Giustizia: Stefano Cucchi e gli altri “morti di Stato” di Francesco Sellari www.agoravox.it, 23 ottobre 2011 “Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte mi cercarono l’anima a forza di botte”. Nel novembre del 2009, sui muri di Roma comparvero alcuni manifesti mortuari che citavano un brano di Fabrizio De André. Erano dedicati a Stefano Cucchi, il ragazzo di 31 anni deceduto pochi giorni prima, il 22 ottobre. Come nel caso di Federico Aldrovandi, la sua vicenda è stata portata all’attenzione dell’opinione pubblica con la violenza delle immagini: le fotografie che la famiglia decise di diffondere ritraevano il volto del cadavere tumefatto, la schiena magrissima striata di lividi, la frattura evidente nell’area lombare. La storia probabilmente è nota. Qui ne ripercorriamo gli snodi principali. Cucchi è stato fermato dai carabinieri la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, nei pressi del Parco degli Acquedotti, zona Cinecittà, perché trovato in possesso di sostanze stupefacenti (venti grammi d’hashish, cocaina e alcuni farmaci. Cucchi soffriva di epilessia). Dopo essere stato fermato, viene accompagnato a casa dai carabinieri che perquisiscono l’appartamento. È comprensibilmente nervoso, ma sta bene, a sentire la ricostruzione dei genitori. Trascorre la notte in una caserma dell’Arma a Tor Sapienza. Il giorno seguente, in tribunale, si svolge l’udienza per la convalida dell’arresto. Deve essere successo qualcosa, perché Cucchi ha il volto gonfio, e il giudice dispone una visita presso il Fatebenefratelli. Il ragazzo viene trasferito in carcere, a Regina Coeli, e da lì all’ospedale sull’Isola Tiberina per un primo accertamento dove si riscontrano varie lesioni e la frattura di una vertebra. Cucchi rifiuta il ricovero (prognosi di 25 giorni), e passa la prima e unica notte nel penitenziario. Il giorno seguente le sue condizioni si aggravano. Viene visitato nuovamente al Fatebenefratelli e poi trasportato al reparto di detenzione del Sandro Pertini. Alla famiglia viene negata più volte la possibilità di visitarlo e non c’è modo di mettersi in contatto con lui. La motivazione: il reparto di detenzione del Pertini è comunque soggetto alle regole di un carcere, serve dunque un’autorizzazione specifica. Il tempo di ottenerla ed è già tardi: il 22 ottobre il corpo di Stefano giace sul lettino dell’obitorio, cinque giorni dopo il suo arrivo in ospedale. Per la sua morte sono ancora sotto processo sei medici, tre infermieri e tre agenti di polizia penitenziaria. È stata da poco acquisita agli atti del processo la lettera scritta da Stefano Capponi, sotto dettatura di un altro detenuto, il tunisino Tarek Ayala, il quale fece scrivere le parole che gli avrebbe detto lo stesso Cucchi: “Mi hanno ammazzato di botte i carabinieri, tutta la notte ho preso botte per un pezzo di fumo”. Ayala è ora indagato per calunnia. Al di là di quella che sarà la verità giudiziaria, Stefano è una delle vittime di un apparato di repressione (termine qui usato per intendere il contrasto alle attività al di fuori della legge) e detenzione che è stato incapace di tutelare la sua incolumità. C’è stato un abuso messo in atto da parte di coloro che sono demandati dallo Stato a gestire sul territorio il “monopolio della forza”? Da Roma a Varese. La salma di Giuseppe Uva, dopo oltre 3 anni dal decesso, avvenuto il 14 giugno 2008, potrebbe essere riesumata. Uva è morto in un reparto psichiatrico dopo aver passato tre ore in una caserma dei carabinieri, fermato in strada alle 3 di notte, insieme ad un amico, entrambi ubriachi. I risultati di una perizia predisposta dal tribunale varesino potrebbero determinare una diversa interpretazione delle cause della morte. Contrariamente a quanto stabilito fino ad oggi, Uva potrebbe non essere morto per la somministrazione di farmaci incompatibili col suo stato alcolemico. La perizia inoltre ha analizzato i pantaloni macchiati di sangue nella zona del cavallo, rilevando non solo tracce ematiche ma anche la possibile presenza di urina, feci e sperma. Si chiede Luigi Manconi, dell’associazione “A buon Diritto”: “Si può escludere che Uva abbia subito violenza sessuale?”. E perché non è mai stato sentito l’altro fermato, Alberto Biggiogero, che la notte stessa aveva chiamato il 118 sentendo le urla provenienti dalla stanza dove Uva veniva interrogato? Solo nel 2011 ci sono almeno due altre storie sulle quali andrebbe fatta chiarezza. La prima è quella di Michele Ferrulli, un uomo di 51 anni, obeso e con problemi al cuore, morto per un arresto cardiaco dopo una colluttazione con la polizia la sera del 30 giugno. Un video di scarsa qualità documenta i momenti in cui Ferrulli viene immobilizzato a terra. Il dubbio di un pestaggio è legittimo. Carlo Saturno aveva 22 anni quando è stato trovato impiccato ad un lenzuolo nella cella di isolamento del carcere di Bari. È morto il 7 aprile, dopo una settimana in coma. Era rinchiuso nel penitenziario pugliese per furto ma era finito in isolamento per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale: in pratica si era scontrato con alcune guardie carcerarie. Secondo una lettera anonima recapitata in procura, il 29 marzo, il giorno prima di suicidarsi, Saturno sarebbe stato in realtà picchiato. Al momento è aperta un’indagine per istigazione al suicidio contro ignoti. C’è da aggiungere però che i segni sul collo sono stati dichiarati compatibili sia con un’impiccaggione che con uno strangolamento. Ma la vicenda tragica del ragazzo di Manduria comincia anni prima. Nel 2007, si era costituito parte civile nel processo che vede imputati nove agenti di polizia penitenziaria, chiamati a rispondere di alcuni episodi di violenza ai danni dei minori costretti nel carcere minorile di Lecce. Episodi avvenuti tra il 2003 e il 2005, periodo nel quale anche Saturno era passato da quell’istituto. Oggi, amici e familiari chiedono di fugare ogni dubbio di una possibile correlazione tra la morte del ragazzo e il processo che lo vedeva tra i testimoni chiave. I “casi Cucchi” - morti avvenute in circostanze nebulose, storie caratterizzate da ricostruzioni contraddittorie, pezzi mancanti, versioni ufficiali che sono un insulto all’intelligenza umana - orami sono troppi e costituiscono una vera emergenza. Nelle nostre carceri, ma a volte nelle celle di scurezza o negli ospedali psichiatrici giudiziari, si continua a morire di morte violenta, e troppo volte aleggia il sospetto di una responsabilità attiva o passiva di chi in quei luoghi rappresenta lo Stato. Responsabilità che il più delle volte non vengono accertate. E quando invece arrivano a configurare ipotesi di reato, i presunti colpevoli rischiano pene risibili e prescrizioni facili. L’Italia, 20 anni dopo aver ratificato la Convenzione Onu contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, non ha ancora introdotto nel suo ordinamento il reato di tortura. Reato chiaramente non prescrivibile. Invece di parlare di mele marce, sarebbe forse più utile cominciare ad affrontare il tema in una prospettiva più ampia: c’è un problema di carattere culturale (formazione inadeguata, assenza di una consolidata cultura dei diritti civili, omertoso corporativismo) che interessa alcune frange delle nostre forze dell’ordine? Sono i tanti “morti di Stato” a sollevare questo interrogativo per il bene stesso di una democrazia che si crede, si immagina e si autorappresenta “civile”. Giustizia: ma il “41 bis” ha ancora senso? di Claudio Fava (Coordinatore Sel) L’Unita, 23 ottobre 2011 Le leggi speciali evocate da Maroni dopo gli scontri di piazza non mostrano la forza dello Stato ma la sua debolezza. E forse è arrivato il momento di riflettere anche sul carcere duro per i mafiosi La risposta autoritaria che è stata suggerita dal governo e da alcuni buontemponi dell’opposizione alle violenze di sabato scorso (riesumazione della legge Reale, estensione dei Daspo ai cortei politici, fideiussioni personali degli organizzatori delle manifestazioni...) è stata ben commentata da molti. Come spiegava Rodotà, la forza della democrazia sta nella capacità di utilizzare fermamente la legalità ordinaria, senza