Il diario di Elton: “Un pensiero ai compagni morti” Redattore Sociale, 19 ottobre 2011 “Pochi giorni fa è stato l’anniversario della morte di Graziano, il vignettista di Ristretti Orizzonti. Triste coincidenza, a giorni sarà anche l’anniversario della morte di Stefano, un altro dei nostri”. Padova, 19 ottobre 2011 - Pochi giorni fa è stato l’anniversario della morte di Graziano, il vignettista di Ristretti Orizzonti morto nel peggior modo immaginabile. Triste coincidenza, a giorni sarà anche l’anniversario della morte di Stefano, un altro dei nostri, che durante la sua detenzione ha saputo raccontare sulle pagine di Ristretti la sofferenza di un tossicodipendente, capace di fare riflessioni intelligenti e originali. Oggi, in corridoio, ho incontrato Jani e Alberto, entrambi ergastolani. Abbiamo parlato attraverso un cancello, mentre aspettavamo. Ci siamo stretti la mano e subito mi hanno chiesto quanti giorni ancora al fine pena. Ho sussurrato imbarazzato un numero. “Non sei felice?” mi ha domandato Jani, che è anche mio connazionale. Gli ho risposto che di fronte a loro la mia felicità era schiacciata dal dolore, dall’idea che molte persone che ho conosciuto qui dentro dovranno attendere ancora molti anni per sentirsi domandare “quanti giorni ancora al fine pena?”. Il cancello si è aperto. Ho salutato i miei due amici ergastolani e mi sono incamminato verso la redazione. Di fronte al cancello del secondo piano mi è tornato in mente Stefano. Di solito lo vedevo appoggiato all’angolo, raccolto nelle spalle, con una cartella gialla sempre sotto il braccio. Aspettava di andare in redazione dove riusciva a dare un grande contributo, nonostante i suoi tanti problemi. Quando Stefano poi uscì dal carcere fummo felici di vederlo riacquistare la libertà, ma la sua fu una grande perdita per la redazione. Dopo un po’ ricevetti una sua lettera nella quale mi raccontava che fuori tirava una brutta aria verso noi stranieri, che sempre più persone cadevano vittima dell’odio e dell’intolleranza. Mi incoraggiava a coinvolgere tutti gli stranieri della redazione per produrre idee su come avviare un confronto sulla questione. Un’unica lettera. Le notizie che lo riguardavano erano sempre tristi. Stefano stava male. Una pesante depressione l’aveva ricacciato nell’eroina. Poi, l’errore fatale, l’overdose. La sua morte mi inquieta ora, mentre aspetto di attraversare un altro cancello. Una porta che Graziano ha attraversato in una sedia a rotelle, dopo che un agente penitenziario aveva preso l’iniziativa di portarlo in ospedale, ignorando il parere di un medico diffidente. Non sono mai riuscito a capire come faceva a conciliare la sua sofferenza con quello spirito capace di far sorridere i lettori di Ristretti: un’esistenza simile alle sue vignette, un miscuglio di dolore e umorismo. E mentre le sue vignette dall’interno di un libro raccontavano la storia del suo personaggio, Graziano in silenzio ha aspettato per un anno una banale risonanza magnetica per vedere da cosa dipendeva quel dolore alla schiena che si trascinava da tempo. E quando alla fine è stato portato in ospedale, gli hanno detto che stava vivendo la peggiore delle morti, un tumore conclamato in una galera sovraffollata. Il cancello si apre e finalmente mi avvicino alla redazione. Una ventina di uomini, tanto fumo, voci che si sovrappongono, vite che s’intrecciano rendendo l’aula accogliente, per me. Incapace di spiegarmi il motivo perché stamani il pensiero sia andato a Stefano e a Graziano, guardo come tante delle persone che animano questa galera hanno imparato a vivere la loro condanna, e la loro sofferenza e anche la morte, con dignità. Elton Kalica (in collaborazione con Ristretti Orizzonti) Elton è un 35 enne albanese, detenuto nel carcere Due Palazzi di Padova con una condanna a 14 anni e 8 mesi per sequestro di persona a scopo di estorsione (senza armi e durato due giorni). Il prossimo 25 ottobre finirà di scontare la sua pena e tornerà libero. Firma storica della rivista Ristretti Orizzonti, attende di sapere se sarà rimpatriato in Albania o se potrà restare in Italia e lavorare da esterno per Ristretti. Ha deciso di raccontare su “Redattore sociale” i suoi ultimi giorni dentro. Giustizia: intervista a Patrizio Gonnella (Antigone); bisogna ripensare le politiche detentive di Helene Pacitto www.clandestinoweb.com, 19 ottobre 2011 Il dramma carceri continua a far discutere. L’associazione Antigone se ne occupa ormai da decenni, con battaglie mirate, campagne d’informazione e attività di monitoraggio delle drammatiche situazioni vissute nei penitenziari italiani. Abbiamo intervistato il presidente, Patrizio Gonnella, per avere un quadro chiaro della situazione nel nostro Paese. Com’è la situazione nelle carceri italiane? C’è una condizione reale di malessere, certificata anche da organismi internazionali. Basta prendere in considerazione i dati numerici che sono asettici ma eloquenti. Al momento in Italia ci sono 22 mila persone in più rispetto ai posti letto disponibili nelle carceri. Aldilà del reato commesso, se si stia in galera da condannati o in attesa di giudizio, tutti i detenuti condividono una situazione di sofferenza dovuta a spazi ridotti, carenza di igiene e nessun percorso di reinserimento. In alcune carceri i detenuti hanno a disposizione 2/3 metri quadri. Vivono in celle minuscole e umide e ci devono passare 22 ore al giorno. Ci chiediamo come mai le Asl non vadano a verificare come siano le reali condizioni igieniche in cui si vive nei penitenziari, per fare prevenzione. Chiunque venga arrestato, dopo aver scontato la sua pena rischia di uscire più malato, più arrabbiato e con meno fiducia nella giustizia. La legalità dovrebbe essere il primo valore da inculcare nelle persone arrestate ma oggi, in Italia, non è così e le prospettive di reintegrazione sociale e la speranza di avere una pena umana sono pari a zero. Qual è, secondo lei, la soluzione per risolvere l’emergenza? Il primo passo è quello di sedersi dietro ad un tavolo e affrontare il tema senza ideologismi. Poi bisogna ripensare a che tipo di politica criminale vogliamo, se preferiamo avere una politica che contrasti interessi particolari e produca solo carcere oppure se vogliamo una politica che produca sicurezza . In Italia, al momento, abbiamo una serie di provvedimenti che contribuiscono solo a produrre carcere ma senza produrre sicurezza. Penso, ad esempio, alla legge sulle droghe. In Italia abbiamo un 37% di detenuti che sono in carcere per aver violato la legge sulla droga. È il dato più alto d’Europa che, invece, ha una percentuale del 15%. Possiamo iniziare a rientrare nei parametri europei. Abbiamo il 42% di detenuti in custodia cautelare, tra i più alti d’Europa, cominciamo a ridurre anche questo impatto. Aumentiamo il ricorso alla cauzione e a forme interdittive che non siano necessariamente il carcere. Tanto per citare un caso eclatante, Stefano Cucchi era il caso tipico di violatore della legge sulle droghe, in quel caso la carcerazione si poteva evitare. Quindi partiamo col riconsiderare senza ideologia le politiche che producono carcere e riportarli nelle medie europee. Solo una volta abbassando il numero di detenuti ci possiamo permettere di ragionare in termini di edilizia carceraria. Questa va programmata dentro flussi di politica criminale anch’essi programmati. In ogni caso il sovraffollamento non è un terremoto, si può affrontare con politiche criminali programmate. È d’accordo con i provvedimenti di amnistia e indulto? Di fronte ad una situazione come questa, questi due provvedimenti possono riportare a numeri ragionevoli il problema detenuti. Ma questo non può essere un provvedimento slegato da politiche strutturali e programmatiche. L’associazione Antigone da anni si batte per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, tante le battaglie portate avanti. Quali le ultime iniziative? Adesso il nostro lavoro è concentrato in due filoni di intervento. Il primo è il monitoraggio di tutte le carceri italiane. Visitiamo ogni istituto e alla fine produciamo un rapporto, che sarà presentato al salone dell’editoria a Roma. Questo per noi ha grande importanza e rilievo perché ci permette di lavorare sull’opinione pubblica. Si tratta di un lavoro importantissimo di formazione e di cultura. Rispetto a qualche anno fa c’è una maggiore conoscenza del sistema penitenziario da parte dei media, della gente comune, degli operatori e anche dei politici. Questo è un risultato di cui andiamo fieri, frutto del nostro lavoro