione tra la direzione del carcere di Marassi e l’assessorato alla Città Sicura. Dodici carcerati prossimi alla fine della pena, lavoreranno tutti i giorni, tranne la domenica, fino a maggio per il Comune. In cambio riceveranno uno stipendio: il datore di lavoro (quindi Tursi) verserà sui conti correnti 450 euro mensili. I detenuti che sono stati inseriti in questo programma hanno dai 25 ai 64 anni. Sette sono italiani, gli altri nordafricani ed ecuadoriani. Dieci hanno già goduto di permessi premio, due è la prima volta che escono. Ieri mattina sono stati portati sul greto del Bisagno e hanno pulito la parte proprio di fronte al carcere. Stamattina saranno a Staglieno. “Quella del Bisagno, è stata un’iniziativa simbolica, mirata a far capire che il detenuto non può stare sempre rinchiuso tra quattro mura, ma deve essere impegnato all’esterno con un’attività socialmente utile - spiega il direttore del carcere Salvatore Mazzeo. In generale, il messaggio che deve passare e che se uno ruba, è giusto che paghi il suo debito lavorando e restituendo il maltolto con quello che ha guadagnato. È una sorta di “risarcimento” alla società e allo Stato, che in fondo sono vittime dei loro reati”. Contemporaneamente, all’interno del carcere il detenuto deve acquisire una professionalità utile una volta libero. “Dobbiamo fare in modo che impari qualcosa ed è per questo che abbiamo creato la panetteria, dove sono impegnati cinque detenuti, e stiamo ultimando la falegnameria dove verranno costruiti biliardi - continua Mazzeo. Quelli importati dalla Cina costano poco, circa 10 mila euro, ma hanno limiti estetici invalicabili per l’Italia. Così tramite la cooperativa sociale che assumerà i detenuti - falegnami, realizzeremo tavoli e stecche tutti italiani per proporli a costi concorrenziali, ma giusti”. In questo contesto, è inserita un’analisi ben più ampia che riguarda il sovraffollamento. “Il carcere non può essere la solita risposta alla pena perché il risultato è stato quello di avere 25 mila detenuti in più e a Genova di aver una struttura ormai al collasso, che ha superato quota 800 quando ne può ospitare la metà”. “Sono d’accordo con il direttore - aggiunge l’assessore Francesco Scidone - perché anche il Comune crede che i lavori socialmente utili restituiscano quello che il detenuto ha tolto alla società e, non ultimo, risolvano il problema del numero abnorme di persone chiuse nelle carceri italiane”. In nove in una cella significa problemi gravi di convivenza. Meno spazio uguale più conflitti. “Il carcere crea disagio psicologico perché il detenuto porta con se tutte le sue ansie e tutto ciò implica situazioni di disagio anche con il personale, a sua volta stressato, e vittima di aggressioni e conflittualità”, aggiunge Salvatore Mazzeo. La carcerazione, quindi, solo in casi eccezionali? “Dico solo - va avanti Mazzeo - che chi non fa nulla quando esce corre tre volte di più il rischio di rientrare nel circuito criminale di chi ha imparato un lavoro. C’è anche da dire che non tutti i detenuti sono uguali e amano il lavoro, ma questi rientrano nella fetta più piccola, degli irrecuperabili”. Genova ha bisogno di un nuovo carcere per non crollare sotto il peso del sovraffollamento? “Questo ormai è vecchio, ma in linea generale non sono per carceri grandi. Tiriamo fuori chi è dentro, il problema si risolverà”. Noi detenuti, qui a pulire il Bisagno, ma in carcere ci siamo ripuliti dentro La metamorfosi può passare anche attraverso le sbarre di una cella. Antonio Cacciatore è dentro per omicidio. Ha fatto due anni e mezzo, gliene rimangono ancora tre per uscire. Nel 2009, il 5 gennaio, fuori da un bar di via Fereggiano per una spallata ha ucciso con tre coltellate il suo “compagno di bevute”, Tommaso Siciliano, un passato macchiato da una condanna a nove anni per droga, soprannominato il “Barbetta” per via del pizzetto e dei lunghi capelli bianchi. Cacciatore, era uomo rissoso, prepotente, che entrava e usciva dai bar, a cui bastava un nonnulla per perdere la pazienza. Di quell’uomo, non è rimasto più niente. “È stato un attimo di pazzia - racconta - che mi ha segnato la vita per sempre”. Maglione di shetland mélange, camicia azzurra, un’espressione serena, Cacciatore, il “leone” come lo chiamavano nel quartiere, si tocca la cicatrice sulla guancia, lo sfregio che gli ha lasciato la vittima prima di venire disarmata e uccisa e che gli ricorda, “se mai un giorno riuscissi a non pensarci”, quella sera maledetta. “Ho sbagliato, ma non posso dire che è stata tutta colpa mia. In questi anni ho elaborato quello che è accaduto e sono arrivato alla conclusione che devo andare avanti. Per i miei figli che mi sono vicini, ma soprattutto per me stesso. Ho 65 anni, ancora tanto tempo davanti, e voglio lasciare qualcosa”. In mano tiene il falcetto che gli serve per tagliare le erbacce. Gli altri detenuti sono in piedi, messi a semicerchio sul greto del Bisagno, che ascoltano. “Ho seguito un corso da odontotecnico, tra pochi giorni con gli altri detenuti debutteremo in teatro con lo spettacolo “Schegge”, un racconto delle nostre vite”. Cosa si aspetta dal futuro? “Non chiedo tanto, mi basterebbe un piccolo campo da coltivare. Lavoro da quando ho 16 anni, nel periodo in cui ero disoccupato mi sono lasciato andare perché stavo male dentro, ma ora, sarà strano, grazie al carcere e a queste iniziative ho capito che la strada che sto cercando la posso ancora trovare”. Antonio prende un sacchetto e va avanti a riempirlo. Il Bisagno è una discarica a cielo aperto. Nascoste tra le piante alte un metro e mezzo ci sono lavatrici, materassi, pezzi di motorini. A pochi metri, accanto a Luigi, l’unico agente che controlla i detenuti, c’è un uomo con un cappellino bianco. È Naji Abdenbi. Ha 45 anni, è di Fes, in Marocco. La sua storia è incredibile. Ha una laurea in biologia e geologia in tasca, frutto dei sacrifici enormi della sua famiglia. Dalla vita avrebbe potuto avere tutto, eppure per colpa della droga il suo futuro è stato distrutto. “Dopo