Giustizia: Ionta (Dap); grave situazione diritti umani nelle carceri Asca, 16 ottobre 2011 La Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato ha proseguito, con l’audizione del Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta l’indagine conoscitiva sulla tutela di questi diritti. In particolare Ionta ha ricordato la grande emergenza in cui si trova l’intero sistema carcerarie con il sovraffollamento giunto a 67.500 detenuti dei quali circa il 42% in attesa di processo. Di seguito le sintesi del suo intervento. Il dottor Franco Ionta ha sottolineato la situazione di grande emergenza in cui si trova l’intero sistema delle carceri italiane, situazione determinata da una molteplicità di fattori. Primo fra tutti il sovraffollamento delle strutture detentive. Oggi si contano oltre 67.500 detenuti, gran parte dei quali, circa il 42 per cento, ancora in attesa di processo. Inoltre un numero elevatissimo di detenuti resta in carcere solo per pochi giorni o comunque pochi mesi, determinando un continuo turnover di detenuti. Il problema del sovraffollamento è poi inevitabilmente legato al problema della carenza sia numerica sia qualitativa delle strutture penitenziarie. A tale carenza il Governo ha cercato di porre rimedio adottando come è noto il cosiddetto piano carceri. Si tratta di una misura di ampia portata che non prevede soltanto la costruzione di nuove strutture penitenziarie, ma anche l’aumento dell’organico e la promozione di misure alternative alla detenzione, nei casi in cui questo è possibile. Per quanto riguarda la costruzione di nuovi istituti, la fase progettuale preliminare è già conclusa e si prevede l’avvio della fase esecutiva entro fine anno. Per quanto riguarda l’organico, invece, deve essere messo in rilievo come l’amministrazione penitenziaria presenti oggi una carenza di 6.000 unità. Sono previste assunzioni - per le quali è stata richiesta la necessaria copertura finanziaria al Mef - le quali, pur colmando solo in minima parte le lacune del sistema, potranno portare un miglioramento della situazione. Un altro importante problema del quale è bene trattare in questa sede, è costituito dalla gestione della sanità penitenziaria. Ci sono Regioni, come la Sicilia, in cui il passaggio della sanità al servizio sanitario nazionale non è stato ancora recepito, il che ha provocato un ulteriore sovraccarico per l’amministrazione penitenziaria. Va poi segnalata una emergenza nell’emergenza, legata al problema dei detenuti negli ospedali psichiatrici. Giustizia: Pannella; amnistia irrinunciabile e non negoziabile Adnkronos, 16 ottobre 2011 “L’amnistia non è rinunciabile né negoziabile e risponde a una prepotente urgenza” . Il leader radicale Marco Pannella è tornato a difendere l’amnistia come soluzione al problema del sovraffollamento carcerario nel suo intervento al congresso straordinario dell’Unione camere penali. Pannella ha denunciato la scarsa attenzione dell’informazione alla drammatica situazione delle carceri italiane, nonostante il forte appello del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. “Quattro mesi dopo l’intervento del presidente della Repubblica dai Tg è stato dedicato più tempo al delitto di Avetrana. Questo - ha concluso - è la negazione della democrazia”. Ammontano a due milioni le prescrizioni degli ultimi 10 anni, ricorda Pannella, per il quale lo Stato è in flagranza di reato. E spiega che con l’amnistia si libererebbero anche per gli uffici giudiziari risorse umane e logistiche. Quanto all’informazione negli ultimi 4 mesi, da quando il presidente della repubblica ha denunciato la situazione delle carceri, è stato dato più spazio nei Tg e negli approfondimenti ai fatti di Avetrana, che non a questi temi. Giustizia: Sottosegretario Belcastro; sì all’amnistia, detenuti privati della dignità umana Ansa, 16 ottobre 2011 “In troppe carceri italiane si registra una costante violazione dei diritti umani, troppi detenuti vengono privati non solo della libertà, ma anche della dignità umana. Crediamo che sia giunto il momento di aprire all’ipotesi di un’amnistia”. Lo afferma Elio Belcastro, Sottosegretario all’Ambiente e Vicesegretario nazionale di Costituente per il Sud - Noi Sud. “I colleghi Radicali - prosegue Belcastro - hanno posto all’ordine del giorno del dibattito politico una situazione ormai drammatica. Va riconosciuto a loro non solo questo merito, ma anche quello di chiedere con insistenza alle istituzioni di trovare una soluzione ragionevole e possibilmente in tempi rapidi. Per quanto ci riguarda, riteniamo che l’ipotesi dell’amnistia sia da valutare con attenzione, ovviamente circoscrivendola ai reati meno gravi. Un provvedimento del genere - aggiunge il sottosegretario - consentirebbe al sistema carcerario di respirare e, nel contempo, di liberare le scrivanie dei pubblici ministeri da processi che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono destinati alla prescrizione”. “È evidente - sottolinea Belcastro - che un eventuale provvedimento di amnistia va incastonato in una riforma complessiva dell’Ordinamento Giudiziario che deve necessariamente farsi carico, tra l’altro, delle lungaggini processuali, non solo in materia penale ma soprattutto in quella civile. Nei prossimi giorni porremo in essere una serie di iniziative con i colleghi Radicali volte a sollevare ulteriormente il caso carceri e a trovare delle soluzioni attuabili sul piano parlamentare”. Giustizia: Osapp; amministrazione penitenziaria senza futuro, al via le proteste Ansa, 16 ottobre 2011 “67.500 detenuti sul territorio nazionale in soli 45.529 posti sono qualcosa che non trova più giustificazione e altrettanto non trova giustificazione che per 45.109 unità di polizia penitenziaria in organico ce ne siano in servizio effettivo solo 38.000 di cui 22.000 negli istituti penitenziari per adulti e per minori a diretto contatto con la popolazione detenuta.” ad affermarlo è Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) in una nota indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro della Giustizia. “Purtroppo in questi ultimi mesi non abbiamo constatato né una diminuzione della popolazione detenuta né un aumento del personale di polizia penitenziaria in servizio - prosegue il leader dell’Osapp - ma semmai il contrario, unitamente ad un aumento dei carichi di lavoro e dei rischi per chi lavora in carcere e un gravissimo impoverimento delle risorse economiche, per l’utenza e per il personale”. Secondo l’Osapp: “le buone intenzioni del Guardasigilli si scontrano con una condizione dell’Amministrazione penitenziaria che appare senza ritorno, se solo si considerano i 150 milioni di debiti per il 2011 e i 250 milioni che nel 2012 sarebbero necessari solo per le attività ordinarie e che allo stato non sono in alcun modo reperibili”. “Una condizione disastrosa che riverbera persino sulla possibilità di ottenere il personale indispensabile al funzionamento ordinario e minimo del sistema penitenziario, oltre che riguardo all’assunzione dei 1.611 + 1.140 poliziotti penitenziari di cui non si sa più niente, anche nei profili tecnici e amministrativi in cui manca un addetto su tre, invariabilmente sostituito da un poliziotto penitenziario sottratto alle proprie incombenze istituzionali, in attesa di una ulteriore diminuzione di organico del 10% a marzo 2012”. “Quello sui cui l’attuale Governo e il Ministro Palma dovrebbero aprire una seria riflessione per l’avvio di qualsiasi utile alternativa a partire da quell’Amnistia di cui si fa di tutto per non parlare, è che non c’è più un dipendente penitenziario, dei pochi che ancora reggono, che possa dirsi soddisfatto del proprio lavoro, come ci sono assai pochi detenuti, delle centinaia che concludono la detenzione ogni giorno, che possano ritenersi recuperati alla società