d’informazione. Il secondo settore nel quale stiamo operando è quello della difesa civica. Come associazione ci occupiamo dei casi singoli mettendo a disposizione un difensore civico che se ne fa carico. Giustizia: una nuova Legge Reale?... no grazie di Patrizio Gonnella e Luigi Nieri www.linkontro.info, 19 ottobre 2011 Antonio Di Pietro ha evocato una legge Reale bis per fronteggiare e colpire i devastatori del 15 ottobre. Mai citazione fu più improvvida. Quella legge costituì il primo tassello di una legislazione penale dell’emergenza che travolse il diritto penale ordinario e liberale. Per lunghe 48 ore si poteva essere fermati dalla polizia senza controllo giurisdizionale, anche laddove non si era stati colti in flagranza di reato. A seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, le 48 ore sono divenute 24, e nei successivi due giorni vi deve essere la convalida dell’arresto. In quelle 24 o 48 ore di opacità all’interno delle caserme o dei commissariati si consumano le violenze, si calpesta l’habeas corpus. Lo dicono i più significativi cultori del diritto penale classico, lo affermano gli organismi interazionali che si occupano di prevenzione della tortura. Il fermo di polizia non controllato dai giudici è pericoloso. È l’impianto scelto da Bush e Blair per fronteggiare i combattenti criminali senza affidarsi al diritto e alle Corti. A Guantanamo vi erano e vi sono individui fermati e mai sottoposti a giudizio di convalida. Il fermo di polizia prolungato assomiglia a una detenzione arbitraria. Evocare una legge Reale bis significa di fatto estendere il fermo di polizia e l’uso della armi oltre quanto già avviene. Negli anni 70 troppi sono stati i giovani finiti in caserma a soggiornare senza un plausibile motivo che non fosse la barba lunga o l’eskimo. Il diritto penale che piace a Di Pietro è un diritto penale caro alla destra. A noi piace un diritto penale che, nel rispetto delle garanzie costituzionali, giudichi i fatti e non le idee o gli stili di vita. Non è possibile, inoltre, evocare nuove leggi a ogni occasione. Non si deve legiferare mai sull’onda dell’emotività. I fatti di sabato scorso richiedono una riflessione politica. Infine la nostra solidarietà a Pannella che 33 anni fa, con un referendum, cercò di abrogare la legge Reale. Il ruolo delle polizie durante le manifestazioni In questi giorni si è discusso in modo approssimativo e superficiale di violenza e di non-violenza. Commentatori improvvisati e poco credibili (vedi Gasparri e Alemanno) hanno fatto il loro consueto predicozzo contro la sinistra, genericamente intesa, accostandola alla violenza. Non è di questo che vogliamo parlare bensì del ruolo che la polizia dovrebbe avere in occasioni come quella dello scorso sabato 15 ottobre. Il ruolo delle forze dell’ordine in uno stato democratico di diritto deve essere quello di proteggere le persone e assicurare loro l’esercizio dei diritti costituzionali. Esiste un bel documento del Consiglio d’Europa che ben spiega agli Stati come le forze di polizia debbano comportarsi nelle manifestazioni pubbliche, come debbano prevenire le violenze, quale debba essere il loro linguaggio, finanche come debbano marciare o muoversi in luoghi pubblici. Fare i caroselli con i blindati o marciare compatti urlando all’unisono è una brutta simbologia. Sarebbe bello se su ogni divisa ci fossero un nome e un cognome. Le polizie devono essere i soggetti istituzionali promotori e protettori dei diritti umani. Da loro siamo tristemente abituati invece a difenderci, a nasconderci anche quando non abbiamo niente da nascondere, anche quando stiamo esercitando diritti fondamentali che le stesse polizie avrebbero dovuto per tempo garantire. Sabato scorso non ci sono state le brutalità di altre occasioni. Ma ancora una volta si è avuta l’impressione che le forze dell’ordine non stessero svolgendo il loro ruolo in modo neutro. Nel nostro paese è accaduto che esse si siano messe a disposizione del potere reazionario. Non è questo che dovrebbe accadere in una democrazia avanzata. La violenza nelle manifestazioni di massa è una eventualità che va sempre tenuta in conto. Non si può non prevedere. Non prevederla, lasciarla sfogare assomiglia tanto al comportamento di quei poliziotti penitenziari che lasciano aperta la cella di un pentito per farlo pestare da un altro detenuto. L’anomalia italiana è anche questa: non riuscire a fidarsi di chi ha un ruolo pubblico così importante. Giustizia: ingiusta detenzione; troppo pochi due anni per la prescrizione dell’errore giudiziario di Valentina Marsella Secolo d’Italia, 19 ottobre 2011 Per cambiare la sorte di molte vittime dell’errore giudiziario, basterebbe sostituire due semplici parole all’interno della norma che prevede la prescrizione biennale per chi ha punito qualcuno con un’ingiusta detenzione. La modifica, per evitare l’abuso della custodia cautelare da parte dei magistrati e limitarne i casi, dovrebbe riguardare l’articolo 315 del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che la vittima del carcere ingiusto, possa chiedere l’indennizzo entro i due anni dalla sentenza di archiviazione, assoluzione o proscioglimento che sia. Alla voce “due anni”, dovrebbe essere sostituito l’inciso “in ogni tempo”, per permettere a chi è stato punito da un errore, di non essere anche vittima delle lancette di un tempo troppo breve che gli è sfuggito per vari motivi, primo tra tutti la disinformazione. È la proposta della “Associazione vittime errori giudiziari Art. 643”, spiegata nei dettagli dal presidente Gabriele Magno, che fa notare come il termine di due anni per essere indennizzati è troppo breve: “Quando si subisce uno choc del genere e ci si ritrova in cella senza colpa - sottolinea l’avvocato specializzato nella revisione processuale e nei risarcimenti da errore giudiziario - non si pensa subito a chiedere l’indennizzo. Vuoi perché in molti non sanno della prescrizione, quando dovrebbe essere l’avvocato ad avvertirli del termine per esigere quello che gli è dovuto, vuoi perché la vita di chi subisce un’esperienza così forte viene sconvolta, fermandosi per molto tempo a quel momento prima di quelle manette ai polsi”. Una proposta, quella di Art.643, “più volte presentata a vari schieramenti politici - rileva l’avvocato Magno - che ne hanno attestato la bontà, pur non facendo nulla per portarla avanti”. Alla base di quella che è una battaglia dell’associazione che raccoglie casi storici di vittime di una giustizia ingiusta, da Tortora a Barillà, c’è una legge che crea forti disparità tra i casi di errore giudiziario in sé e ingiusta detenzione. L’accertamento dell’errore giudiziario, a cui si arriva dopo i tre gradi di giudizio e dopo l’ultima chance giocata eventualmente di fronte alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, è la conseguenza di una revisione processuale; la Corte d’Appello competente per territorio, in quel caso ribalta una sentenza. Se si viene assolti, in sede di revisione è possibile chiedere un risarcimento per cui non è riconosciuto alcun limite. Ma l’errore giudiziario, un centinaio i casi l’anno, rappresenta l’eccezione, come fa notare il presidente di Art. 643: “La regola invece, purtroppo - sottolinea Magno - è l’ingiusta detenzione, che vede un abuso della custodia cautelare. Basti pensare che qui assistiamo a 8-10mila casi annui, ma di questi solo 2.500 vengono indennizzati, perché nella maggior parte dei casi si attribuisce all’arrestato dolo o colpa grave, ossia il giudice rileva che l’arresto, nonostante l’errore, è stato causato dalla vittima”. In questo caso per l’ingiusta detenzione, sono delle tabelle a stabilire un indennizzo di circa 250 euro per ogni giorno passato in cella, 125 euro per i domiciliari. “Se pensiamo alle due situazioni, errore giudiziario e ingiusta detenzione - rileva ancora Magno - si tratta pur sempre di carcere patito senza alcuna colpa, eppure c’è una forte iniquità nel trattamento economico che nel primo caso non ha alcun limite, mentre nel secondo è circoscritto”. Di qui la proposta di cambiare l’articolo 315 del codice di procedura penale, per “permettere alle vittime di ingiusta detenzione - fa notare il leader di Art.643 - di chiedere l’indennizzo non più entro due anni ma in ogni tempo. In questo modo, anche la magistratura avrebbe maggiori remore nell’applicare la custodia cautelare, perché gli errori delle toghe non “scadrebbero” più nel giro di un biennio”. Magno punta poi l’accento su una recente sentenza della Corte Costituzionale, sulla