Diario di Elton: “Ultimo giorno dentro” Redattore Sociale, 24 ottobre 2011 Domani Elton uscirà dal carcere, dopo aver scontato quasi 15 anni. “La melanconia mi assale al pensiero di abbandonare la redazione”. Oggi pomeriggio, dopo due ore di riunione nella redazione di Ristretti Orizzonti, il tintinnio delle chiavi ci ha ricordato che era l’ora di tornare in reparto. Mentre tutti i presenti si alzavano, mi sono guardato intorno invaso dalla melanconia al pensiero che oggi pomeriggio darò uno sguardo d’addio alla redazione di Ristretti. Nove anni fa sono entrato in questa stanza con l’aria di uno reso quasi incapace di comunicare da cinque anni di alta sicurezza. Avevo occupato un angolo, dove un vecchio computer con la sua tastiera ingiallita ha memorizzato i miei primi testi. Poi le riunioni mi hanno fatto riscoprire l’amore per le discussioni e la passione delle idee. “Dai Kalica, sei sempre ultimo!” mi rimprovera l’agente dalla porta d’ingresso. Guardo le copertine appese sui muri. Non mi serve contare per sapere quante ne abbiamo stampate finora. In questi giorni stiamo completando il novantaduesimo numero, che come al solito ci ha costretti a lavorare tanto. E queste mura ora mi ricordano quanta fatica, quanta sofferenza, quanta galera è stata analizzata e raccontata in quest’aula. Attualmente a frequentare la redazione e a lavorare sono una trentina di detenuti, ma in questi anni ho visto centinaia di persone passare di qui, centinaia di vite e migliaia di anni di galera che hanno offerto al mondo di fuori una finestra per vedere cosa succede, chi e come ci finisce, qui dentro. Convinti di fare la cosa giusta, abbiamo lavorato trascorrendo insieme tanto tempo quanto, ora che ci penso, non ne avevo trascorso nemmeno con la mia famiglia. Esco dall’aula. La porta di ferro sbatte rumorosamente dietro le mie spalle, senza però riuscire a chiudervi dentro anche la mia melanconia. Mi assale un dubbio. Sarò mai in grado di parlare, di scrivere ancora, senza mettere piede in redazione? Ho sempre sostenuto che nessuno scrittore o giornalista sarebbe capace di raccontare bene il carcere senza averlo vissuto. Ora invece comincio a nutrire il sospetto che forse presto perderò il contatto con la vita della galera e non sarò più in grado di raccontarla. Forse, là fuori, l’entusiasmo di qualche nuova vita mi assorbirà totalmente e non dovrò più scrivere di carcere. Tuttavia mi rammarica l’idea che, fuori dal carcere, difficilmente troverò uno spazio così interessante come questa redazione, dove lavorano persone provenienti da vari ceti sociali e da ogni parte del mondo e insieme collaborano con la tolleranza e la generosità che sa assumere chi ha fatto abbastanza galera da riconoscere l’umanità nelle persone che lo circondano, anche se sono diverse, anche se hanno fatto cose mostruose. Certo, forse perderò la capacità di scrivere, forse non troverò più uno spazio di discussione così interessante, ma conserverò per sempre la memoria delle persone conosciute qui dentro e ricorderò sempre gli sforzi che si fanno qui per conservare la dignità e per imparare a credere nelle forme più alte dell’esistenza umana, che sono l’uguaglianza, la solidarietà e la fiducia nel prossimo. Elton Kalica, in collaborazione con Ristretti Orizzonti Elton è un 35 enne albanese, detenuto nel carcere Due Palazzi di Padova con una condanna a 14 anni e 8 mesi per sequestro di persona a scopo di estorsione (senza armi e durato due giorni). Il prossimo 25 ottobre finirà di scontare la sua pena e tornerà libero. Firma storica della rivista Ristretti Orizzonti, attende di sapere se sarà rimpatriato in Albania o se potrà restare in Italia e lavorare da esterno per Ristretti. Ha deciso di raccontare su “Redattore sociale” i suoi ultimi giorni dentro. Quei fornelletti che permettono un po’ di libertà Il Mattino di Padova, 24 ottobre 2011 In un momento in cui per descrivere la situazione delle carceri si devono usare gli aggettivi più cupi, è stata presentata da alcuni parlamentari una proposta di legge che sembra toccare un tema molto “leggero”: la distribuzione dei pasti. L’idea è che vengano costruiti dei refettori, (già previsti, per altro, dal Regolamento penitenziario) in cui i detenuti mangino insieme, e quindi non ci sia più il carrello che dalle cucine arriva ai piani e il detenuto “portavitto” che passa attraverso le sbarre il pranzo e poi la cena. Via naturalmente anche i fornelletti a gas, che adesso permettono a chi ha un po’ di soldi di cucinarsi qualcosa che “sappia di casa”, e a chi fa spesso i colloqui di riscaldarsi il cibo che i famigliari gli portano. Ma è davvero così “innocua” una simile proposta di legge? Tanti detenuti la pensano diversamente. Una proposta di legge che ci complicherebbe la vita È di pochi giorni fa la proposta di legge del deputato del Pdl Rocco Girlanda, alla quale hanno già aderito 18 parlamentari della maggioranza, che propone la creazione di refettori comuni all’interno delle carceri e di conseguenza l’eliminazione dei fornellini dalle celle. Alcuni dei vantaggi elencati dal deputato sarebbero i seguenti: eliminando le bombolette, che talvolta vengono usate per sniffare il gas, per stordirsi, per riuscire a dormire o anche per suicidarsi, si aumenterebbe di molto lo “standard di sicurezza” degli istituti; si ottimizzerebbe la gestione di alcune operazioni potenzialmente critiche per il lavoro degli agenti e per la stessa sicurezza dei detenuti e si favorirebbe la socialità e il loro recupero, consentendo alla Polizia penitenziaria di osservare meglio il loro comportamento; inoltre si eliminerebbe la disparità tra reclusi, in quanto non tutti hanno soldi per acquistare cibi dal sopravvitto. Il deputato suggerisce che nei progetti delle carceri ancora da costruire vengano inseriti anche i refettori, mentre per le carceri attualmente esistenti si potrebbero “con facilità riconvertire spazi non utilizzati, come magazzini o palestre”. Bisognerebbe che qualcuno informasse il deputato che se in certi posti i magazzini e le palestre non vengono utilizzati come tali, è perché sono impiegati come camerate per ospitare i detenuti che non trovano posto nelle celle troppo piene. Ma nel caso si trovassero altri spazi per dormire, sarebbe bene forse che le palestre venissero nuovamente utilizzate come palestre e i magazzini come magazzini. Il deputato dice ancora che con i refettori, dove tutti sono costretti a mangiare le stesse cose, si elimina la disparità di trattamento nel mangiare. In pratica quelli che hanno soldi devono mangiare alla stessa maniera di quelli che non ne hanno. È bene che si sappia che quelli che si comprano da mangiare raramente lo fanno per mania di grandezza rispetto a quelli che non se lo possono permettere: il fatto è che il vitto dell’amministrazione è troppo scarso (3,65 € al giorno per tre pasti) e in tante carceri è anche immangiabile La proposta sui refettori è basata anche sul fatto che i fornelli con le bombolette sono pericolosi e tante volte si fa un uso diverso da quello di cucinare, perché c’è chi sniffa gas per stordirsi e qualcuno è pure morto asfissiato. Ma se apriamo il discorso sui suicidi possiamo dire che quelli che si stordiscono con i farmaci (forniti legalmente dall’amministrazione) sono in numero infinitamente più alto di quelli che lo fanno con il gas e tante volte è anche successo che qualcuno sia morto per abuso di farmaci. Se poi parliamo di suicidi, il gas non è il mezzo più usato per togliersi la vita. Nel 2010 ci sono stati 63 suicidi, 53 per impiccagione, 7 con il gas, 2 per avvelenamento da farmaci, 1 tagliandosi le vene. Se qualcuno decidesse di suicidarsi, non sarebbe certo la mancanza del gas che lo distoglierebbe da tale proposito, questo perciò non è un buon motivo per levare i fornelli, ché se così fosse si dovrebbero levare anche le lamette, che potrebbero servire per tagliarsi le vene, i farmaci, e tutto ciò che può essere usato per fare corde, lenzuola, lacci di scarpe, vestiti. Antonio Floris Il prezioso angolo cottura e preparazione cibo in cella Avere un fornello da camping in cella è una grande comodità, considerata anche la qualità e la quantità del vitto delle patrie galere. Soprattutto ora che l’Amministrazione Penitenziaria non sa più dove “raschiare il barile” per continuare a dar da mangiare alle persone detenute che son sempre di più e sempre più povere. Anzi, non avendo il carcere più la concreta possibilità di tenere costruttivamente impegnati molti detenuti (lavoro, corsi, scuola, volontariato), parecchie persone trovano il modo di occupare il tempo che non scorre mai, ingegnandosi nella preparazione per loro e per i loro compagni di cibo, qualche volta pizze o torte “fatte in casa” con artifizi che hanno dell’incredibile visti gli spazi esigui e i mezzi scarsissimi. Purtroppo le carceri continuano ad essere discarica sociale di corpi, e così in questo gran calderone vi sono anche molte persone con l’enorme problema della tossicodipendenza e le patologie ad essa correlate. Questi miei compagni, oltre che gestire la disperazione con psicofarmaci, talvolta completamente scorati da tutto cercano di sballarsi aggiuntivamente aspirando gas e arrivando nel tempo ad abusarne sempre di più, svenendo perdendo