precipitarsi a invocare leggi eccezionali appena ci si trova di fronte a qualche difficoltà. Quelle leggi spesso non sono una soluzione ma un alibi, servono a celare le debolezze e le inefficienze delle istituzioni, a fingere solo la faccia feroce. Il primato delle leggi ordinarie va esteso però ben oltre la curva degli stadi e il malessere delle piazze. E a costo di apparire un provocatore, vorrei cominciare a discutere se sia ancora opportuno tenere in piedi una legislazione d’emergenza sulla lotta alle mafie, e se queste norme eccezionali non continuino a raccontare più la debolezza nostra che la loro forza. Parlo del 41 bis, di un regime carcerario duro, aspro, rigido che riduce per i capimafia la possibilità degli incontri con i familiari, delle ore d’aria, dei momenti di socialità durante la detenzione, che toglie il diritto a un contatto fisico tra padri e figli, tra mariti e mogli, che morde la dignità ancor più che la pericolosità degli individui. E siccome so bene di cosa sto parlando, so anche quale legittima obiezione si può fare: quel regime carcerario ha salvato decine, forse centinaia di vite che altrimenti i boss di camorra, ‘ndrangheta e Cosa Nostra avrebbero ordinato di sopprimere senza doversi allontanare dalla loro galera. Basti pensare agli anni di Cutolo a Poggioreale o di Santapaola a Catania, anni in cui il carcere era cosa loro, diviso secondo obbedienze, appartenenze, affiliazioni. E dalla galera si continuava a governare il male : traffici, omicidi, appalti truccati, violenza sociale, corruzione politica, impunità... C’è stato un tempo in cui l’unica risposta d’emergenza, certo fu quella di murare vivi i macellai della mafia per evitare che continuassero a comandare, ad ammazzare, a corrompere. E ci furono anche ministri collusi, funzionari corrotti, politici imbelli che s’inventarono campagne contro il 41 bis in cambio di una manciata di voti da parte dei mafiosi. È storia recente la firma di un ministro della Giustizia che nel 1993, il giorno dopo le più spregiudicate stragi di mafia, firmò per decreto la fine del regime di detenzione speciale per tutti i mafiosi allora in 41 bis (più di trecento) dicendo poi che l’aveva fatto per ristabilire un clima di pacificazione nazionale: come dire, un ramoscello d’ulivo offerto a Cosa Nostra che forse in cambio s’impegnava a non far saltare più con il tritolo le strade e le vite d’Italia. Questa fu una trattativa, cioè viltà, intelligenza col nemico, comportamento di infinita miseria morale sulla quale in tutte le sue declinazioni è bene che i giudici oggi facciano luce: chi mentì, chi tacque, chi trattò e cosa ne ebbe in cambio. Io qui parlo d’altro. Non di un armistizio con i mafiosi ma, al contrario, d’una prova di forza e di civiltà della nostra democrazia. Che dovrebbe dimostrare a se stessa di non aver più bisogno di leggi speciali e ai mafiosi di non temerli più. L’ho già scritto quando hanno scarcerato il figlio di Rima e, con intenzioni assai diverse da loro, i leghisti veneti e il sindaco di Corleone dissero che non lo volevano a casa loro. Ma se una comunità ha paura di un ex galeotto solo perché si chiama Riina, se siamo così deboli da non poter pretendere da quel ragazzo che stia alle regole, ai patti, alle leggi, che senso hanno avuto trent’anni di lotta alle mafie? E chi glielo fa fare ai ragazzi della cooperativa Placido Rizzotto di Corleone ad andare a coltivare con grande fatica le terre che lo Stato ha confiscato al padre di quel ragazzo? Ragioniamoci. Assumiamo questa discussione come una prova di maturità, come il segno d’una loro debolezza (loro: dei manosi), ragioniamo su talune leggi speciali che forse ieri furono necessarie ma oggi rischiano di apparire come segni d’abitudine. Ragioniamoci adesso che in Parlamento siedono deputati e ministri amici dei mafiosi. Se non altro per correggere questa vecchia ipocrisia italiana: fare la faccia feroce con Riina che ha molti ergastoli sulle spalle ma mostrarsi immensamente tolleranti con quei ministri che dei manosi furono sodali e contigui. O, se vogliamo dirla tutta, uno Stato che non ha la forza morale e giuridica di processare come qualsiasi altro cittadino Nicola Cosentino e Saverio Romano, non può assumere su di sé la licenza morale di imporre il carcere duro a nessuno. Giustizia: Gasparri e Caputo (Pdl); il 41-bis non si tocca… Ansa, 23 ottobre 2011 “Non scherziamo con il carcere duro per i mafiosi. Il 41 bis non si tocca. È molto pericolosa la tesi de l’Unità, che pubblica un articolo di Claudio Fava, del partito di Vendola, che chiede l’abolizione delle misure restrittive decisive per combattere i boss. La tesi di Fava e della sinistra è da bocciare senza esitazioni e rappresenta un messaggio ambiguo e pericoloso”. Lo afferma il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri replicando all’articolo di Fava su l’Unità. “E non lo coprono le pretestuose polemiche verso esponenti del centrodestra. Quando la sinistra sosteneva i governi Amato e Ciampi - ricorda - fu cancellato il 41 bis per centinaia di mafiosi con la resa dello Stato al crimine. C’era Scalfaro al Quirinale e Mancino al Viminale. Ho voluto in ogni legislatura il rafforzamento del 41 bis e non consentirò che prevalga la tesi di cancellarlo sostenuta dal partito di Fava e Vendola”. Caputo: il 41 bis non va eliminato “Il 41 bis è una misura che non può e non deve essere eliminata. Non condivido la tesi di chi sostiene il contrario e mi preoccupa che si possa discutere di eliminare le misure restrittive previste per pericolosissimi esponenti della criminalità organizzata mafiosa”. A dichiararlo è Salvino Caputo parlamentare regione del Pdl e componente della commissione regionale antimafia in merito alla tesi di Claudio Fava del partito di Vendola (Sel). “In un momento in cui la mafia ha subito una duro colpo per l’arresto di latitanti e boss - aggiunge Caputo - discutere di eliminare le restrizioni del 41 bis rappresenta un messaggio pericoloso che non va condiviso. Grazie al 41 bis ed alle confische dei patrimoni è stato possibile contrastare in modo concreto la mafia. Abbiamo avuto modo di vedere che in molte occasioni - conclude Caputo - i boss, anche dal carcere, hanno continuato a dare ordini e comandi. Ritengo, invece, che le misure vadano inasprite per evitare pericolosi condizionamenti”. Giustizia: decreto per evitare la galera ai poliziotti, non si può processare chi fa il proprio dovere di Maria Lombardi Il Messaggero, 23 ottobre 2011 Una tutela per poliziotti, così da “evitare che ci sia un pm che li mandi in galera”. È una delle misure proposte da Maroni per contrastare le violenze durante le manifestazioni dopo il sabato di guerriglia nella Capitale. “Le porterò al Consiglio dei ministri chiedendo un decreto legge perché quello che è accaduto a Roma non accada più”, spiega il ministro dell’Interno prendendo la parola al corso di formazione politica organizzato dal ministro per le pari opportunità Mara Carfagna a Salerno. Dopo il caso Giuliani gli uomini in divisa hanno l’indicazione di non reagire alle aggressioni dei manifestanti violenti. “Le vittime sono i poliziotti, uomini e donne, che dal G8 di Genova si sentono esposti al rischio di passare per carnefici”, sostiene il ministro. “Quando un agente viene processato per aver fatto il suo dovere si diffonde questa consapevolezza: perché dovrei fare qualcosa che mi distrugge la vita?”