revisione processuale, scaturita da un caso divenuto emblematico sul tema. Si tratta di Paolo Dorigo, condannato a tredici anni di reclusione dalla Corte di Assise di Udine perché ritenuto tra i responsabili dell’attentato compiuto nella notte fra il 2 e il 3 settembre 1993 alla base americana di Aviano in Friuli; una condanna che poggiava sul dichiarato dei coimputati “letto”, ai sensi dell’allora vigente art. 513 c.p.p., nonostante la loro mancata escussione in dibattimento. Se non che, in data 9 settembre 1998 la Commissione europea dei diritti dell’uomo, che oggi è la Corte europea dei diritti dell’uomo, aveva dichiarato l’illegittimità di quella condanna, poiché aveva violato il principio del contraddittorio di cui all’art. 6 della Convenzione; in quanto il condannato non aveva potuto interrogare i testi a carico, sottrattisi volontariamente al dibattimento. La decisione europea è rimasta a lungo ineseguita: non esisteva infatti nell’ordinamento italiano un modo per eseguire le decisioni della Corte europea in materia penale. Ma è stato l’ultimo effetto del caso Dorigo a sbrogliare la matassa: è stata l’importantissima e originale soluzione rinvenuta dalla Corte Costituzionale (con la sentenza 113 del 2011), a rimediare al vuoto normativo. Infatti, l’art. 630 del codice di procedura penale è stato dichiarato dalla Corte Costituzionale “costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede una ipotesi di revisione della sentenza penale di condanna nei casi di processi penali interni in violazione della Convenzione europea; ovviamente, ciò sempre che la violazione sia stata previamente accertata da parte della Corte europea dei diritti umani”. È dal 1998 che la Corte europea ha riconosciuto la violazione del diritto a un giusto processo compiuta dalle autorità italiane ai danni di Dorigo, condannato sulla base delle dichiarazioni rese in fase di indagini preliminari da tre coimputati che - avvalendosi della facoltà di non rispondere - si sono poi rifiutati di confermarle in dibattimento, negando così il diritto dell’imputato a “esaminare o far esaminare i testimoni a carico”. Ed è dal 1999 che il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, competente a sorvegliare la corretta esecuzione delle sentenze della Corte da parte degli Stati membri condannati, non smette di sollecitare il nostro Paese all’adozione di misure, tanto individuali che generali, in grado di garantire la riapertura del processo Dorigo nonché di tutti quei processi rispetto ai quali la Corte europea abbia pronunciato un giudizio di “non equità”. Per la prima volta, fa notare Magno, “avere un parere favorevole da parte della Cedu, dà la possibilità di avere automaticamente una revisione processuale. Dorigo è stato l’escamotage per creare una nuova casistica, così oggi, se la Corte interviene nell’ordinamento italiano, come è accaduto, per cambiare le sorti di un processo, c’è la speranza di dare giustizia a molte vittime dell’errore della legge italiana”. Un caso che apre nuovi scenari, anche sotto il profilo culturale, per un cambiamento di mentalità sollecitato da molti giuristi, affinché la Convenzione europea, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, sia davvero considerata come ineludibile modello di riferimento per il nostro sistema processuale, anche nell’ulteriore, ma non trascurabile, prospettiva di individuare proprio nella giurisprudenza europea uno strumento unificatore in grado di promuovere quel difficile ma tanto auspicato ravvicinamento delle varie legislazioni penali e processuali d’Europa. Giustizia: Iacolino (Commissione Europea); risorse Ue per migliorare le condizioni dei detenuti Italpress, 19 ottobre 2011 “La crescita costante della popolazione carceraria in Europa - dovuta alla presenza di detenuti provenienti da Paesi terzi - deve spingere la Commissione Europea a dare seguito alla pubblicazione del Libro verde e prevedere nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia una cornice normativa comune e ad individuare soluzioni nuove per il reinserimento lavorativo e l’integrazione sociale degli ex detenuti”. Lo ha detto il vicepresidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo, Salvatore Iacolino, a margine della conferenza che si è svolta oggi a Bruxelles, promossa dal Gruppo Ppe, dal titolo “Riabilitazione degli ex detenuti - Diritti dei detenuti e condizioni detentive in Europa: prospettive legislative”, e che ha visto, tra gli altri, la presenza del responsabile della Direzione per la Giustizia Penale della Commissione Europea Lotte Knudsen, Francesco Lo Voi, e del fondatore della Missione “Speranza e Carità” di Palermo, Biagio Conte. “Sebbene il principio di sussidiarietà impone che le condizioni della detenzione e la gestione delle carceri siano di competenza dei singoli Paesi - ha sottolineato l’europarlamentare del Pdl - , l’UE deve rafforzare la fiducia reciproca tra gli Stati membri e rendere più efficace il principio del riconoscimento reciproco nel campo della detenzione come nel caso del mandato d’arresto europeo, della custodia cautelare e del trasferimento dei detenuti”. “Sovraffollamento e in taluni casi trattamento inadeguato dei detenuti impongono un utilizzo equilibrato della carcerazione preventiva che deve conciliarsi con le garanzie inderogabili dovute alla persona indagata o imputata. Pur trattandosi di uno strumento eccezionale, negli ordinamenti di taluni Stati membri vi è un eccesso nell’utilizzo di questa misura che dovrebbe poter essere utilizzata nel caso dei cosiddetti euro crimini - ha sottolineato: contrasto alla criminalità organizzata, terrorismo e tratta degli esseri umani”. “Al contempo, il rispetto dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Ue e la tutela della dignità della persona esigono migliori condizioni alberghiere dei detenuti per permettere agli istituti penitenziari di svolgere il proprio mandato educativo - ha concluso Iacolino. È necessaria, altresì, un’azione concreta da parte della Commissione in materia di reinserimento lavorativo post - detenzione in linea con le esigenze del marcato del lavoro, di programmi di inclusione sociale, di sostegno nella ricerca del benessere psicofisico al fine di prevenire e contrastare le tossicodipendenze nei soggetti detenuti”. Giustizia: Mendez (Onu); lunghi periodi di detenzione in isolamento equivalgono a tortura Adnkronos, 19 ottobre 2011 Lunghi periodi di detenzione in isolamento possono provocare gravi danni fisici e mentali e pertanto costituire una forma di tortura. La denuncia è del relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, Juan Mendez, che ha esortato i governi a rinunciare al ricorso a lunghe pene detentive in isolamento per i detenuti rinchiusi nelle carceri. In particolare, Mendez esorta a non usare l’isolamento su persone affette da deficit mentali e giovani. L’isolamento per brevi periodi, ha aggiunto, è praticabile, anche per la tutela degli stessi detenuti ma qualunque forma di isolamento di una durata superiore ai 15 giorni dovrebbe essere bandita. Parlando alla commissione diritti umani dell’assemblea generale dell’Onu, Mendez, si legge sul sito della Bbc, ha definito l’isolamento, così come viene attuato nella maggior parte dei paesi, “soggetto ad abusi generalizzati”. “Considerato il grave danno o la sofferenza mentale che può produrre, l’isolamento può costituire tortura, o trattamento crudele, disumano o degradante se usato come punizione durante la detenzione preprocessuale, a tempo indefinito o per un periodo di tempo protratto, per persone con deficit mentali o per giovani”. Mendez ha in particolare criticato le autorità cinesi per aver tenuto in isolamento per due anni una donna condannata a otto anni per aver ceduto segreti di stato a stranieri. Giustizia: Di Giovan Paolo (Pd); riparte oggi il tavolo di lavoro sulla salute in carcere Agi, 19 ottobre 2011 Riparte il tavolo sulla salute nelle carceri. Ne dà notizia Roberto Di Giovan Paolo, senatore (Pd) e presidente del Forum nazionale della salute in carcere, che giudica “ottima la ripresa del tavolo giustizia-salute”, invita ad affrontare “la questione Opg” ma senza dimenticare le malattie quotidiane nelle carceri sovraffollate, e annuncia, per dicembre, un appuntamento nazionale promosso dal forum con gli oltre 200 comuni sede di carcere. “Siamo certamente soddisfatti per aver visto con i nostri occhi la prima e la seconda riunione, questa mattina, del tavolo di lavoro del Ministero della Giustizia e del Ministero della Salute sulla