coscienza, non accorgendosi così del graduale congelamento dei bronchi in fisici già minati, e trovandovi talvolta la morte. Di certo parte di queste persone tossicodipendenti non dovrebbe essere in carcere, e si dice che siano oltre 20.000. La cosa triste è che non si cerca una soluzione praticabile affinché queste persone non debbano stare in galera a poltrire o ad affinare “le conoscenze” sul tema. No, si annunciano rivoluzioni copernicane relative alle ipotetiche e future nuove carceri, provviste di mensa comune così che non vi sia più il problema della distribuzione del vitto in sezione, ma soprattutto si vorrebbe tendere alla risoluzione del problema delle persone che inalano gas per sballarsi in modo radicale, impedendo a tutti i detenuti di preparare qualcosa di diverso dal vitto giornaliero o di riciclare, migliorandolo un po’, lo stesso. Filippo F. Perché togliere anche quel po’ di autonomia che ci dà un fornelletto? I circa 68.000 detenuti presenti oggi nelle carceri da tempo si aspettano novità dal Ministro della Giustizia, che recentemente è intervenuto a una seduta straordinaria del Senato dedicata a trovare soluzioni al sovraffollamento delle carceri italiane, soluzioni che non si sono però in alcun modo materializzate. Evidentemente, siamo una parte del “popolo” che non interessa, non porta voti e non merita dignità. Sembra che la realtà delle carceri non sia ben conosciuta da molti parlamentari, e quindi ci si accanisce a volte su proposte di soluzioni, che a noi che viviamo quotidianamente la galera sembrano astratte e lontane anni luce dalla realtà. Ora si sta proponendo di creare dei refettori, e di togliere fornelli e bombolette a disposizione, da sempre, dei detenuti, e che ora sono diventati improvvisamente pericolosi e antisociali. Via quindi fornelli e bombolette. Via anche quel po’ di autonomia che ci lascia anche solo il gusto di poterci cibare di qualcosa preparato di persona, da poter condividere con qualche altro detenuto che magari non ha la possibilità di cimentarsi nella cucina. È questo che nessuno valuta, piccole soddisfazioni che riempiono l’animo e staccano la spina dalla situazione dell’essere persone private della libertà. A volte il fornello può bastare anche per farsi un caffè, chi vive oltre le mura un caffè lo può bere ovunque, perché noi non possiamo avere questo piccolo piacere in cella? E perché non possiamo continuare a prepararci qualche piatto che integri il vitto che non sempre è decente come gusto e spesso è anche insufficiente? E così verrebbe a mancare anche la soddisfazione di riscaldarci i cibi che riceviamo dai famigliari in occasione dei colloqui, e questo significa togliere anche a loro la gioia di portarci qualcosa che rappresenta una parte delle tradizioni di casa nostra, che qui non riusciremo per molto tempo a gustare, sia sotto l’aspetto culinario che per quello affettivo, e impedire a noi di ripensare, mentre riscaldiamo il cibo e mangiamo, alle feste e riunioni in famiglia con parenti e amici. Lasciateci allora i fornelli e le bombolette del gas che spesso ci sono utili nei periodi freddi per riscaldare anche un po’ d’acqua per lavarci o anche solo per farci la barba, e magari, prima di prendere qualsiasi decisione che ci riguardi, provate a pensare che nelle medesime condizioni in cui siamo noi potrebbe trovarsi un vostro famigliare. Ulderico G. Giustizia: numeri dal carcere… di Franco Vespignani e Eleonora Farneti Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2011 Le ultime, numerose iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle carceri ci hanno indotto a svolgere una breve analisi sull’argomento e, fra le molte statistiche disponibili sulla situazione degli istituti penitenziari del nostro Paese, ne abbiamo scelte alcune da sottoporre all’attenzione dei lettori, corredandole di confronti con gli altri Stati europei, per proporre qualche riflessione. Le carceri italiane ospitano un numero davvero consistente di imputati, rappresentato da una quota considerevole di detenuti in attesa di giudizio definitivo, pari, nel 2010, al 42,4% del totale dei carcerati e che ha raggiunto punte elevatissime, oltre il 50%, tra il 2006 e il 2008. È chiaro che all’interno della categoria “persone in attesa di un giudizio definitivo” vi sono situazioni assai differenti fra loro (si passa, infatti, dal soggetto appena arrestato che attende il giudizio di convalida, al condannato in appello che ha presentato ricorso in Cassazione): ciò non toglie, però, che per la nostra Costituzione si tratti di persone che si presumono non colpevoli. È quindi ragionevole ritenere che l’elevata percentuale di imputati sul totale dei detenuti rappresenti una patologia del sistema penale. A cosa è dovuto, però, questo fenomeno? È la conseguenza di un eccessivo ricorso alla custodia cautelare, oppure di un sistema di pene troppo blande, tale da far sì che si stia in carcere solo prima di essere definitivamente condannati? Un carcere sempre meno italiano L’aspetto che ormai caratterizza il nostro sistema penitenziario è la crescente e rilevante presenza di detenuti stranieri. Mentre l’aumento di stranieri nei nostri penitenziari non stupisce, poiché è spiegabile con la crescente presenza di immigrati sul territorio nazionale; colpisce assai di più il fatto che gli stranieri rappresentino, nel 2010, il 36,7% della popolazione detenuta, mentre costituiscono soltanto il 7,5% di quella residente in Italia. È anche interessante notare come in appena 8 anni (2002-2010) la popolazione carceraria sia sempre aumentata (tranne che nel 2006, per effetto dell’indulto), ma in modo del tutto disomogeneo tra quella italiana e quella straniera: i nostri connazionali assicurati alla giustizia sono cresciuti del 10%, mentre gli immigrati sono aumentati di quasi del 50%. Quali sono le ragioni di questa sovra rappresentazione degli stranieri nei nostri istituti penitenziari? Il tema è estremamente complesso e, in questa sede, si possono avanzare soltanto alcune ipotesi: il maggior tasso di esclusione sociale che normalmente caratterizza gli “ultimi arrivati” in un paese; l’età media della popolazione immigrata (più bassa di quella della popolazione italiana); la presenza di leggi che penalizzano i reati di cui più frequentemente si macchiano gli stranieri e, al contempo, la scarsa efficacia della repressione dei reati dei “colletti bianchi”, prevalentemente commessi da italiani (ad esempio, corruzione, reati finanziari, grandi evasioni fiscali, ecc. ecc.). Quanto costa un detenuto? È una domanda ricorrente che in molti si pongono. Un detenuto oggi costa, all’intera comunità, circa 113 euro al giorno. Anche se tale costo può suscitare una certa impressione, va chiarito, però, che in tale dato sono conteggiate tutte le spese relative al sistema penitenziario, non solo, per così dire, il “vitto e alloggio” del detenuto, ma tutti i fondi assegnati alle carceri (stipendi del personale, manutenzione delle strutture, investimenti, ecc.), che vengono utilizzate per far funzionare l’intero sistema. Tra le diverse spese che compongono quel costo medio per detenuto, e che contribuiscono a incrementarlo, vanno anche segnalate quelle derivanti da alcuni compiti che in Italia, diversamente che all’estero, sono assegnati all’amministrazione penitenziaria e non ad altri corpi dello Stato (si pensi, ad esempio, al servizio di traduzione dei detenuti nei tribunali per i processi o negli ospedali per i ricoveri). C’è anche da sottolineare che il costo medio ha registrato una punta nel 2007 (198,44 euro/giorno), cui è seguita una graduale discesa, con una riduzione di spesa pari al 43% circa. Confronti internazionali Raffrontando alcuni fra gli indicatori più significativi del settore penitenziario italiano con quelli degli altri Paesi membri dell’Unione Europea, ne viene fuori un’Italia con luci e molte ombre. Se, infatti, ci collochiamo (112) esattamente a metà classifica per l’incidenza di detenuti su 100 mila abitanti, precedendo di molto Paesi a noi più raffrontabili, per peso demografico e livello economico, quali Spagna (164 detenuti per 100 mila residenti) e Inghilterra (154), e seguendo Germania (88) e Francia (96), ci classifichiamo al penultimo posto per affollamento delle carceri e per percentuale di detenuti stranieri e addirittura all’ultimo per percentuale di detenuti in attesa di giudizio. Dunque, tirando le fila di tutti questi numeri, ci sembrerebbe che la nostra analisi confermi i motivi di preoccupazione diffusi in parte dell’opinione pubblica per la situazione del “pianeta carcere”. Paiono evidenti, infatti, alcune anomalie del sistema, che contravvengono a quel rispetto che ogni essere umano deve ad un altro essere umano, a prescindere dalla sua etnia e da ciò che ha fatto di criminoso nella sua vita. Una domanda ci viene spontanea: il nostro è un sistema garantista di forma o di sostanza, nel momento in cui si accetta che circa la metà della popolazione carceraria sia in attesa di giudizio? Giustizia: c’è sempre una legge “senza la quale”... di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 24 ottobre 2011 Ora che la “Legge Reale” è inopinatamente tornata di moda, fanno impressione gli argomenti adoperati nel 1978 da molti dirigenti del Pci, pur