aver finito l’università a Montpellier, me ne sono andato dalla Francia e ho girato mezza Europa in cerca di un lavoro”. Nel 1996, Naji arriva in Italia. “Prima sono andato a Palermo, poi a Napoli e infine a Genova, perché un mio amico mi aveva detto che qui potevo farcela. Invece, erano solo bugie e quando sono rimasto senza soldi, lontano da casa, senza nessuno che poteva aiutarmi, ho cercato rifugio nella droga e ho cominciato a sniffare cocaina”. Tantissimo, anche venti grammi al giorno. “Ero depresso, piano piano mi sono buttato via. Mi servivano soldi, tanti soldi, e così ho cominciato a spacciare. Gli altri si arricchivano, io mi distruggevo”. La salvezza è una ragazza. Naji si innamora, smette di farsi (“ora sono sei anni che ho chiuso”) e finalmente trova la forza di ricominciare la vita però gli volta ancora una volta le spalle. Tutto inutile. “Ho avuto problemi con i permessi di soggiorno, è cambiata la legge e sono diventato irregolare”. Ripiomba in un buco nero, viene risucchiato nel mondo dello spaccio. “Non avevo soldi, in più mia moglie era incinta. Lavoro niente, cosa dovevo fare per mangiare?”. Viene arrestato. Arriva la condanna a due anni e 4 mesi. “Mi manca ancora un anno per uscire. In carcere non mi sono mai fermato a pensare. Ho fatto la scuola di grafica, teatro, il bibliotecario, con altri ragazzi abbiamo creato il giornale. Se ho una speranza? Certo, che queste iniziative siano servite per aiutarci a guardare avanti, che qualcuno si accorga di noi e soprattutto abbia fiducia in noi. Abbiamo sbagliato, abbiamo pagato il nostro debito, ora chiediamo alla società di darci un’altra possibilità. È un discorso banale, ma è la verità”. Gli altri detenuti si fanno avanti. Erano restii a parlare, ora hanno trovato il coraggio. “Perché vogliamo metterci la faccia - dice uno di loro - e far capire a chi sta fuori che siamo persone come loro”. Antonio l’attore. Naji il giornalista. E Vittorino? “A me piace fare il falegname”, ride. Vittorino Zancavallo, 55 anni, è stato condannato a 5 anni. “Che cosa ho fatto? Ripulivo le banche”. Ne ha rapinate..., soprattutto a Savona. “E cosa vuole che le dica, una volta pensavo che era più facile fare quel “lavoro” che essere onesto. Cinque anni qui dentro sono tanti, ma mi sono serviti perché era l’unico modo per capire che avevo sbagliato tutto. Ora con questo lavoro mi sento bene perché facciamo qualcosa per noi e soprattutto per la società”. Ma il sindacato: “È troppo poco” “Il progetto è positivo, peccato solo che sia assolutamente minimale rispetto ai detenuti presenti in carcere, che sono oltre 800, 450 in più”. Roberto Martinelli, segretario generale del sindacato Sappe di polizia penitenziaria, aggiunge. “Si deve investire di più sia per il recupero di chi è “ristretto” che per gli agenti, visto che a Marassi ne mancano 160”. Il lavoro rappresenta certamente il primo e più importante elemento del trattamento ed incide anche sulla sicurezza. “In Germania il 70% dei detenuti lavora e fa attività sportive”. Lavoro come elemento preponderante del trattamento, ma anche come elemento dal quale scaturiscono risorse per l’istituzione. “Tutte le strutture penitenziarie tedesche hanno un bilancio in attivo, proprio grazie al fatto che la maggioranza dei detenuti lavorano e che, quindi, non starebbero in cella ad oziare tutto il giorno, facendo anche venir meno le situazioni critiche che si registrano ogni giorno nei penitenziari”. Sassari: omicidio Erittu, il pentito conferma le accuse di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 25 ottobre 2011 Incidente probatorio nell’inchiesta sulla morte del detenuto a San Sebastiano. Bigella dal gup, accusa tre presunti complici e indica un agente: “Accettai di uccidere il compagno di cella per entrare nel giro di Pino Vandi”. “Accettai di uccidere Marco Erittu perché non avevo niente da perdere. Anzi, dopo il delitto entrai a far parte del circuito di Pino Vandi: mangiavo bistecche al posto della minestra, potevo spacciare in carcere, mi davano vino e birra e avevo bei vestiti. Nessuno mi dava più fastidio”. Privilegi in cella: era la contropartita di Giuseppe Bigella per il delitto del nemico di Vandi, quel Marco Erittu che voleva parlare del sequestro di Giuseppe Sechi, di Ossi (mai tornato a casa). E forse troppo scomodo per Vandi. A parlare è Bigella, sassarese di 35 anni, reo confesso e accusatore di Vandi, il presunto mandante del delitto di San Sebastiano del 18 novembre 2007. Coindagati, l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna (avrebbe aperto la porta della cella agli esecutori) e l’allora detenuto, Nicolino Pinna (mai arrestato). Per alcuni la procura di Cagliari potrebbe chiedere il giudizio immediato: senza udienza preliminare, si va direttamente in Corte d’Assise. Continua l’inchiesta sul sequestro Sechi, nel 1994, mutilato dell’orecchio recapitato ai familiari di Paoletto Ruiu (anche lui rapito e mai rilasciato) proprio sulla base delle dichiarazioni di Bigella, che sarebbe stato sentito in procura anche ieri pomeriggio. Le accuse. “Quando entrai nella cella di Erittu ero pronto a sgozzarlo con una lametta. Era domenica e Vandi ci aveva detto: a lunedì non ci deve arrivare”. Una mattina di conferme per il super pentito (è in fase di richiesta protezione): Bigella (che nel 2005 si macchiò dell’omicidio di una gioielliera di Porto Torres, Fernanda Zirulia) ieri mattina è stato sentito durante un incidente probatorio chiesto dai pm Giancarlo Moi (della Dda) e Giovanni Porcheddu (Procura di Sassari). Serve a cristallizzare dichiarazioni rese in passato, ma che ora hanno forza di prova anche se non dovessero essere ripetute in aula. L’indagato - testimone ha poi riconosciuto in foto l’agente dell’Ufficio comando del carcere che, secondo lui, avrebbe avvisato Vandi del telegramma inviato da Erittu (assieme ad una lettera, mai arrivata) al procuratore Giovanni Porqueddu, per raccontare quanto sapeva del sequestro Sechi. “Sì, è Mariano Campus”, ha detto ribadendo