situazione della sanità nelle carceri italiane. Questione da noi sollevata già a giugno e luglio scorsi, poi in estate e, infine, nella sessione speciale sulle carceri del Senato della Repubblica di qualche settimana fa”, sottolinea Di Giovan Paolo. “È ovvio - lo comprendiamo - che l’attenzione primaria sia stata posta agli OPG ed alla necessità di trovare una immediata soluzione come indicato, praticamente all’unanimità, dalla Commissione Marino del Senato e dal dibattito del settembre scorso. Un buon inizio. Ora però serve un ulteriore salto di qualità”. Il “tavolo deve essere - andando nel senso della riforma del 2000 e dei decreti attuativi di Prodi del 2008 - reso permanente e ad esso debbono prendere parte - federalisticamente alla pari come prevede il titolo V della Costituzione italiana - le Regioni, che debbono prendere in carico i cittadini malati detenuti, in quanto a prevenzione, cura e supporto di mezzi e medicinali”. Ma questo “non deve valere solo per gli Opg. Abbiamo il dovere di ricordare che oggi, anni dopo la riforma della sanità penitenziaria e tre anni dopo i decreti attuativi, c’è ancora personale non definitivamente trasferito; Sert che continuano ad amministrare la presenza di medici e infermieri in carcere (aperti 365 giorni all’anno, 24 ore al giorno), come se si trattasse di tenere aperto un ambulatorio qualunque, anzi, con meno mezzi e medicinali”. Parliamo, prosegue, “della gestione dei rapporti con il 30% di tossicodipendenti che affollano le nostre carceri. E poi c’è il problema delle visite specialistiche, delle cure in ospedale, dei medicinali di infermeria in carcere, dei problemi burocratici”. Il 16 dicembre, a Firenze, “chiameremo a raccolta tutti gli oltre 200 comuni sede di carcere e le Regioni e i loro Assessorati”, perché “servono i poteri locali, i cittadini e l’associazionismo”. Giustizia: “Meglio il carcere che lavorare”, l’ultima follia di Lady Gucci di Paolo Berizzi La Repubblica, 19 ottobre 2011 Patrizia Reggiani sta scontando la condanna a 26 anni per l’omicidio dell’ex marito, erede della griffe di moda Ha deciso di rinunciare alla semilibertà e ai magistrati di sorveglianza ha spiegato: “Mai avuta un’occupazione”. La sintesi più efficace la coniò il suo ex avvocato Gaetano Pecorella, undici anni fa. “Patrizia Reggiani è e resta un mistero anche per noi suoi difensori”. Lei, tailleur Curiel blu, sciarpa di velluto raso, trucco stile Dinasty, quella mattina in aula si era accasciata sul banco degli imputati durante il processo d’appello (marzo 2000). Ma, arcani a parte, che l’uxoricidia più famosa d’Italia non fosse esattamente votata alle fatiche del lavoro si era già intuito tre anni prima. “Le mie compagne di cella? Mi trattano bene, mi aiutano a fare il letto e mi fanno da mangiare”, raccontò all’amica Micaela Goren Monti, all’epoca consigliere regionale di Forza Italia. Tutto alla fine è andato secondo copione: Patrizia Reggiani Martinelli, condannata a 26 anni di detenzione per l’omicidio dell’ ex marito Maurizio Gucci, tra il carcere e il lavoro (in semilibertà) sceglie il carcere. A sgomberare il campo da pensieri e retro pensieri ci ha pensato lei stessa, di fronte agli increduli magistrati di sorveglianza di Milano: “Non ho mai lavorato nella mia vita”. Quasi a rivendicare uno status che non può essere scalfito da nulla, nemmeno da quattordici anni trascorsi dietro le sbarre di San Vittore. O forse, non pare vero, è solo una questione di “equilibrio”, di “karma”: quello che la vedova Gucci sostiene di avere ormai raggiunto in cella. “Sempre meglio che lavorare”, si diceva un tempo (ma non a proposito del soggiorno in un penitenziario). Oltretutto, come ammonivano i latini, i gusti non si discutono. Ma un detenuto che, dopo quasi tre lustri in gattabuia, preferisce restare in prigione piuttosto che rimboccarsi le maniche e iniziare un mestiere all’esterno - beneficio a cui la Reggiani avrebbe diritto e che prevede appunto lo svolgimento di un’attività lavorativa, è il colmo. Il legale Danilo Buongiorno la spiega così. “Ormai da tempo la mia cliente usufruisce dei permessi premio per andare a trovare la madre, quasi tutte le settimane”. Ergo, non le interessa diventare semilibera? Pare di no. Patrizia la donna dei misteri. Patrizia diabolica. Patrizia vittima di “un furto della volontà” (omicida) - come sostenne in appello la difesa - da parte di una compagnia di giro di truffatori reo confessi, ammaestrata dall’arte della persuasione della maga Giuseppina Auriemma. Ma anche Patrizia la superba, la viziata, che sperpera denaro in modo ossessivo. Ai magistrati la donna che dopo tre processi e tre sentenze è stata ritenuta la mandante dell’omicidio dell’erede di una delle griffe di moda più famose del mondo (27 marzo 1995, via Palestra, Gucci fu freddato con un colpo alla nuca da un killer venuto dal sud), non ha solo confessato la sua scarsa inclinazione al sacrificio professionale - che non ha mai frequentato. Li ha pure resi edotti del fatto che una semilibertà scandita da un mestiere all’esterno non vale quanto gli hobby - due - che da anni coltiva in carcere: curare le sue piante e dare da mangiare al furetto che vive con lei. Si chiama Barbi, è l’unico privilegio che le è stato accordato. Il primo che aveva adottato le altre detenute gliel’hanno fatto trovare impiccato alle sbarre. Ha sempre avuto la passione per gli animaletti, la Reggiani. Fin da bambina, quando il suo destino alto borghese debutta con l’iscrizione “naturale” all’esclusivo Collegio delle fanciulle. Come tutte le rampolle della Milano bene la sua vita si avvia sui binari della bambagia e degli agi. Che, esaurita l’esperienza di vita newyorkese, e maritata Gucci, diventano lussi. Patrizia abita in corso Europa. Poi torna nel grande appartamento di corso Venezia di proprietà del marito. È lì che la accolgono nel 2005 Alessandra e Allegra, le due figlie avute da quell’uomo da 800 miliardi (di vecchie lire) che l’odio e il desiderio di rivalsa l’avevano spinta a volere ammazzare. “Ciao mamma”. È il 15 ottobre di sei anni fa: primo permesso, dodici ore fuori dal carcere, il ritorno dietro quel portone dal quale uscì in mezzo a due poliziotti 1’alba del 31 gennaio del 1997. Le figlie, l’anziana madre Silvana, e quella donna condannata a 26 anni (i postumi di un’operazione al cervello le sono valsi le attenuanti che le hanno evitato l’ergastolo). “La vita va avanti, no?”. Il 2005 doveva essere il primo passo verso la libertà. Adesso che le porte del carcere si sono aperte, niente. L’avrebbero assunta come cameriera in un ristorante etno-chic dietro piazzale Loreto. O in una palestra. No grazie, “non ho mai lavorato”. In questo è rimasta la Patrizia di allora. Quella che dopo i primi giorni in cella diceva “ho nostalgia dei miei trucchi”, e la “ginnastica a corpo libero, senza gli attrezzi, mi annoia mortalmente”. Chissà come la interpreterà Angelina Jolie nel film sulla “saga dei Gucci” by Ridley Scott. Lettere: un calcio alle cure… di Gennaro Santoro Terra, 19 ottobre 2011 F.T. è stato arrestato il 16 luglio 2004. Nel carcere di Pavia, nell’ottobre 2004, durante una partita di calcio ha subito la rottura dei legamenti crociati del ginocchio destro. Dopo il primo intervento, sottoposto a visita ortopedica, apprese di avere i legamenti ancora rotti, ma ricevette rassicurazioni che da lì a poco sarebbe stato riportato in ospedale per essere operato, ma nulla accade. Dopo 2 anni di inerzia, venne trasferito a Monza, dove apprese che trasferirlo era stato un errore, in quanto non erano attrezzati in quel carcere per affrontare un caso come il suo: F.T. oggi é ancora detenuto in questo carcere. Dopo un anno in cui ancora nulla accade, F.T. inizia uno sciopero della fame e della sete. Venne finalmente operato all’ospedale S. Gerardo di Monza l’11 febbraio 2008, e venne trasferito al carcere di Torino per fare della fisioterapia. Qui il fisioterapista gli disse che era stato portato troppo tardi e che la gamba sarebbe rimasta bloccata. Ma non finisce qui: F.T. cadde nel corridoio del carcere, a causa del pavimento bagnato sul quale le stampelle non aderiscono bene: i legamenti erano nuovamente rotti. A questo punto F.T. fu riportato al carcere di Torino e dopo circa due mesi senza che nulla venisse fatto, F.T. venne trasferito di nuovo a Monza. Per un anno, l’immobilismo della vita carceraria e della gamba di F.T. non producono nulla, se non due ernie inguinali dovute all’assenza di fisioterapia e di cure adeguate. L’estate del 2009 F.T. ha fatto