inizialmente contrari, per screditare i promotori (Radicali in primis) del referendum che la voleva abrogare. Senza quella legge, tuonava Paolo Bufalini, “sarebbero in libertà Vallanzasca e Concutelli”. Senza quella legge, si indignava l’Unità, libertà anche per gli assassini del Circeo. È sempre così, c’è sempre una legge senza la quale i criminali scorrazzerebbero indisturbati, i delinquenti festeggerebbero la loro impunità, i malfattori brinderebbero alla faccia degli onesti. Solo che se lo stesso argomento si applica sempre a leggi diverse, qualcosa è destinato a non quadrare. Ora si dice che con qualunque limite alle intercettazioni, gli inquirenti non potrebbero più indagare, non disporrebbero degli strumenti per bloccare i criminali e i giornalisti, che amano la pappa fatta e, come si dice in gergo ciclistico, succhiano la ruota di chi tira la volata, non potrebbero più raccontare le nefandezze del potere. Ieri, quando ancora non erano stati scoperti i telefonini e nonostante questo inammissibile ritardo tecnologico funzionale all’onnipotenza della criminalità durata alcuni secoli se non millenni, il capitolo delle intercettazioni non era ancora di bruciante attualità, e il monopolio del controllo delle vite altrui veniva delegato ai lungimiranti precursori inquadrati nella Stasi. Ma l’argomento “senza questa legge, i criminali avrebbero la strada spianata” si è di volta in volta applicato ad altre norme. A chi per esempio pretendeva, onde evitare abusi, che la legge sui pentiti dovesse essere adeguata agli standard di un Paese normalmente civile e ispirato ai pur obsoleti principi dello Stato di diritto (stabilire un limite alle comode rate con cui i pentiti decidevano di centellinare le loro preziose accuse; cercare qualche sia pur labile riscontro alle loro dichiarazioni), si rispondeva con severa prontezza: “Senza questa legge, non si potrebbe combattere la mafia”. A chi, nel terremoto di Tangentopoli, temeva che i magistrati potessero abusare dello strumento della custodia cautelare come indebita pressione sugli, indagati affinché questi ultimi esternassero con più scioltezza negli interrogatori, e quindi pretendeva canoni più rigorosi per la somministrazione massiccia di carcerazione preventiva, si replicava con arcigna determinazione: “Senza questa legge, non si potrebbe combattere la corruzione”. Chissà, forse è vero che senza la Legge Reale, Vallanzasca sarebbe stato libero. Che senza il pentito che aveva descritto il bacio tra Riina e Andreotti la mafia l’avrebbe avuta vinta e che senza il carcere per tutti gli indagati i tangentisti avrebbero trionfato. Ora è il turno delle tonnellate di intercettazioni da pubblicare. Scommesse sul nome della prossima legge “senza la quale”? Giustizia: è in arrivo un decreto… “salva manganello” di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2011 Maroni non arretra di un millimetro. Il ministro dell’Interno sa bene che, già a partire da oggi in Val Susa, le prossime manifestazioni non saranno una passeggiata. E sa altrettanto bene che i suoi uomini, quelli che poi finiscono per prendersi addosso i sampietrini, hanno da tempo perso la pazienza. Cosi come è perfettamente consapevole che la partita politica che sta giocando, uomo delle istituzioni e leghista credibile, dipende tutta o quasi dall’ordine pubblico. E allora tira dritto e, dopo l’annuncio di venerdì, sta preparando un decreto legge che assicuri alle forze dell’ordine le cosiddette “garanzie funzionali”, ovvero le tutele giuridico - legali che - come ha detto - impediscano a un pm di mandarle in galera. Dal Viminale arrivano conferme: stiamo lavorando, ma sui particolari bocche cucite. Anche se le ipotesi sono già delineate. Scomodando l’ormai tornata di moda legge Reale o addirittura il vecchio Codice Rocco, si costituirebbe un filtro attraverso la Procura generale, che dovrebbe decidere se iscrivere nel registro degli indagati il poliziotto sospettato di aver abusato delle sue funzioni, magari agitando oltremisura un manganello. Niente più obbligatorietà dell’azione penale per il pm, ma la discrezionalità di un Procuratore generale. Maroni in trincea L’idea di dare maggiore tutela alle divise (voluta anche dal capo della polizia, Manganelli) era già contenuta nel pacchetto di misure illustrate martedì in Senato, quando il ministro ha riferito sugli scontri di Roma, dove si è “evitato il morto “ (ieri è stato fermato un ragazzo con l’accusa di omicidio volontario). Con una grossa differenza, però: Maroni aveva ipotizzato un disegno di legge da portare in Consiglio dei ministri dopo aver consultato le opposizioni. In tre giorni il ddl è diventato un decreto. Il dialogo richiede tempo (i distinguo sulle misure sono tanti), la piazza chiama. Ma non è soltanto un annuncio dettato dall’urgenza delle molotov, che pure c’è. Lo stesso giorno dell’audizione, i sindacati di polizia si sono scatenati. Seppur con un fronte spaccato, si sono ritrovati sotto Camera e Senato per chiedere più fondi. E le segreterie hanno messo mano alla penna. L’Associazione nazionale funzionari di polizia ha scritto una lettera al premier, a Maroni, al Guardasigilli Palma e al vicepresidente del Csm Vietti, in cui - oltre alle risorse - ha chiesto che “la rivisitazione normativa della disciplina contro la violenza nelle manifestazioni sia accompagnata da un chiarimento normativo” su tre articoli del codice penale (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, legittima difesa e uso legittimo delle armi) applicati con “eccessivo rigore” nei confronti degli operatori. Il Sindacato autonomo di polizia ha invece suggerito al ministro proprio quel filtro della Procura generale che adesso è allo studio. “Sistema differenziato” Serve un decreto per dare un con - tentino ai sindacati (i soldi non arrivano), ma anche perché tra le file dell’opposizione non tutti sarebbero d’accordo. “È giusto ascoltare le richieste che vengono da questo mondo - secondo il responsabile Sicurezza Pd, Emanuele Fiano - ma è pericoloso introdurre un sistema differenziato di giudizio”. L’ex prefetto di Roma, oggi senatore Udc, Achille Serra, si dichiara invece “favorevole” alla tutela: “È un ritorno al passato, certo, ma la piazza di sabato lo era ancora di più. Non stiamo parlando di manganello libero o di impunità, ma di garantire quei ragazzi che vengono mandati in mezzo alla strada e poi abbandonati”. Il confine, però, è molto labile, quando lo stesso Maroni parla così: “I poliziotti dal G8 di Genova hanno la condizione psicologica di passare per carnefici, perché quando un poliziotto viene processato per aver fatto il suo dovere non solo è uomo distrutto, ma si diffonde una consapevolezza: perché dovrei fare qualcosa che mi distrugge la vita?”. Forse per essere promosso, come è accaduto ai protagonisti della “macelleria messicana” del 2001. Giustizia: Sappe; sit-in degli orchestrali della Polizia penitenziaria davanti al ministero Adnkronos, 24 ottobre 2011 Note amare sotto la sede del ministero della Giustizia. Gli orchestrali della Polizia Penitenziaria sono arrivati questa mattina sotto le finestre del Guardasigilli per “suonarle al ministro”. Intonano note che potrebbero essere le ultime - denuncia il Sappe, il Sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria - perché il Dap ha deciso di smobilitare la Banda musicale del Corpo. Ma loro non ci stanno “e a casa non ci andiamo - assicurano - piuttosto ci vadano loro”. Tra un motivo e l’altro, il Sappe ricorda che sono diverse, in realtà, le cause del malcontento, elecandole una per una. “Le missioni non vengono pagate dal 2010 e gli straordinari non vengono retribuiti - sintetizza il segretario generale del sindacato, Donato Capece - è finita la benzina per gli automezzi, ma non per le auto blu. I nostri mezzi, poi, sono usurati e fatiscenti, con una media di 300mila km, mentre le auto blu - rimarca - sono nuove. E non è tutto - aggiunge - mancano 6.500 uomini in organico e ci sono 30 mila detenuti oltre la capienza tollerabile. Eppure l’amministrazione continua a togliere personale dagli istituti per portarlo al Dap, vuole smantellare la banda del corpo e chiudere le scuole di Monastir, Portici e Verbania”. Durante il sit-in di protesta, i baschi blu puntano il dito contro il ministro Palma, il collega Tremonti e Franco Ionta, a capo del Dap. Sulle note di ‘Malafemmenà, la nota canzone di Totò, Ionta diventa “pegg e ‘na vipera”, mentre è Tremonti “a intussecar l’anima” del sindacato. Si fa spazio una caffettiera manovrata da un pupazzo di Pulcinella. La gente passa e osserva divertita, qualche turista tenta qualche passo di danza. “Ma noi siamo arrabbiati - assicura il Sindacato - e a casa la banda non ci va, possono star certi”. Rassicurazioni da Caliendo… ma servono fatti L’impegno del ministero a intervenire presso il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria per chiedere di rivedere il provvedimento che prevede la smobilitazione della banda musicale del Corpo. Ma anche ad affrontare le questioni drammatiche che affliggono le carceri italiane, dal sovraffollamento, agli organici di polizia ridotti, alle risorse. È quanto ha assicurato il sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, che questa mattina ha incontrato