quanto già rivelato. Campus non risulta indagato e le accuse contro di lui, ha scritto Moi nella richiesta d’arresto per gli altri, mancano di “riscontri individualizzanti”. Gli indagati. Scarpe Nike nero e argento, occhiali da vista, anello a fascia all’anulare sinistro, Pino Vandi, una vita trascorsa dentro e fuori il carcere, è arrivato scortato nell’aula della Corte d’Assise del Palazzo di giustizia cagliaritano verso le 9,40. A differenza del primo, Sanna è entrato in aula senza manette, accompagnato da due colleghi; il volto contratto, lo sguardo molto preoccupato. Poco dopo è arrivato Nicolino Pinna, un uomo alto, anche lui molto teso. Secondo Bigella, fu proprio grazie alla sua stazza che bloccò Erittu, sorpreso mentre era steso in branda, e lo immobilizzò quando lui, Bigella, gli coprì la testa e lo soffocò con una busta di nylon. Sempre Pinna avrebbe poi simulato l’impiccagione che allontanerà gli inquirenti da questo delitto per almeno tre anni, fino alla confessione di Bigella. Ieri quando Sanna e Vandi, detenuti da luglio, si sono sistemati in due celle dell’aula al primo piano (la Corte d’Assise), dall’ingresso posteriore è entrato Bigella. Non si sono visti: è rimasto dietro un paravento, coperto dagli sguardi dei coindagati, nell’udienza a porte chiuse. Interrogatorio lampo. Alla prima domanda dei pm Moi e Porcheddu, il reo confesso ha ripercorso il delitto quasi in un lampo: meno di quaranta minuti, e alle 10 e un quarto aveva già finito. Confermando tutto: su commissione di Vandi ho ucciso Erittu - ha ripetuto per la terza volta - grazie a Sanna, andato ad aprire la mia cella, poi quella di Pinna, e infine quella della vittima, che abbiamo sorpreso alle spalle e ucciso. Dopo una lunga pausa di consultazione, gli avvocati Elias Vacca e Patrizio Rovelli (per Vandi), Agostinangelo Marras e Mattia Doneddu (per Sanna), Luca Sciacaluga (per Pinna), hanno contestato contraddizioni e illogicità del racconto. “Com’è possibile che il lembo della coperta per impiccare la vittima fosse di un tipo completamente diverso da tutte quelle in uso a San Sebastiano?”, ha chiesto Rovelli. E poi “come mai l’agente Sanna sarebbe andato a “prendere” Bigella e Pinna alla fine del corridoio - ha eccepito Marras - per poi tornare quasi in processione verso la cella di Erittu, così vicina alla “rotonda” e visibile anche da altri?”. E ancora, com’è stato possibile, ha chiesto l’avvocato Vacca “che le celle siano rimaste aperte per così tanto tempo, senza che nessuno si preoccupasse dei detenuti che erano dentro?”. Un tempo che per il testimone va dai “14 ai 18 minuti”, il tempo di un delitto in carcere di chi forse si credeva protetto dall’omertà. E da allora “ha avuto una vita più facile, prima di capire di volerla cambiare e uscire dal circuito di Vandi”. Quindi, per Bigella, confessare. I familiari della vittima saranno tutelati in udienza dai penalisti sassaresi Nicola Satta e Lorenzo Gallisay. Lecce: l’appello di una madre; mio figlio, in carcere trattato da animale www.senzacolonne.it, 25 ottobre 2011 “Nel carcere mio figlio è su una sedia a rotelle ed è tenuto in condizioni disumane”. A dirlo è Rita Calia, mamma di Angelo Buttazzo, 27 anni, detenuto attualmente nella casa circondariale di Lecce e sofferente dopo una recente operazione alla schiena. La mamma disperata di Latiano chiede un aiuto alle Istituzioni affinché possano intervenire a favore delle condizioni invivibili, a suo dire, delle carceri del Sud. Il 27enne è detenuto nel carcere di Lecce di Borgo San Nicola da tre anni. Il 18 settembre scorso in seguito a problemi di salute alla schiena e una frattura all’osso sacro fu costretto ad operarsi. “Accusa continuamente dolori - racconta la donna - ha subito un intervento per la ricostruzione delle vertebre. Mio figlio è affetto da una malformazione congenita alla colonna vertebrale, così come aveva diagnosticato il medico. Ma quel che mi domando è come si sia potuto fratturare l’osso sacro”. Angelo Buttazzo è stato ricoverato presso l’ospedale Antonio Perrino di Brindisi, dove ha trascorso quindici giorni. La dimissione è avvenuta il 22 settembre. Il giorno stesso che usciva dal nosocomio brindisino faceva rientro nella sua cella a Lecce. “L’8 ottobre doveva effettuare una visita di controllo a Brindisi - dice Rita Calia - ma non è mai stato portato, nemmeno quando doveva sottoporsi ai raggi x. Quando ho chiesto spiegazioni mi hanno risposto che mio figlio l’avevano portato da un fisiatra a Lecce. E che quello stesso giorno del controllo era stato trasferito nel carcere di Turi, senza un motivo apparente”. Rita Calia si era recata presso la casa circondariale di Lecce sabato 22 ottobre per un colloquio, a Turi, ma quel giorno nessuno ha saputo dire dove si trovasse suo figlio e perché fosse stato trasferito, come racconta la 40enne. Solo ieri, come dice, è stata informata delle condizioni di suo figlio e di dove si trovava. Il carcerato necessita, secondo la madre, di assistenza continua e di almeno dieci giorni di fisioterapia. Prato: troppi detenuti e poche guardie, il carcere sta per scoppiare Il Tirreno, 25 ottobre 2011 Il carcere sta per scoppiare. Potremmo sintetizzarla così la situazione che emerge dalla casa circondariale della Dogaia, che versa in condizioni precarie, con carenza di personale e esubero di detenuti. I pesanti tagli alle risorse destinate alla struttura, coniugati al blocco delle assunzioni per il personale di polizia penitenziaria, stanno alimentando la tensione sociale tra le mura del carcere, che potrebbe sfociare - così dice il delegato sindacale della Cgil per la polizia penitenziaria Donato Nolè - nei prossimi giorni, in forme di protesta clamorose e inaspettate. “Venti giorni fa 173 membri (su 225) del personale della polizia penitenziaria hanno sottoscritto un documento di denuncia sulle condizioni della casa circondariale di Prato - spiega - Ad oggi, purtroppo non abbiamo ancora riscontrato l’attenzione di nessuno. La situazione sta diventando esplosiva però