da questo sistema penitenziario, come pure la Costituzione imporrebbe - conclude Beneduci - per cui è ora di cambiare registro anche attraverso l’intensificazione della protesta di piazza come l’Osapp, per la polizia penitenziaria, inizierà a fare in ambito nazionale entro la fine del corrente mese di ottobre”. Giustizia: salute mentale, le porte si chiudono di Luigi Attenasio e Angelo Di Gennaro (Psichiatria Democratica) Gli Altri, 16 ottobre 2011 Il 10 ottobre è stata la Giornata Mondiale della Salute Mentale e oggi a Roma c’è il Direttivo Nazionale di Psichiatria Democratica. Già migliaia hanno firmato il nostro appello contro l’obbrobrio degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: Consolo, Staino, Mineo, Bisio, Ciotti, Zanotelli, Costanzo, De Luca, Sandrelli, Gifuni, Nicolini, Cremaschi. Cliccate su psichiatriademocratica.com e aderite. Siamo infatti preoccupati. La lettera di Trichet e Draghi sul Corsera, impone misure che distruggeranno diritti sociali e democrazia, “strappati” nel secolo scorso. Molte porte e spazi di “cura”, per i matti e per tutti, si vanno chiudendo, nonostante la notizia/shock del recente congresso di Parigi dell’European College of Neuropsycho-pharmacology che gli Europei con problemi mentali, 82 milioni nel 2005, sono oggi già 164 milioni. Ci chiediamo, sono i soli “ingranaggi” del cervello individuale a non funzionare? Non ci accontentano le pur importanti “buone pratiche”: continuiamo a stare dalla parte dell’altro, del rom (campi nomadi!), del migrante (Centri Identificazione ed Espulsione!), del malato mentale (cronicari, carceri, Opg!), dall’altra parte del confine arbitrario tra normalità e follia. La manicomialità (intesa come logica dell’esclusione) può abitare ovunque, in strada, in famiglia, a scuola, negli ospedali, negli uffici e chiudere i manicomi era solo un primo passo per liberarsi dalla gabbia invisibile delle norme implicite che regolano e costruiscono il legame sociale. Malgrado questa “vittoria”, è ancora viva la cultura che sorregge il bisogno sociale di manicomio come anche l’abuso e il sopruso nelle relazioni umane e se c’è da organizzare lotte e coscienze, Psichiatria Democratica non si tira indietro: a Firenze, si svolgerà (10/11 novembre) il convegno con Cittadinanza attiva, “Salute mentale e convivenza”; il focus sarà sui nessi fra la travagliata complessità del presente e la pericolosa deriva nella quale siamo trascinati da scelte economico-finanziarie dissennate, un “dopo-Basaglia” a riprova che non tutto è imbalsamato e che molto si può, e si deve, ancora fare; a Verona, il giorno dopo, con la Società Letteraria e Sandro Ricci, “Razze e razzismi”, per mantenere aperti spazi collettivi di discussione su tutti gli aspetti della diversità. Comprendere l’altro e accettarlo con le sue differenze è difficile e faticoso, una negoziazione continua, accidentata, mai risolta una volta per tutte. Nel frattempo il 10 ottobre, a Valencia, al Centro Diurno Mentalia Puerto, abbiamo incontrato Julian Marcelo, leader dei familiari spagnoli, per una possibile Psichiatria Democratica valenciana (Emilio Lupo e Bruno Romano sono in contatto per una sezione argentina). Lì, con la prof. Mariella Ciani e le studentesse/enti del Liceo “C. Percoto” di Udine, alcuni dei tanti a cui da tempo, novelli de Saint-Exupery, per costruire la nave, insegnano la nostalgia del mare, ampio ed infinito, (i giovani, i giovani, mi raccomando i giovani, diceva Franco Basaglia in punto di morte), abbiamo rappresentato L’Alienista, di Machado de Assis, il più grande scrittore brasiliano dell’800, pre Borges e Garda Marquez. Vi si parla della follia con ironia e arguzia ma con rigore di metodo: è un apologo sul potere, sul conformismo sociale, sui mutevoli confini della normalità. Tutto avviene in Brasile, felice coincidenza perché lì Franco Basaglia, nel 1979, pochi mesi prima di morire, coinvolgeva in una riflessione pubblica sul senso della sua impresa, centinaia di studenti, professori, amministratori, operatori, semplici .. cittadini. Nasceranno le Conferenze Brasiliane e Basaglia potrebbe dire: “Io sono come il menestrello medievale che attraversa i villaggi e se ne va. Quando partirò, il palco non dovrà restare vuoto”. E allora, giovani, il palco è vostro. Giustizia: caso Mastrogiovanni; quando la contenzione è “un sistema di terapia” www.innocentievasioni.net, 16 ottobre 2011 Vallo della Lucania (Sa) - 4 ottobre 2011 ore 14 circa. Nel giorno in cui sarebbe caduto l’onomastico di Francesco Mastrogiovanni, presso il Tribunale di Vallo della Lucania (Sa), riprende il processo contro i sei medici e i dodici infermieri del reparto di psichiatria dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania (Sa) rinviati a giudizio per la morte del maestro elementare di Castelnuovo Cilento, avvenuta nella notte del 4 agosto 2009, dopo un Tso illegittimo e illegale e quattro giorni di contenzione continua, immotivata ed illegale. La Presidente del Tribunale, Dr.ssa Elisabetta Garzo inizia l’appello e per diciotto volte, dopo il nome e cognome di ogni singolo imputato, aggiunge “libero assente”, “libero presente” e di seguito il nome di uno o più avvocati. Moltissimi imputati continuano ad essere contumaci. Anche oggi, e nonostante la disposizione impartita ai carabinieri di accompagnamento coattivo, l’ultimo teste del P.M. Dr. Renato Martuscelli, non si è presentato. Il pm Martuscelli e i legali degli imputati hanno chiesto che la procedura venga rinnovata per la prossima udienza. Non è stata accolta la richiesta di tener conto della situazione di malattia in cui versa il teste, dando per acquisite le deposizioni già rese alla polizia giudiziaria. Nell’udienza odierna, con esclusione del medico legale Di Stasio la cui deposizione è stata rinviata alla prossima udienza che si terrà il 18 ottobre, sono stati sentiti i testimoni indicati dall’avvocatessa Caterina Mastrogiovanni, legale della famiglia del defunto. Nell’udienza del 18 ottobre ci sarà anche l’interrogatorio di Licia Mazzarella Musto, la proprietaria del campeggio nel quale trascorreva le vacanze Mastrogiovanni e alla quale Mastrogiovanni chiese profeticamente: “Non mi fate portare all’ospedale di Vallo, perché lì mi uccidono!” Palesemente irrilevanti le deposizioni del direttore amministrativo e del responsabile del personale amministrativo. Se, in una precedente udienza il dr. Giuseppe Ortano, psichiatra di Aversa, aveva affermato: “La contenzione è un reato. Soltanto nel caso previsto dall’art. 54 del c.p. può essere praticata e per il tempo strettamente necessario”, oggi, invece, il dr. Pantaleo Palladino, in qualità di direttore sanitario dell’ospedale di Vallo della Lucania, ha ribadito: “Il Tso è contenzione… La contenzione è un sistema di terapia... La contenzione nel reparto di psichiatria veniva praticata perché si acquistavano le fascette di contenzione. Non sono a conoscenza di contenzione fuori regola”. Il dr. Palladino arriva anche a giustificare la contenzione di Mastrogiovanni, sostenendo che era un violento. La sua affermazione viene smentita dal video - che dice di non aver visto, tranne gli spezzoni trasmessi dalle tv nazionali - nel quale però si vede una persona tranquilla e collaborativa che viene legata per non essere sciolta se non dopo la morte. I membri del Comitato Verità e Giustizia per Franco Mastrogiovanni consigliano amichevolmente al dr. Palladino di guardarlo attentamente quel video, magari - non ce ne voglia - sforzandosi di pensare che la persona legata è un suo amico o addirittura un suo familiare e solo dopo ci ripeta che la contenzione è una terapia. Purtroppo la deposizione del direttore sanitario prova in maniera chiara ed inequivocabile che la contenzione era il “sistema” adottato nell’ospedale di Vallo della Lucania