. Maroni è tornato a parlare delle norme anti-guerriglia rispondendo a una domanda sui piani dei gruppi insurrezionalisti. Su un documento pubblicato dal sito di Panorama si parla chiaramente di “azioni distruttive che possono andare dal lancio di una molotov all’assassinio: ogni gruppo o individuo deciderà come meglio vorrà”. Il proclama diffuso sul web è firmato dalla Federazione anarchica informale (Fai), una sorta di federazione di 35 sigle insurrezionaliste presenti in 9 paesi. “Non abbiamo strumenti di prevenzione”, ammette il ministro. Tant’è che le quattro persone fermate prima della manifestazione di Roma, nonostante avessero bastoni e mazze, sono state trattenute in caserma sette ore, “rischiando pure la denuncia. Le attuali norme di legge non consentono di procedere ad azioni preventive di polizia di chi è solo sospettato di voler partecipare a iniziative di violenza di piazza”. Ed è molto preoccupato, il ministro, per la manifestazione “No Tav” di domani in Val di Susa. “Distingueremo tra chi manifesta pacificamente e chi vuole infiltrarsi usando la violenza - aggiunge - abbiamo approntato un sistema per tenerli a debita distanza, almeno un chilometro e impediremo loro di entrare in un cantiere legittimo”. Un appello ai cittadini e ai sindaci: “Siano i primi a isolare i violenti”. Ci hanno provato a farlo, i pacifici del corteo di sabato scorso nella Capitale, “ma non in modo sufficiente”. La protezione alle forze dell’ordine si aggiunge alle altre misure per contrastare “il terrorismo urbano” che il ministro ha illustrato nei giorni scorsi in Senato. Oltre al fermo di polizia e arresto obbligatorio per chi prima di cortei o sit-in è sorpreso con kit di guerriglia urbana, ci sono alcune misure mutuate dal calcio: estensione dell’arresto in flagranza differita anche alle manifestazioni, come già avviene negli stadi, e un provvedimento che impedisca a chi ha precedenti di partecipare ai raduni di piazza, sul modello del Daspo. Ma i tagli alla sicurezza rischiano di lasciare le forze di polizia a corto di mezzi e le volanti senza benzina. “Siamo pronti ad attingere - assicura il ministro - ai fondi dei beni confiscati alla mafia”. Giustizia: Sappe; la Polizia penitenziaria non ce la fa più… domani sit-in davanti al Ministero Comunicato stampa, 23 ottobre 2011 Una manifestazione non “contro” ma “per”: per permettere alla Polizia Penitenziaria di essere messa in condizione di far quotidianamente il proprio dovere nelle sovraffollate carceri italiane. È quello che si propone il sit-in di protesta dei poliziotti aderenti al Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa Organizzazione dei Baschi Azzurri, che lunedì mattina 24 ottobre prossimo manifesteranno a Roma sotto la sede del Ministero della Giustizia in via Arenula. “Tutti sanno in quali condizioni sono le carceri italiane, ma probabilmente in pochi sanno davvero quali quotidiane difficoltà incontrano i poliziotti penitenziari per poter svolgere al meglio il proprio servizio - nella prima linea delle sezioni detentive delle carceri, a bordo dei mezzi che trasportano i detenuti, nelle sale degli Ospedali in cui piantonano i detenuti ricoverati - viste le gravi criticità penitenziarie che si caratterizzano per il pesante sovraffollamento e la consistente carenza dei nostri organici. Uomini e donne che sono obbligati ad effettuare turni di lavoro straordinario senza vedersi corrisposti i relativi emolumenti economici ed a anticipare le spese nei servizi di traduzione, compiuti spesso su mezzi fatiscenti ed inadeguati, con indennità di missione non pagate in taluni casi dal 2010”, spiega il segretario generale del Sappe, Donato Capece, che aggiunge: “Alcuni Sindacati del Corpo hanno preferito scendere in piazza e digiunare per sollecitare un provvedimento di amnistia, pensando che questo possa essere la panacea dei mali penitenziari. Ma non è così: quello che a nostro avviso serve è un complessivo ripensamento dell’esecuzione della pena in Italia, prevedendo invece un maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione, la depenalizzazione dei reati minori e un ripensamento della carcerazione preventiva con un maggior ricorso agli arresti domiciliari per le condotte meno gravi.” Capece sottolinea che il Sappe manifesterà anche per le frequenti movimentazioni di Personale dagli Istituti di pena verso le più comode stanze del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e per contestare la decisione del Dap di smobilitare la Banda musicale del Corpo: “Lunedì manifesteranno gli orchestrali del Corpo che, con i loro strumenti, terranno un concerto in occasione del sit-in del Sappe sotto le finestre del Ministro Palma”. Lettere: detenuti a Regina Coeli, costretti a dormire per terra tra sporcizia e scarafaggi www.radiocarcere.com, 23 ottobre 2011 Francesco, ex detenuto, racconta che nell’antico carcere romano, risalente al 1.600, c’è talmente tanto sovraffollamento che nelle celle i detenuti sono costretti a dormire per terra, tra sporcizia e scarafaggi. Ma non solo. Infatti nel carcere di Regina Coeli i detenuti sono talmente tanti (più di 1.200 persone per meno di 800 posti) che il vitto è sufficiente solo per il 30% i loro. E gli altri? Di seguito pubblichiamo una lettera spedita da un gruppo di persone detenute nel carcere di Regina Coeli. “Carissima Radio Carcere, anche nel vecchio carcere romano di Regina Coeli siamo ormai arrivati allo stremo. Innanzitutto a causa del sovraffollamento. Infatti le celle del carcere di Regina Coeli non solo sono rovinate ma sono ormai piene zeppe di detenuti, tanto che per molti manca addirittura il letto e allora vuoi sapere come si arrangiano? Sono costretti a dormire per terra sul pavimento della cella. E guarda che non si tratta di casi eccezionali, bensì di realtà che riguardano tantissime celle e tantissimi detenuti di Regina Colei. A questo proposito la cosa che ci infastidisce di più è che alla televisione sentiamo che fanno tante leggi che puniscono chi maltratta gli animali, ma non fanno nulla contro i tanti maltrattamenti che i detenuti subiscono in carcere, tanto che spesso ci domandiamo: ma non era meglio nascere animali? Inoltre dovete sapere che, aumentando i detenuti, diminuisce per tutti anche il quantitativo di cibo. Il vitto del carcere, se vitto si può chiamare, è oggi appena sufficiente per il 30% dei detenuti di Regina Colei, mentre agli altri non resta che soffrire la fame. Già la fame…una parola che è sempre più frequente tra i detenuti di Regina Coeli. Infatti, come sapete, noi potremo comprare dei beni alimentari in carcere, ma siccome i prezzi sono proibitivi molti di noi non possono acquistarli e si devono accontentare del poco e schifoso cibo che passa il carcere. Non a caso stiamo cercando di organizzare uno sciopero della spesa così che l’impresa che ha vinto l’appalto per venderci gli alimenti la smetterà di speculare sulla nostra pelle. Infine, quanto al diritto alla nostra salute, vi diciamo solo che qui a Regina Coeli viviamo sperando ogni giorno di non stare male, perché altrimenti sono guai seri”. Un gruppo di persone detenute nel carcere Regina Coeli di Roma Liguria: il Provveditore alle carceri; troppo intenso il lavoro di agenti e magistrati Secolo XIX, 23 ottobre 2011 “Il sovraffollamento delle carceri è dovuto ad una maggiore incisività di quella che è l’attività di repressione e prevenzione. Di conseguenza questo comporta un aumento delle persone che stanno attualmente in detenzione”. A dirlo è Giovanni Salamone, provveditore ligure dell’amministrazione penitenziaria intervenuto a Radio19 per commentare la situazione di emergenza delle carceri liguri, secondo cui nell’ultimo anno l’aumento medio della popolazione carceraria è stato di 150 unità in più. Secondo Salamone non si può sperare in interventi strutturali a breve termine perché richiedono investimenti che non sempre si possono fare. “La soluzione può essere cercata altrove magari nel quadro normativo che faccia sì che il numero di persone detenute sia contenuto. L’aumento della popolazione carceraria, visto che non è cambiato il quadro normativo, è frutto di un’attività più intensa delle forze dell’ordine e probabilmente anche di un diverso approccio delle stesse autorità giudiziarie che intervengono nella valutazione delle singole posizioni giuridiche di detenuti”. Salamone ha poi annunciato che nei prossimi giorni verrà riattivata la sezione della casa circondariale della Spezia, chiusa per lavori di ristrutturazione. “Non possiamo considerarla una soluzione al problema- ha detto - ma può essere d’aiuto”. Liguria: Idv; il sistema democratico si misura dalle carceri… noi siamo fermi al Medioevo www.genova24.it, 23 ottobre 2011 In riferimento alla drammatica condizione in cui versa il sistema carcerario italiano intervengono e dopo l’ultimo suicidio in cella verificatori