una delegazione del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che davanti alla sede di via Arenula aveva inscenato un sit - in di protesta, con la banda che “le suonava” al ministro. “Accettiamo l’impegno del sottosegretario ma lo aspettiamo al varco, perché alle parole seguano fatti - spiega all’Adnkronos il segretario del Sappe, Donato Capece. Abbiamo molte altre frecce da scagliare”. Molte le questioni aperte, su cui il sindacato aspetta risposte, non ultima quella delle assunzioni di nuovi agenti. “Ottocento sono quelli che hanno appena concluso il corso, e che chiediamo possano subito entrare in servizio. Non servono nuove carceri - conclude Capece - ma personale che faccia funzionare quelle che ci sono”. Giustizia: Clemenza e Dignità; occorre rivalutare l’importanza dell’esecuzione penale Agenparl, 24 ottobre 2011 “La giustizia, in linea di massima, non esaurisce mai tutto il suo iter nelle sentenze. Tralasciando il caso degli spontanei adempimenti, le sentenze sono solo il presupposto perché la giustizia possa trasformarsi da dato formale in dato sostanziale.” Lo dichiara in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente del movimento Clemenza e Dignità. “C’è, quindi, - prosegue - tanto nella giustizia civile come nella giustizia penale, una fase altrettanto importante che è quella propriamente dell’esecuzione, ovvero dell’esplicazione nella realtà, dei provvedimenti contenuti nei titoli e nelle sentenze. Questa fase è essenziale e determinante, anzi è la più strategica e nobile dell’iter di giustizia, perché dovrebbe scolpire e modellare precisamente nella realtà ciò che è specificamente previsto nelle decisioni dei giudici”. “Tuttavia, - osserva - mentre nella giustizia civile, questa fase dell’esecuzione, per gli evidenti interessi sottesi di natura economica, va conservando la sua importanza ed una sua dignità, nella giustizia penale è stata completamente dimenticata, è come se non esistesse, è come se tutto il complessivo iter di giustizia si arrestasse alla fase della discussione e alle sentenze definitive: alle pronunce di condanna o di assoluzione”. “Non soltanto nell’opinione pubblica, - rileva - ma anche tra gli stessi operatori del diritto, si è perso molto interesse a conoscere e a comprendere le reali condizioni in cui viene scontata la pena.” “Sotto un profilo giuridico, - sottolinea Meloni - questo dato è veramente impressionante, perché così si va privando la giustizia, in questo caso la giustizia penale, dell’ultimo anello, un anello fondamentale della catena”. “Difatti, - continua - non è da sottovalutare la circostanza, che se la pena viene eseguita in condizioni anormali e completamente diverse da quelle standard, in condizioni completamente diverse da quelle che erano state immaginate dal legislatore ed utilizzate dallo stesso legislatore come una base di valutazione per l’adeguamento e per la graduazione della punizione alla singola ipotesi di reato, si va creando per il caso concreto e mediante le successive statuizioni dei giudici che di quelle previsioni codicistiche debbono tener conto, un corto circuito che fa venir meno l’esattezza della giustizia al fatto di reato commesso. Inoltre, sotto un profilo culturale, e facendo il raffronto con la giustizia civile, - conclude - lo stesso dato risulta essere ugualmente impressionante, perché costituisce ulteriore testimonianza nel nostro tempo, del primato delle ragioni economiche su quelle umane, dell’inesorabile decadenza della persona, con tutti i suoi diritti fondamentali e la sua dignità.” Lettere: una riflessione sulla delegazione dei Radicali a Palazzo Grazioli Ristretti Orizzonti, 24 ottobre 2011 “Vorrei sapere se il popolo italiano, in nome del quale vengono emesse le sentenze, è d’accordo con questa sentenza”. Cito questa frase dell’avvocato difensore del giovane tunisino condannato ad un anno di prigione per aver venduto 5 euro di fumo e la giro alla delegazione dei radicali, che si sono incontrati a palazzo Grazioli con il presidente Berlusconi e che dopo l’incontro hanno dichiarato che “Sui temi dei quali avremmo voluto parlare con il Partito Democratico, con Bersani, in realtà abbiamo trovato ascolto da parte del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi”, per ricordare loro che, se le carceri italiane sono strapiene di persone che non dovrebbero starci, è anche e soprattutto grazie a leggi promosse e approvate dai vari governi Berlusconi, “Fini Giovanardi” sulle droghe, “Bossi Fini” sui migranti, “Ex Cirielli” sulla recidiva e via dicendo… Che se nelle carceri italiane non sono rispettati i più elementari diritti lo si deve al governo Berlusconi, per i tagli che il suo governo ha fatto ai fondi destinati al trattamento penitenziario, al vitto, al lavoro… Cerchiamo di riflettere allora davvero sulle reali responsabilità! Lillo Di Mauro Presidente della Consulta penitenziaria di Roma capitale Lettere: ingiusta detenzione senza risarcimento; attestato di solidarietà di Amnesty International Ristretti Orizzonti, 24 ottobre 2011 In relazione alla vicenda giudiziaria personale e di altri individui nelle stesse condizioni del sottoscritto (ingiusta detenzione seguita da assoluzione senza alcun risarcimento), è recentemente pervenuto un importante attestato di solidarietà da parte di Amnesty International Londra, nella persona della responsabile del Supporter Care Team, Ellie Clayton. Una prima e significativa risposta da parte di un’organizzazione internazionale da sempre in prima fila nell’impegno del rispetto dei diritti umani nel mondo. Amnesty International è tra le Organizzazioni alle quali è stata inviata la segnalazione di casi di errori giudiziari senza risarcimento, condizione diffusa nel nostro paese per i presunti reati commessi prima del 1989. La Corte Europea di Strasburgo, il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja e Human Rights Watch sono le altre Organizzazioni che hanno ricevuto la stessa segnalazione. Human Rights Watch ed Amnesty International, in particolare, sono organizzazioni mondiali tra le più accreditate nella lotta alle ingiuste detenzioni, soprattutto per ciò che concerne i reati di opinione. Proprio su quest’ultimo tema verte la lettera ricevuta da Amnesty, che ha riconosciuto che, pur non essendo il caso segnalato legato ad un reato di opinione, è chiaramente un caso di mala giustizia. E nonostante il lavoro dell’organizzazione non riesca ad estendersi, in modo efficace, a favore di ogni individuo vittima di un errore giudiziario, ma si applichi piuttosto all’ottenimento di processi giusti soprattutto per le vittime di persecuzione chiaramente politica, Amnesty International ammette l’importanza di considerare anche i casi di errore giudiziario come quello segnalato dal sottoscritto, purtroppo condiviso da molti. Al di là del limitato potere di intervento di Amnesty International, resta il gesto di solidarietà da parte di un’organizzazione cosi attenta alla difesa dei diritti umani. E per persone impegnate, come me da anni, a far si che il parlamento italiano approvi una legge che garantisca a tutti coloro hanno subito l’ingiusta detenzione la possibilità di ottenere un risarcimento morale ancor prima che economico, la solidarietà di Amnesty International è di fatto un riconoscimento importante nella lotta per l’ottenimento di tale diritto. Giulio Petrilli Responsabile Giustizia per il Pd l’Aquila Emilia Romagna: Monari (Pd); affollamento insostenibile Governo dia attuazione a piano carceri Adnkronos, 24 ottobre 2011 “Anche in Emilia Romagna, dove pure abbiamo recentemente istituito il Garante dei Detenuti e compensato i tagli con fondi regionali consistenti, abbiamo 4.373 detenuti a fronte di una capienza massima prevista di 2.394 unità. È una questione di giustizia, esiste la funzione rieducativa della pena che in queste condizioni risulta quanto mai difficile da praticare”. È quanto sottolinea il capogruppo del Pd nella Regione Emilia Romagna Marco Monari, presentando, insieme alla presidente della commissione regionale per la parità Roberta Mori, una soluzione che impegna la Regione a promuovere in sede nazionale le misure necessarie per il sistema carcerario. Convinto che il Governo Berlusconi stia “delegittimando il sistema giudiziario” e che “all’atto pratico abbandona sia i tutori della legge, forze dell’ordine in primis, sia coloro i quali nell’espiare la condanna dovrebbero poter avere l’occasione di riabilitarsi, e non essere ammassati a centinaia in ambienti angusti al limite della vivibilità”, Monari e il Pd chiedono che “il Governo dia immediata attuazione al Piano carceri con gli 11 nuovi istituti previsti e riporti all’ordine del giorno dei lavori parlamentari la riforma del sistema penitenziario incentrata sulla funzione di recupero della pena”. La risoluzione sollecita inoltre lo stanziamento delle risorse “indispensabili al mantenimento di condizioni di vita e sanitarie dignitose per i carcerati e all’attivazione dei programmi formativi e di recupero”. Roma: a Rebibbia 500 detenuti in più, anche spazi per la socialità sono utilizzati come celle Dire, 24 ottobre 2011 “A causa del sovraffollamento, anche gli spazi destinati alla socialità sono stati trasformati in celle. È quanto sta