e se le cose non cambieranno, saremo costretti ad organizzare forme di protesta inusuali rispetto al tipo di ruolo che ricopriamo”. Proteste, che potrebbero estendersi anche in altre strutture della Toscana, “perchè Prato non è l’unica realtà di questo tipo”. I numeri, lasciano in effetti poco spazio all’immaginazione: sono 736 i detenuti presenti per una capienza massima di 476 unità, 24 sono invece le celle che ne ospitano 4, due in più rispetto alla capienza massima adibita alla superficie di 12 metri quadrati; 340 sarebbe il numero necessario di operatori della polizia penitenziaria se i detenuti fossero 476, ma il rapporto attuale sta a 225 operatori su 736 detenuti. A tutto ciò si sommano i problemi relativi alle condizioni igienico - sanitarie. “Per novanta giorni, praticamente tutta l’estate - dice ancora Nolè - non vi è stata la possibilità di cambiare le lenzuola dei letti. Lascio solo immaginare la situazione di una cella piccola, nel periodo estivo, che ospita quattro detenuti in queste condizioni”. “È in gioco la salute e il benessere di tutti - continua - La tensione l’avvertiamo anche noi poliziotti, costretti a lavorare in condizioni scandalose senza che nessuno ci ascolti”. I problemi sorgono anche sul fronte della manutenzione ordinaria, dalla mancanza dei neon nelle celle, all’impossibilità di salvaguardare la struttura “sempre di più in condizioni degradanti”. Il segretario della Funzione pubblica Cgil, Giovanni Iorio, parla di “realtà sguarnita dei servizi fondamentali per la convivenza civile”, mentre nella casa circondariale si intensificano le assemblee e le riunioni in preparazione di giornate che si preannunciano incandescenti. Napoli: Uil-Pa; tentata evasione da Poggioreale, detenuto si frattura le gambe Ansa, 25 ottobre 2011 “Intorno alle 11.45 un detenuto ristretto nel padiglione Roma del carcere napoletano di Poggioreale ha tentato di evadere scavalcando la doppia cinta interna”. Lo rende noto Eugenio Sarno, segretario generale della Uilpa, sindacato dei lavoratori penitenziari. “A.S. - riferisce Sarno - è riuscito a eludere la sorveglianza durante l’ora d’aria fruita al campo di calcio ed è riuscito a scavalcare il primo muro di cinta. Giunto nell’intercinta e in sommità del secondo muro è saltato negli ambienti del prospiciente magazzino vestiario del Provveditorato regionale, che dà sulla strada davanti al palazzo di Giustizia. Nel salto, però, il detenuto ha riportato fratture agli arti inferiori ed è stato, quindi, riportato in istituto e ricoverato dove si trova in attesa di cure sanitarie”. Caltagirone (Ct): fuori pericolo il detenuto che ha tentato d’impiccarsi La Sicilia, 25 ottobre 2011 È definitivamente fuori pericolo, tant’è che è stato trasferito dalla Rianimazione (dove era stato ricoverato in prognosi riservata e dove i sanitari si sono adoperati per salvarlo) a un altro reparto dell’ospedale “Gravina”, il 37enne catanese che, la settimana scorsa, alle 13,30, nel carcere di Caltagirone in cui era detenuto, aveva cercato di suicidarsi ingerendo del detersivo liquido e impiccandosi dopo avere legato un lenzuolo alle sbarre delle finestra del bagno e avere allontanato - lui che è alto 1,60 metri, mentre la distanza della finestra dal suolo è superiore di una decina di centimetri - lo sgabello su cui era salito. L’uomo era stato salvato dal provvidenziale intervento di un agente di polizia penitenziaria che, avvertito da un compagno di cella del 37enne, aveva sorretto insieme a questi il corpo dell’uomo, tagliando il cappio, praticando le azioni di primo soccorso e lanciando l’allarme. A sottolineare il buon funzionamento della “macchina” dei soccorsi all’interno della struttura penitenziaria, è stato il Garante per i detenuti, il senatore Salvo Fleres. Bologna: la Laganà eletta Garante dei detenuti, ma si scatenano le polemiche La Repubblica, 25 ottobre 2011 Neanche il tempo di essere nominata e la nuova Garante per i detenuti viene travolta dalle polemiche. Il nome scelto dal consiglio comunale, non senza problemi interni alla maggioranza, è quello della psicologa Elisabetta Laganà, eletta alla terza seduta . Nella rosa di nomi discussi c’era anche quello di Nello Cesari, ex provveditore regionale alle carceri. Nome gradito al Pdl. Impegnata da vent’anni come volontaria alla Dozza, Elisabetta Laganà dal 2009 è anche presidente della confederazione nazionale volontariato giustizia. A trascinare la sua nomina nella bufera è però un altro ruolo: quello di giudice onorario del tribunale di sorveglianza. Per il leghista Manes Bernardini, che ne ha chiesto le immediate dimissioni, si tratta, infatti, di un incarico incompatibile con quello di garante dei diritti dei detenuti. I sostenitori della nomina spiegano di essere stati a conoscenza del fatto che la psicologa fosse anche giudice onorario, visto che era scritto nel suo curriculum e che comunque questo ruolo verrà abbandonato. La nuova garante da parte sua conferma di voler lasciare la poltrona al tribunale di sorveglianza, ma l’intenzione non basta a placare le polemiche. Polemiche innescate dall’associazione Papillon attiva da anni per la difesa dei diritti dei detenuti. Per il responsabile regionale dell’associazione “il garante non può o non può essere stato una controparte dei detenuti”. Detenuti che a Bologna non hanno un garante da quando il commissario Anna Maria Cancellieri nell’estate del 2010 non rinnovò l’incarico dell’avvocato Desi Bruno. Inizialmente, poche settimane fa, il Pd bolognese propose il nome del ex questore Giovanni Pipitone. In quel caso a sbarrare la strada alla nomina furono Sel e alcuni esponenti dello stesso Pd. Roma: nove detenuti di Rebibbia al lavoro per il call center dell’ospedale Bambin Gesù Agi, 25 ottobre 2011 Un accordo tra il ministero della Giustizia e l’ospedale pediatrico romano Bambin Gesù ha permesso a nove detenuti del carcere di Rebibbia di lavorare per il servizio di prenotazioni del nosocomio. Si tratta di un servizio destinato ad allargarsi ad altri