a Marassi, intervengono l’onorevole Giovanni Paladini, responsabile nazionale del dipartimento Sicurezza di Italia dei Valori e il capogruppo in regione Liguria Nicolò Scialfa. “Definire esasperata la condizione in cui versano le case circondariali italiane credo sia un eufemismo; - spiega Giovanni Paladini, coordinatore regionale e responsabile nazionale del dipartimento Sicurezza dell’Italia dei Valori - assistiamo quotidianamente a situazioni a dir poco incredibili e inumane. I suicidi e gli autolesionismi sono all’ordine del giorno sia per i detenuti che per le guardie carcerarie (vittime, spesso non citate, di condizioni di lavoro massacranti dal punto di vista fisico e psicologico), costretti entrambi, e loro malgrado, a condividere spazi angusti, inappropriati e assolutamente insalubri. Questo a causa di scarsi investimenti e ad un accentuato e reiterato disinteresse nei confronti di un settore così delicato”. “Non bisogna dimenticare che il sistema democratico di un Paese si misura anche e soprattutto dalla qualità delle proprie carceri. Il motivo stesso dell’esistenza delle carceri è la necessità di un recupero dei soggetti che delinquono: oggi accade invece che la percentuale di reiterazione di reato è un dato in continuo aumento, anzi spesso avviene che l’esperienza carceraria determina un aggravio della propria condizione delinquenziale e questo anche a causa di una inopportuna ma ineludibile promiscuità tra detenuti in attesa di giudizio e coloro che invece sono già stati condannati”. Un problema che secondo gli esponenti dell’Idv va affrontato alla radice, attraverso una presa di coscienza delle istituzioni al fine di ripristinare, così come previsto dalla carta Costituzionale, il senso stesso dell’esistenza delle Carceri, ponendo fine ad una situazione ormai insostenibile. “Da ex preside - prosegue Nicolò Scialfa, capogruppo in regione Liguria di Italia dei Valori - ho avuto modo di collaborare in diverse occasioni con lo stimatissimo dottor Mazzeo, direttore del carcere di Marassi di Genova, dando vita a iniziative culturali finalizzate al recupero e il reintegro dei detenuti. Abbiamo organizzato spettacoli teatrali, permesso l’accesso all’istruzione primaria e secondaria, ma in questa condizione è difficile qualsiasi iniziativa. La popolazione carceraria di Marassi, ad oggi, è di circa 816 detenuti, contro una capienza di 456. Capirete che anche l’iniziativa più banale, il fare lezione, il garantire ai detenuti le cure mediche essenziali all’interno di quelle mura diventa un’impresa impossibile, una lotta quotidiana per trovare spazi adeguati e sicuri dove poter svolgere questo tipo di attività”. “L’altro ieri ho appreso del suicidio di un altro detenuto, Rahamani Jalel, 29 anni di origini tunisine, un ragazzo che sarebbe tornato in libertà ad aprile ma che ha preferito impiccarsi. Credo che questo triste avvenimento sia emblematico e testimoni la deprivazione dell’uomo, la perdita di dignità, la bestialità e il disagio con cui questi soggetti debbono necessariamente confrontarsi - prosegue Scialfa - La soluzione non è l’indulto, l’abbiamo visto, bisogna intervenire in altro modo, attraverso una rivoluzione culturale al fine di riportare l’istituzione carceraria a strumento di recupero e non di imbestialimento dei soggetti che, per lavoro o per colpa, sono costretti a trascorrere le giornate al suo interno.” “Dal punto di vista strettamente operativo - conclude Paladini - situazioni su cui intervenire nell’immediato sono innumerevoli. Servono soluzioni immediate per arginare la piaga della tossicodipendenza diffusa tra i detenuti, per alleviare il duro lavoro degli agenti di Polizia Penitenziaria, costretti ad operare quotidianamente sotto organico, con gravi rischi per la sicurezza loro e dei detenuti, ed occorre razionalizzare l’intero sistema carcerario affinché carceri di recente costruzione siano rese realmente operative dal punto di vista della sicurezza e del recupero sociale dei detenuti”. Sappe: Paladini e Scialfa non sanno di cosa parlano “Dispiace constatare quale e quanta approssimazione hanno i politici quando affrontano i problemi penitenziari. Non sanno neppure di cosa parlano. Lo conferma clamorosamente la nota congiunta del responsabile Sicurezza dell’Idv, Giovanni Paladini, e del capogruppo del partito in Regione Liguria, Nicolò Scialfa, alla luce del suicidio commesso nel carcere di Marassi da un detenuto tunisino”. A dichiararlo è Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto e Commissario straordinario ligure del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, commentando le dichiarazioni degli esponenti liguri dell’Italia dei Valori. “Paladini e Scialfa parlano di “guardie carcerarie” vittime di suicidi ed atti di autolesionismo. È grave che Scialfa e soprattutto Paladini, che pure proviene dai ruoli della Polizia di Stato e che spesso si è occupato dei problemi dei Baschi Azzurri del Corpo, non sappia che nelle carceri non lavorano “guardie carcerarie”, bensì donne e uomini appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. Guardia carceraria (ma anche secondino) è un appello vetusto ed anacronistico: la legge 395 del 15 dicembre 1990 (oltre 20 anni fa...) ha sciolto il Corpo degli Agenti di Custodia (improprio, quindi, anche definirli ancora agenti di custodia) ed ha istituito il Corpo di Polizia Penitenziaria, equiparato a tutti gli effetti alle altre quattro Forze dell’Ordine (Arma dei Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Corpo Forestale dello Stato). Ancora. I due Dipietristi dicono che molti degli stranieri in carcere lo sono per violazione della legge sull’immigrazione: non è affatto vero. Dei circa 25mila detenuti stranieri nelle celle italiane, i detenuti in cella solo per violazione del Testo Unico sull’immigrazione sono circa 3.700: e cioè il 14%. Quel che serve, quando si parla di carcere, è sapere di cosa si parla. Ed evitare la brutta figura di dire castronerie come quelle contenute nella nota congiunta di Paladini e Scialfa”. Avellino: detenuto malato di tumore, da agosto attende di essere sottoposto a chemioterapia www.ottopagine.net, 23 ottobre 2011 Raffaele Corona ha 33 anni, da cinque vive in una cella del carcere di Bellizzi dove è detenuto per reati legati a rapine e per i quali si è sempre professato innocente. Da agosto scorso è in attesa di essere trasportato nel reparto oncologico dell’ospedale Moscati per sottoporsi alla chemioterapia, che gli ha prescritto il medico dopo avergli riscontrato un tumore al testicolo. A seguito di questa diagnosi lo specialista aveva previsto anche un immediato intervento chirurgico che doveva tenersi il 22 agosto scorso. Tuttavia il ricovero non viene effettuato per ragioni mai chiarite: voci di corridoio parlerebbero di problemi di traduzione, la direttrice, però nell’incontro che ha avuto con l’avvocato del giovane detenuto, Tiziana Teodosio, ha smentito. Sta di fatto che il 38enne solo il cinque settembre viene trasportato in ospedale per un esame esplorativo, dei markers intraoperatori, negativo. Il 14 settembre, inoltre, a seguito di un esame istologico positivo, il giovane viene finalmente sottoposto ad orchifunicilectomia radicale destra. Sia l’intervento che le visite sono state svolte alla presenza delle guardie carcerarie. Dopo una diffida presentata dall’avvocato Teodosio, il detenuto è stato sottoposto a visita oncologica il 10 ottobre e il medico gli ha prescritto per il 24 ottobre l’inizio della chemioterapia. Ma prima di avviare la terapia invasiva, il giovane doveva sottoporsi al prelievo del seme per evitare il rischio di sterilità. Tuttavia, sino al 20 ottobre nessuna informazione è stata data al detenuto circa l’eventualità del suo ricovero e per il prelievo. Per questo solo dopo il sollecito dell’avvocato Teodosio, la sera stessa è stato consegnato un contenitore per la raccolta seme in cella, sennonché il campione è stato prelevato soltanto il giorno seguente, ovvero, avendo superato i massimi di conservazione, non serviva più a nulla. Comunque, a parte il prelievo del seme, il 24 ottobre il detenuto non è stato mai trasportato