accadendo a Rebibbia Nuovo Complesso dove, ad esempio, la sala ping-pong è stata trasformata in spazio detentivo con 12 detenuti costretti a vivere in spazi angusti, nessun rispetto per la privacy e rischi concreti di infezioni e malattie”. Lo denuncia, in una nota, il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. “Secondo gli ultimi dati diffusi dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria - ha detto Marroni - a Rebibbia Nuovo Complesso i detenuti sono 1.725, oltre 500 in più rispetto alla capienza regolamentare ed addirittura superiori al limite tollerabile indicato dal ministero”. Dall’inizio del 2011 nella regione Lazio i detenuti sono aumentati di circa 200 unità. E questo “nonostante l’entrata in vigore di un provvedimento come il cosiddetto decreto svuota carceri che avrebbe dovuto alleviare il sovraffollamento negli istituti”. Nella sola Roma, ci sono attualmente 3.718 oltre ben oltre il dato della cosiddetta tollerabilita. “Il G9 - si legge ancora nella nota del garante - uno dei reparti più grandi di Rebibbia, ospita 500 detenuti su tre piani”. “Per spiegare il clima che si respira - dice il comunicato - basti pensare che, nei giorni scorsi, un detenuto, approfittando dell’ora d’aria dei compagni, ha dato fuoco a materassi, giornali e cuscini, creando un caos generale in un reparto già di difficile gestione, dove per ore il piano terra è stato evacuato per motivi di sicurezza. Il I piano del G9 è la sezione precauzionale - riservata agli autori di reati sessuali e agli ex appartenenti alle forze dell’ordine - dove le condizioni di detenzione, unite al sovraffollamento, generano una situazione di conflittualità perenne, con disagi e tensioni tra agenti di Polizia penitenziaria e detenuti e fra detenuti stessi. Qui sono frequenti gli episodi di autolesionismo e i tentativi di suicidio, l’ultimo dei quali pochi giorni fa, quando un detenuto ha provato ad impiccarsi ma è stato salvato dagli agenti”. “La conseguenza più grave ed immediata del sovraffollamento - ha detto Marroni - è il peggioramento delle condizioni di vita dei detenuti e di quelle di lavoro degli operatori penitenziari, in particolar modo degli agenti di Polizia penitenziaria. Non è un caso che, nell’ultima settimana, solo a Roma siano deceduti due agenti, sia pure per cause diverse. Ed ora anche un carcere all’avanguardia come Rebibbia - ha concluso il garante - comincia ad avvertire il peso di questa situazione ormai non più sostenibile”. Bologna: Elisabetta Laganà eletta Garante comunale dei detenuti Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2011 È durata un anno e mezzo l’attesa per i detenuti del carcere della Dozza. Decisivo il no di Sel al “poco compatibile” Giovanni Pipitone, ex vicequestore, proposto dal Partito Democratico venti giorni fa. I detenuti rinchiusi alla Dozza di Bologna hanno il loro nuovo garante. Si chiama Elisabetta Laganà ed è l’attuale presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia. Anche se il percorso non è stato facile: il consiglio comunale l’ha eletta solo al terzo tentativo (a maggioranza semplice), scegliendola tra la rosa di nomi formulata poche ore prima in commissione consiliare. Insieme a lei nella terna dei papabili l’ex provveditore e direttore del carcere bolognese Nello Cesari e Raul Collina. Dopo le divisioni dei giorni scorsi, la maggioranza si è quindi ricomposta intorno al nome di Laganà. Decisivo alla sua elezione è stato il ritrovato appoggio di Sinistra ecologia e libertà: “Dopo essermi astenuta su un ex vicequestore e su un ex direttore di un carcere, stavolta posso votare” ha scritto su Facebook pochi minuti prima dell’inizio dell’assemblea cittadina la capogruppo di Sel Cathy la Torre. Qualche settimana fa erano stati proprio i consiglieri della lista Amelia - Sel a mettersi di traverso all’elezione dell’ex vicequestore Giovanni Pipitone, il candidato proposto dal Pd. Nella prima votazione a Palazzo d’Accursio, a scrutinio segreto, Pipitone aveva raccolto solo nove preferenze (addirittura due in meno del nome caldeggiato dal Pdl, Nello Cesari) mancando così l’obiettivo del quorum (fissato a 25 per le prime due votazioni e a 19 per la terza). E a poco era servito riproporre lo stesso nome al successivo consiglio comunale: un’altra fumata nera aveva rispedito la questione del Garante in commissione. Senza metterne in dubbio la serietà professionale, i vendoliani avevano ritenuto sia Pipitone sia Cesari poco compatibili con la figura terza e imparziale quale dovrebbe essere quella del Garante. “Da subito abbiamo espresso perplessità su Pipitone e Cesari, che per il loro passato non possono esprimere il punto di vista dei detenuti - aveva commentato Cathy La Torre - Avremmo preferito vedere una maggiore attenzione verso i soggetti più deboli”. Con l’elezione di Elisabetta Laganà si chiude una vicenda lunga quasi un anno e mezzo. Bologna era senza un Garante per le persone private delle libertà personale da luglio 2010, quando l’allora commissario Anna Maria Cancellieri decise di non riconfermare l’avvocato Desi Bruno, nonostante cinque anni di lavoro in città. Fino ad oggi la posizione è stata ricoperta ad interim dal difensore civico del Comune, Vanna Minardi. Un incarico provvisorio in attesa del giudizio del consiglio comunale e utile solo a non lasciare i detenuti senza una figura di riferimento. Pedagogista e psicologa, Elisabetta Laganà è stata il referente per il volontariato al Dipartimento amministrazione penitenziaria. Dal 2009 è a capo della Conferenza nazionale volontariato giustizia, organismo istituito negli anni Novanta per rappresentare enti, associazioni e gruppi di volontariato, impegnati all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari. Asti: inchiesta su detenuti picchiati e vessati, cinque agenti a giudizio Ansa, 24 ottobre 2011 Cinque agenti della polizia penitenziaria, in servizio nella casa circondariale di Asti, sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di aver picchiato e sottoposto a vessazioni due detenuti: entrambi sono stati lasciati per alcuni giorni, in isolamento, completamente nudi in una cella priva di vetri alla finestra, di materasso, di lavandino e di sedie; per vitto è stato fornito loro solo pane ed acqua. Ai due, inoltre - secondo l’ accusa - veniva impedito di dormire. Il processo contro i cinque agenti penitenziari comincerà tra tre giorni, il 27 ottobre, ad Asti. Le vittime, Claudio Renne e Andrea Cirino, hanno denunciato maltrattamenti da carcere “turco” da parte della “squadretta” di agenti che avevano instaurato all’interno della struttura carceraria “un tormentoso e vessatorio regime di vita”, si legge nell’imputazione. Claudio Renne, nel dicembre del 2004 - secondo quanto emerge dagli atti dell’inchiesta - viene portato in una cella di isolamento, come punizione per aver cercato di placare un diverbio tra un agente e un altro detenuto. La cella è priva di materasso, sgabelli e acqua. La finestra è priva di vetri e Renne ci rimarrà per due mesi, i primi due giorni completamente nudo. Il cibo, racconta il detenuto, è limitato a pane e acqua, ma a volte gli agenti gli lasciano dietro la porta della cella il vitto del carcere che lui può vedere ma non prendere. Le botte si ripetono più volte al giorno, calci e pugni su tutto il corpo, tanto che gli sarà riscontrata la frattura di una costola oltre ad una grossa bruciatura sul volto causata da un ferro rovente. Il più feroce dei suoi carcerieri, uno dei cinque agenti rinviati a giudizio, che agiva spesso sotto effetto di alcol e droga, nel corso di un pestaggio gli strappa con le mani i capelli che Renne aveva raccolti in un codino sulla nuca. Tra il dicembre 2004 e il febbraio 2005 anche Andrea Cirino viene tenuto in isolamento, per 20 giorni, e gli viene negata l’acqua. La notte, racconta, gli agenti gli impediscono di dormire battendo le grate della cella, il giorno viene picchiato ripetutamente. Cirino, in seguito, tenterà il suicidio per impiccagione. “Dalle intercettazioni e dalla relazione di polizia giudiziaria emergono particolari inquietanti”, afferma Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che ha chiesto di costituirsi parte civile al processo. “Nel carcere di Asti - aggiunge - vigeva una cultura diffusa di violenza da parte dei poliziotti e di indifferenza da parte di medici e direttore”. Un assistente di polizia penitenziaria dello stesso carcere nel 2006 testimonia: “nel caso in cui i detenuti risultino avere segni esterni delle lesioni, spesso i medici di turno evitano di refertarli e mandano via il detenuto dicendogli che non si è fatto niente o comunque chissà come si è procurato le lesioni. Inoltre lo convincono a non fare la denuncia dicendogli che poi vengono portati in isolamento e picchiati nuovamente”. In una intercettazione ambientale tra uno degli imputati e un altro agente del carcere, il primo afferma: “Ma che uomo sei… devi avere pure le palle… lo devi picchiare… lo becchi da solo e lo picchi… io la maggior parte di quelli che ho picchiato li ho picchiati da solo...”