e testimonia che ne fosse a conoscenza anche la direzione sanitaria, rendendosi in tal modo corresponsabile di questo metodo che non è affatto una terapia, ma una tortura, che nel caso di Francesco Mastrogiovanni è stata addirittura prolungata anche oltre la morte, avvenuta sei ore prima di essere slegato, quando ormai il suo cadavere era freddo. Nel corso dei precedenti interrogatori è risultato che la contenzione veniva praticata regolarmente a tutti i pazienti, uomini e donne, in trattamento obbligatorio e finanche volontario. Insomma i medici di quel reparto, calpestando la loro scelta professionale e scientifica, invece di usare le medicine usavano i legacci immobilizzando e torturando i pazienti. Esattamente come si faceva al tempo delle caverne, come si faceva al tempo del Medio Evo… Per i medici del reparto di psichiatria e per la dirigenza dell’ospedale di Vallo della Lucania il tempo della scienza e della medicina si è fermato al Medio Evo! L’altra questione affrontata è quella delle ferie del dr. Michele Di Genio, comunemente ritenuto primario del reparto di psichiatria. Per il dr. Pantaleo Paladino il dott. Di Genio è tutt’altro! All’epoca dello svolgimento dei fatti è il responsabile del Dipartimento di salute mentale dell’Asl e come tale non è tenuto a chiedere le ferie alla direzione sanitaria come tutti gli altri operatori sanitari, medici ed infermieri, ma alla direzione dell’Asl, al direttore generale dell’Asl (che all’epoca era Saracino). Solo gli altri medici e gli infermieri del reparto sono tenuti a presentare domanda alla direzione sanitaria; non vengono protocollate, ma solo acquisite agli atti, sottolinea il dr. Palladino. Però, in una precedente udienza, si è parlato di una domanda di ferie del dott. Di Genio presentata e protocollata. Chi mente? Probabilmente questa asserzione mira a sostenere che il primario dott. Di Genio non ha nessuna responsabilità per la morte di Francesco Mastrogiovanni, perché in ferie al momento della contenzione e della morte di Francesco. (La Cassazione con la sentenza del settembre 2010 non ha rettamente valutato la posizione del dr. Di Genio?). All’epoca dei fatti, risulta che il responsabile del reparto di psichiatria era un altro medico, ma sempre su nomina (non scritta) del responsabile del dipartimento, ovvero il dott. Di Genio. Quando è chiamato a deporre l’avvocato Loreto D’Aiuto, familiare acquisito di Francesco, gli avvocati degli imputati si oppongono alla sua deposizione, accampando inesistenti conflitti, che l’avv. D’Alessandro vuol provare attraverso l’incartamento, ma sono documenti che non riesce a trovare e chiede tempo. L’avvocato D’Aiuto viene fatto allontanare, l’udienza prosegue con gli altri interrogatori e poi l’avv. D’Aiuto viene richiamato. Ma nonostante che l’avv. D’Alessandro è per oltre un’ora alla ricerca affannosa di documenti che dovrebbero impedire la deposizione del suo collega, non li trova, e ciò nonostante - appellandosi all’art. 197 del cpp - continua a sostenere che l’avv. D’Aiuto non dev’essere sentito. Alla fine il presidente dr.ssa Garzo - dando la giusta interpretazione dell’art. 197 - stabilisce che non c’è nessuno ostacolo alla sua audizione. In una toccante deposizione l’avv. D’Aiuto riferisce di conoscere fin da quando erano entrambi studenti Francesco Mastrogiovanni e di averlo sempre frequentato e stimato, fino ad innamorarsi della cugina, l’avv. Caterina Mastrogiovanni, sua moglie, che siede al banco dei difensori e lo sta interrogando. Riferisce che la mattina del 4 agosto 2009, trovandosi a Vallo della Lucania per comperare un fascio di fiori e recarsi al cimitero del suo paese, perché ricorreva l’anniversario della morte della madre, fu raggiunto dalla telefonata della moglie, che lo avvertiva dell’improvvisa morte del cugino, ricoverato all’ospedale. L’avv. D’Aiuto alle 8,15 è già all’ospedale, appena mezz’ora dopo la constatazione della morte di Mastrogiovanni, scoperta alle 7,40. È il primo a recarsi all’obitorio dell’ospedale e dopo arriveranno il cognato e la sorella. La sua testimonianza è scioccante: “Sono stato il primo a giungere all’obitorio. Franco era completamente coperto da un lenzuolo bianco. L’ho scoperto e mi sono reso conto che era anche nudo e il suo corpo era martirizzato in modo terribile e agghiacciante. Presentava profondi lividi su tutto il corpo. Sono stato poi colpito dal comportamento dell’addetto all’obitorio che aveva fretta di vestire il cadavere di Franco e la cosa mi ha infastidito al punto di farla presente al dipendente dell’ospedale”. L’avvocato ha aggiunto: “Franco non era pazzo! L’ho visto l’ultima volta solo qualche giorno prima del suo ricovero. Era venuto a salutarmi anche per salutare un nipote che trascorreva le vacanze presso la mia casa al mare. Assolutamente nulla che manifestasse che Franco non stava bene!”. Alla fine della deposizione non c’è nessun avvocato tra i difensori dei diciotto imputati che ha voglia di fare solo mezza domanda all’avv. D’Aiuto. Ci sarà giustizia per Franco Mastrogiovanni, a Vallo della Lucania, almeno da morto? Vincenzo Serra, Giuseppe Tarallo, Giuseppe Galzerano Comitato Verità e Giustizia per Francesco Mastrogiovanni Giustizia: caso Uva; la sorella contro il pm “non ha indagato” di Sandro De Riccardis La Repubblica, 16 ottobre 2011 L’ombra delle botte in caserma sulla morte di Giuseppe. “Mi dissero che non era sangue ma pomodoro”. Una perizia del tribunale parla di tracce ematiche. Il cadavere potrebbe essere riesumato. Per l’inchiesta di Varese, l’uomo era deceduto per un’aritmia causata da un farmaco . Da quella “maledetta notte”, Lucia Uva aspetta ancora la verità. “Sono passati tre anni e quattro mesi e finora la procura non ha fatto nulla per spiegare cos’è successo a Giuseppe nella caserma dei carabinieri di Varese”, scrive nella sua lettera aperta. Era il 14 giugno 2008, e solo oggi, tre anni e quattro mesi dopo, i parenti di Giuseppe Uva, morto a 43 anni in ospedale dopo essere rimasto tre ore in caserma, vedono uno spiraglio di luce. Le pagine della consulenza dei periti del Tribunale mettono in discussione l’impianto accusatorio del pm Agostino Abate che ha mandato a processo per omicidio colposo lo psichiatra Carlo Fraticelli, il medico che avrebbe somministrato i farmaci a Uva. Per i periti, invece, l’artigiano è sì morto per “aritmia cardiaca” ma le concentrazioni di medicinale sarebbero “inidonee a causare il decesso”. E solo la riesumazione potrà dire se i traumi sul corpo possono essere collegati alla notte in caserma, e alle botte denunciate dall’unico testimone. Sono le 2.55 quando Giuseppe e il suo amico Alberto Biggiogero vagano per il centro di Varese. Sono ubriachi. Si divertono a mettere transenne di traverso per strada. Arriva una gazzella dei carabinieri e i due finiscono nella caserma di via Saffi. Alberto racconta di “un via vai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo. Piangevo e urlavo di smetterla di massacrare Giuseppe. Udivo ugualmente le sue urla incessanti per circa un’ora e mezzo ancora”. “In tre anni e quattro mesi, un’inchiesta a dir poco bizzarra è stata capace di non ascoltare mai l’unico testimone oculare, che il giorno dopo presentò un dettagliatissimo esposto” accusa Luigi Manconi, presidente di “A buon diritto”, che ha denunciato anche i casi Aldrovandi e Cucchi. Proprio nella perizia si parla di “tracce di natura ematica sui pantaloni”, un “indizio - ha sempre sostenuto Fabio Anselmo, il legale della famiglia Uva - che indica chiaramente un’emorragia derivante da traumi, estesa sui pantaloni dieci centimetri per sedici”. “Mi dissero che era pomodoro” dice oggi, amaramente, Lucia Uva. Se il tribunale deciderà per la riesumazione del corpo di “Pino”, alcuni quesiti medici potrebbero trovare risposta. I periti