di nuovo uno sciopero della fame di 17 giorni. Ha scritto più volte al magistrato di sorveglianza, al dirigente sanitario, senza alcun esito. Per una banale rottura dei legamenti, occorsa nel lontano 2004, normalmente curabile massimo in un paio di mesi, il sig. F.T. si trova ora con una perdita totale di funzionalità di una gamba e con due ernie causate dal sovraccarico che l’altra gamba ha dovuto sopportare in questi lunghi anni. Finalmente, lo scorso giugno, grazie agli avvocati e al difensore civico di Antigone, il Magistrato di Sorveglianza si è degnato di rispondere al sig. F.T., accogliendo il reclamo e sollecitando la Direzione della casa Circondariale di Monza ad effettuare controlli specialistici al fine di sottoporre F.T. ad un nuovo intervento e, nel frattempo, a permettergli il ‘lusso’ di svolgere la fisioterapia. Sollecitando anche l’Amministrazione ad un trasferimento di F.T. in una struttura più idonea per ragioni di tutela non solo della salute, ma anche della “dignità della persona”. La decisione del Magistrato di Sorveglianza è dello scorso giugno. Da allora nulla. Lettere: un appello per i detenuti di Lecce Il Messaggero, 19 ottobre 2011 Mio figlio è detenuto nel carcere fatiscente di Lecce. Sono stata a colloquio e lui mi ha riferito di una situazione drammatica. I detenuti apprezzano l’impegno di Pannella e dei radicali ma sanno tutti che l’amnistia rimarrà un vero miraggio. Quello che serve è un indulto immediato e, per chi è in attesa di giudizio, una misura alternativa a casa. Ma ci vuole tanto a capire tutto questo? I detenuti dormono su un letto di ferro e con otto persone in una cella di quattro metri quadrati. Io come mamma faccio un appello accorato affinché si possa fare urgentemente qualcosa, perché ogni giorno ci sono detenuti che tentano il suicidio. Emilia Romagna: mancano soldi per programmi di reinserimento, boom della recidiva Dire, 19 ottobre 2011 Recidiva alta anche a causa degli scarsi programmi di reinserimento e intanto i soldi, anche per queste iniziative, diminuiscono. Nel frattempo, gli stranieri dietro le sbarre sono sempre di più e molti sono in attesa di giudizio, quindi non in grado di frequentare i corsi. I problemi delle carceri emiliano - romagnole sono ancora lontani dall’essere risolti. E i nuovi padiglioni per 1.000 posti, decisi nello scorso maggio, non basteranno a risolvere il sovraffollamento, nemmeno con l’assegnazione di 67 nuovi agenti penitenziari, che probabilmente, non saranno sufficienti. Anche perché la popolazione carceraria dell’Emilia-Romagna non accenna a calare e gli stranieri continuano ad essere una percentuale molto alta tra coloro che sono dentro in attesa di giudizio. Non va dimenticato, infatti, che per ottenere una pena alternativa al carcere serve un domicilio, e molti stranieri non ce l’hanno. Quindi le celle si riempiono di immigrati che attendono la condanna senza poter fare i corsi di formazione. Tra l’altro, dati di una ricerca del 2009 effettuata nel Lazio valgono anche oggi in Emilia-Romagna: circa il 15% dei condannati che sconta la pena con una misura alternativa al carcere delinque di nuovo, mentre è recidivo ben il 67% di chi la espia dentro. Quindi è come un cane che si morde la coda: meno fondi, meno corsi in carcere o programmi di reinserimento, quindi più recidiva. Peraltro, il grande turnover dentro le case circondariali non permette nemmeno di avere dati sul grado di istruzione dei detenuti e quindi, eventualmente, di creare programmi. Sono alcuni dei temi che verranno trattati oggi in commissione consiliare in Regione, dove si attende una relazione dell’assessore regionale alle Politiche sociali, Teresa Marzocchi. Per quanto riguarda la provenienza dei detenuti, dalla relazione di Marzocchi risulta che l’incidenza degli stranieri di nascita e dei residenti fuori regione è alta. I dati della fine del 2010, infatti, vedevano che su 4.373 detenuti nelle carceri emiliano-romagnole, 2.527 dei quali residenti nel territorio, 376 in Lombardia, 256 in Campania, 153 in Sicilia e 1551 in Veneto. Ma se si esaminano i numeri guardando il luogo di nascita si nota che, del totale, solo 494 sono nati in Emilia-Romagna, mentre 2.327 sono nati all’estero, 428 in Campania, 276 in Sicilia, 189 in Lombardia e 162 in Puglia e 150 in Calabria. L’unico problema che le carceri non avrebbero, si evince dalla relazione dell’assessore, sarebbe trovare detenuti che vogliono fare i corsi di formazione. Ma anche qui si torna al punto di partenza: sono i corsi a scarseggiare. È noto, infatti, che i fondi per il Programma carcere sono andati diminuendo, scendendo del 38% in tre anni: 400.000 euro nel 2008, 350.000 nel 2009 e 245.000 nel 2010. La Regione, da parte sua si è impegnata a mettere 100.000 euro all’anno per il 2009 e il 2010 per programmi di inserimento sociale e lavorativo. E per quanto riguarda i contributi erogati dal Fondo sociale europeo per i corsi di formazione, sono le Province a emettere i bandi in momenti diversi dell’anno, quindi a oggi un bilancio preciso delle attività non c’è. In questo quadro, si legge nella relazione dell’assessore, il presidente della Regione Vasco Errani, già nel 2009 aveva scritto al ministro della Giustizia Angelino Alfano per chiedere un intervento urgente, in particolare per la tutela della salute dei carcerati, ma non è mai arrivata una risposta. Umbria: (Pd); dal Ministro della Giustizia subito fatti e non parole per la situazione delle carceri Ansa, 19 ottobre 2011 “I parlamentari umbri del Pd hanno completato le visite negli istituti di pena della regione riscontrando, sia pure con diverse gradualità, situazioni di grave disagio, che richiedono da parte del Governo - del Ministero della Giustizia in particolare - misure urgenti per ridurre il sovraffollamento dei detenuti e per aumentare il personale di vigilanza e custodia, dando risposte a problemi gravissimi che rischiano di diventare esplosivi”. Lo affermano i deputati Giampiero Bocci, Walter Verini e Carlo Emanuele Trappolino, che nella giornata di ieri hanno visitato le carceri di Orvieto e Terni, dopo le visite effettuate nelle scorse settimane al carcere di Capanne a Perugia e a quello di Spoleto. “I problemi delle carceri umbre - aggiungono i parlamentari - richiedono risposte nazionali strutturali, delle quali si perdono le tracce. Ci riferiamo al piano di edilizia carceraria, a misure contro il sovraffollamento, alla possibile riforma della custodia cautelare. E ci riferiamo al drammatico taglio di risorse, che rende sempre più impraticabile sia l’ordinaria gestione che ogni attività di formazione, di rieducazione e socializzazione”. “In alcune delle situazioni visitate - continuano Bocci, Verini e Trappolino - siamo all’emergenza, con detenuti costretti a dormire in celle sovraffollate con il solo materassino a terra, con gli spazi dedicati alla socializzazione occupati dai letti. Sembra incredibile, ma perfino servizi essenziali come il materiale per le pulizie o la stessa carta igienica vengono assicurati solo da donazioni volontarie di associazioni esterne!” “Se i detenuti vivono in condizioni spesso intollerabili - continuano i parlamentari del Pd - difficilissima è la situazione del personale, del tutto sottodimensionato. Gli agenti e il personale specializzato sono costretti a turni massacranti e stressanti, in una situazione che solo la loro grande professionalità, insieme a quella delle Direzioni, rende meno difficile”. “Per questo - concludono Bocci, Verini e Trappolino - continueremo ancora, come ha già fatto anche la Regione Umbria, ad incalzare il Ministro, i responsabili del Dipartimento Affari Penitenziari per avere urgenti risposte, basate su fatti e non parole, per ridurre sensibilmente il sovraffollamento delle carceri umbre, per ottenere adeguata dotazione di nuovo personale e maggiori risorse, per garantire il rispetto delle esigenze, a partire da quelle più elementari”. Trieste: Camera penale; in carcere mancano soldi per riparare vetri, cartoni alle finestre Il Piccolo, 19 ottobre 2011 “Siamo tutti a conoscenza, sia l’Ordine degli avvocati che la Camera penale di Trieste, delle condizioni in cui versa il carcere triestino e quelle di vita dei detenuti che vi sono ospitati. Sono condizioni al limite, se non oltre il limite, come sostanzialmente in tutte le carceri d’Italia”. Così l’avvocato Roberto Gambel Benussi, presidente dell’Ordine degli avvocati di Trieste. Che, riferendosi in particolare all’ultimo episodio, aggiunge: “È meglio che abbiano fatto così, togliendo