detenuti nei prossimi mesi la cui fase di sperimentazione è partita il 6 settembre scorso. I nove detenuti, tutti con condanna definitiva medio - lunga lavorano per conto di un consorzio che fornisce al Bambin Gesù il servizio di call center al centro unico di prenotazioni. I detenuti lavorano dal lunedì al venerdì e il sabato mattina fino alle 13. Al momento riescono a coprire già 8il 20% dell’interno volume di prenotazioni telefoniche dell’ospedale Bambin Gesù. “L’ospedale Bambin Gesù - ha spiegato il presidente del nosocomio, Giuseppe Profiti - ogni anno ha un volume di 1.100mila prenotazioni e di queste 300mila sono telefoniche. Inoltre negli ultimi tempi si è registrato un innalzamento dei tempi medi di attesa e per questo c’era una necessità di incrementare il servizio”. Il direttore del carcere di Rebibbia, Carmelo Cantone ha inoltre spiegato che il carcere romano non è nuovo a questi tipi di accordi con enti esterni per l’utilizzo di detenuti nel mondo del lavoro. Sono infatti tuttora in corso i servizi lavorativi forniti dai detenuti per conto di Telecom e Autostrade per l’Italia. “Questo nuovo committente - ha spiegato il direttore Cantone - esprime un tipo di bisogno diverso e cioè quello di aiutare le famiglie che chiamano da casa per prenotare le visite. Noi siamo convinti che il lavoratore detenuto può mettere in campo una sensibilità particolare svolgendo un lavoro concretamente utile all’esterno, competitivo e soddisfacente”. “Vogliamo rivoluzionare - ha spiegato nel corso della conferenza stampa il sottosegretario alla Giustizia, Elisabetta Alberti Casellati - il concetto di carcere ben consapevoli che ognuno deve pagare il proprio debito ma deve anche aprirsi ad una speranza di inserimento a pieno titolo nella vita sociale. C’è forte preoccupazione per l’emergenza del sovraffollamento ma che per quelli che sono gli spazi rieducativi”. “Questa volta il carcere ha detto Franco Ionta, capo del Dap da dimostrazione di essere in collegamento con la società esterna. Offrono un servizio per il cittadino svolgendo un’opera importante e meritoria”. Comunicato stampa dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù Ottimizzare le prestazioni del Centro Unico di Prenotazione dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù per garantire un servizio sempre migliore ai piccoli pazienti e alle loro famiglie offrendo, al contempo, una nuova occasione a detenuti che altrimenti rischierebbero di restare esclusi dalla società e dal tessuto produttivo. In quest’ottica e in un contesto che vede l’impegno del Bambino Gesù declinato su diversi fronti sociali - oltre quelli della ricerca e della cura - va collocato l’accordo firmato tra l’Ospedale, la Casa Circondariale Rebibbia a Roma e il consorzio Sol.Co per il reinserimento dei detenuti e presentato oggi, 25 ottobre 2011, presso il Ministero della Giustizia. La convenzione, della durata iniziale di un anno e sottoscritta il 18 luglio scorso, ha preso il via con la fase di formazione dei detenuti precedentemente selezionati. Le lezioni, tenute da personale esperto del Bambino Gesù, hanno coinvolto in totale 11 detenuti (due dei quali con la funzione di supervisori) per tre settimane (dal 16 agosto al 5 settembre 2011). Dopo l’apposito iter formativo, 4 detenuti (due impegnati la mattina, due il pomeriggio, in turni di 5 ore e 30 minuti ciascuno, dal lunedì al sabato mattina) hanno già iniziato a prestare servizio attraverso le postazioni - fornite dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù - dotate di specifiche apparecchiature tecniche e approntate all’interno della Casa Circondariale di Rebibbia. Un accordo che da un lato offre ai detenuti selezionati una valida possibilità di reinserimento lavorativo retribuito, dall’altro permette all’Ospedale di implementare uno dei canali di accesso, quello telefonico che si affianca alle prenotazioni online attraverso il Portale www.ospedalebambinogesu.it, fondamentale per un corretto funzionamento della struttura e per un ulteriore miglioramento in termini di qualità dei servizi erogati. Ogni anno il Centro Unico di Prenotazione del Bambino Gesù gestisce complessivamente 150.000 contatti e oltre 210.000 prenotazioni a fronte di un milione di prestazioni ambulatoriali erogate. Verona: anche il carcere al convegno per la settimana europea della democrazia locale di Margherita Forestan (Garante comunale dei detenuti) Ristretti Orizzonti, 25 ottobre 2011 Sabato 22 ottobre, in sala Gozzi a palazzo Barbieri, si è tenuto il convegno “I diritti umani a livello locale. L’esperienza di Verona”, promosso dalla Presidenza del Consiglio comunale e dal Difensore Civico del Comune di Verona. L’incontro rientra nell’ambito della “Settimana europea della Democrazia locale 2011” indetta dal Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa. Nel corso del convegno sono intervenuti il presidente del Consiglio comunale di Verona Pieralfonso Fratta Pasini, l’assessore ai Servizi sociali del Comune di Verona Stefano Bertacco, il Difensore civico Stefano Andrade Fajardo e la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Margherita Forestan, che hanno illustrato le iniziative realizzate a Verona. I progetti sviluppati in ambito europeo sono stati illustrati da Maria Baroni in rappresentanza del Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa. Presente all’ incontro anche Stefano Tonellotto dell’associazione “Gioventù per i Diritti umani”. La Garante ha affrontato il tema dei diritti umani a livello locale all’interno della Casa circondariale di Verona. Di seguito un breve estratto dall’intervento “L’isola che non c’è - Il carcere di Montorio”. “Il problema principale, quando si parla di diritti, è quello della loro esigibilità e quindi della loro possibilità di essere qualcosa di reale ed effettivo - ha detto Forestan - prevedere un diritto è dunque solo una premessa, per quanto di fondamentale importanza, di un lungo e mai del tutto compiuto percorso, vero per tutti, ma più che mai per quanti sono privati della libertà personale. La persona detenuta infatti, così come quella in detenzione alternativa al carcere, o in stato di fermo, non è più in grado di effettuare in modo diretto una rivendicazione e non solo in sede giudiziaria. Si tratta di una persona senza voce. Non mancano normative quanto a diritti per le persone a vario titolo ristrette, il problema è che la realtà penitenziaria riesce strutturalmente a garantirli pressoché a nessuno. La rieducazione alla legalità per quanti l’hanno infranta, perché questo è il senso unico della pena, non è oggi attuabile negli oltre 200 istituti di pena salvo che per Bollate, nato come modello ideale di carcere oltre 10 anni fa e rimasto ad oggi prototipo unico. Quanto alle 11(?) nuove carceri progettate, quale sarà il modello? Saranno abbattuti altrettanti fatiscenti istituti?”