ritengono “imprescindibili” una nuova autopsia, una tac per individuare eventuali traumi in grado di provocare l’aritmia, l’analisi biologica sui jeans Rams insanguinati “tra il cavallo e la zona anale” e su “altri vestiti eventualmente reperibili”, un accertamento farmaco-genetico alla ricerca di eventuali allergie. Altri punti oscuri potranno essere chiariti dalle indagini della procura. Perché il ricovero arriva così in ritardo rispetto al fermo? Chi fa sparire gli slip della vittima, arrivato di fronte all’anatomopatologo solo con “un pannolone e una maglietta bianca”? Cosa indicano le scarpe “visibilmente consumate” nella parte anteriore, mette a verbale il poliziotto in servizio quella notte in ospedale, come se ci fosse stata “un’estenuante difesa a oltranza dell’uomo”? Non morì per i farmaci, i periti chiedono si riesumare il corpo Varese, torna l’ipotesi del pestaggio in caserma: “Trovate tracce di sangue”. Gli esperti del tribunale riaprono il caso. Per il suo decesso venne imputato lo psichiatra che gli aveva dato le medicine al pronto soccorso. Non furono i farmaci somministrati in pronto soccorso a uccidere Giuseppe Uva, morto in ospedale dopo due ore di permanenza nella caserma dei carabinieri di Varese, il 14 giugno del 2008. Secondo la perizia ordinata dal tribunale e presentata ieri nel processo all’unico imputato per omicidio colposo, lo psichiatra Carlo Fraticelli, Uva sarebbe morto per aritmia cardiaca, ma le concentrazioni di medicinale sarebbero “inidonee a causare il decesso per depressione del sistema nervoso centrale” ed è necessario riesumare il cadavere per capire l’origine dei traumi sul suo corpo. Per i tre periti (Santo Davide Ferrara, Gaetano Thiene, Angelo Demoni) ci sono “tracce di sangue sui pantaloni”. Un’analisi che rimette in discussione l’impianto accusatorio della procura che aveva escluso violenze in caserme, denunciate dall’amico di Uva, Alberto Biggiogero, unico testimone mai interrogato dal pm, che racconta di “un via vai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo”. È lui a chiamare il 118. “Lo stanno massacrando” dice all’operatore dall’interno della caserma. Per capire cosa ha provocato l’aritmia cardiaca “con particolare riferimento al ruolo di eventuali traumi - scrivono i periti - si impone l’esecuzione dell’esame necroscopico del cadavere esumato e di ogni ulteriore accertamento diagnostico, comprensivo di tac”. “Il riferimento al sangue sui pantaloni conferma pienamente i nostri sospetti: in caserma è successo qualcosa di terribile” commenta il legale della famiglia di Uva, Fabio Anselmo, lo stesso che ha assistito le famiglie di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. “L’ambulanza viene mandata via dai carabinieri - dice il legale - se Uva stava già male perché non si fa entrare a soccorrerlo?”. Ma i parenti chiedono risposte anche ad altre incongruenze di quella notte: perché in caserma affluiscono carabinieri e poliziotti? Come si spiega il sangue sui vestiti e le macchie rosse tra pube e regione anale? Perché l’autopsia non ha previsto esami radiologici che evidenzino fratture? Giustizia: nel 2007 strangolò il figlio autistico, Napolitano lo grazia di Alessandra Ziniti La Repubblica, 16 ottobre 2011 Palermo, fu condannato a 10 anni. Dopo l’omicidio denunciò: lo Stato mi ha abbandonato. Anche il giudice riconobbe: “Fu un dramma, Crapanzano lasciato solo” . “Non un dramma della follia, ma un dramma della malattia”, scrisse nelle motivazioni della sentenza il giudice che aveva condannato un padre per l’omicidio del figlio autistico accudito per anni in assoluta solitudine senza alcun aiuto dei servizi sanitari e sociali. Ieri, quel padre che da quattro anni sta scontando agli arresti domiciliari una condanna a nove anni e quattro mesi, ha ottenuto la grazia dal presidente della Repubblica. Storia drammatica quella di Calogero Crapanzano, 63enne maestro elementare in pensione che, a giugno del 2007, portò suo figlio Angelo, 27 anni, nella campagna di Gibilrossa per fare una passeggiata e lo strangolò con il cavetto della batteria della sua auto. Poi, dopo aver caricato il corpo del ragazzo nel bagagliaio della sua auto, si presentò dai carabinieri e disse: “Ho strangolato mio figlio, era una vita d’inferno, non ce la facevo più, ma sono pentito”. Arrestato e portato in manette davanti al giudice, fu immediatamente rilasciato e le sue prime parole furono ancora per Angelo: “Ora devo occuparmi della sepoltura di mio figlio e portarlo nella tomba di famiglia a Favara”. Il capo dello Stato ha accolto la richiesta presentata dall’avvocato Giuseppe Sciarrotta, per le particolari motivazioni umane e sociali collegate al gesto disperato del padre, caduto in un momento di sconforto perché abbandonato da tutti i pubblici poteri e costretto a gestire in perfetta solitudine, assieme alla moglie, anziana e malata, la difficilissima convivenza con il figlio. Calogero Crapanzano fidava moltissimo nella decisione di Napolitano: “Io e mia moglie abbiamo già passato 27 anni di galera. Io non posso andare in carcere. Sto male. Il presidente Napolitano ha un cuore di padre. Capirà il mio strazio”. Non era certo un padre che non si era mai curato del figlio Calogero Crapanzano. Tutt’altro, e il giudice Lorenzo Matassa, nelle motivazioni della sentenza con la quale lo condannò, gliene diede ampiamente atto. Agli inquirenti Calogero Crapanzano raccontò la sua vita di padre disperato alle prese in solitudine con l’autismo del figlio. Angelo aveva spesso reazioni inconsulte, non riusciva a controllare gli accessi d’ira e picchiava la madre. Discuteva per tutto, era preda di fissazioni, smontava e rimontava tutto quello che gli capitava tra le mani. Il padre aveva dovuto mettersi in pensione anticipatamente per badare a lui, con il figlio divideva persino il letto. “Quel giorno in macchina, mio figlio gridava e si agitava, non faceva che ripetere che dovevamo smontare il condizionatore. Poi ha preso a mordersi le mani fino a farle sanguinare. Ho afferrato i cavetti che avevo in auto e l’ho ucciso. Ma sono pentito, lo giuro”. Poi lo sfogo contro lo stato di abbandono che lo ha portato all’esasperazione: “Troppe volte ho chiesto aiuto alle istituzioni. Ma mi prescrivevano solo psicofarmaci per il mio ragazzo”. Messaggio perfettamente recepito dal giudice che, nel concedergli le attenuanti, osserva: “Una solitudine troppo pesante, quella vissuta dalla famiglia Crapanzano, ricordata anche nella sentenza di condanna in cui il giudice scrisse: “L’assassinio non è tollerabile né scusabile, ma per quasi trent’anni Crapanzano ha dedicato interamente al figlio disabile la sua vita. In quale modo si tutela l’integrità delle famiglie che da questo male vengono travolte? La risposta, triste e disarmante, è purtroppo quella che implica l’assenza: nulla”. Toscana: suicidi in carcere, la regione vara iniziative per la prevenzione Agi, 16 ottobre 2011 Le linee di indirizzo varate dalla Regione prevedono che in ogni presidio carcerario si realizzi un piano di accoglienza qualificato Un’accoglienza qualificata e multi professionale, in grado di individuare i bisogni sanitari, sociali, psicologici e psichiatrici di ogni detenuto al suo arrivo in carcere. L’individuazione tempestiva degli indicatori di rischio. L’attenzione alle situazioni ambientali e logistiche che possano favorire suicidio e atti di autolesionismo. La stipula di appositi protocolli d’intesa tra le direzioni delle Asl e le direzioni degli istituti penitenziari. Le linee di indirizzo per la prevenzione del suicidio in carcere sono contenute in una delibera approvata di recente dalla giunta, delibera che si inserisce nel quadro più generale delle linee di indirizzo per la qualità della salute dei detenuti per il biennio 2011-2012 approvate dalla