in ospedale per cominciare la chemioterapia. La difesa ha già interessato la Procura generale di Roma dal mese di settembre, quelle di Avellino, di Napoli ad ottobre per sollecitare la decisione della sospensione della pena. Nel frattempo sono state svolte istanze di permesso premio, essendovi i requisiti, istanze di visite mediche presso altre strutture, visite mediche in carcere con medici esterni. “Presso l’ufficio di sorveglianza di Avelino, il fascicolo del detenuto è stato sdoppiato - ha detto l’avvocato Teodosio - per sviare le opportune indagini. Al detenuto non è stata fornita alcuna informazione circa il proprio stato di salute e sulla terapia da svolgere se non per sentito dire o per “intuizione”, oppure dopo sofferte attività per attingerle anche da parte mia. Tanto esposto - continua l’avvocato - per chi volesse prendersi la pena di interessarsi di vicende umane che spaccano il cuore, di persone dotate di ordinaria umanità, dallo spirito semplice e non indurito da ferocia e superficialità, si formula l’istanza di immissione in libertà ad horas del detenuto perché possa tentare di avere salva la vita e di porre rimedio e limitare i danni già irreparabili di cui è vittima per esclusiva responsabilità di funzionari dello stato da individuare e generalizzare, che con le loro omissioni stanno commettendo un vero e proprio omicidio e perpetrando torture inaudite su un essere vivente e nello specifico ad un giovane uomo, al suo futuro (se l’avrà) e alla sua famiglia. Sassari: l’uccisione in cella di Marco Erittu; il pm “blinda” le testimonianze prima del processo L’Unione Sarda, 23 ottobre 2011 L’inchiesta non è chiusa ma il pm dell’Antimafia di Cagliari Giancarlo Moi vuol blindare la testimonianza del pentito. Dopodomani Giuseppe Bigella, 31 anni, sassarese, sarà sentito dal gup Giorgio Altieri a Cagliari durante un incidente probatorio: si tratta di uno strumento che anticipa la formazione della prova rispetto all’inizio del processo. Troppo delicate le rivelazione dell’uomo che ha fatto riaprire le indagini sull’omicidio di Giuseppe Sechi e sul sequestro di Paoletto Ruiu per aspettare il dibattimento. Nel marzo 1994 il giovane di Ossi era sparito il giorno prima che i familiari del farmacista di Orune - rapito nell’ottobre 1993 - ricevessero un lembo d’orecchio che non era del rapito ma di Sechi. Nessuno dei due è mai rientrato a casa. Di quei fatti ha parlato molti anni dopo un detenuto che scontava a San Sebastiano una condanna per droga: Bigella ha soffocato Marco Erittu, 40 anni, di Sassari, con un sacchetto di plastica in cella, su ordine di Giuseppe Vandi, 48 anni di Sassari. Il movente? Erittu sapeva del coinvolgimento di Vandi nella vicenda Sechi e aveva deciso di riferito tutto al magistrato. Stando al racconto del pentito l’omicidio è stato possibile perché un agente di polizia penitenziaria, Marco Sanna, 48 anni, di Bonorva, avrebbe aperto la cella della vittima predestinata dove Bigella sarebbe entrato con un altro detenuto, Nicolino Pinna. Fin qui le rivelazioni del pentito che, lo scorso 15 luglio, hanno portato all’arresto di Vandi, Sanna e dello stesso Bigella per omicidio pluriaggravato premeditato: solo per Pinna il gip ha ritenuto non ci fossero riscontri. Sono due le udienze fissate per l’incidente probatorio: la prima dopodomani, la seconda il 7 novembre. Bigella dovrà parlare dell’omicidio Erittu, del movente, del mandante e del ruolo dell’agente Sanna al quale viene contestata l’aggravante di aver violato i doveri di controllo, vigilanza e tutela dei detenuti. Nell’interrogatorio non si parlerà, invece, del traffico di droga interno al carcere di San Sebastiano che coinvolgerebbe altri agenti di polizia penitenziaria, fatti anche questi riferiti dal pentito. Oristano: Uil; slitta l’apertura del nuovo carcere, mancano soldi e personale penitenziario La Nuova Sardegna, 23 ottobre 2011 Potrebbero esserci problemi economici dietro l’ulteriore rinvio, da parte del Ministero delle infrastrutture, dell’apertura del nuovo carcere di Massama. Era stato il provveditore regionale Gianfranco De Gesu ad annunciare, alcuni mesi fa, la notizia del trasferimento da piazza Manno alla nuova struttura già ultimata nella frazione. Secondo il sindacato Uil penitenziari c’è il rischio che il carcere di Massama possa diventare l’undicesima nuova struttura italiana a rimanere chiusa. I tagli del bilancio già previsti dalla Finanziaria, la crisi economica e la drammatica carenza del personale incideranno in ugual misura sulle nuove strutture di detenzione. Il Piano carcere voluto dal Governo rischia così di rimanere solo sulla carta. Per avere un’idea dell’attuale situazione economica è sufficiente ricordare che l’amministrazione penitenziaria avrebbe un debito nel solo carcere di piazza Manno che sfiora i centomila euro. Non sarebbero state pagate le bollette telefoniche, quelle della luce e del gas relativamente al 2010. Una mancanza che sta portando al collasso gli istituti già operativi e che andrà probabilmente a incidere anche su quelli di nuova apertura, determinando, sembra inevitabilmente, ulteriori rinvii. Per il carcere di Massama il trasferimento completo di personale e detenuti era previsto entro il mese di dicembre, ma i tempi sembrano essere molto più lunghi. “Non si riesce a pagare i debiti accumulati e risulta difficile credere che ci siano le risorse per avviare il trasferimento dalla vecchia struttura di Oristano al nuovo istituto di Massama - ha denunciato Roberto Picchedda, coordinatore regionale Uil-Pubblica amministrazione -. È un suicidio pensare di poter aprire una nuova struttura. In Italia quelle pronte e non aperte sono dieci. Massama potrebbe diventare l’undicesima”. Secondo la Uil sono due i problemi che rischiano di allungare i tempi di apertura del nuovo carcere: l’organico, in primo luogo, e quindi le risorse. “Con i trasferimenti e i nuovi arruolamenti, in Sardegna dovrebbero arrivare meno di cinquanta unità - ha spiegato Roberto Picchedda. Un numero ridicolo se si pensa che solo ad Alghero il fabbisogno è di novanta persone, mentre a Tempio si va avanti con solo trenta unità lavorative. A Oristano non si arriva neppure a cento e per la nuova struttura ne occorrerebbero almeno il doppio. Non possiamo inoltre non denunciare che è ripreso il pendolarismo che penalizza il nostro organico femminile, soprattutto tra Nuoro e Oristano. Credo che la situazione economica attuale dica tutto sul come in realtà stiano le cose - ha concluso Roberto Picchedda. Non ci sono i denari per gestire la vecchia struttura di piazza Manno. Dove vogliamo andare se il nuovo carcere è dieci volte più grande dell’attuale. Oggi riusciamo a fare fronte a stento a quattro giorni di pulizie, come si può pensare di trasferirsi in una struttura estesa per oltre 24mila metri quadrati? Dove si troveranno le risorse per attivare tutte le forniture? Si sono sperperati denari pubblici per realizzare le nuove strutture, che oggi rischiano di rimanere chiuse”. Alghero (Ss): il Provveditore promette aumento dell’organico, Sindacati sospendono l’agitazione La Nuova Sardegna, 23 ottobre 2011 Spiragli d’intesa tra amministrazione del carcere e sindacati di polizia penitenziaria: dopo l’incontro di ieri con il provveditore Gianfranco De Gesu si è deciso di sospendere lo stato di agitazione. Almeno per ora lo “sciopero bianco” degli agenti della casa circondariale di San Giovanni è stato bloccato. E non sarà inscenato neanche il sit-in che Sinappe e Sappe, i due sindacati di categoria, avevano annunciato rispettivamente per stamattina e martedì prossimo. A calmare gli animi esasperati dei poliziotti del carcere è stato l’arrivo in città del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, che ieri mattina, nella sala conferenze dell’istituto di pena, ha incontrato insieme con il neo direttore Elisa Milanesi i rappresentanti regionali e locali delle due sigle. Sul tavolo i tanti problemi da tempo denunciati dagli uomini che devono garantire sicurezza e assistenza ai detenuti all’interno del carcere. In primis, quelli del sovraffollamento (190 reclusi a fronte di una capienza