. “Il 5° diritto della Dichiarazione Universale parla di “nessuna tortura”, punizioni crudeli o degradanti, trattamenti inumani: c’è molto lavoro da fare - ha spiegato la Garante - torna il problema del sovraffollamento da una parte e del drastico taglio dei finanziamenti dall’altra. A Verona, inoltre, abbiamo un settore di isolati: secondo le tante ricerche fatte un isolamento prolungato, ancorché tra altri isolati, può produrre danni fisici e mentali irrecuperabili. Chi è isolato non lavora, non ha accesso ai corsi di formazione specialistica e si muove su spazi molto più ridotti rispetto alle persone detenute comuni. È questo un tema sul quale in qualità di Garante sto muovendomi. ma un grazie va ancora una volta al mondo del volontariato che molto fa per questa parte di popolazione. Tortura potrebbe essere anche il non lavoro, l’ozio forzato. Personalmente lo ascriverei tra le torture più insopportabili. Solo il lavoro può ridare dignità, speranza, ed è quello che tutte le persone detenute invocano”. “Tutti uguali davanti alla legge” è il 7° diritto non negoziabile. Diritto davvero negato: per gli imputati stranieri mancano i traduttori nei tribunali, il linguaggio è quello giuridico, spesso incomprensibile - ha sottolineato Forestan - non si specificano i contenuti degli articoli di legge, la difesa degli avvocati d’ufficio è costruita sul momento e ancora molto ci sarebbe da dire. Il 9° diritto “Nessuna detenzione ingiusta”, nel senso che nessuno può essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato. Al 10° il “diritto a un processo”. Vediamoli insieme. Offro un dato: il 45% delle persone oggi detenute in carcere e sono in Italia 67.500 circa, è in attesa di processo. Le misure alternative alla detenzione, soprattutto alla conclusione dell’iter processuale troppo scarsamente applicate. Si invocano nuove leggi, ma non servono nuove leggi , l’invocare nuove leggi ha il solo significato di dimostrare che non si è stati capaci di applicare quelle esistenti. Le leggi dunque ci sono, semplicemente applichiamole!”. “Nessuno può toglierci un diritto” recita l’articolo 30 e allora ci si chiede anche se “si può detenere una persona in nome della sicurezza di altre?” Questo è un tema, una domanda, che spero ci accompagnerà , da oggi, con più determinazione. C’è molta strada da percorrere verso l’isola comune, non pensiamo di arrivare ad Halden, la più umana delle prigioni al mondo, un qualcosa a 5 stelle nei pressi di Oslo, ma tornando da dove sono partita, ritengo che anche di utopie c’è bisogno e chiuderei con un’indicazione per me: “seconda stella a destra, questo è il cammino e poi avanti fino al mattino…” “E non si tratta né di un romanzo né di una canzonetta, ma di impegno per dare forma compiuta ai compiti assegnati da questa Amministrazione alla figura del Garante - ha concluso Margherita Forestan - soprattutto perché questo ruolo si consolidi e rafforzi, trovi collaborazione, quale servizio di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale”. “Uno dei principali diritti sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite - ha detto il presidente del Consiglio comunale Pieralfonso Fratta Pasini - è sicuramente il diritto alla democrazia, ovvero la possibilità di partecipare al governo del nostro Paese e della nostra città non solo nel momento delle elezioni ma verificando poi il lavoro svolto dagli amministratori, avanzando proposte e avendo la possibilità di un confronto continuo e costruttivo con l’eletto. La Settimana europea della Democrazia locale è l’occasione che spinge noi amministratori a compiere una riflessione sulle modalità con cui possiamo permettere, anche a livello locale, che i cittadini facciano valere questo diritto. Per quanto riguarda il Consiglio comunale di Verona, in questi anni molto è stato fatto per implementare, attraverso l’uso delle tecnologie telematiche, la democrazia digitale. È stata data quindi la possibilità ai cittadini non solo di partecipare tramite internet alle sedute del Consiglio comunale o ai convegni come quello di oggi, ma anche di accedere a tutte le informazioni al fine di promuovere la trasparenza tra elettore ed eletto”. “Viviamo in una società dove spesso si parla di sicurezza ma quasi mai di sicurezza sociale - ha spiegato l’assessore ai Servizi sociali Stefano Bertacco - tema che invece sta molto a cuore a questa Amministrazione che in questi anni grazie alle consulte ha cercato di collaborare e lavorare insieme alle associazioni del territorio per garantire a livello locale la difesa dei diritti umani. Con la Consulta delle persone con disabilità è stato portato avanti un percorso di arricchimento reciproco che ha permesso di creare una rete sociale per affrontare diverse problematiche, una su tutte il trasporto. Grazie ad un coinvolgimento con le cooperative sociali infatti è stata creata una centrale operativa che gestisce la circolazione dei pulmini predisposti a questo servizio, eliminando tempi di attesa e disguidi. Con la Consulta della Famiglia abbiamo lavorato per la promozione dei nuclei familiari elaborando diversi progetti tra i quali “W gli sposi”, un momento di accompagnamento