giunta nel maggio scorso. Il documento, elaborato da un apposito gruppo di lavoro, ispirandosi anche al documento prodotto sul tema dal Comitato Nazionale di Bioetica, sarà uno strumento condiviso tra Regione Toscana e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap) per mettere a punto tutti gli interventi necessari per individuare e trattare per tempo le situazioni di disagio e fragilità e prevenire il suicidio nelle carceri toscane. “La privazione della libertà personale non deve portare alla perdita di altri diritti, tra cui quello alla salute - dice l’assessore al diritto alla salute Daniela Scaramuccia - La salute è un diritto di tutti indistintamente. Tutti, che siano liberi cittadini o detenuti, sono uguali davanti alla malattia, e il trattamento penitenziario deve sempre assicurare il rispetto della dignità umana, senza alcuna discriminazione. Amministrazione penitenziaria e istituzioni sanitarie devono collaborare sempre più strettamente perché questo diritto sia garantito a tutti i detenuti, con il coinvolgimento della polizia penitenziaria, degli operatori dell’area educativa, e del personale sanitario. Le delibera che abbiamo approvato indica questa strada”. “Nonostante le strette misure di sorveglianza, in carcere il suicidio si verifica 20 volte di più che in altri ambienti - informa l’assessore al welfare Salvatore Allocca - Questo esito drammatico non riguarda solo le persone con sofferenza psichica, in quanto la carcerazione e le sue condizioni costituiscono di per sé un fattore di stress acuto e a volte insuperabile. Il sovraffollamento, l’inadeguatezza degli spazi, la carenza di personale e di attività trattamentali, i livelli igienico-sanitari, l’uso e abuso di psicofarmaci, sostanze e alcol, l’isolamento, sono tutti fattori che contribuiscono ad aumentare il rischio delle azioni di autolesionismo e dei tentativi di suicidio. Tutto ciò ci interroga sul senso complessivo della istituzione carcere sempre più lontana dal dettato costituzionale che ci richiama alla funzione rieducativa della pena. Ogni azione messa in atto per intervenire concretamente sulle condizioni di vita dei detenuti è dunque allo stesso tempo indispensabile ed, allo stato, drammaticamente insufficiente”. Le linee di indirizzo varate dalla Regione prevedono che in ogni presidio carcerario si realizzi un piano di accoglienza qualificato, con un’équipe multi professionale e la creazione di un percorso personalizzato per tutti i nuovi arrivati, in particolare per quei soggetti che risultano a rischio di suicidio. Che l’amministrazione penitenziaria e l’area sanitaria individuino congiuntamente percorsi di uscita dal carcere per i detenuti che risiedono nel territorio dove si trova l’istituto. L’accoglienza dei detenuti prevede un triage medico-infermieristico all’arrivo (anche con personale con esperienza di salute mentale), per individuare i bisogni sociali, psicologici e psichiatrici; nel caso emergano situazioni di rischio o particolare disagio, sarà necessaria anche una valutazione specialistica. Iniziative più specifiche - interventi psichiatrici e psicologici ambulatoriali, spazi riabilitativi, programmi personalizzati - dovranno essere poi concordate a livello territoriale, con protocolli tra gli istituti penitenziari e le aziende sanitarie in cui risiedono. Per il personale penitenziario e per quello sanitario saranno organizzati specifici progetti formativi. Il suicidio in carcere, i dati italiani e quelli toscani Il rischio di suicidio è più elevato per le persone in stato di detenzione, rispetto alla popolazione generale, con un rapporto 20 volte maggiore. Nelle carceri italiane nel 2009 il tasso di suicidi è stato di 116,5 su 100.000 detenuti; mentre il tasso registrato al di fuori del carcere è stato di 4,9 su 100.000 persone. Nel 2010, nelle carceri italiane i suicidi sono stati 55; 1.137 i tentati suicidi e 5.703 gli atti di autolesionismo. La maggior parte dei suicidi in carcere avvengono nel primo periodo di detenzione: 61% dei casi riguarda reclusi da meno di un anno; 51,6% si verifica nei primi 6 mesi di reclusione; 17,2% nella prima settimana di reclusione. Il 62% dei decessi per suicidio in carcere riguarda utilizzatori problematici di sostanze. Nel 2010 nelle carceri toscane sono stati accertati 2.342 “eventi critici”. Sono stati registrati 5 decessi per cause naturali, 6 suicidi, 168 tentati suicidi, 849 atti di autolesionismo e 638 scioperi della fame. Udine: due ladri i primi arrestati “respinti” dal carcere troppo affollato di Cristian Rigo Messaggero veneto, 16 ottobre 2011 Arrestati perché sorpresi a rubare all’Upim e liberati nell’arco di 24 ore (dopo il processo per direttissima) senza nemmeno passare per il carcere di via Spalato. I primi a sperimentare le nuove indicazioni della Procura per gli arresti in flagranza di reato sono stato due ucraini fermati dai carabinieri giovedì sera e trattenuti tutta la notte nella camera di sicurezza della caserma di viale Trieste in attesa di finire in tribunale. Ieri il giudice monocratico Mauro Qualizza ha emesso la sua sentenza: 6 mesi di reclusione, ma pena sospesa con la condizionale. E così Anatolii Myroshnychenko, 42enne nato e residente in Ucraina disoccupato e incensurato al pari della 35enne Olena Kachurenko ieri sono tornati in libertà senza aver provato l’esperienza del carcere. A chiedere lo stop agli ingressi in carcere fino alla convalida dell’arresto era stata la direttrice reggente della casa circondariale, Irene Iannucci. “Altrimenti - aveva spiegato - c’è il rischio concreto che alcuni detenuti debbano accontentarsi di dormire a terra, con un materasso al posto della branda”. In via Spalato infatti non ci sono più posti liberi. A fronte di una capienza massima di 169 persone, la popolazione carceraria ha raggiunto nei giorni scorsi quota 228 ma, secondo la Iannucci, “almeno il 30-40% dei detenuti che entrano in carcere viene rimesso in libertà nell’arco di 48 o al massimo 72 ore quando si svolge il processo per direttissima”. Sfruttando le camere di sicurezza delle caserme dei carabinieri e della Questura quindi si potrebbe dare una risposta concreta al problema del sovraffollamento. La prima è arrivata ieri dai carabinieri del Nucleo radiomobile della compagnia di Udine. La gazzella è intervenuta giovedì ai magazzini dell’Upim di via Cavour intorno alle 19.30. A chiamare i militari erano stati gli stessi dipendenti del negozio insospettiti dall’atteggiamento di una coppia di stranieri che si aggira tra gli scaffali e i camerini provando diversi vestiti. Che poi sono finiti in uno zainetto. I due però non hanno fatto in tempo ad allontanarsi e l’arrivo immediato dei carabinieri ha permesso di recuperare tutta la refurtiva il cui valore si aggirava intorno ai 2-300 euro. La coppia è stata quindi accompagnata nella caserma di viale Trieste e tratta in arresto nella camera di sicurezza. A fornire il vitto agli “ospiti” è stato comunque il carcere di via Spalato ma, come richiesto dalla direttrice Iannucci, i due non hanno occupato nessun posto letto della casa circondariale. Bologna: Pdl; servizi di edilizia popolare dedicata agli agenti di polpen, per farli restare Dire, 16 ottobre 2011 Favorire gli agenti di Polizia penitenziaria facendoli accedere a forme di edilizia popolare dedicata, asili nido e cure sanitarie a tariffa agevolata. È l’input che parte dal Pdl di Bologna, che questa mattina ha visitato il carcere della Dozza insieme al sindacato del Sappe, in questi ultimi giorni impegnato in una protesta sulle cattive condizioni della mensa (per cui arrivano spiragli). Alla Dozza sono entrati il consigliere regionale Galezzo Bignami e quello comunale Marco Lisei. La Dozza presenta “evidenti criticità ormai strutturali”, tra sovraffollamento e carenza di agenti, fa