. L’ex direttore: non ho responsabilità, processo accerterà verità “La polizia giudiziaria ha ipotizzato mie responsabilità ma è stata smentita dalla stessa procura che non le ha giudicate plausibili. Spero che ora il processo consenta di accertare la verità. Se sarò chiamato a testimoniare lo farò molto volentieri per dare un contributo a chiarire i fatti”. Così Domenico Minervini, ex direttore del carcere di Asti e attualmente direttore della casa circondariale di Aosta, commenta la notizia del rinvio a giudizio di cinque agenti della polizia penitenziaria astigiana per aver picchiato e sottoposto a vessazioni due detenuti. In merito alla vicenda, Minervini sottolinea: “Ho sempre trasmesso alla procura le segnalazioni di pestaggi o abusi nei confronti di detenuti. In quel caso il personale non mi aveva segnalato nulla e quindi non ho potuto informare la magistratura: si tratta di pubblici ufficiali che avevano l’obbligo di relazionarmi e non l’hanno fatto. Ora il processo accerterà eventuali responsabilità”. Minervini, infine si dice “amareggiato per la superficialità dell’associazione Antigone” che ha parlato di indifferenza da parte dei medici e del direttore del carcere di Asti. Secondo Minervini l’associazione “ha fatto affermazioni senza aver letto le carte dell’inchiesta. Io non ho ricevuto alcun provvedimento da parte della procura, nemmeno un avviso di garanzia, segno che i magistrati hanno reputato che sono totalmente estraneo alla vicenda contestata”. Capece (Sappe): non ci credo… ma se hanno usato maniere forti rispondano a giustizia Donato Capece, segretario del maggiore sindacato di polizia penitenziaria, il Sappe, prima di dire la sua sul rinvio a giudizio di cinque agenti nel carcere di Asti per presunte violenze su due detenuti, chiede delucidazioni al rappresentante sindacale locale. I due detenuti che hanno denunciato di aver subito vessazioni tra il 2004 e il 2005 “avevano aggredito i nostri agenti - riferisce Capece - e per questo sono stati mandati in isolamento. Probabilmente c’è stata una colluttazione”. Tuttavia pur dicendosi scettico sulla veridicità delle accuse mosse agli agenti, il segretario del Sappe si affretta a precisare: “Non vogliamo dare l’impressione di coprire qualcuno. Perciò, se gli agenti hanno usato le maniere forti, è giusto che ne rispondano all’autorità giudiziaria. È facile sparare contro la Croce Rossa e contro la polizia penitenziaria. I fatti - conclude Capece - vanno prima accertati”. Genova: dodici detenuti di Marassi al lavoro per pulire il letto del torrente Bisagno Secolo XIX, 24 ottobre 2011 Genova - Il carcere di Marassi mette al lavoro alcuni detenuti. Dodici carcerati “comuni” da stamani puliscono il letto del torrente Bisagno a Genova, senza sorveglianza. Questa l’iniziativa promossa dal Comune di Genova di concerto con la direzione della casa circondariale di Marassi per promuovere lavori socialmente utili in ambito carcerario. I dodici detenuti “stanno lavorando alla pulizia del greto gratuitamente - ha detto il direttore del carcere Salvatore Mazzeo - , praticando una sorta di “risarcimento” alla società, che in fondo è vittima dei loro reati”. I 12 detenuti verranno pagati a partire dal prossimo “impegno”, ovvero la pulizia dei giardini di Staglieno: “percepiranno una borsa lavoro di 450 euro nette - ha confermato Mazzeo - , borsa lavoro sovvenzionata dal Comune di Genova”. I detenuti impiegati in questi lavori, sette italiani e 5 stranieri, hanno tutti un fine - pena relativamente vicino e sono in carcere per reati contro il patrimonio e in materia di stupefacenti. Durante il lavoro esterno non sono sorvegliati. I progetti però non riguardano soltanto lavori di pulizia. I detenuti della casa circondariale di Marassi fabbricheranno biliardi low cost per fare concorrenza al mercato cinese che propone i tavoli da stecca a 10 mila euro, contro i 30 mila chiesti per un biliardo made in Italy. L’idea è del direttore del carcere Salvatore Mazzeo, supportata dal successo ottenuto con il laboratorio di falegnameria frequentato dai detenuti di Marassi. “I biliardi importati dalla Cina - ha detto Mazzeo - costano poco, circa 10 mila euro, ma hanno limiti estetici invalicabili per l’Italia. Così tramite la Cooperativa sociale che assumerà i detenuti - falegnami realizzeremo tavoli e stecche tutti italiani per proporli a costi concorrenziali”. Sappe: bene impiego detenuti per recupero ambientale “È certamente positivo il progetto che vede i detenuti della casa circondariale Marassi di Genova impegnati a tutelare l’ambiente e il territorio, con la pulizia e la manutenzione del greto del fiume Bisagno. Peccato solo che la percentuale di ristretti coinvolti è assolutamente minimale rispetto ai detenuti presenti in carcere”. È quanto osserva il segretario aggiunto del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, Roberto Martinelli. “Si deve investire di più per l’amministrazione penitenziaria - chiede il Sappe - per impiegare i detenuti in queste iniziative di recupero del patrimonio ambientale e in attività lavorative durante la detenzione, specie potenziando i reparti di Polizia penitenziaria che sono carenti di agenti. Il lavoro rappresenta certamente il primo e più importante elemento del trattamento - ricorda Martinelli, che è commissario straordinario del sindacato per la Liguria - e incide anche sulla sicurezza”. Per il Sappe, “bisognerebbe impiegare in tutte le regioni e province d’Italia i detenuti in progetti per il recupero del nostro patrimonio ambientale, la pulizia dei greti dei fiumi e dei torrenti e delle molte spiagge del nostro Paese. Non a caso, l’attivazione sul territorio nazionale di iniziative inerenti la promozione del lavoro è diventato obiettivo primario che l’amministrazione penitenziaria persegue, al fine del coinvolgimento consapevole e responsabile dei soggetti in espiazione di pena in attività lavorative volte all’integrazione e al reinserimento nella comunità sociale”. Roma: detenuti di Rebibbia addetti a centralino per l’Ospedale Bambin Gesù Ansa, 24 ottobre 2011 Un gruppo di detenuti del penitenziario romano di Rebibbia è al lavoro da pochi giorni per fornire telefonicamente assistenza in favore dei piccoli pazienti dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù. I detenuti, debitamente formati, sono entrati a far parte dell’organico degli operatori del Centro unico prenotazioni del nosocomio (Cup). L’iniziativa - informa una nota del ministero della Giustizia - sarà presentata domani, alle 12.00, presso la Sala Livatino del dicastero di Via Arenula, dal ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma e dal presidente dell’Ospedale Giuseppe Profiti. L’accordo di collaborazione era stato stipulato il 18 luglio scorso ed è ora operativo. Attraverso postazioni di lavoro realizzate all’interno del carcere, i detenuti - sottolinea il ministero - possono così collaborare per fornire, anche indirettamente, un aiuto ai bambini infermi. Parma. Cgil; carcere sovraffollato e senza agenti, gestione critica di reparto 41 bis e sanità Dire, 24 ottobre 2011 Sovraffollamento, carenza di organico, e strutture sanitarie interne inadeguate. Sono gli elementi messi in fila dalla Cgil di Parma nel denunciare la situazione del carcere di via Burla, dopo la risposta arrivata in questi giorni dal ministero all’interrogazione parlamentare presentata dalla deputata Carmen Motta (Pd) più di un anno fa. A Parma, dai dati del ministero, sono infatti presenti 546 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 418 (128 persone in più), e assegnati 336 poliziotti penitenziari a fronte di una necessità di 479 (143 unità in meno), sottolinea il sindacato. Inoltre mancano 4 educatori su 9 e poco meno di un terzo del personale amministrativo. A giudizio della Camera del lavoro bisogna inoltre tenere in considerazione due caratteristiche specifiche del carcere di Parma: “La prima è che comprende il reparto in cui vi sono reclusi i detenuti in regime di 41 bis, per la cui gestione è stato chiesto invano l’invio del Gom gruppo operativo mobile”. La seconda riguarda invece il diritto alla salute dei detenuti che “è garantito con grossi sforzi del personale ancora a causa della sua forte carenza”. Sul primo aspetto, per il sindacato l’annunciato arrivo di una decina di neo - agenti risulta “insufficiente” mentre, sotto il secondo profilo, “è importante incrementare le competenze e le strumentazioni sanitarie interne al carcere, in modo da limitare il più possibile le traduzioni verso le strutture ospedaliere, garantendo appunto la tutela della salute dei detenuti e contemporaneamente non caricando l’esiguo personale di polizia penitenziaria di quotidiane traduzioni”. Concludendo la Cgil lancia un appello alle istituzioni locali “perché si creino le sinergie necessarie a far sì che il carcere abbia diritto di cittadinanza all’interno della città e non venga vissuto come un’isola scomoda e indesiderata”. Ferrara: “Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri”… il carcere diventa sopruso La Nuova Ferrara, 24 ottobre 2011 “Lo Stato che fa? Si costerna, si indigna, si indegna, poi getta la spugna con gran dignità”. Parole, quelle di De Andrè, che tornano alla mente se si parla della condizione carceraria del nostro Paese. Si parla di nuovi sistemi, nuove funzioni e miglioramenti. Si parla, ma rispetto all’Unione europea siamo indietro di dieci anni. “La stagione delle riforme la