e di discussione per le coppie. Stiamo inoltre organizzando dei “Corsi di grammatica umana” e un convegno per l’elaborazione di proposte che agevolino le famiglie. La crisi economica ci impone di rivedere delle scelte e trovare nuove soluzioni che non vadano però a toccare i diritti maturati e i servizi ottenuti in questi anni. Infine abbiamo istituito il Tavolo dei saggi e lo Sportello sociale che oggi conta più di seicento contatti mensili e ci permette di dare risposte immediate e di far conoscere i servizi esistenti”. Firenze: a Sollicciano asta benefica per completare la ludoteca dei figli di detenuti Redattore Sociale, 25 ottobre 2011 Sabato prossimo l’istituto penitenziario fiorentino ospiterà una vendita straordinaria di quadri di pittori toscani e di interanti dell’Opg di Montelupo. Il carcere di Sollicciano ospiterà, sabato prossimo dalle 14 alle 18, un’asta benefica di quadri di pittori toscani il cui ricavato servirà a completare la ludoteca che ospiterà i figli dei detenuti. Accanto a quelli realizzati dagli artisti professionisti ci saranno anche i lavori del gruppo “Artbrut”, realizzati da alcuni pazienti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo e quelli di alcuni professionisti che dipingono nei ritagli di tempo. “I figli dei detenuti in visita ai genitori - ha sottolineato l’assessore all’istruzione del comune di Firenze Rosa Maria Di Giorgi - potranno giocare e godere di un contatto meno drammatico con l’ambiente carcerario. I volontari di Telefono Azzurro che ci lavorano potranno, attraverso il gioco, instaurare un rapporto di fiducia con i bambini, aiutandoli a capire l’esperienza che sta vivendo il genitore e cercando al contempo di stemperare paure e tensioni. Servirà a rinsaldare i rapporti tra figli e padri, spesso messi a dura prova dall’esperienza del carcere”. “È necessario che questa frattura sia meno dolorosa possibile - ha aggiunto Di Giorgi - questi traumi vengono sentiti molto dai bambini. Per questo cerchiamo, con tutti i limiti del regime di carcerazione, di creare luoghi a misura di bambino”. Avellino: poesia e scrittura dietro le sbarre del carcere di Bellizzi www.irpinianews.it, 25 ottobre 2011 L’Istituto Tecnico per Geometri “Oscar D’Agostino”, in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Avellino, il Comitato Soci Coop di Avellino e la Casa Editrice Scuderi, organizza per mercoledì 26 ottobre 2011, con inizio alle ore 10, la manifestazione “Versi gesti e parole, dal silenzio nel silenzio”. L’iniziativa, destinata ai 130 detenuti che frequentano il corso di studi per Geometri presso l’istituto di Bellizzi, intende promuovere la poesia e la scrittura quali mezzi per conquistare nuovi orizzonti e nuovi livelli di dignità. Parteciperanno all’incontro gli autori irpini: Paola De Lorenzo Ronca, Amalia Leo, Erminia Bosnia, Rosa Battista, Giuseppe Vetromile, Antonietta Gnerre, Monia Gaita, Maurizio Picariello, Angelo Trunfio. Alla manifestazione prenderà parte anche una rappresentanza dell’A.S. Avellino 1912, che porterà in dono agli studenti - detenuti maglie e gadget dell’Avellino. Al termine gli organizzatori incontreranno la stampa presso gli uffici della Direzione della Casa Circondariale. Brescia: Volontariato e Garante dei detenuti portano in carcere teatro e musica classica Qui Brescia, 25 ottobre 2011 Il teatro e le sue storie tornano in carcere per il progetto, riservato in prima istanza agli ospiti degli istituti penitenziari di Brescia, sulla genitorialità in collaborazione con l’Associazione Carcere e Territorio. Questa volta lo spettacolo del Teatro Telaio, “Persi e ritrovati” è dedicato alla casa circondariale maschile di Canton Mombello, a Brescia, per contribuire a dare la possibilità ai papà detenuti di incontrare i loro figli in un contesto più famigliare. La scelta del Telaio di inaugurare in carcere la sua principale rassegna dedicata alle famiglie ha due motivazioni: da una parte quella di contribuire ad una maggiore serenità degli incontri tra genitori detenuti e figli bambini e quella di sensibilizzare la cittadinanza a questo tema. La rappresentazione è riservata esclusivamente agli ospiti di Canton Mombello. La repliche aperte alla cittadinanza tutta cominceranno invece regolarmente domenica 6 novembre. Si tratta di una storia buffa per parlare di mondi sconosciuti che si incontrano, della difficoltà di comunicare e comprendere chi è altro da noi, di un oceano da solcare per far crescere in noi affetto ed amicizia. E così diventare grandi. Come nasce un dialogo? Sono così importanti le parole? Tra mille gesti che restano incompresi e piccole gag surreali, continui fraintendimenti, alcuni enormi, altri apparentemente insignificanti, tra mille avventure e tempeste, i due arriveranno alla fine del loro viaggio. Ma un viaggio può veramente avere una fine? La regia e la drammaturgia sono di Angelo Facchetti, in scena Michele Beltrami e Paola Cannizzaro, per la scenografia di Francesco Levi. La musica classica entra in carcere Si intitola “Fantasia veneziana”, il concerto di musica classica in programma venerdì, 28 ottobre, alle 14,30 nel penitenziario bresciano di Verziano e, in replica, alle 16 a Canton Mombello. L’iniziativa è stata ideata dal garante dei detenuti Emilio Quaranta, che ha coinvolto nel progetto i giovani musicisti allievi del Conservatorio cittadino “Luca Marenziao”: Un concerto della durata di 45 minuti dell’orchestra d’archi sulle note di Antonio Vivaldi. Si tratta di una assoluta novità per le realtà carcerarie di Brescia e, anche, per gli studenti del Conservatorio che avranno questa occasione unica di portare la propria passione, la propria bravura, la propria musica a servizio di chi, magari, non ha mai potuto assistere ad un concerto di musica classica. In questi giorni, sempre per gli ospiti delle strutture penitenziarie bresciane, si svolge anche un’altra iniziativa, questa volta a carattere teatrale, che porta tra le mura delle carceri un progetto sulla genitorialità dedicato ai papà