che ne prevede 150) e dell’annosa carenza dell’organico (attualmente il personale di sorveglianza è composto da sessanta unità, ossia trentatré in meno rispetto a quelle indicate dal ministero della Giustizia). Tuttavia De Gesu, anche per scongiurare lo stato di agitazione proclamato lunedì scorso, ha assicurato che si attiverà sin da subito per cercare di dare, per quanto è possibile, risposte concrete. “Nel dettaglio - spiega Aniello Canu, segretario algherese del Sappe - il provveditore ha promesso che s’impegnerà a far arrivare presto cinque colleghi, ma soprattutto ha assicurato che per ora non sarà riaperta la cosiddetta Sezione D, la cui riattivazione ovviamente vanificherebbe anche questa piccola compensazione dell’organico”. Rassicurazioni sono giunte anche per quanto riguarda la questione delle ferie arretrate. “Ora - conclude Luigi Arras, coordinatore nazionale del Sinappe - non ci resta che attendere un mesetto per verificare se le parole di ieri si tradurranno in fatti. In caso contrario siamo pronti a riprendere l’agitazione”. Bari: ex detenuti gestori di un albergo low cost, grazie ai padri comboniani di Anna Puricella La Repubblica, 23 ottobre 2011 Si chiamerà Etico hotel, sarà una struttura alberghiera che sorgerà a Bari e sarà gestita da ex detenuti e condannati a pene alternative. Un caso unico per la regione, forse anche per l’Italia. È il primo progetto della cooperativa sociale Ermetica, nata dall’incontro tra le associazioni Prospettiva legale e Il viottolo con l’obiettivo di favorire l’integrazione di soggetti a forte rischio di esclusione sociale, offrendo loro un lavoro. La sede è stata già individuata: via Giulio Petroni, 101, nell’edificio che ospita i padri comboniani. Sono stati proprio loro a voler aderire all’iniziativa Etico hotel, dicendosi disponibili a cedere parte della struttura in comodato d’uso gratuito per gli anni necessari ad avviare e far crescere il progetto. Solo che i lavori non sono ancora stati avviati. Se sulla carta l’idea è buona ed è già pronta, nella pratica ha incontrato i primi intoppi. “Abbiamo cominciato con le nostre forze - dice Valentina Novembre de Il viottolo - ma ci siamo resi conto di non potercela fare”. La ristrutturazione e la riqualificazione degli ambienti richiedono un investimento economico che le due associazioni promotrici non possono sostenere, perciò “la nostra missione ora è trovare finanziamenti - continua Novembre - e coinvolgere le istituzioni, con le quali abbiamo già avviato un dialogo. L’invito è esteso anche a banche, associazioni e privati”. Un primo appuntamento è domani alle 11 proprio in via Giulio Petroni, per la conferenza stampa cui partecipano Pietro Rossi, garante dei detenuti della Regione Puglia, e Giuseppe Martone, provveditore per l’amministrazione penitenziaria per la Puglia. L’iniziativa ha ricevuto già il plauso del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che la vede come risposta valida al sovraffollamento delle carceri: “Solo il volontariato e l’associazionismo sociale riescono a incidere in maniera seria e concreta sulle problematiche che affliggono la società italiana”. I tempi per la realizzazione di Etico hotel sono ancora incerti, nella migliore delle ipotesi potrebbe entrare in funzione nel giro di un anno. Più che a un albergo, assomiglierà a un ostello. Scelta studiata, questa, perché va incontro a turisti “low budget” che non possono permettersi un soggiorno a cinque stelle e che a Bari hanno spesso difficoltà a trovare soluzioni a portata delle loro tasche. Etico hotel avrà dieci stanze e 34 posti letto, un bagno e una sala in comune, una cucina attrezzata e un punto ristoro. Sei posti letto saranno riservati agli ex detenuti senza fissa dimora. Insieme agli altri, garantiranno agli ospiti tutti i servizi: dalla reception alla pulizia delle camere, fino alla preparazione delle colazioni, alla lavanderia e al giardinaggio. “Una struttura dove l’aspetto relazionale tra gli ospiti assume un ruolo di primo piano - concludono da Ermetica - dove la condivisione di spazi si traduce in condivisione di esperienze e la conoscenza reciproca in crescita”. Padova: i panettoni prodotti dai detenuti sbarcano a Londra www.padova24ore.it, 23 ottobre 2011 Gli oramai mitici panettoni realizzati nella casa di reclusione di Padova dalle mani dei maestri pasticceri e dei detenuti (oramai altrettanto esperti) assunti dal Consorzio Rebus sono sbarcati nella grande City. E con la loro fragranza e il loro irresistibile profumo hanno turbato il tradizionale aplomb britannico. È mercoledì 19 ottobre, siamo all’Istituto Italiano di Cultura al 39 di Belgrave Square a Londra. Di scena oggi è l’associazione RePanettone, nata per promuovere il tradizionale dolce natalizio (ma molto chic anche ad agosto, se accompagnato da una pallina di gelato) e la sua origine milanese doc. L’omonima rassegna si terrà a Milano il 26 e 27 novembre prossimi, quello di Londra è un anticipo che vuole sottolineare in particolare l’internazionalità del panettone. A rappresentare le eccellenze nazionali sono chiamate quattro aziende: Flamigni di Rodello d’Alba (Cuneo), Galup di Pinerolo, il primo a sperimentare panettone con glassa alle nocciole, Vergani, azienda storica di Milano, e dulcis in fundo - è il caso di dirlo - I Dolci di Giotto - la Pasticceria del Carcere di Padova, che fa lavorare meritoriamente, e con ottimi risultati, detenuti come pasticcieri, facilitando il loro successivo reinserimento: una testimonianza concreta di come è possibile cambiare veramente, anche dopo aver sbagliato tanto. L’impiego nel laboratorio del carcere è un’opportunità reale, un lavoro vero, fatto di professionalità e passione, che ridà ai detenuti una chance di ripartire e alla società uomini nuovi, recuperati L’obiettivo dell’evento consiste nel diffondere e nell’approfondire la cultura del panettone nel Regno Unito, mercato culturale e commerciale di grande rilievo, pronto a accogliere le eccellenze in campo gastronomico, soprattutto se provenienti da un paese come il nostro, la cui cucina è fra le più apprezzate al mondo. E così a farsi conquistare dal morbido impasto, che rimane a lievitare… in gattabuia per ben 72 ore prima di vedere la luce, per tutta la mattinata del 19 ottobre sono buyers, ristoratori, titolari di enoteche e delicatessen (termine prediletto dagli inglesi per identificare le boutique gastronomiche), oltre a giornalisti e critici di settore. Le porte si aprono al pubblico nel pomeriggio per permettere a golosi ed amanti del panettone di degustare i prodotti dei quattro espositori. Il panettone padovano è l’unico prodotto artigianale presente in rassegna. Galup infatti ha infatti la rispettabile produzione di un milione di pezzi annui e Flamigni 500mila, ben al di sopra delle poche decine di migliaia che escono dalla piccola pasticceria di via Due Palazzi, inferiore in quantità anche a Vergani. La giornata va a concludersi: alle 18.30 gli appassionati inglesi apprendono dalla viva voce dell’organizzatore di RePanettone Stanislao Porzio la storia del Panettone, i più tecnici si concentrano su una breve lezione sul lievito madre e si conclude in gloria con i babà realizzati in diretta dal maestro pasticcere Achille Zoia, co-fondatore dell’Accademia dei Maestri Pasticcieri Italiani. È già ora di tornare a Padova, la produzione 2011 sta già procedendo a ritmo continuo, un dolce profumo si diffonde su fino alle celle… Salerno: l’Alberghiero “Virtuoso” al carcere di Fuorni, 20 detenuti tornano tra i banchi di scuola www.salernonotizie.it, 23 ottobre 2011 Prende il via l’attività didattica dell’Ipsar “Virtuoso” presso la Casa Circondariale di Salerno sita in zona Fuorni. Dopo due anni di attesa e vari rinvii, l’istituto alberghiero ha finalmente ottenuto l’autorizzazione per attivare la sezione carceraria e da lunedì 24 ottobre, inizieranno le lezioni della classe prima istituita a Fuorni. Venti le ore settimanali di attività didattica previste, durante le quali una ventina di detenuti avranno l’opportunità di tornare tra i banchi di scuola rompendo la micidiale monotonia della reclusione. A tenerli