aspettiamo da tanto e in tanti. E non è di certo questa”: è dura Marcella Zappaterra, presidente della Provincia, nell’aprire il quarto e ultimo appuntamento del ciclo d’incontri “Un libro dietro le sbarre” alla libreria Mel Bookstore, sempre affollatissimo. Si è parlato del libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone “Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri”, (Il Saggiatore 2011). Erano presenti anche Stefania Carnevale, docente di Esecuzione Penale presso l’Università di Ferrara, l’autore Luigi Manconi e Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Ferrara. Ha coordinato l’incontro Daniele Lugli, Difensore Civico dell’Emilia Romagna. “È un libro necessario”, dice Lugli; “In queste pagine ci sono diciotto storie, più o meno note, che - spiega la Carnevale - sembra formino un puzzle. Un film, che ha come trama i soprusi delle forze di Stato”. Durante l’incontro si parla di violenze commesse dalle forze dell’ordine nei confronti dei detenuti. “Ci sono gli aguzzini in carcere, coloro che riversano violenza fisica e psicologica soprattutto nei confronti dei più deboli - continua la Carnevale - e c’è il carcere come aguzzino che spinge le persone a commettere atti di autolesionismo e suicidio, a causa delle condizioni di vita, dagli spazi ai trattamenti”. Non ha paura Pugiotto a fare nomi “per il degrado carcerario al quale siamo arrivati dobbiamo ringraziare le leggi Bossi-Fini, Fini-Giovanardi e altre”. L’orrore prima della cella Si è conclusa con la presentazione del volume “Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri” la rassegna di incontri dedicata al tema del carcere che ha riscosso un notevole successo di pubblico in tutti e quattro i suoi appuntamenti. Venerdì pomeriggio, presso la libreria Melbookstore di Piazza Trento e Trieste, il difensore civico della Regione Emilia Romagna Daniele Lugli ha presentato l’incontro al quale hanno preso parte Andrea Pugiotto (ordinario di Diritto Costituzionale, Università di Ferrara), Stefania Carnevale (docente di Esecuzione Penale, Università di Ferrara) e l’autore del libro Luigi Manconi (presidente dell’associazione “A buon diritto”). In apertura del dibattito, la presidente della Provincia Marcella Zappaterra ha sostenuto che l’attuale situazione di degrado e sovraffollamento delle carceri sia “frutto dell’attuale stagione di cattiva gestione di governo, caratterizzata da incuria e tentativi di rendere il potere illimitato e senza controllo”. Zappaterra ha poi ringraziato le famiglie Aldrovandi, Cucchi, Uva e Ferrulli che, decidendo di rendere pubblico il loro dolore fino al punto di mostrare le fotografie dei cadaveri sfigurati dei loro congiunti, “ci hanno costretti a una riflessione che va al di là della retorica di certa stampa gossippara e di parte, al di là del chiacchiericcio e della violenza di certa dialettica politica”. L’elenco delle persone morte mentre si trovavano “in custodia”, ovvero in carcere o nel corso di interrogatori o arresti, è lungo. Inizia con Giuseppe Pinelli e prosegue con Franco Serrantini, Salvatore Marino, fino ad arrivare ai casi Cucchi, Uva e Aldrovandi, per citarne solo alcuni. Stefania Carnevale individua alcuni tratti comuni in queste vicende, con riguardo ai casi più recenti: “spesso le vittime si trovavano in carcere per reati bagatellari: il furto di una borsa, l’aver spostato una transenna per strada. Poi i trasferimenti: di solito i soggetti in questione sono trasferiti lontano, altrove rispetto al luogo dell’arresto”. Altra costante sono “gli strani atti di autolesionismo come sbattere più volte la testa contro il muro, lanciarsi contro il cofano di un’auto, ferirsi la schiena. Tutti atti difficili da auto - infliggersi”. Le anomalie riguardano anche i referti medici che, nei casi più ambigui, sono risultati corretti in momenti successivi o cancellati in alcuni punti o privi di firma. La compilazione di un referto in un senso piuttosto che in un altro “può trasformare un omicidio in un suicidio” denuncia Carnevale . Dall’analisi emerge un duplice volto del problema: da una parte gli aguzzini nel carcere e dall’altra il carcere stesso come aguzzino. Un ambiente non a misura d’uomo che non fa altro che incattivire gli individui, siano essi carcerati o guardie. Ricorda il professor Pugiotto che “persino per gli allevamenti di galline ovaiole sono regolamentati severamente in materia di livelli sonori, spazi vitali, numero di animali per gabbia”. Se però, nel caso di violazione di queste regole, gli allevamenti vengono posti sotto sequestro e gli animali liberati, la stessa cosa non accade nel caso in cui le “gabbie non in regola” contengano esseri umani. Com’è possibile? Miracoli del politichese. Esistono infatti due distinti concetti: da una parte la “capienza regolamentare”, ampiamente superata; dall’altro “la capienza tollerabile” che permette di ritenere i nostri istituti carcerari “ a norma”. È proprio la definizione di capienza tollerabile che lascia perplesso Pugiotto: “dovremmo parlare semplicemente di capienza costituzionale. Cos’è la capienza tollerabile? Chi decide quali sono i limiti? Se viaggiate in sei su un’auto che è omologata per quattro provate a spiegare ai carabinieri che vi vogliono dare la multa che, sì, l’auto ha una capienza regolamentare di sei persone ma la capienza tollerabile è di otto o dieci. Dubito che eviterete la contravvenzione”. Tra paradossi e statistiche preoccupanti si giunge ai saluti finali con il commento dell’autore Luigi Manconi: “credo che il cittadino in custodia, nelle mani dello Stato debba essere considerato un bene prezioso. Nel momento della privazione della libertà resta solo il corpo. La tutela fisica di quel corpo è alla base di una questione fondamentale: o la politica sarà capace di ripartire dal corpo inteso come qualcosa di sacro che deve essere tutelato oppure saremo condannati a continuare ad assistere a quello che il Capo dello Stato ha definito un estremo orrore”. Anche questo incontro, come i precedenti, è stato intervallato dalle letture sceniche a cura dell’attore Marcello Brondi. Brindisi: Padre Giovanni Fabiano, l’appiglio dei detenuti “brindisini” www.senzacolonne.it, 24 ottobre 2011 Ogni giorno padre Giovanni Fabiano, cappellano del carcere di Brindisi, si reca sul posto di lavoro utilizzando l’autobus, nei giorni feriali, per risparmiare e offrire quel denaro ai detenuti per le loro necessità. A volte i carcerati poi acquistano le sigarette, altre volte comprano oggetti d’uso quotidiano come spazzolino e dentifricio, a volte è per poter mangiare semplicemente qualcosa di sfizioso. E le richieste dei detenuti al cappellano 58enne riguardano anche oggetti religiosi: non c’è carcerato che non abbia nella sua cella, vicino alla branda, un’immagine sacra, o una croce al collo. Le immagini della Madonna e di Padre Pio sono quelle più gettonate in carcere a Brindisi, icone che donano conforto ai detenuti. Tutti i giorni da San Vito dei Normanni, comune dove risiede, sale sul pullman e viaggia fino a Brindisi. “Mi reco tutti i giorni perché ritengo molto importante il fattore “presenza” - scrive padre Giovannino - non solo per i detenuti ma per tutto il carcere. Mi sento non solo il cappellano dei detenuti, ma di tutti”. Instancabilmente e amorevolmente ogni giorno si sforza di incontrare il maggior numero di detenuti (anche solo per un semplice saluto e una stretta di mano attraverso le barre, dice il cappellano), perché compito del cappellano è proporsi, andare a trovare e lasciarsi trovare. Il cappellano affronta l’argomento carcere non per soddisfare la curiosità di qualcuno, scrive il 58enne, “il carcere non è uno zoo, ma un luogo dove vivono persone, non per ergersi a paladino della verità e della giustizia puntando il dito contro qualcuno, ma per un servizio di sensibilizzazione della comunità esterna al mondo del penale, per contribuire a creare un ponte che superi il fossato che c’è tra il carcere e la città.” È stato nominato carcere di Brindisi quattro anni fa e ancor prima di metter piede nella struttura aveva un sogno cioè quello di dedicare la cappella che si trova all’interno del carcere alla Madonna della Mercede o Misericordia, protettrice dei detenuti. Il sogno si è realizzato. Dal 4 giugno il giorno in cui il Vescovo Rocco Talucci in una solenne celebrazione alla presenza delle autorità del carcere, dei detenuti, degli agenti, dei volontari e di qualche operatore ha benedetto un quadro che si trova sulla parete dietro l’altare. Il carcere, da quel momento, è sotto la protezione della Madonna della Mercede. E proprio in quel luogo sacro che la domenica i detenuti partecipano alla messa domenicale. “C’è una grande fede, un rispetto e un’attenzione esemplare durante la celebrazione della funzione - scrive il cappellano - un modo questo per incontrare Dio e colmare quel vuoto che sentono dentro”. Aiutare i carcerati nel loro cammino di “riabilitazione sociale” è questo il compito del cappellano oltre al più ambizioso progetto di “umanizzare i carceri” appoggiando ogni iniziativa volta a tal fine (attività di sana ricreazione, allo sport, all’istruzione). “Ma purtroppo bisogna fare i conti con la struttura che non ha molti spazi per le attività” scrive padre Giovanni - Nonostante questo handicap, tutto il personale merita il plauso a e la riconoscenza per l’impegno, l’abnegazione, il sacrificio, la professionalità, perché è costretto ad operare in una struttura che non hanno creato e voluta loro. Condizionati dalla mancanza di spazi, essi mettono tutto il loro impegno e la loro professionalità per far uscire i detenuti dalla loro routine quotidiana e creare l’ambiente in cui i detenuti che lo desiderano possono sviluppare le proprie personalità, talenti e attitudini in modo da rendersi in grado di riassumere fuori una vita normale e poter rendere il tempo di detenzione il più possibile una esperienza significativa”. Così come viene riportato anche nell’opuscolo del Poiesis quando Tiziano Mele intervista padre Giovanni Fabiano dal titolo, appunto, “Dignità per i detenuti”. Il religioso fa parte dell’Ordine di Santa Maria della Mercede fondato a Barcellona (Spagna) nel 1218, per la liberazione dei cristiani schiavi dei musulmani e che oggi si dedica all’assistenza dei carcerati ed ex carcerati. Il cappellano è da 31 anni sacerdote e da 41 religioso dell’Ordine della Mercede. Mentre da 15 anni fa parte della speciale famiglia dei “preti di galera”. La presenza del cappellano è fondamentale, secondo padre Giovanni, perché dona conforto alla sofferenza dei detenuti che si fanno forza anche con il più piccolo lume che è in ognuno di noi, a suo dire. Un ex detenuto gli scrisse in una lettera: “Nei momenti di sconforto, nelle notti bianche, nei mille pensieri che affollano la mente, nella sofferenza della lontananza dalla famiglia, nel tempo che non ti appartiene e che non passa mai, nella solitudine, nel grido di dolore che ti rimane dentro e che non riesci a urlare, l’unica ancora di salvezza è la Fede”. Cuneo: fino 20 novembre la mostra “Sapori Reclusi” alla Cantina Paolo Scavino www.targatocn.it, 24 ottobre 2011 Immagini scattate nelle carceri di Alessandria e Fossano dal fotografo Davide Dutto. Fino 20 novembre la Mostra “Sapori Reclusi” presso la Cantina “Paolo Scavino” di Castiglione Falletto. L’esposizione ha le immagini scattate nelle carceri di Alessandria e Fossano da Davide Dutto dove il fotografo ha insegnato fotografia e dove è nata la mostra “Dal Gambero Nero a Sapori Reclusi”. Immagini quasi tutte in bianco e nero con la quotidianità culinaria nelle case di detenzione esposte su supporti in metallo costruiti da “Ferro e Fuoco” nel penitenziario di Fossano. L’esposizione è stata inaugurata domenica sera. La mostra parte dal progetto “Phood Vision. Il cibo che (non) immagini”, un Festival Internazionale della fotografia food promosso dall’Associazione “Sapori Reclusi” per portare all’esterno del carcere storie di detenuti liberi attraverso l’arte culinaria. Perciò, tre location e tre diverse esposizioni firmate da Dutto. La prima “Out of glass” con protagonista il vino omaggio al “Vale la Pena” ha avuto il suo palcoscenico nella Casa Circondariale di Alba da venerdì 21 a domenica 23 ottobre. La seconda “Il Cibo dei Pescatori” esposta al Ristorante “Guido”, di Pollenzo fino al 20 novembre. La terza “Sapori Reclusi” presso la “Paolo Scavino inaugurata con grande accoglienza del padrone di casa Enrico Scavino figlio del titolare fondatore della cantina. Per l’occasione lauto aperitivo con Barolo di diverse annate e delizie preparate dal rinomato chef Maurilio Garola del Ristorante “La Ciau del Tornavento”. Busto Arsizio: “Fuggi… fuggi!”, torna la corsa in carcere organizzata dall’Uisp Varese News, 24 ottobre 2011 Lunedì 7 novembre alle 14 nella Casa Circondariale di Busto Arsizio i detenuti e alcuni atleti bustocchi saranno protagonisti di “Vivicittà 2011: Fuggi… fuggi!”, la corsa podistica a passo libero organizzata da Uisp - Unione Italiana Sport Per tutti (Comitato Territoriale di Varese), in collaborazione con la Casa Circondariale di Busto Arsizio, l’associazione sportiva A.R.C Busto Arsizio e l’A.S.D Run & Travel. La corsa si snoderà su un percorso di 5500 metri all’interno del perimetro della Casa Circondariale. Cinquanta detenuti e venti atleti di varie società sportive del territorio si sfideranno, avendo come unico scopo quello di portare a termine una gara più impegnativa di quanto possa apparire. Soprattutto per i detenuti, che hanno poche possibilità di allenarsi. “Quella del 7 novembre vuole essere una giornata di festa con uno scopo che va oltre la pura competizione sportiva - racconta Alessandra Pessina, responsabile del Progetto Carcere per Uisp Varese - perché diventa un ponte che collega la vita all’interno e all’esterno del carcere. I detenuti possono esprimersi e presentare la loro realtà, che merita di essere guardata senza pregiudizi. Inoltre, nelle scorse edizioni della corsa i detenuti ci hanno raccontato che un’occasione come questa aiuta anche a migliorare i rapporti tra di loro”. Nuoro: “Liberi nello sport”, sfida tra otto squadre al torneo con i detenuti La Nuova Sardegna, 24 ottobre 2011 L’anno scorso, al quadrangolare intitolato “Liberi nello sport”, portato avanti dall’Unione sportiva Acli di Nuoro, col patrocinio della presidenza nazionale della stessa sigla che raggruppa le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani, avevano umiliato gli avvocati nel campo sportivo all’interno del carcere. Ma i detenuti di Badu ‘e Carros, che cercheranno sicuramente di bissare il precedente successo, quest’anno avranno molti più concorrenti da battere. Perché nel frattempo, il quadrangolare si è trasformato in un vero campionato di calcio a 8. La sfida cresce grazie all’impegno e all’intraprendenza di Salvatore Rosa, presidente del comitato nuorese Us Acli, e alla collaborazione della direttrice del carcere, Patrizia Incollu. Le squadre dei detenuti “AS” (Alta Sorveglianza) e quella di detenuti comuni se la dovranno vedere con squadroni amatoriali di tutto rispetto. A cominciare dagli spavaldi di “Salta il muro”, che già dal nome sembrano aver ben chiara nella mente l’idea che sta alla base dell’intero progetto. Ci sono poi i giocatori della “Tecnocasa - Erg Murru”, la storica formazione “Longobarda”, il “Foro di Nuoro”, che vorrà prendersi la rivincita, l’Ordine dei geometri, il Cral delle Poste, la Cna e i calciatori della “Polizia penitenziaria”. Questi ultimi attesissimi nel derby coi detenuti. “L’iniziativa - spiega Salvatore Rosa - è inserita nel progetto “Liberi nello sport”, un percorso articolato promosso dal comitato provinciale US Acli Nuoro, d’intesa con Acli nazionale e regionale. L’obiettivo è duplice: da una parte progettare e realizzare iniziative che mettano in contatto l’ambiente esterno con la realtà carceraria, favorendo il dialogo tra società e detenuti. L’altro obiettivo mira a creare occasioni formative, anche in ambito sportivo, come strumento di collegamento con l’associazionismo, il mondo del lavoro e la quotidianità della vita normale”. Fino a dicembre, dunque, saranno 140 gli atleti coinvolt nei campi di Badu ‘e Carros e della parrocchia della Beata Maria Gabriella, grazie alla disponibilità di don Pietro Borrotzu. Il campionato sarà diretto dall’arbitro Ignazio Medde, mentre anche quest’anno il preparatore delle squadre dei detenuti sarà il tecnico Massimo Becconi. Intanto, grazie alla disponibilità della direttrice del carcere, degli educatori e del capo della polizia penitenziaria, Alessandro Caria, l’Acli punta ad allargare l’intervento al settore femminile. Turchia: 200 detenuti in fuga dopo terremoto, ma molti tornano da soli al carcere Ansa, 24 ottobre 2011 Nel violento terremoto, magnitudo 7.2, che ieri ha colpito la provincia orientale turca di Van è crollato anche il muro di un carcere: almeno duecento detenuti - scrive oggi la Sueddeutsche Zeitung - sono riusciti a fuggire. Ma almeno una cinquantina di loro, dopo essersi accertati delle condizioni dei propri familiari, sono rientrati volontariamente in carcere. Il sisma, seguito da numerose scosse di assestamento, ha causato la morte di 217 persone, ma il numero dei dispersi è ancora molto elevato. Israele: l’esercito chiede rilascio detenuti di Al Fatah, per rafforzare Abu Mazen Tm News, 24 ottobre 2011 L’esercito israeliano ha consigliato al premier Benjamin Netanyahu di liberare dei detenuti palestinesi appartenenti ad al Fatah per rafforzare la posizione del presidente palestinese Abu Mazen, indebolito dopo lo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas, il gruppo estremista che controlla la Striscia di Gaza. Lo riporta il sito web del quotidiano israeliano Haaretz. I consiglieri del primo ministro si oppongono però con fermezza a questa idea, così come alcuni degli otto ministri del gabinetto ristretto, ritenendo che Abu Mazen debba essere “punito” per la sua decisione unilaterale di richiedere all’Onu il riconoscimento di uno Stato palestinese. “Non vogliamo il crollo dell’Autorità Palestinese, ma se dovesse accadere non sarebbe la fine del mondo”, ha detto un consigliere di Netanyahu. Il prossimo mese l’esercito israeliano consegnerà al governo una lista di azioni conciliatorie nei confronti di Abu Mazen, incluso il rilascio di detenuti appartenenti ad al Fatah, e forse anche il trasferimento di altre zone della Cisgiordania al controllo delle forze di sicurezza palestinesi, riporta Haaretz.