detenuti. La presentazione dell’iniziativa si è svolta in Loggia alla presenza dei promotori e del sindaco di Brescia Adriano Paroli che, nell’occasione, ha ribadito la volontà dell’amministrazione a realizzare una nuova casa circondariale a Brescia per supplire al cronico problema del sovraffollamento delle due carceri già esistenti sul territorio. Il numero uno in Loggia ha spiegato però che contro questa idea, per la quale, in fase di stesura del Pgt è stata individuata un’area adeguata e vicina alla struttura di Verziano, si pone il blocco dei finanziamenti ministeriali. La Loggia ha annunciato di voler acquisire il terreno (passato da agricolo ad edificabile) nel giro di 18 mesi e così guadagnare la “pole position” a Roma per ottenere i contributi dello Stato. Una possibilità salutata con favore sia dal garante delle carceri Emilio Quaranta sia dalle direttrici delle carceri cittadine e che porrebbe fine ad una situazione ai limiti della vivibilità, soprattutto nella ottocentesca struttura di via Spalti San Marco che attualmente, a fonte di una capacità di 270 detenuti, ne ospita invece 527. Latina: “Dal testo alla scena, l’esempio Macbeth”; si conclude laboratorio teatrale con i detenuti Ristretti Orizzonti, 25 ottobre 2011 Mercoledì 26 ottobre alle ore 11,00 alla Casa Circondariale di Latina sarà presentato “Dal testo alla scena: l’esempio Macbeth” a cura di Maria Sandrelli e Cecilia Muti, una performance teatrale aperta, uno studio sul teatro che si pone a conclusione di un ciclo di incontri di pratica teatrale con i detenuti della sezione maschile dell’Istituto di Latina. La performance è la messa in prova di un lavoro nel suo farsi, una composizione tra l’improvvisazione jazzistica e il dietro le quinte prima di andare in scena. Uno spettacolo senza spettacolo dove il palcoscenico è il campo segnato dell’incontro. Adesso e qui. Mercoledì 26 ottobre ore 11,00. Casa Circondariale di Latina. Via Aspromonte 100. A cura di Maria Sandrelli e Cecilia Muti. Progetto Officina di Teatro Sociale. Port Royal 2011. Siria: anche gli ospedali diventano luoghi di tortura di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 ottobre 2011 Mentre gran parte della comunità internazionale esulta in modo smodato e incivile per l’uccisione dell’ex leader libico Muammar Gheddafi, in Siria le forze di sicurezza di Bashar al-Assad proseguono indisturbate nella repressione del movimento per le riforme. Non solo le ambulanze vengono prese di mira, come quella della foto, che il 7 settembre a Homs è stata colpita da 12 proiettili. Persino gli ospedali non sono più luoghi sicuri, almeno quelli statali, come denuncia un rapporto odierno di Amnesty International che prende in esame i centri ospedalieri di stato di Banias, Homs e Tell Kalakh e l’ospedale militare di Homs. Anziché curare i feriti, gli operatori sanitari partecipano alle torture, alla faccia del Giuramento di Ippocrate. Le forze di sicurezza scorrazzano nelle corsie e portano via i ricoverati, anche intubati. Mentre negli ultimi mesi il numero dei feriti da arma da fuoco nel corso delle manifestazioni in tutto il paese aumentava vertiginosamente, da maggio i ricoveri nell’ospedale militare di Homs sono diminuiti. Un segnale, questo, che gli oppositori ritengono più sicuro non curarsi o farlo in luoghi diversi dagli ospedali di stato: strutture improvvisate da campo, a rischio costante di raid e a corto di medicinali, o per chi ne ha le possibilità, le cliniche private. Proprio queste ultime si trovano in un dilemma. Poiché le scorte di sangue sono reperibili solo nella Banca centrale del sangue, controllata dal ministero della Difesa, una richiesta di sangue significa matematicamente consegnare il destino di un ricoverato al carcere e alle “cure” delle forze di sicurezza. Nelle carceri siriane il numero dei morti è salito a oltre 100. Le testimonianze fornite dal rapporto di Amnesty International sono agghiaccianti. Ad esempio, un medico in servizio presso l’ospedale militare di Homs ha riferito di aver visto almeno quattro colleghi e oltre 20 infermiere compiere abusi sui pazienti. All’ospedale di stato di Tell Kalakh, il 22 agosto, è stato portato un uomo privo di sensi dopo un pestaggio subito dalle forze di sicurezza. Un testimone lo ha notato al pronto soccorso: “C’erano sette o otto uomini della sicurezza, alcuni coi fucili, e infermiere vestite di bianco che lo circondavano. Ha aperto gli occhi e ha chiesto dove si trovasse. Immediatamente gli sono saltati addosso e l’hanno picchiato”. Il 7 ottobre le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nell’ospedale al-Birrwa al-Khadamat di Homs, alla ricerca di un presunto comandante di un gruppo che si opporrebbe con le armi al governo. Non avendolo trovato, hanno arrestato 18 pazienti ricoverati per ferite di vario tipo. Un operatore sanitario presente sul posto ha riferito ad Amnesty International di aver visto almeno un paziente venire portato via. Per farlo, lo avevano strappato dalla macchina dell’ossigeno. Anche gli operatori sanitari vengono presi di mira dalle forze di sicurezza, alcuni per aver curato i feriti, altri perché sospettati di aver preso parte alle manifestazioni o di aver fatto riprese filmate. Il 7 agosto, una ventina di soldati e agenti delle forze di sicurezza hanno fatto irruzione in un ospedale governativo nel distretto di Homs, arrestando numerosi operatori sanitari. Uno di essi ha poi raccontato ad Amnesty International come si sono svolti gli interrogatori, durante i quali alcuni suoi colleghi sono stati brutalmente picchiati: Ci chiedeva “Volete essere torturati o volete parlare?”. Ha accusato me e i miei colleghi di aver curato i feriti senza avvertire le autorità e mi ha chiesto i loro nomi. Feriti che rischiano la vita per evitare di essere torturati durante il ricovero. Medici e infermieri costretti a scegliere se curare i feriti o pensare alla propria salvezza. Di fronte a questa nuova denuncia, il silenzio della comunità internazionale è ancora più vergognoso.