occupati saranno i docenti dell’Ipsar “Virtuoso” che cercheranno di catturare la loro attenzione con lezioni di Italiano, Storia, Matematica, Lingua Inglese, Religione, Laboratorio di sala, Laboratorio di cucina e Scienza degli alimenti. Allo stesso tempo, agli “ospiti” della casa circondariale di Salerno sarà così concessa una “seconda opportunità”. Ben presto saranno anche attivati i Laboratori di sala e di cucina, già realizzati dalla Provincia da ben tre anni e, finalmente, destinati ad essere adeguatamente utilizzati. “È un momento significativo della storia dell’Istituto - precisa soddisfatto il Dirigente Scolastico dell’Ipsar “Virtuoso”, Professore Gianfranco Casaburi. Attraverso questa iniziativa, l’istituto alberghiero invia un messaggio di solidarietà e di speranza a persone detenute che avranno così la possibilità di riprendere un discorso educativo, in alcuni casi interrotto troppo presto, riallacciando un rapporto, per quanto esile, con la società civile e con il mondo del lavoro. L’augurio - prosegue il preside Casaburi - è che il germoglio appena piantato possa crescere e produrre, nei prossimi anni, un corso completo. In questo modo si darà un senso alla disponibilità di quanti si dedicheranno, come docenti e come alunni, all’impresa, tutt’altro che semplice, di costruire qualcosa di nuovo e di positivo a favore di persone troppo spesso segnate, fin dalla nascita, dal loro contesto socio-familiare”. Grande soddisfazione anche per il Direttore della Casa Circondariale di Salerno Alfredo Stendardo: “L’attivazione delle sezione carceraria dell’Istituto Alberghiero è una tappa significativa di un percorso che ci auguriamo foriero di importanti e nuovi risultati. È il concreto risultato di uno sforzo comune tra Istituzioni Locali, rappresentate dalla Provincia, l’Amministrazione Scolastica e l’Amministrazione Penitenziaria. È la conferma - conclude il Direttore Stendardo - del maturato convincimento che l’attuazione delle finalità affidate all’esecuzione penale in carcere non possa prescindere da una sinergia intersettoriale per la veicolazione di opportunità di reinserimento in un più complesso programma socio-rieducativo”. Pisa: gruppo “Donne e Carcere”; presentazione ai detenuti del libro “Era facile perdersi” Ristretti Orizzonti, 23 ottobre 2011 Lezione di vita venerdì mattina 21 ottobre nel Carcere Don Bosco di Pisa, presenti un gruppo di detenute e detenuti, oltre alle educatrici e alle volontarie del gruppo “Donne e Carcere” (formato da socie dell’associazione “Casa della Donna” e dell’associazione “Controluce”) che al Don Bosco curano il corso di scrittura creativa nel settore femminile. Ne è stata l’occasione la presentazione del libro “Era facile perdersi” in cui l’autore Umberto Vivaldi racconta con un colorito linguaggio da livornese purosangue la sua difficile e avventurosa vita in una Livorno devastata dai bombardamenti nei magri anni della seconda guerra mondiale e in quelli altrettanto magri che ad essa sono seguiti. Proveniente da una famiglia povera e presto disgregata, Vivaldi ha vissuto a lungo con ogni sorta di espedienti nel costante pericolo di imboccare strade di devianza che avrebbero potuto portarlo chissà dove, magari qui in carcere, ma non in veste di scrittore, bensì di detenuto. Invece, forse per aver sempre ascoltato il fondo della sua coscienza, o per aver fatto tesoro dei pochi ma buoni principi morali che il padre pur nell’asprezza di quelle condizioni di vita riuscì a trasmettergli, Umberto Vivaldi è riuscito a non dirottare dalla “retta via” e a costruirsi un’esistenza piena di cose degne. L’interessante iniziativa è stata resa possibile, oltre che dall’impegno delle volontarie del gruppo “Donne e Carcere”, dal contributo della “Associazione Cure Palliative” di Livorno che, come ha spiegato il presidente Miliano Mattei anche lui presente all’incontro, ha beneficiato della vendita del libro avendo l’autore, socio e volontario di quell’associazione, devoluto ad essa gran parte dei proventi di vendita. Poiché il buon successo del libro ha assicurato un discreto introito all’Associazione Cure Palliative, l’associazione ha voluto donare un certo numero di copie al Carcere e regalarne una a tutte le persone presenti. Ha dato brio all’iniziativa l’attore Aldo Bagnoli che oltre ad aver letto diversi brani del libro ha rallegrato l’incontro con sagaci battute e diverse gustose barzellette. Livorno: “Il volto della Medusa”, un film girato a Porto Azzurro al Festival del cinema di Roma Il Tirreno, 23 ottobre 2011 Il carcere e il mare dell’Elba protagonisti a Festival internazionale del cinema di Roma. Con “Il volto della Medusa” della regista Donata Gallo, interamente girato sul territorio di Porto Azzurro e all’interno del penitenziario, l’isola sarà protagonista della kermesse il prossimo primo novembre alle 15, alla Casa del Cinema. Donata Gallo è un’elbana d’adozione: ha casa a Porto Azzurro e da molti anni frequenta abitualmente il paese. “L’idea - dice il vicesindaco Angelo Banfi - è nata l’anno scorso, dopo lunghe chiacchierate tra lei, Luca Simoni e me; dopo diversi incontri con l’ex direttore del carcere Carlo Mazzero e con altri personaggi locali che in qualche modo, sia in passato, sia di recente, hanno avuto rapporti con la vita interna ed esterna al penitenziario”. Il film mette in risalto il territorio con situazioni e immagini che, proiettati su uno schermo cinematografico, lo rendono ancora più affascinanti. I personaggi sono i dipendenti che nel carcere lavorano e vivono quotidianamente la contraddizione di un luogo dove si conciliano il rumore dei chiavistelli e lo splendore del mare, simbolo di libertà. “Un doveroso grazie - dice ancora Angelo Banfi - a Donata Gallo che ha saputo mettere in risalto, in un contesto come quello carcerario, un territorio vocato al turismo la cui immagine presentata in una così prestigiosa occasione nazionale e nel proseguo internazionale (è già in programma un doppiaggio dell’opera in diverse lingue) potrà sicuramente fare apprezzare il nostro paese e invogliare lo spettatore a fare visita a Porto Azzurro e all’Elba con tutte la sue bellezze naturalistico ambientali”. “Il volto della Medusa - dice Donata Gallo - è il racconto di una giornata tipo all’interno del penitenziario più famoso d’Italia, dall’alba al tramonto, fino a quando le celle si chiudono e il personale si porta a casa anche il rumore dei chiavistelli. La telecamera diventa testimone, quando gli agenti controllano, osservano, chiudono in cella i detenuti, discutono tra loro, soccorrono e qualche volta hanno paura. Per la prima volta il carcere viene raccontato con l’obiettivo rivolto verso i dipendenti. Entrare in un carcere non è mai indolore, anche se il penitenziario di Porto Azzurro non è certo dei peggiori, anzi. È quello che la Cittadella carceraria ti lascia dentro, in te stesso, quando credi di aver superato la prova dell’impatto con la reclusione e con le sbarre, che ti fa capire - conclude la regista - che la punizione più dolorosa da sopportare è proprio la privazione della libertà, sia pure su un’isola da sogno”. Lucca: Bocelli ospite d’onore in carcere… dove i detenuti imparano a cucinare Il Tirreno, 23 ottobre 2011 Pentole e padelle per iniziare da capo dopo aver sbagliato e uno sponsor d’eccezione: Andrea Bocelli si sdoppia per i detenuti del carcere di San Giorgio. Canta per loro e poi siede a una tavola imbandita per presiedere la giuria della dodicesima edizione del “corso di cucina” promosso dall’assessorato alle politiche sociali del comune di Lucca sotto l’egida organizzativa del cavalier Sebastiano Sorrentino e dello chef Antonio Morelli. In platea autorità e detenuti, tutti riuniti nella sala polivalente del carcere di S. Giorgio, per un evento che può e deve rappresentare “un’occasione di riscatto sociale e di inserimento nel mondo lavorativo, una volta fuori di qui”, sottolinea il direttore della struttura, il dottor Francesco Ruello. Il grande tenore, dal canto suo, appoggia pienamente lo spirito dell’iniziativa, non si fa pregare e distribuisce due ore di lietezza proponendo, accompagnato dal