notare Bignami, ma ci sono iniziative che potrebbero migliorare la situazione, a costo zero, e non vengono adottate”. Una di queste è appunto studiare forme di edilizia popolare dedicata, accesso ad asili e assistenza sanitaria agevolata: per arrivare a questo risultato, promette Bignami, il Pdl presenterà un progetto di legge alla Regione Emilia-Romagna, per andare incontro alle esigenze di tutte le forze dell’ordine, polizia, carabinieri e vigili del fuoco. Oggi l’attenzione del Pdl è rivolta in particolare alla Polizia penitenziaria, anche alla luce della difficile situazione della Dozza, dove regnano sovraffollamento e carenza di organico. “Salvo interferire con trattative sindacali già in corso, lunedì presenteremo un progetto di legge per favorire gli agenti: spesso vengono dal Meridione e poi, appena possono, ci tornano di corsa per trovare appoggio nelle famiglie. Se qui venissero date loro delle agevolazioni, a livello di casa e sanità, forse si radicherebbero nel territorio regionale con le famiglie e non chiederebbero il trasferimento” dice Bignami, sottolineando il fatto che si tratterebbe di “un’iniziativa a costo zero” che altre regioni hanno già intrapreso. Un altro proposito per cui il Pdl intende muoversi è quello di sollecitare il recupero dell’aula bunker che si trova sotto la Dozza. “È uno spazio di 450 metri quadrati, attrezzata di tutto punto con centraline e celle in ferro battuto, che rimane lì inutilizzata e a prendere polvere”. È stata usata, ricorda Bignami, solo qualche volta all’inizio degli anni ‘90, eppure permetterebbe di ospitare le udienze di convalida e altri processi che riguardano i detenuti. In modo tale da “risparmiare risorse sia di uomini che di mezzi, dal momento che l’accompagnamento dei detenuti alle udienze è un dispendio notevole di costi e di tempo per gli agenti”. Quanto poi alla problematica della mensa, per cui sembra sia in arrivo una soluzione nei prossimi giorni, si tratta di un ennesimo problema che “crea disagio nella vita lavorativa degli agenti penitenziari, già provati da un quadro di grossa difficoltà” dice Bignami. “Hanno ragione a protestare e a farsi sentire - dice il consigliere regionale - se oggi il sistema regge è per merito di questi ragazzi e dei loro sacrifici”. La situazione della Dozza, prosegue ancora Bignami, sconta come altre carceri il problema delle risorse. Il rapporto tra il numero dei detenuti e quello degli agenti è assolutamente sbilanciato: ci sono più di 1.100 detenuti e solo 350 agenti, quando sulla carta dovrebbero esserci 450 reclusi e 560 guardie”. In questo pesano “gravi responsabilità dell’amministrazione penitenziaria centrale” ma anche, secondo l’azzurro, l’altissima percentuale di stranieri. “Gli extracomunitari sono 600 su 1.100, bisogna limitarne la presenza e farli rientrare nei loro paesi. Se non ci fossero avremmo un problema di carenza di organico ma non di sovraffollamento”. Enna: con la cooperativa sociale “FiloDritto” storie di riscatto e speranza La Sicilia, 16 ottobre 2011 È un racconto di dolore ed errori ma è anche un racconto in cui il riscatto è possibile. La mostra dei lavori realizzati dai detenuti del carcere di Enna che hanno dato vita alla cooperativa sociale FiloDritto è sorprendente. L’esposizione si è aperta ieri nella sede dell’associazione Vecchio Bastione e rimarrà aperta fino a domenica dalle 17 alle 21,30. Sono le creazioni dei detenuti che fanno parte della cooperativa sociale “FiloDritto”, nata nel carcere di Enna dove i detenuti vivono, anche in 7, in celle grandi 21 metri e dove i letti a castello sono a “4 piani”. Eppure molti di loro credono che una vita diversa è possibile e si sono immersi con grande passione e convinzione in un progetto di formazione professionale che punta a dare opportunità di lavoro a chi rischia di ritornare prima o poi tra quelle mura. Il progetto nasce all’inizio di quest’anno da una costola dell’associazione “AManiLibere” che da anni si occupa di recupero della tradizione tessile siciliana. La presidente Ninni Fussone, oggi a capo di FiloDritto, sociologa con la passione per i tessuti, per anni ha tenuto corsi da volontaria nelle sezioni femminili e maschili del carcere ennese. Sin da subito la magia della lana ha mostrato il proprio prodigio diventando all’inizio un impegnativo passatempo e trasformandosi, mano mano, in un “lavoro” per alcuni detenuti ed è la lana, la più naturale ed antica delle fibre che diviene lo strumento per quel riscatto nel quale questi uomini e queste donne oggi credono veramente. La lana che diviene feltro con una lavorazione antichissima ed affascinante e quindi tra le mani di persone come Htem Darwhis, un giovane egiziano socio della cooperativa sociale Filo Dritto, opere d’arte, elementi d’arredo o accessori moda. Darwhis ha 23 anni e una storia che fa comprendere la pienezza dei suoi lavori. Ha lasciato l’Egitto da solo a 10 anni e mezzo, con il miraggio di “passare il mare”. Ci riuscirà dopo due anni in Libia. Arrivato in Italia vive da clandestino, poi il carcere e questa speranza nuova. Lui è a Catania e mostra come nascono il feltro e le sue creazioni. Si sente parte di questo progetto e dice che oggi il suo obiettivo è trovare una stabilità in un lavoro, in Italia, da uomo libero. Inshallà, che vuol dire “speriamo, se Dio vuole”, dice Darwhis che parla un perfetto italiano e che a fine estate finirà di scontare la sua condanna. “Sono cresciuto - dice - sono un adulto. Voglio vivere del mio lavoro”. FiloDritto cerca design e stilisti eticamente orientati che inseriscano le creazioni, che quest’anno sono stati in mostra alla 50° edizione del Salone del Mobile di Milano, nelle loro produzioni, dando opportunità ai detenuti. Sul sito www.amanilibere.it. si possono vedere le creazioni e conoscere storie di uomini e donne che credono nel riscatto sociale. Sanremo: Sappe; degrado e fumi tossici nel carcere di valle Armea www.sanremonews.it, 16 ottobre 2011 “Riteniamo di intervenire vibratamente a difesa dei nostri poliziotti penitenziari abitanti e residenti in Valle Armea, zona del secondo penitenziario della Liguria. Come primo sindacato di categoria, con circa 12.000 iscritti all’attivo su tutto il territorio nazionale, sentiamo forte il dovere di richiamare la massima attenzione di tutti gli organi competenti sulla questione di forte degrado di questa zona della citta dei fiori e del festival internazionale della canzone italiana”. Ad affermalo e il vice segretario regionale del Sappe Liguria C. Galluzzo, che spiega: “Orbene, non è la prima volta che nell’area del carcere, dove allocherebbero 370 detenuti e circa 200 poliziotti, parte accasermata tra Dirigente, Comandante di Reparto e personale di altre qualifiche, sovente debba subire lo sprigionamento di fumi maleodoranti proveniente da incendi anomali della vicina discarica. A subire il duro colpo sono anche i cittadini residenti della zona, il fatto ci viene riportato direttamente dalle lamentele incessanti dei colleghi quivi residenti. Appare strano ma vero, proprio il carcere e proprio la Polizia Penitenziaria deve accollarsi anche quest’altra problematica oltre alle altre di ben noto dominio pubblico, cioè quella della sovrappopolazione detenuta e delle mille difficoltà dei servizi da affrontare per garantire sicurezza interna il carcere e annessa sicurezza alla società esterna. Ormai appare evidente che questa zona dell’area sanremese non è sotto il controllo di nessuno, fumi e nubi tossiche ammantano l’area del penitenziario almeno due o tre volte al mese, con difficoltà respiratorie e occhi arrossati dei residenti, bambini compresi. A pagare in fatto di salute sono anche i poliziotti penitenziari che devono ricorrere a mille peripezie per difendersi da questa condizione a nostro avviso oltre ogni