le due finestre e sistemandole nelle celle, visto che i detenuti devono viverci lì dentro, mentre noi tutto sommato possiamo starci a volte anche dieci minuti e tenere quindi addosso il cappotto”. Sul “caso finestre” potrebbero intervenire proprio gli stessi avvocati: “Prenderemo contatti con la direzione del carcere - conclude Gambel Benussi - per vedere di risolvere almeno questa emergenza, assieme alla Camera penale. I fondi? Mi pare possano arrivare o da noi o da noi - conclude: è chiaro che non possiamo rifare il carcere ma capire cosa succede per due finestre sì”. Cartoni alle finestre. Succede quando i soldi per ripararle, o per sostituirle, non ci sono. È quanto accaduto e sta accadendo al Coroneo, al carcere cittadino. Già a settembre era stata denunciata, per voce della consigliera comunale del Pd Maria Grazia Cogliati Dezza, una situazione di diffuso degrado delle celle (muri scrostati, presenza di scarafaggi e zanzare, caldo soffocante e pure, vicino, alcune docce rotte) all’interno della struttura, complice una capienza arrivata ormai ampiamente oltre il livello limite, con - un mese or sono - 270 detenuti a fronte dei 155 previsti come quota massima. Ora, l’ultimo episodio in ordine di tempo: due finestre di altrettante celle si sono rotte, una a causa di un “intervento” di un detenuto e l’altra per colpa delle forti raffiche di Bora. Non avendo però fondi a disposizione per effettuare la doppia sostituzione o per rimetterle a posto, i vertici del carcere hanno deciso di rimpiazzarle nel modo più indolore possibile. Innescando un gioco ad incastri. Così, ne sono state asportate due dal secondo tratto della zona uffici al pianterreno, precisamente dalla sala dove gli avvocati incontrano e dialogano con i detenuti loro assistiti. Al posto di quelle due finestre, sono stati sistemati, e fissati con lo scotch, dei cartoni. Certo, trattasi di sala piuttosto riparata dal vento, che dà sul cortile interno, ma quando arriverà l’inverno e le temperature scenderanno anche sotto lo zero il freddo lì dentro si farà sentire, eccome. A far cadere la preferenza sulle due finestre in questione, è stato un motivo semplice: sono infatti compatibili con misure e necessità delle celle. E se i soldi dovessero continuare a mancare? “Le prossime finestre, eventualmente, saranno rimosse dalle sale a disposizione dei magistrati e del direttore...”, ammette Enrico Sbriglia, che del Coroneo, per l’appunto, è il direttore (il suo spostamento è stato, come noto, congelato). Sbriglia è quindi pronto, in caso di necessità, a piazzare i cartoni al posto delle vetrate anche nel suo ufficio. “Se la nostra prima missione - commenta Sbriglia, confermando così le voci circolate nella mattinata di ieri su quanto accaduto in carcere - è quella di custodire le persone, non possiamo che farlo nel rispetto delle norme. Non sarebbe cosa ragionevole che i detenuti fossero lasciati all’addiaccio”. Come mai la direzione della casa circondariale di Trieste abbia deciso per l’intervento, tamponando l’emergenza con i cartoni nella sala individuata come improvvisata fornitrice di finestre, lo ribadisce direttamente anche Sbriglia: “Le finestre sono state danneggiate da un detenuto e dalla Bora - prosegue il direttore del Coroneo - e non è stato possibile effettuare la manutenzione. Come mai? Perché mancano le risorse per acquistare i cristalli e i vetri speciali previsti”. Niente soldi, niente finestre nuove. Solo cartoni, per ora. Catania: detenuto tenta suicidio nel carcere di Caltagirone, salvato dai compagni di cella La Sicilia, 19 ottobre 2011 Si è impiccato nella propria cella, ma i suoi compagni sono riusciti a evitare che morisse. Un uomo di 37 anni, originario di Catania, detenuto nel carcere di Caltagirone, ha cercato di suicidarsi, ma l’intervento di altri detenuti ha impedito il peggio, anche se le condizioni del poveretto sono critiche. L’episodio è avvenuto ieri, alle 14 circa, all’interno della casa circondariale di contrada Noce. Lanciato l’allarme, sono subito intervenuti gli agenti della polizia penitenziaria e l’uomo è stato trasportato in ambulanza all’ospedale “Gravina”. Quando è arrivato al pronto soccorso, respirava malissimo e aveva sul collo i segni inequivocabili del tentato suicidio. Adesso è in coma (in parte farmacologico) ed è ricoverato in Rianimazione. La Procura della Repubblica di Caltagirone, coordinata da Francesco Paolo Giordano, è impegnata a ricostruire con esattezza il fatto. Non si comprende perché l’uomo, che deve scontare due anni di reclusione per reati contro il patrimonio (furto e ricettazione), abbia pensato di farla finita. Il comunicato del Garante dei detenuti “Questa mattina a Caltagirone un giovane di 35 anni ha tentato il suicidio ma, grazie al tempestivo intervento della polizia penitenziaria, in particolare dell’agente di sezione in servizio in quel momento e sotto il coordinamento del comandante di reparto, il detenuto è stato salvato”. Lo rende noto in un comunicato il senatore Salvo Fleres, garante dei diritti dei detenuti in Sicilia. “Certo - aggiunge - bisognerà scoprire le motivazioni che hanno indotto il detenuto a tentare il suicidio, ed in tal senso, nell’ambito della mie competenze, ho chiesto notizie alla Direzione del carcere. In ogni caso, alla luce di quanto emerge dai primi riscontri, il recluso ha posto in essere tale gesto con forte convincimento, infatti, ha ingerito dei detersivi prima di tentare di levarsi la vita impiccandosi ed è proprio qui che l’agente in servizio è intervenuto approntando anche i primi soccorsi. Auguro - conclude Fleres - una pronta guarigione al detenuto e inoltro un sincero ringraziamento al personale di polizia penitenziaria”. Livorno: il Garante dei detenuti solidale con la Polizia penitenziaria rimasta senza mensa Ansa, 19 ottobre 2011 Solidarietà e disponibilità agli agenti di polizia penitenziaria. È il messaggio del garante dei detenuti di Livorno, Marco Solimano, dopo aver letto con preoccupazione, spiega, le note dei sindacati di polizia penitenziaria che denunciano la recente impossibilità di poter usufruire della mensa, a causa di un ulteriore degrado strutturale, ma ancora di più la mancanza gravissima degli strumenti minimi per svolgere con dignità il proprio lavoro. Un ulteriore elemento critico - aggiunge Solimano - in una situazione già difficilissima che lede fortemente i diritti dei cittadini reclusi, ma anche di coloro che nel carcere svolgono la loro attività lavorativa e professionale. L’assordante silenzio e la latitanza dell’Amministrazione penitenziaria, a fronte delle proprie responsabilità, rende il governo di queste criticità ancora più complesso - prosegue il garante dei detenuti - Il livello di sovraffollamento ha raggiunto livelli oramai insopportabili e non degni di un Paese civile, cui si aggiunge una carenza rilevantissima di personale civile e di polizia penitenziaria che non consentono di misurarsi con una situazione oramai divenuta emergenziale. I percorsi di inclusione sociale sono oramai inibiti ed interdetti da una condizione che a stento tutela la sopravvivenza e la conservazione di un minimo di integrità psicofisica. Serve, secondo Solimano, un piano straordinario, che coinvolga anche Comuni, Province, Regioni ed associazioni di volontariato per cominciare a costruire percorsi di decarcerizzazione, pensare a pene riparative e risarcitorie, fuori dal carcere, per i tanti detenuti a basso indice di pericolosità. Uno Stato democratico - conclude il garante - non può tollerare una continua e perdurante lesione dei diritti fondamentali delle persone così come chi opera all’interno degli istituti deve avere la garanzia di poterlo fare con professionalità, efficienza e decoro. Perugia: Girlanda (Pdl) riceve lettera da madre detenuto morto; vietare subito bombolette di gas Agenparl, 19 ottobre 2011 “Onorevole Girlanda, sono la moglie del detenuto morto nel carcere di Capanne lo scorso 2 agosto a causa di quelle maledette bombolette nelle carceri; so che lei è già intervenuto per sollecitare l’amministrazione penitenziaria a rivedere l’uso di queste bombolette nelle carceri, vorrei appoggiarla nella sua lotta per evitare così che un altro bimbo di 5 anni come mio figlio debba piangere suo padre morto in questa assurda maniera”. È questo il testo della mail che l’On. Rocco Girlanda (Pdl) ha ricevuto stamani, a cui il parlamentare umbro ha immediatamente risposto. “La signora mi ha scritto dopo aver saputo che ho presentato una proposta di legge inerente l’istituzione di refettori comuni nelle carceri, nonché il divieto di detenere bombolette di gas e fornelli nelle celle da parte dei detenuti. In questo senso - riferisce Girlanda - per rispondere all’appello che mi è giunto, solleciterò oggi stesso la presidente della commissione giustizia di Montecitorio, on. Giulia Buongiorno, affinché possa procedere quanto prima alla calendarizzazione della proposta di legge, così da evitare il ripetersi di analoghe tragedie”. Roma: detenuto marocchino tenta evasione in tribunale, ripreso Adnkronos, 19 ottobre 2011 Fallita evasione questa mattina di un detenuto marocchino nella città giudiziaria di Piazzale Clodio. Portato in Tribunale perché sottoposto a procedimento di estradizione Hamine Harrada, di 30 anni, quando è sceso dal furgone della polizia penitenziaria che l’ha trasferito dal carcere al Tribunale, ha dato uno spintone ad un agente della scorta riuscendo subito a fuggire. La guardia sparando un colpo in aria ha dato subito l’allarme e un gruppo di agenti carcerari aiutati da poliziotti ha inseguito il fuggitivo che è stato poi raggiunto in via Gomenizza mentre stava scavalcando una rete di recinzione ed è stato bloccato. Harrada è imputato per fatti di droga. Genova: detenuto sfonda mezzo della polizia penitenziaria durante un trasporto Ansa, 19 ottobre 2011 “La tensione resta alta nelle carceri liguri: la polizia penitenziaria di Genova ha infatti sventato l’ennesima criticità accaduta durante un servizio di trasferimento di un detenuto in altra sede carceraria. È accaduto pochi minuti fa a Pontedecimo, dove una scorta del Nucleo Traduzioni di Marassi stava prelevando un detenuto da assegnare in altra sede congiuntamente ad altri due reclusi del carcere di Marassi, già a bordo del furgone. Durante le operazioni di prelievo del detenuto, uno dei due detenuti - un marocchino di 22 anni in carcere per vari reati tra i quali rapina, lesioni e rissa - ha dato improvvisamente in escandescenza e, tentando probabilmente una improbabile fuga, ha sfondato la porta della cella interna del mezzo. I nostri agenti sono però riusciti immediatamente, con grande professionalità e prontezza, a sventare il possibile tentativo di evasione ma è evidente che quanto accaduto deve fare seriamente riflettere, tanto più che lo scorso 6 aprile nell’autogrill di Sestri Levante avvenne un tentativo di evasione, con modalità pressoché simili in un mezzo dello stesso tipo. Non è possibile che i mezzi adibiti al trasporto dei detenuti evidenzino tali lacune, per la sicurezza del mezzo stesso e della scorta della Polizia Penitenziaria a bordo”. È quanto dichiara Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto e Commissario straordinario ligure del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, commentando quanto avvenuto pochi istanti fa nel carcere di Pontedecimo. “Ai colleghi interessati, e ai Reparti di Polizia penitenziaria di Genova Marassi e Pontedecimo, esprimo la vicinanza del primo e più rappresentativo Sindacato del Corpo, il Sappe. Questo grave episodio va certamente contestualizzato nel clima di tensione che si registra nelle sovraffollate carceri italiane, in cui l’esplosiva combinazione tra il grave sovraffollamento pari a quasi 68mila detenuti e una carenza di 7.500 unità negli organici della Polizia penitenziaria - oltre 220 agenti in meno tra Marassi e Pontedecimo - determina di fatto livelli di sicurezza assolutamente insufficienti per i nostri Agenti, specie di coloro che lavorano ogni giorno, ogni ora, nella prima linea delle sezioni detentive, delle traduzioni e dei piantonamenti. Ed il ripetersi di tentativi di evasione di detenuti dai mezzi della Polizia penitenziaria, con modalità pressoché analoghe, deve fare seriamente riflettere sull’affidabilità di questi mezzi e su quali condizioni i Baschi Azzurri sono costretti ad operare. Tutto ciò è inaccettabile. Mi auguro che le Istituzioni deputate - Governo, Ministero della Giustizia e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ognuno per quanto di propria competenza - adottino al più presto i provvedimenti di urgenza che la gravissima situazione non consente più di rinviare.” Libri: “Alice nel paese delle domandine”, le voci dal silenzio del pianeta Sollicciano di Laura Montanari La Repubblica, 19 ottobre 2011 Le voci vietate: “Ci sono dei giorni in cui mi attacco alle sbarre, come se al mio toccarlo quel ferro ghiaccio dovesse svanire e d’incanto mi ritrovassi libera di riprendermi la mia vita senza dover fare nessuna domanda”. Le voci che non sentiamo perché sono sepolte dentro Sollicciano. Ragazze, madri, donne, soprattutto cuori, sentimenti, corse e cadute, scie del destino. “Alice nel paese delle domandine” (le domandine sono i mille moduli da compilare all’amministrazione penitenziaria per qualsiasi richiesta o desiderio), è un libro appena pubblicato dalla casa editrice Le Lettere (pp. 225, euro 16,50) e firmato da Monica Sarsini, scrittrice e artista fiorentina. Una che da tre anni per l’associazione Il Giardino dei Ciliegi, un giorno la settimana, entra in carcere e tiene un corso di scrittura creativa alle inquiline della sezione femminile del carcere. Un corso che nel tempo non è più soltanto una lezione, ma un patto di amicizia, un dialogo, una finestra sul mondo: “Fino alla scorso anno potevo contare su un contributo del Comune, adesso forse per carenze nei finanziamenti, non mi danno più niente, ma io non me la sento di lasciare sole quelle donne là dentro”. Così il laboratorio va avanti per affetto e per un senso di solidarietà tutta femminile o perché si crede nei versi di una poesia di Emily Dickinson, “una parola muore/appena detta,/ dice qualcuno./ Io dico che solo/ quel giorno/ comincia a vivere”. Immerse nello squallore sogniamo solo la libertà I nostri buoni propositi farebbero impallidire un monaco zen. Poi i detenuti smettono di essere detenuti ed escono, purtroppo spesso non si diventa matematicamente liberi, per essere davvero libero devi avere dei progetti e delle possibilità... La speranza fissa di un detenuto è la libertà. Uscire da questo luogo squallido, che appena apri gli occhi al mattino ti ci trovi immersa, no, prima ancora, un attimo prima di svegliarti, in cui nella tua testa iniziano a entrare i suoni e, i suoni che senti sono le voci delle altre detenute o delle agenti e intanto pensi “nooo”. Uscire di qui e poter fare una cosa qualsiasi, entrare in un bar o fare una telefonata e sentire la voce della tua amica più cara; camminare e guardare le vetrine, questa è la speranza basilare, non vedere più questo posto e tutte queste sbarre e cancelli. Invece ci sono due fattori comuni a tutti i detenuti: che siamo innocenti e che mentre siamo qua facciamo buoni propositi, talmente buoni da far impallidire un monaco zen. Noi, impotenti e disperate tra la pioggia di spazzatura Ho avuto il permesso di chiamare i miei, da un mese aspettavo. Mi affaccio tra le grate in cemento e sulla tettoia sottostante piove spazzatura. La gettano dalla cella sopra la mia. Avanzi di cibo, carta igienica e pane bagnato. Di fronte a questo c’è impotenza, le agenti intervengono, ma non basta a fermare il sudicio. La mia è una cella multirazziale: io italiana, Stenie è africana, del Congo e Ly cinese. Ly non parla italiano, nemmeno una parola, le sto insegnando l’indispensabile: francobollo, lavatrice, domandina, pranzo... Lei sorride e ripete. Stenie invece è sempre stanca, oggi però le ho detto che nessuno è servo dell’altro e perciò collaborasse e, per l’andamento della casa, ha lavato i piatti. Chi fuma non ha vita facile in carcere, specie se fuori non c’è una famiglia che ti sostiene. Non basta il lavoro che svolgi nella struttura per soddisfare i piccoli capricci. Vedo anime disperate che si affacciano e chiedono sigarette... Ho avuto il permesso di telefonare a casa, un mese fa ho fatto la richiesta. Quando mio figlio mi ha risposto mi batteva il cuore forte e le lacrime scendevano giù. Ci basta un panno bianco per innamorarci ancora È un modo per comunicare e fidanzarti con uomini che non conosci. Panneggio. Secondo il dizionario: l’effetto delle pieghe di un drappo o di una veste, specialmente come oggetto o motivo di rappresentazione nell’ambito della pittura o della scultura tradizionale. Nel carcere di Sollicciano panneggiare è uno dei verbi, quindi degli atti, più comuni: è un modo per comunicare la parte femminile e quella maschile che si interfacciano come le curve di uno stadio. Per panneggiare bastano un panno appunto e conoscere l’alfabeto... Un panno bianco e due mani ed ecco come magia che ti trovi a parlare con un uomo dietro le sbarre come te. Sollicciano ti offre questo, e in poco tempo ti ritrovi in sintonia con lui, ti puoi fidanzare, farti un amico, ma qui la precedenza tocca a un innamoramento tra persone che nemmeno si vedono e che non si conoscono, cosa che succede spessissimo. Prima vieni corteggiata proprio come succede fuori da un carcere, pian piano con quel panno trovi l’uomo che credi già di amare anche se non lo vedi, ci fai l’amore con un panno. Piatti vari e abbondanti ma manca il sapore di casa Ogni tanto arriva qualcosa scelto dai miei bimbi: cibo che fa bene al cuore. La ragazza vestita di bianco, che poi seppi si chiamava porta vitto, da lì prendeva i nostri piatti, li riempiva e ce li restituiva. Attraversare con la mia mano quella sbarra per farmi riempire il piatto fu una grande mortificazione. A volte questa scena l’avevo vista in qualche film, ma adesso i miei occhi non osservavano una finzione, vedevano la realtà in cui ero precipitata. Le mie mani esili dalla pelle morbida e dalle unghie ben curate attraversarono quelle sbarre che intrappolavano il mio corpo e per qualche secondo la mia mano che sporgeva era come se oltrepassasse il confine nel quale ero rinchiusa. Sul carrello ci sono sempre tre portate, le porzioni sono abbondanti ma gli odori e i sapori sono diversi da ciò che cucinavo io... Durante i colloqui i miei genitori mi possono portare il mangiare, ma solo quattro volte al mese. Quando vedo i sacchetti portati da casa e i prodotti scelti dai miei bambini li mangio con un gusto particolare... E questo cibo per me non è soltanto il nutrimento del corpo, ma soprattutto per il mio cuore. Ho abbracciato mia sorella non la vedevo da tre mesi Mi ha baciata solo dopo aver chiesto il permesso alla guardia. Alle 8,45 è venuta l’assistente e mi ha fatto scendere nell’ingresso, dopo cinque minuti un’altra assistente mi ha perquisita e dopo mi ha messo le manette. Poi mi hanno fatta salire sul blindo e siamo partiti per il tribunale. Sulla strada c’erano mia sorella e il suo compagno che non vedevo da tre mesi, però quando mi ha visto con le manette si è messa a piangere e io ho fatto altrettanto. Poi con la scorta mi hanno portata in una stanza ad aspettare che mi chiamassero... Mia sorella ha chiesto all’assistente se mi poteva abbracciare e l’assistente ha detto di sì e allora mi ha baciata e abbracciata e mi ha detto di stare tranquilla che mi voleva bene... Dunque ho avuto questa camera di consiglio per chiedere i primi 45 giorni di liberazione anticipata, il tribunale di sorveglianza me li ha rigettati perché i carabinieri di Prato il 12 febbraio mi hanno denunciata, dicono che mentre ero agli arresti domiciliari ho fatto più di un’evasione, ma io, ma non sapevo che anche fuori dalla porta di casa, sul pianerottolo, fosse evasione. Quante lettere di rimpianti scritte da schiava della droga Il tuo spazio è limitato e cerchi di aggrapparti a qualsiasi cosa. Parole, parole, parole. Scrivere oceani di parole, non so quante ne ho scritte da quando sono qua, fra queste mura. Lettere, troppe lettere, tristi, d’amore, di rimpianti, lettere da amici mai arrivate, e ti rendi conto quanto lo fossero davvero, legati da una sostanza, forse l’unica amica che ho avuto, l’eroina, quella che mi rimaneva più facile, non parla ma in compenso mi fa stare bene, bene a tal punto che non ti interessa fin dove ti fa arrivare, ma solo come ti fa sentire. Un’amicizia che a poco a poco diventa una convivenza, anzi un matrimonio: per divorziare devi passare da una marea di avvocati, ma penalisti, ed ecco che ti ritrovi qui, nel posto che è impossibile immaginare se non ti ci ritrovi con i tuoi occhi e le tue gambe, la galera, un microcosmo dove ti controllano 24 ore su 24, dove il tuo spazio è limitato e il tempo cammina lento, inesorabilmente, dove cerchi di aggrapparti a qualunque cosa, magari anche un amore passeggero. Immigrazione: da Camilleri a De Luca, scrittori italiani commentano le storie dei rifugiati Redattore Sociale, 19 ottobre 2011 Un dialogo a distanza che è il cuore di “Terre senza promesse”, volume curato dal Centro Astalli per raccontare le vite normali dei profughi prima della fuga da paesi in cui erano perseguitati. Tra loro anche giornalisti somali. Un giornalista somalo fuggito da Mogadiscio con altri 24 reporter dopo l’uccisione di due loro colleghi. Un rifugiato etiope che per anni ha fatto la spola tra il Sudan e le carceri libiche, comprando ogni volta dai poliziotti corrotti del regime di Gheddafi il diritto di scappare di nuovo. Sono alcune delle storie di rifugiati approdati a Lampedusa raccolte dal Centro Astalli nel volume “Terre senza promesse”. Sono le testimonianze di quelli che ce l’hanno fatta a superare l’inferno del deserto e del mare. Arrivati in Europa pensavano di essere liberi, invece una nuova odissea è cominciata per loro nella terra promessa. “Sono arrivato a Lampedusa, in Sicilia, uno tra tanti, uno di quelli che puzzano, che non si sa dove metterli che starebbero meglio a casa loro e che oggi vengono respinti in Libia - racconta il giornalista somalo Zakaria - sono il testimone oculare di un esodo di migliaia di persone che sembra non interessare a nessuno”. Anni di prigionia in luoghi come Kufra, creati dall’ex dittatore libico Gheddafi appositamente per rinchiudere i rifugiati che cercavano di raggiungere l’Europa passando dall’Italia. Carceri in cui si torturava la gente e in molti casi finanziate dal nostro governo. “Lì dentro, tra quei corpi ammassati, la vita umana non vale niente” scrive un altro giovane che ha ottenuto la protezione internazionale. Con questo volume, il Centro Astalli cerca di offrire uno sguardo più ravvicinato sulle singole storie schiacciate nelle immagini televisive degli sbarchi, troppo spesso appiattite su un cliché. “Degli uomini e donne che sbarcano in condizioni disperate sulle coste del nostro Paese non sappiamo granché - scrivono i curatori nell’introduzione - Ma chi lavora al Centro Astalli ha il privilegio di incontrare molti di loro e, a volte, di chiedere loro di raccontare qualcosa di sè”. Per condividere l’esperienza degli operatori e dei rifugiati nasce questo collage di racconti autobiografici sul percorso delle migrazioni. Il libro vanta il contributo di nomi noti del panorama culturale nazionale: da Gad Lerner a Erri De Luca ad Andrea Camilleri a Giovanni Maria Bellu. In una sorta di dialogo a distanza, scrittori e giornalisti italiani commentano o introducono le storie dei profughi. Al lettore si presenta così uno scambio di ricordi autobiografici e familiari tra autori famosi e migranti sconosciuti. Secondo i curatori del volume, questo risultato è una prova in più del fatto che “l’Eritrea, l’Etiopia e la Somalia hanno condiviso con l’Italia un pezzo di storia rilevante, che tendiamo a dimenticare o a rimuovere”, ma succede “soprattutto perché i sentimenti che troviamo descritti con parole semplici e sobrie sono universali, appartengono profondamente a ciascuno di noi”. Terre senza promesse lancia un messaggio: i rifugiati sono persone comuni che si vengono a trovare in circostanze eccezionali. Rifugiati si diventa all’improvviso, senza averlo voluto e, a volte, senza avere fatto nulla di straordinario. Per alcuni, ad esempio per i giornalisti, può essere addirittura sufficiente svolgere con coscienza il proprio lavoro. Repubblica Ceca: sventata massiccia rivolta in numerose prigioni Ansa, 19 ottobre 2011 L’amministrazione penitenziaria ceca ha rivelato i preparativi di un’estesa rivolta di detenuti, che avrebbe dovuto interessare diverse prigioni della Repubblica Ceca. Ne ha dato notizia l’emittente tv privata Prima. Per evadere, i carcerati hanno costruito decine di armi bianche e si sono procurati anche alcune armi da fuoco. “In molte prigioni in tutta la Repubblica Ceca sono stati individuati i preparativi a disordini massicci”, ha detto alla tv la portavoce dell’amministrazione delle prigioni Marketa Prunerova. La notizia è stata confermata anche dal ministro della Giustizia Jiri Pospisil. La rivolta sarebbe dovuta scoppiare lo scorso week-end nella prigione di Pankrac a Praga. I prigionieri avevano programmato presumibilmente aggressioni mirate per impedire ai guardiani di chiedere rinforzi e per impossessarsi subito dopo delle armi. Secondo la direzione delle carceri, dietro la fallita operazione c’è un’estesa organizzazione criminale, neutralizzata con diversi arresti nel 2007.