pianoforte, alcuni pezzi classici del suo repertorio. “Mi scuso con voi, ma un leggero abbassamento della voce mi impedisce di essere al meglio, per cui prego il direttore di volermi invitare di nuovo, per lasciare un ricordo migliore”, si giustifica addirittura. “Penso che la mia presenza qui sia non solo gradita, ma anche doverosa: aiutare coloro che hanno sbagliato a rialzarsi e a ricominciare da capo deve essere avvertito come un bisogno della collettività”, precisa Bocelli. In mezzo, le parole di organizzatori e istituzioni. “È ormai il dodicesimo anno - dice l’assessore alle politiche sociali Angelo Monticelli - segno che il Comune ha a cuore la formazione professionale di persone che una volta uscite dovranno iniziare un percorso nuovo, all’insegna del lavoro e dell’onestà”. Parole per la condizione difficile dei detenuti delle carceri le spende anche il presidente dell’amministrazione provinciale, Stefano Baccelli. “Finiamola di guardare al carcere come ad un luogo separato dalla realtà esterna: gli amministratori devono essere bene a conoscenza dei problemi di spazio e di quelli finanziari”. Poi gli allievi dello chef Morelli si esibiscono, proponendo un menù a base di carpaccio, gnocchi di patate, gamberi in camicia e, per finire, torta di ricotta e miele. Alla fine degli assaggi, ci sono premi per tutti e anche una medaglia particolare per Bocelli: “C’è raffigurato San Martino che dona il suo mantello” spiega l’assessore al sociale Monticelli. Il parallelo con la generosa operosità del grande tenore viene di conseguenza. Libia: 7mila prigionieri di guerra ammassati in carceri, subiscono abusi e torture Tm News, 23 ottobre 2011 Sono circa 7.000 i prigionieri di guerra ammassati da settimane nelle carceri della Libia senza incriminazione e sottoposti ad abusi e torture. Lo scrive oggi in apertura il Washington Post, citando alcune organizzazioni per i diritti umani. Molte di queste carceri sono improvvisate e sono gestite da gruppi di miliziani locali, “incattiviti” da otto mesi di guerra e desiderosi di vendicarsi sui prigionieri, i combattenti di Gheddafi e suoi sostenitori. Sweti, 27 anni, comanda una prigione allestita nei locali di una ex scuola, con un migliaio di prigionieri catturati dall’inizio di luglio. Dormono su materassi per terra e sono guardati a vista da miliziani adolescenti armati. Il governo ad interim prospetta un’amnistia per i combattenti di Gheddafi che non si sono resi responsabili di crimini di guerra e che vogliono cooperare con le autorità. Ma questa ipotesi - scrive il Wp - sembra di difficile realizzazione in luoghi come Misurata, dove gli abitanti hanno subito per mesi l’assedio e gli attacchi delle forze fedeli al Colonnello. “Alcuni di questi prigionieri (filo-Gheddafi) hanno violentato e ucciso. Hanno compiuto atti di vandalismo. Ci hanno torturato, hanno ucciso i nostri bambini”, ha testimoniato Abdel GaderAbu Shaallah, che controlla altre carceri di Misurata: “Siamo troppo provati”. Amnesty International e Human Rights Watch hanno documentato numerosi casi di maltrattamenti sui prigionieri, in particolare sui libici con la pelle scura e sugli africani sub-sahariani, molti dei quali sono stati picchiati e torturati con scariche elettriche. Medio Oriente: 530 palestinesi scontano ergastoli nelle prigioni dell’occupazione israeliana Infopal, 23 ottobre 2011 Abdel Nasser Farwanah, ex detenuto, oggi esperto ricercatore della questione dei prigionieri, ha reso noto che “530 palestinesi stanno ancora scontando uno o più ergastoli all’interno delle prigioni di Israele”. Farwanah ha elogiato l’accordo di scambio dei prigionieri, il 38° per l’esattezza tra arabi e Israele. Tuttavia, quest’ultimo è il primo nella storia che si realizza sul territorio palestinese. Sui prigionieri veterani o decani - secondo il termine con il quale vennero indicati i palestinesi arrestati e detenuti prima della sigla degli accordi di Oslo e la creazione dell’Autorità palestinese (Anp), nel maggio del 1994, - Farwanah ha spiegato che “a margine dell’accordo siglato di recente, sono stati liberati 176 di questi prigionieri decani, compreso Mohammed Salamah Abu Khousah, detenuto dal giugno 1976, e altri quattro prigionieri che hanno trascorso più di 31 anni nelle carceri”. Questi sono: Nàel e Fakhri Barghouti, detenuti dal 1978, Akram Mansour, Fùad ar-Razem, il decano dei prigionieri di al Quds (Gerusalemme), il decano dei prigionieri dei Territori palestinesi occupati nel 1948 (Israele, ndr), e il prigioniero più anziano Sami Younes (82 anni) detenuto per 28 anni dal gennaio del 1983. Tra i detenuti rilasciati con quest’accordo: 95 hanno trascorso più di 20 anni nelle carceri israeliane, tra i quali, 27 oltre un quarto di secolo. Farwanah ha aggiunto che “il titolo di decano di tutti i detenuti in generale, e di quelli provenienti dai Territori palestinesi occupati nel 1948 (Israele, ndr) in particolare è passato a Karim Younes, di Aràra al Muthallath, in carcere dal 1983 e condannato all’ergastolo. Karim è stato escluso dall’accordo di scambio. Ricordando questo, il responsabile palestinese ha osservato: “Nonostante il successo dell’accordo, sarebbe stata auspicabile l’inclusione di tutti i detenuti veterani senza eccezione alcuna, compresi coloro che sono un simbolo della resistenza e della leadership politica: Ahmed Sàadaat, Marwan e ‘Abdallah Barghouti e numerosi altri ancora”. Inghilterra: perse dopo tre settimane le chiavi del carcere appena privatizzato di Enrico Silvestri Il Giornale, 23 ottobre 2011 La svedese “Group 4S” gigante del settore sicurezza ha preso in consegna nel 1992 a York la sua prima prigione britannica, aggiungendo poi negli anni altre 4 strutture. L’ultima a Birmighan, con circa 1.500 detenuti, è stata consegnata il primo ottobre ma il 21 viene fatta l’imbarazzante scoperta. Costringendo la direzione a cambiare tutte le serrature. Venti giorni di gestione e già la società svedese G4S è incappata in un clamoroso errore nella gestione del carcere di Birmigham, seconda città del Regno unito, 200 chilometri a nord ovest di Londra, da dove sono sparite tutte le chiavi. Momenti di grosso imbarazzo, poi la direzione ha ammesso l’infortunio, senza volere aggiungere particolari “per motivi di sicurezza”, assicurando che nel giro di tre settimane tutte le serrature saranno cambiate e comunque non c’è mai stato pericolo di fuga dei detenuti. La privatizzazione delle carceri rientra in quel grande progetto di dismissioni intrapreso ancora negli anni ‘80 da Margaret Thatcher e portato avanti nel decennio successivo dal suo “delfino” John Major. Il primo esperimento nel 1992 fu attuato presso il carcere maschile “The Wolds” nei dintorni di York, dove sono ospitati circa 400 detenuti, tutti in attesa di giudizio. Ad aggiudicarsi la gara d’appalto, con un richiesta allora di 5 milioni di sterline, poco meno di 6 milioni di euro, la svedese Group 4. La società, fondata Marius Hogrefe nel 1901, è attualmente presente in 125 Paesi con 625mila dipendenti, in questo secolo di vita si è specializzata nel settore “sicurezza”, dal trasporto valori, alla sorveglianza, dalla protezione di obbiettivi sensibili fino appunto alla gestione delle carceri. La gestione si rivela subito positiva e l’azienda scandinava dopo “The Wolds” prende in gestione altri quattro istituti, ultimo dei quali quello di Birmighan in grado di ospitare circa 1.500 detenuti. Dopo un passaggio di consegne durato sei mesi le chiavi, in senso metaforico e non, vengono consegnate dal governo britannico il primo ottobre ma tempo tre settimane, e sono già sparite. Un piccolo record di velocità. Terry Fullerton della Prison Officers Association ha ammesso che le chiavi effettivamente sono sparite alcuni giorni fa, che è in corso un’indagine ed è possibile siano state rubate e copiate. La società non ha voluto commentare ulteriormente, spiegando che è una questione di sicurezza, ma ha assicurato che sono state applicate misure di emergenza e che non c’è alcun rischio per la sicurezza pubblica. Secondo Fullerton, ci vorranno circa tre settimane per sostituire tutte le serrature, comprese quelle delle celle.