limite di decenza e di accettabilità. Come vice responsabile della segreteria Sappe della Liguria, chiedo che vengano poste in essere tutte le misure di sicurezza e tutti i controllo previsti per accertare eventuali responsabilità; ci risulta troppo difficile credere a sistematici incendi di tipo doloso e pertanto occorre soprattutto che il Sindaco e i vari responsabili del Comune facciano sopralluoghi sul posto e si impegnino a restituire maggiore disciplina e rigore nell’area in questione prima che la cosa possa addirittura approdare in Tribunale a Sanremo magari per seri danni a cose o persone. Noi come Sappe, a tutela dei nostri colleghi in servizio presso il penitenziario di Valle Armea, porremo interventi a carattere interrogativi anche presso il superiore Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per non lasciare cadere questo stato di cose ancora per troppo tempo nel vuoto e dove pare che anche la classe politica locale e provinciale non muove un dito per migliorare l’area, la quale in vero tra discarica e carcere ha già troppo il sapore del voler ghettizzare o ritenere diversa una specie umana”. Cremona: Rita Bernardini in visita; carcere strapieno, situazione al limite La Provincia, 16 ottobre 2011 “In questi anni ho visitato circa centoventi carceri italiane. Nella Casa circondariale di Cremona la situazione è decente, ma siamo ai limiti: la capienza regolamentare viene modificata con decreto, un po’ come avveniva per l’acqua, quando si alzava il livello di atrazina per poter dire che era potabile”. Inizia il suo report con una voce rauca e forte, Rita Bernardini, la deputata radicale che ieri ha varcato il cancello della casa circondariale di via Cà del Ferro al termine delle tre ore di visita ispettiva che ha condotto insieme a Sergio Ravelli, storico esponente radicale cremonese e segretario dell’Associazione Pietro Welby, e ad Agostino Toninelli, medico, responsabile provinciale del forum del terzo settore. Ora a Cà del Ferro ci sono 370 detenuti, 206 stranieri (il 55 per cento). Quelli con condanna definitiva sono 192 mentre i detenuti in attesa di giudizio sono 177 e le statistiche dicono che metà di loro sarà dichiarata innocente. Gli agenti effettivi sono 136 a fronte dei 195 in pianta organica. Teramo: per 48 detenuti corsi in carcere per imparare a fare impresa Il Centro, 16 ottobre 2011 Sono 48 i detenuti del carcere che hanno partecipato ai corsi del progetto della Provincia “A scuola d’impresa”. Lo scopo è stato fornire loro strumenti utili (nozioni teoriche e suggerimenti tecnico-operativi) per avviare un’attività di tipo imprenditoriale. Alle lezioni hanno partecipato anche le detenute, alle quali l’assessore al lavoro Eva Guardiani, e il vicepresidente e assessore alle politiche sociali, Renato Rasicci, hanno consegnato ieri l’attestato di partecipazione. Questi i nomi: Domenica Battista, Teresa Bonsanto, Rossella Falone, Camelia Ghenghisan, Catia Mantovani, Fiorella Rapposelli e Giovinella Spinelli. Il direttore del carcere, Stefano Liberatore ha illustrato l’importanza del percorso formativo - portato avanti dagli esperti della Provincia con le responsabili dell’area educativa del carcere, Elisabetta Santolamazza e Alessandra Ciantò - definendo il carcere “una palestra che permette di concretizzare il diritto alla rieducazione”. “Avete la possibilità di spendere le conoscenze acquisite quando tornerete alla vita libera”, ha poi detto rivolgendosi alle detenute. A svolgere le lezioni sono stati gli esperti dei centri per l’impiego Salvatore Scappucci, Luca Bucciarelli, Anna Breggia e Luigina Ciarrocchi. Interessanti le idee emerse dai corsi, alcune giudicate già “cantierabili” come la realizzazione in carcere di un forno per la produzione di pane. “Così”, ha detto Guardiani, affiancata dalla dirigente del settore Renata Durante “cerchiamo di favorire il reinserimento di persone che si trovano al termine della detenzione e che, uscite dal carcere, avranno qualche strumento in più per costruire un percorso lavorativo e professionale”. Rasicci ha ricordato che la collaborazione col carcere è iniziata un anno e mezzo fa, quando un detenuto gli ha inviato una lettera strappalacrime. Da lì è stato avviato l’impiego dei detenuti come cantonieri, che ora saliranno a 16. Ieri peraltro la preside dell’Alberghiero Di Poppa, Silvia Manetta, ha annunciato per oggi l’avvio delle lezioni nel carcere per una classe sperimentale di 20 detenuti iscritte alla scuola, che al termine del corso prenderanno il diploma da cuochi. Trieste: il Comune favorisca il lavoro dei carcerati; mozione votata da tutti, ma non dalla Lega Il Piccolo, 16 ottobre 2011 Una mozione votata all’unanimità nella prima commissione consiliare (è mancata solo la firma della Lega) impegna sindaco a giunta a sostenere il lavoro in carcere: tramite convenzioni con le cooperative, acquisto di prodotti confezionati nei laboratori del Coroneo, ricerca di finanziatori privati in grado di donare i beni necessari “a far fronte alle necessità segnalate dal direttore della struttura”. L’iniziativa segue la visita in carcere della prima commissione, presieduta da Maria Grazia Cogliati Dezza, lo scorso settembre. In quella circostanza si apprese “che a fronte di una capienza di 155 persone si è raggiunto il tetto dei 270 detenuti”. Si richiamano le leggi vigenti affinché siano garantite “politiche preventive”, salute e sicurezza. Soddisfatta Cogliati per l’approvazione praticamente unanime del testo, di cui primo firmatario è Pietro Faraguna (Pd come la presidente): “Una prova di senso di responsabilità per la comunità penitenziaria, ma anche per la polizia penitenziaria, il direttore e tutto il personale”. Trieste: da Pinelli a Cucchi, vite spezzate dallo Stato nel libro di Manconi e Calderone Il Piccolo, 16 ottobre 2011 Quando a uccidere è lo Stato. La lista di chi - colpevole o innocente non importa - si è visto togliere la vita dalle istituzioni è lunga. Perché, come sottolineato nel libro “Quando hanno aperto la cella” firmato da Luigi Manconi e Valentina Calderone, può accadere di morire in carcere, in una cella di un ospedale psichiatrico giudiziario, nei centri di identificazione ed espulsione, legati a un letto di contenzione per un trattamento sanitario obbligatorio, picchiati a sangue per strada da un gruppo di poliziotti. Quando a uccidere due volte è l’oblio, vite che si perdono nell’oscurità del silenzio. Restano solo i familiari travolti dall’assenza di informazioni, privati della certezza del diritto. Da Giuseppe Pinelli precipitato dalla finestra della Questura di Milano nel 1969 alla morte di Stefano Cucchi nel 2009 qualcosa è cambiato? È uno degli interrogativi dei quali si è discusso ieri all’auditorium Revoltella in occasione della presentazione del libro. L’incontro, moderato dalla giornalista e scrittrice Kenka Lekovich, ha visto la partecipazione degli autori, del sindaco Roberto Cosolini, del direttore del carcere Enrico Sbriglia, dello scrittore Pino Roveredo e di Maurizio Zacchigna che ha raccontato una delle tante storie di morte negli ospedali psichiatrici giudiziari. Se la vicenda di Stefano Cucchi è paradigmatica, come ha indicato Valentina Calderone, “raccoglie in sé però gli stessi meccanismi, le stesse modalità che hanno riguardato Giuseppe Pinelli”. Sono storie drammatiche che non possono essere dimenticate, archiviate in un cassetto come una lettera. Questioni, sottolinea Luigi Manconi, “umanitarie, ma anche politiche. Lo Stato ha il potere di privare della libertà i suoi cittadini, ma non sono ammesse forme di violenza che fanno perdere la fiducia nelle istituzioni”. E sulle responsabilità dello Stato fa autocritica Enrico Sbriglia che dice di aver chiesto scusa personalmente a Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano: “Lo Stato serve per le persone e non contro di loro. Il carcere è un luogo di detenzione dove si imprigiona la legalità. Le norme sul sistema penitenziario molto spesso non sono applicate o vengono violate”. Sono fatti pesanti che non vogliamo vedere, puntualizza Pino Roveredo, “ma che nascono da persone normali e che diventano straordinari e raccontano di disgrazie e dolore”. Ma se la questione è politica come trovare una soluzione? Per il sindaco Roberto Cosolini “parlare di queste vicende a Trieste luogo simbolico, dove sono stati restituiti i diritti negati, è significativo. Bisogna partire dalla persona, dalla prevenzione sociale, dall’efficienza del funzionamento della giustizia. La politica è responsabile quando dà messaggi sbagliati, quando pensa che la sicurezza passa attraverso l’esibizione della forza”. Teramo: uccise la moglie, detenuto albanese diventa artista Il Centro, 16 ottobre 2011 Ha affrescato il carcere di Castrogno, dove sta scontando una condanna a 14 anni per l’omicidio della moglie, utilizzando i materiali che gli hanno regalato gli agenti di polizia penitenziaria dopo una colletta. Il pittore è un detenuto albanese, Shkelqim Koni, 45 anni, ex operaio. Ha dipinto scene raffiguranti il Gran Sasso, San Gabriele, comunque affreschi il cui tema è legato a questa terra dove lui era venuto a vivere trent’anni fa. Koni, come hanno voluto sottolineare il gip che ne convalidò l’arresto, Marina Tommolini, e il pubblico ministero che in primo grado ne chiese la condanna, Irene Scordamaglia, “in carcere si è scoperto artista ed è uno degli esempi che il carcere non è abitato da aguzzini o da disillusi, ma da persone che aiutano a risollevarsi e da altre che vogliono riprendersi”. “Questo”, ha aggiunto il pm Scordamaglia, “è uno degli esempi di come il carcere può permettere di riprendere la propria strada. Le pene non devono essere punitive ma tendere alla rieducazione, e questo a Castrogno è avvenuto. Insomma, anche in carcere esistono esempi altissimi di valore sociale”. Koni nel gennaio del 2009 uccise a coltellate la moglie Rudina di 33 anni nella loro abitazione di Martinsicuro, mentre i due figli dormivano nella stanza accanto. Lei voleva lasciarlo perché non sopportava più la sua gelosia, lui reagì con violenza e, dopo il delitto, chiese l’intervento dei carabinieri per costituirsi. In primo grado, grazie ai benefici del giudizio abbreviato in udienza preliminare, fu condannato a 14 anni di reclusione, pena confermata di recente dalla Corte d’Appello dell’Aquila. Detenuto modello, Koni non riesce però ad ottenere ancora oggi il permesso di rivedere e riabbracciare i propri figli. Il pm Scordamaglia, che nel giudizio di primo grado chiese e ottenne al giudice le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, dice: “Spero che questo episodio degli affreschi possa contribuire a fargli rivedere i figli”. Honduras: scontro tra bande in carcere, 9 detenuti morti e 3 feriti Ansa, 16 ottobre 2011 Nove detenuti sono stati uccisi e tre feriti in scontri scoppiati ieri in una prigione dell’Honduras. Lo riferisce la polizia. Gruppi di detenuti rivali si sono sfidati a colpi di coltelli e pistole nel penitenziario della città di San Pedro Sula, spiegano le forze dell’ordine. Sempre a San Pedro Sula, ieri sei persone sono state uccise e tre ferite all’aeroporto internazionale della città in uno scontro tra gang di narcotrafficanti. L’Honduras è il Paese con il tasso di omicidio più alto del mondo, secondo uno studio globale pubblicato questo mese dalle Nazioni unite. Messico: rissa in carcere, almeno 20 detenuti uccisi Ansa, 16 ottobre 2011 Almeno 20 prigionieri sono morti e una decina sono rimasti feriti nel corso di una violenta rissa tra bande rivali in un carcere in Messico. Gli scontri sono scoppiati nell’istituto penitenziario di Matamoros, Stato di Tamaulipas, a ridosso della frontiera con gli Usa. Lo hanno reso noto le autorità locali, precisando che lo scontro ha preso il via alle prime ore dell’alba, dopo una lite tra due reclusi. Medio Oriente: protesta reclusi palestinesi, israele revoca isolamento Ansa, 16 ottobre 2011 Le autorità penitenziarie israeliane hanno annunciato la revoca delle misure di isolamento per tutti i detenuti palestinesi reclusi nelle carceri dello Stato ebraico, con l’eccezione di tre soli casi. Lo riferiscono oggi fonti ufficiali palestinesi citate dall’agenzia Maan, secondo la quale la decisione è frutto delle proteste e degli scioperi della fame condotti nelle ultime settimane da centinaia di prigionieri. L’alleggerimento delle condizioni detentive, con la fine dell’isolamento prolungato di numerosi reclusi e l’annullamento di restrizioni aggiuntive imposte negli ultimi tempi, era stata al centro della protesta. Stando alla Maan, la sostanza delle rivendicazioni è stata ora accolta, salvo l’isolamento di tre detenuti ritenuti pericolosi: tutti affiliati al braccio armato di Hamas e condannati per attentati particolarmente gravi. La vicenda non ha a che fare direttamente con l’accordo Israele-Hamas, siglato nei giorni scorsi, su un imminente scambio fra 1.027 detenuti palestinesi e il caporale israeliano Ghilad Shalit, prigioniero nella Striscia di Gaza dal 2006. Essa riguarderà infatti gli altri reclusi, quelli non coinvolti nello scambio, e affonda le radici in una protesta cominciata molto prima dell’annuncio pubblico dell’intesa sul caso Shalit. Oggi stesso un portavoce di Hamas ha peraltro sottolineato da Gaza che il rilascio dei 1.027 non chiude il dossier dei prigionieri né cancella l’impegno a riportare a casa gli altri 5.000 palestinesi destinati a restare per ora in cella. Anche l’Autorità palestinese (Anp) ha intanto fatto sapere da Ramallah, per bocca del capo dei suoi servizi di sicurezza, di ritenere che una pace definitiva non possa prescindere dalla liberazione di tutti i prigionieri. Medio Oriente: Israele e Hamas pubblicano nomi detenuti da rilasciare in scambio con Shalit Ansa, 16 ottobre 2011 Israele e Hamas hanno pubblicato oggi la lista di un primo gruppo di 477 prigionieri palestinesi da liberare martedì prossimo in cambio del soldato israeliano Gilad Shalit. In questa prima lista israeliana compaiono anche 27 donne. Nell’elenco dei prigionieri spiccano fra l’altro i nomi di Ahlam Tamimi, accusato di essere complice di un attentato suicida in un ristorante di Gerusalemme, e Amneh Muna, che progettò l’omicidio di un 16enne israeliano nel 2001 e condannato all’ergastolo. Un secondo gruppo di 550 palestinesi dovrebbe essere liberato entro due mesi. In tutto la lista israeliana dello scambio comprende 1.027 prigionieri palestinesi. Stati Uniti: detenuto ingiustamente per 26 anni, esce e vince incontro di boxe professionisti Ansa, 16 ottobre 2011 Per Dewey Bozella arriva un altro lieto fine. A 52 anni, 26 dei quali trascorsi ingiustamente in prigione, Bozella combatte e vince il suo primo incontro di boxe da professionista, battendo ai punti, con verdetto unanime, Larry Hopkins. "Il mio sogno è diventato realtà - le sue parole al termine dell'incontro. Ero solito dormire nella mia cella e sognare che accadesse questo". Bozella aveva solo 18 anni nel 1977 quando e' stato arrestato per l'omicidio della 92enne Emma Crapser. Rilasciato quattro mesi dopo per mancanza di prove, fu arrestato nuovamente nel 1983 e condannato. Nel 2009 la sentenza fu ribaltata e Bozella, diventato campione dei pesi mediomassimi della prigione di Sing Sing, ha finalmente potuto disputare un incontro da professionista. "E' stato il mio primo e ultimo combattimento - ha aggiunto - Ringrazio tutti coloro che hanno resto questo possibile, e' stata una delle migliori esperienze della mia vita". Bozella ha anche ricevuto una telefonata di complimenti dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama.