Il diario di Elton: “Ho sognato il mare, una donna e la libertà” Redattore Sociale, 14 ottobre 2011 Dodicesima puntata. “Ogni volta che passo attraverso il cancello stretto e poi sento la chiave girare tre volte chiudendomi l’unica via di fuga mi accorgo che in galera non ci sono spazi di libertà”. L’altro giorno sono andato ai passeggi, ho messo un asciugamano per terra e mi ci sono seduto sopra. Il cubicolo di cemento non faceva passare l’aria. Il piacere di essermi preso un pò di “libertà” all’aria aperta è stata presto sostituita dal desiderio di fuga verso la mia cella, dove la branda si trova giusto sotto la finestra e, attraverso le sbarre, a quell’ora scivola dentro un’aria che concilia il sonno. Ma il passeggio è una trappola - sbaglierei di poco se dicessi che si tratta di un’altra galera nella galera - e ogni volta che passo attraverso il cancello stretto e poi sento la chiave girare tre volte chiudendomi l’unica via di fuga mi accorgo che in galera non ci sono spazi di libertà. Posso camminare avanti e indietro come se aspettassi l’autobus, posso passeggiare in circolo, come un animale in gabbia, oppure fermarmi e guardare i muri alti che disegnano un rettangolo di cielo, ma so per certo che non posso più uscire prima dello scadere del tempo. Siccome ormai conosco bene la regola, ho deciso che avrei passato le due ore di cemento cercando almeno di perdermi nei sogni. Appoggiato sull’asciugamano, ho chiuso gli occhi e ho immaginato un mare piatto, invitante e un soffio di vento tiepido, delicato, che mandava nella mia direzione bagliori di un sole pomeridiano. E poi ho visto lei mentre passeggiava sola sul bagnasciuga, mettendo così in moto il treno dei desideri che mi conduce inevitabilmente a volerla avere vicino, qui e subito, per abbracciarla, per stringere il suo viso tra le mani e mangiarle di baci gli occhi, la bocca. Quando il rumore delle chiavi mi ha svegliato ho dovuto combattere contro la rabbia per l’interruzione di un sogno cosi bello, ma poi mi sono ancora una volta stupito per come, anche nel posto più brutto, più arido, più disumano della terra, la prospettiva dei momenti di piacere che fra qualche giorno passerò insieme alla donna che amo mi aveva cullato in un sonno dolce e trasportato in spazi meravigliosi, tra le sue braccia. Elton Kalica (in collaborazione con Ristretti Orizzonti) Elton è un 35 enne albanese, detenuto nel carcere Due Palazzi di Padova con una condanna a 14 anni e 8 mesi per sequestro di persona a scopo di estorsione (senza armi e durato due giorni). Il prossimo 25 ottobre finirà di scontare la sua pena e tornerà libero. Firma storica della rivista Ristretti Orizzonti, attende di sapere se sarà rimpatriato in Albania o se potrà restare in Italia e lavorare da esterno per Ristretti. Ha deciso di raccontare su “Redattore sociale” i suoi ultimi giorni dentro. Giustizia: meno male che c’è la Gozzini… L’Unità, 14 ottobre 2011 Malgrado le manomissioni, è ancora l’unica legge che dà un senso alla finalità rieducativa della pena Ventimila persone oggi scontano la condanna fuori dal carcere. Un Paese serio ripartirebbe da qua Dileggiata, manomessa, menomata, eppure venticinque anni dopo la “legge Gozzini” è ancora lì, a dare un senso alla finalità rieducativa della pena, secondo quanto indicato dall’articolo 27 della Costituzione, e a quel poco di buono che circola intorno al carcere e alle sue quattro mura: scoscese e impenetrabili, anche quando fatiscenti e diroccate. Il nome di Mario Gozzini non è così noto come meriterebbe. Pochi lo conoscono, una parte di quanti si interessano di questioni di giustizia gli è profondamente grata, un’altra ne stigmatizza l’azione e in particolare la sua opera più celebre: appunto la “legge Gozzini”. Il suo autore era uno di quei vivaci esponenti del cristianesimo colto e sanamente radicale, che fiorì nel secondo dopoguerra, in particolare tra la Toscana e l’Emilia Romagna e che ebbe un ruolo rilevante nelle vicende del cattolicesimo italiano pre e post-conciliare. La sua vita è stata ricca di impegni e scambi e sempre all’insegna del dialogo tra mondi diversi. E sempre dentro quel solco così fertile tracciato da personalità come Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti ed Ernesto Balducci, ma anche Geno Pampaloni: una componente culturale oggi sottovalutata, se non sprezzantemente denigrata sotto l’etichetta grossolana di “cattocomunismo”. Segno qualificante di quella esperienza fu una irrequieta intelligenza, che volle misurarsi con la dimensione strettamente politica. Gozzini venne eletto senatore nelle liste del Pei a partire dal 1976; e, da membro del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente, intorno alla metà degli anni 80 si dedicò a un disegno di riforma del sistema dell’esecuzione penale. Era, quella, una fase propizia perché il terrorismo politico era stato sconfitto e sembrava non potersi più riproporre con la stessa potenza; e il terrorismo mafioso non aveva ancora prodotto la stagione delle stragi. Questo fece si che la legge Gozzini venisse approvata quasi all’unanimità. E tuttavia, consapevole di quanto ciò costituisse una circostanza eccezionale e precaria, Gozzini così parlò al Senato il 25 settembre 86: “Vorrei che, se questo disegno diventerà, come spero, legge dello Stato, prendessimo tutti l’impegno, Parlamento e Governo, a resistere alle prevedibili reazioni aprioristiche dell’opinione pubblica, a non retrocedere dalle posizioni cui si è pervenuti (...) non cedendo all’allarme sociale”. Sono parole semplici e nitide, che a molti di noi è capitato di rievocare numerose volte nei decenni successivi. Le avessero ascoltate e messe in pratica, quelle parole, i parlamentari che nel luglio del 2006 approvarono (con una percentuale dell’80%) il provvedimento d’indulto, si sarebbe evitata una pagina particolarmente indecorosa: quella che vide quegli stessi parlamentari, in 24 ore, ripudiare la stessa misura di clemenza coralmente voluta. L’intervento di Gozzini dimostrava come la sua audacia riformatrice si accompagnasse a un radicato pessimismo (potremmo dire “cattolico”) sulle oscillazioni della mentalità comune, a partire dalla consapevolezza che “in questo caso almeno, il legislatore sia più avanti della cultura corrente”. Perché, in effetti, misure come quella della semilibertà erano destinate a produrre scandalo. Tanto è radicata e diffusa, in quella che pure viene considerata la “culla del diritto”, un’idea fissa e irrigidita della pena e della sua esecuzione. E tanto sembra non dico irrealizzabile ma nemmeno immaginabile, un concetto di sanzione diverso dalla reclusione in una cella chiusa. In tale “cultura corrente”, la legge Gozzini interviene con dirompente forza innovativa. Ma non sarebbero passati quattro anni prima che lo stesso Parlamento, appena modificato da un turno elettorale, iniziasse quell’opera continua di smantellamento che fa della “Gozzini”, oggi, una legge dimezzata nelle potenzialità e nei risultati. Eppure, nonostante tutto, si contano a centinaia di migliaia i condannati che hanno scontato la loro pena in affidamento in prova al servizio sociale, in detenzione domiciliare, in semilibertà. E la percentuale delle misure alternative alla detenzione, revocate per la commissione di nuovi reati, ha sempre oscillato tra lo 0,2 e lo 0,4 %. Non solo: la recidiva tra quanti hanno beneficiato della Gozzini è tre volte inferiore a quella registrata tra quanti scontano la pena interamente in carcere. In altre parole, grazie a quel che resta della Gozzini, ventimila persone, oggi, in questo disgraziato Paese, scontano la pena fuori dal carcere, nelle nostre città, nei nostri quartieri. Fossimo una nazione seria si ripartirebbe da qua, da quel che resta della “Gozzini” e da quei ventimila in esecuzione penale esterna, per raddoppiarli (e magari più che raddoppiarli) e ridurre drasticamente il numero di quanti, in galera, perdono la vita o la ragione o la dignità. O tutto questo insieme. Giustizia: due anni fa moriva Stefano Cucchi, per non dimenticare di Patrizio Gonnella www.micromega.it, 14 ottobre 2011 Al momento dell’arresto da parte dei carabinieri, secondo quanto riferito dai familiari, stava bene, camminava sulle sue gambe, non presentava segni di alcun tipo sul viso. La mattina seguente, all’udienza per direttissima, i familiari notano evidenti tumefazioni al volto e agli occhi. Non viene inviato agli arresti domiciliari, eppure i fatti contestati non sono di particolare gravità. Passa poche ore in ospedale al Fatebenefratelli. Viene certificato dai medici che si sarebbe fatto male cadendo da solo per terra senza che ci fosse colpa di nessuno. Questa sarebbe la versione data dal povero Stefano. Questa la versione di solito data da detenuti impauriti per le conseguenze di una eventuale denuncia di violenze. Torna a Regina Coeli. Sta male. Viene inviato nuovamente in ospedale, questa volta al Pertini, in un reparto apposito per detenuti, sorvegliato da poliziotti penitenziari. Lamenta dolori forti alla schiena. Viene ricoverato. Per lunghi sei giorni i familiari, pur recandosi in ospedale, non hanno l’autorizzazione a visitarlo. L’autorizzazione al colloquio giunge per il 23 ottobre ma è troppo tardi perché Stefano Cucchi muore la notte tra il 22 e il 23 ottobre. I genitori rivedono il figlio per il riconoscimento all’obitorio e si trovano di fronte a un viso devastato. Sono quindi passati due anni. Il processo va avanti ma lentamente. È adesso il turno del direttore del carcere a essere ascoltato dai giudici. Un dirigente dell’amministrazione penitenziaria viene condannato a due anni con rito abbreviato. Tre penitenziari e nove operatori sanitari sono sotto processo dal 24 marzo 2011. Nessun carabiniere viene indagato e di conseguenza processato. È assolutamente necessario che i riflettori pubblici siano tenuti ben accesi per evitare che si giunga all’oblio e alla prescrizione. Pochi giorni fa Marcel Vitiziu, 30 anni, viene arrestato per oltraggio a Messina. Finisce in carcere. Muore tre giorni dopo per arresto cardiaco, mentre in ambulanza veniva trasferito al Policlinico. Presentava lesioni al naso e all’arcata sopraccigliare. Giustizia: Boutique Rebibbia, quando il “made in carcere” diventa mezzo di rieducazione di Maria Veronica Orrigoni L’Espresso, 14 ottobre 2011 Il loro catalogo include 500 articoli: t-shirt, bambole, lampade disegnate a mano, abiti sartoriali, miele, vino, dolci. Ma più del business conta la speranza: uscire dal carcere con una vita nuova è la missione di “Made in Jail”, la cooperativa cresciuta dietro le sbarre dei circa 200 penitenziari italiani. E ora a rischio per i tagli del governo. Dalle falegnamerie ai poh industriali passando per le piccole botteghe artigianali e i call center, è la legge a prevedere il lavoro come mezzo per la rieducazione. E i dati confermano la previsione del legislatore: chi svolge attività mentre sconta la pena, ha una percentuale di recidiva, cioè di commettere un reato e rientrare in galera, inferiore al 10 per cento, contro una media nazionale del 70 per cento: “Le capacità acquisite sono fondamentali per il reinserimento, perché permettono a chi esce di porsi alla pari con ogni libero cittadino, almeno per quanto riguarda le competenze professionali”, spiega Luigi Pagano, provveditore degli istituti lombardi: “Per facilitare l’incontro tra la domanda delle imprese e offerta, in Lombardia è nata l’agenzia Articolo Ventisette”. Una spinta la diede nel 2000 la legge Smuraglia, che introdusse benefici fiscali e contributivi per le società che investivano nei penitenziari. I risultati sono arrivati subito, ma i fondi della Smuraglia sono comunque diminuiti: l’anno scorso erano 50 milioni, contro i 71 del 2006. Un dato che trova conferma nelle carceri: dei 70 mila detenuti, solo 14 mila hanno un’occupazione, di cui 2 mila dotati di un contratto con società esterne. Gli altri 12 mila lavorano all’amministrazione penitenziaria e si occupano della cucina e della manutenzione delle prigioni. Fatto sta che se nel Lazio gli incentivi sono quasi finiti, in Lombardia manca una stima precisa, anche se i primi risultati non sono incoraggianti e persino nelle strutture piccole come Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria, si parla di riduzioni intorno al 50 per cento. Confcooperative, direttori e associazioni di volontariato sono già scesi in piazza, perché senza incentivi, molti dei prodotti “made in carcere” potrebbero sparire dal mercato. Eppure il lavoro dei detenuti potrebbe valere anche 600 milioni di euro: secondo la Camera di Commercio di Monza e Brianza questo sarebbe il fatturato della piena occupazione dei condannati. A oggi non esiste un inventario di tutto ciò che viene creato dietro le sbarre. Ci ha provato Pietro Rai - tano, direttore di Altreconomia, autore del libro “Il mestiere della libertà”, che ha censito circa ? cento realtà e si prepara a uscire con un’edizione aggiornata a marzo 2012. Dati ufficiali parlano di quasi 500 articoli diversi, presenti sul sito del ministero. Articoli che si stanno facendo breccia nel mondo equosolidale, dalle fiere ai negozi di Altromercato, racconta Paola Maisto, veterana del settore che con le altre socie della cooperativa Le Lazzarelle ha portato il caffè della torrefazione di Pozzuoli in Senato: “Dopo la partecipazione all’appuntamento milanese con “Fa la cosa giusta” lo scorso marzo il nostro giro d’affari si è ampliato, abbiamo ricevuto contatti che poi si sono trasformati in ordini e fatturato”. Dalla Sardegna dove si producono olio, ricotta e pecorino biologici sotto il nome di GaleGhiotto, fino all’alveare della coop Fuori C’entro, nel carcere di Civitavecchia, l’elenco è lungo. A Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, il penitenziario ha vinto il premio Qualità per le pubbliche amministrazioni, grazie a quattro vini diversi, funghi, tartufi e fragole. Dopo l’orto, poi, c’è la cucina dove impastare, cuocere e sfornare il pane fresco, così come torte, biscotti o dolci da forno: “A Terni abbiamo individuato il luogo dove impiantare i macchinari”, spiega Federico Brunelli della cooperativa umbra Gulliver, “poi siamo partiti con 120 chili al giorno, per proseguire con pasticceria, panettoni e tozzetti, simili ai cantucci. La qualità è altissima: uno dei nostri pasticceri mignon ora e assunto in un ristorante a Roma, e per noi questa è una soddisfazione enorme”. Il fronte alimentare spazia da Dolci Libertà, la fabbrica di cioccolato a Busto Arsizio, dove ogni giorno vengono confezionati 700 chili di cioccolato e 300 chili di pasticcini e torte, fino ad aziende di nicchia come Dolci Evasioni, il marchio della cooperativa L’Arcolaio a Siracusa specializzato in pasta di mandorle e amaretti. A Torino l’università ha messo a punto uno studio che dimostra come, attraverso il recupero degli scarti alimentari, le diverse attività della casa circondariale Lorusso e Cutugno potrebbero aumentare la loro redditività fino a 1,5 milioni di euro all’anno. Un risultato possibile grazie a una sinergia tra la cucina gestita da una coop con 32 addetti, una gelateria e una panetteria in fase di realizzazione: “Qui è sempre un cantiere aperto”, racconta Pietro Buffa, direttore del Lorusso e Cutugno, “basti pensare che nel 2009 il fatturato delle cooperative impegnate è stato superiore ai 2,5 milioni”. Anche nel tessile le carceri stanno collezionando record. L’alta qualità, lo stile e la sostenibilità dei materiali sono il filo conduttore delle creazioni, nate dall’unione tra l’espressività dei detenuti e le stoffe, i modellini e i colori messi a loro disposizione. Opere come le magliette di Made in Jail di Rebibbia e quelle dedicate a Fabrizio de André a Marassi, le borse umoristiche con tessuti riciclati di Made in Carcere di Lecce, i costumi teatrali e gli abiti sartoriali della Cooperativa Alice venduti perfino in alcuni negozi del centro di Milano. Oltre all’avanguardia fashion, c’è il miglior panettone d’Italia, realizzato dalla cooperativa Giotto di Padova. Dentro la casa di reclusione “Due Palazzi” gli chef, che producono circa 12mila esemplari, hanno ricevuto il “Piatto d’argento” dall’Accademia Italiana della Cucina. Si punta pure sulla biancheria, come le lenzuola di Vigevano, o i tutù realizzati per la locale scuola di danza, ancora i tappeti filati a Catania e i grembiuli della Giudecca di Venezia, commercializzati come Design in Gabbia. Sulla Laguna, la cooperativa Rio Terà dei Pensieri rifornisce con le cosiddette “linee di cortesia” gli alberghi della città: in molti hotel shampoo e bagnoschiuma vengono realizzate nella prigione di Santa Maria Maggiore. Un destino che potrebbe essere condiviso presto anche dal carcere di Bollate: “Sta per partire un progetto per una ventina di detenute nel campo della cosmesi”, spiega il neodirettore Massimo Parisi. E così il made in jail conquista i mercati più strani, dai nidi per i pipistrelli a Treviso alle stufe futuristiche di Cuneo, fino ai servizi forniti dai carcerati, dai primi contatti tra Telecom e San Vittore a Milano per il servizio clienti dell’allora gestore unico, impiantato all’interno del penitenziario. A Rebibbia, invece, 20 persone sono impiegate nel cali center del numero 1254 di Telecom Italia nato cinque anni fa, a cui si è aggiunto il servizio di caricamento dei dati dei mancati pedaggi per conto della società Autostrade. Ma c’è chi lavora per la Giustizia: tra le sbarre sono stati digitalizzati circa 15 mila fascicoli per conto del Tribunale di Sorveglianza capitolino, come già successe a Cremona per gli atti riguardanti la strage di Piazza Fontana. Giustizia: Silvio Pellico... in arte Papa di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2011 Premessa d’obbligo: chi è detenuto, specie in custodia cautelare prima del processo, merita il massimo rispetto, qualunque accusa gli venga mossa. Anche se ha la feccia e il pedigree di Alfonso Papa, accusato dai pm e dal gip che l’han fatto arrestare di rivelazione e utilizzo di segreti, concussione, favoreggiamento e - dal Riesame che gli ha negato la scarcerazione - addirittura di associazione per delinquere (la famosa P4). Accuse ritenute fondate financo dalla Camera, che da trent’anni non autorizzava l’arresto di un suo membro. Ma non è della persona di Papa che qui vogliamo occuparci, bensì dell’incessante processione di parlamentari che fanno la spola fra le aule di Camera e Senato e la sua cella al Poggioreale. L’altroieri, al termine dell’ultimo pellegrinaggio, i cosiddetti onorevoli Moffa, Iannaccone, D’Anna e Lehner hanno descritto l’illustre detenuto come un “prigioniero politico”. Una via di mezzo fra Silvio Pellico e Antonio Gramsci. Moffa sostiene di aver incontrato “il fentasma di Papa”, che andrebbe immantinente scarcerato perché sarebbe “dimagrito”, “prostrato”, con “barba lunga” (inconveniente facilmente ovviabile con un rasoio) e quel che è peggio “in una cella con altri quattro detenuti” (le singole sono purtroppo esaurite da un pezzo). Tutte caratteristiche che, se gli onorevoli pellegrini si fossero guardati intorno, avrebbero riscontrato in circa 70mila detenuti, praticamente tutti. Compresi quelli sbattuti a suo tempo in galera dallo stesso Papa quando taceva il magistrato a Napoli. In più - denuncia il Giornale - i giudici aguzzini gli impediscono addirittura “di ricevere il bollettino delle riunioni parlamentari e le convocazioni dell’assemblea”, affinché possa sintonizzarvisi telepaticamente. Ai pellegrini dell’altro ieri Papa ha consegnato una lettera, simile a quella già inviala a un altro suo fan, Renato Farina in arte Betulla, in cui ribadisce ciò che ha segnalato alla Procura di Roma denunciando i pm per estorsione. Nelle missive il Papa sostiene - come tutti i giornali e i tg ripetono senza la minima verifica - che “il pm Woodcock mi ha fetto sapere che sarebbe disponibile a fermi scarcerare, a patto che renda dichiarazioni su Berlusconi e Lavitola, o almeno su Finmeccanica”. Ora, basta un minimo controllo, accessibile a tutti, per verificare che: 1) Papa non è accusato di reati in concorso col premier (neppure indagato nell’inchiesta P4), ma di fughe di notizie su indagini riservate in cambio di soldi, auto di lusso e altri vantaggi; 2) Woodcock ha incontrato Papa detenuto una sola volta, interrogandolo con altri colleghi alla presenza del gip e del suo difensore, e l’interrogatorio fu videoregistrato, dunque se quella proposta indecente gli fosse stata formulala in quella sede il suo avvocato potrebbe diffondere il video e dimostrarla in quattro e quattr’otto; 3) gli unici soggetti che in questi 80 giorni di detenzione hanno visitato Papa sono, oltre al suo legale e ai parlamentari amici, i suoi parenti, ai quali è difficile immaginare che il pm abbia dato incarico di avvertirlo di calunniare B. per uscire; ma, se così fosse, perché nessuno ha detto niente? A quanto ci risulta, poi, la Procura di Napoli non è al corrente di cose che Papa potrebbe sapere su B. Dunque manca proprio l’interesse degli inquirenti a domandargliele, o meglio mancava: ora che lui ne parla così insistentemente, può sorgere il dubbio che Papa sappia cose di B. che i pm nemmeno immaginano. Il sospetto, insomma, è che le sue lettere dal carcere, più che ai magistrati e agli onorevoli in processione, siano un messaggio indirizzato al premier. Lo stesso avvertimento che, negli anni, è risuonato in varie forme nelle esternazioni dei vari Previti, Dell’Utri, Letta, giù fino a Ruby, Olgettine varie, Lavitola e Tarantini: “Silvio, è te che vogliono, non me. Salvami, se no canto”. Insomma, che Papa parli alla nuora perché Papi intenda. Giustizia: Osapp; urge tavolo su nuclei provinciali delle traduzioni Il Velino, 14 ottobre 2011 “La costituzione dei Nuclei Provinciali delle Traduzioni era stato salutato come l’avvento della panacea di tutti i mali. Sono anni ormai che si procede in tale direzione ed a consuntivo ci sentiamo serenamente di affermare che, forse, non è stata fatta la scelta giusta. Tuttavia, in assenza di alternative, siamo obbligati a cercare di ottimizzare gli strumenti che ci siamo dati”. Lo afferma in una lettera, indirizzata al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Maurizio Veneziano, il vicesegretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp Mimmo Nicotra. “Per questo - prosegue Nicotra - riteniamo necessario aprire un tavolo di concertazione a livello regionale per identificare le disfunzioni che sono state rilevate in corso d’opera ricercando delle eventuali soluzioni condivise capaci di migliorare la qualità del lavoro del personale di polizia Penitenziaria”. Ma Nicotra sottolinea pure un elemento di criticità che viene vissuto in silenzio e che provoca molti disagi. “In Sicilia vi sono delle sedi staccate dei suddetti nuclei incardinate nelle direzioni delle Case Circondariali che li ospitano - ad esempio Caltagirone, Barcellona, che dipendono funzionalmente e gerarchicamente dall’unità operativa centrale mentre, di fatto, sono costrette ad operare contando esclusivamente sulle proprie forze. Per questo non avrebbe senso mantenere un rapporto che esiste solo in relazione agli oneri ed ai carichi di lavoro mentre, per tutto il resto, sembra essere chiuso in compartimenti stagni”. Castrovillari (Cs): suicidio in carcere, in 10 anni è il nono detenuto morto nell’istituto www.abmreport.it, 14 ottobre 2011 È una conta triste e lunga quella che riguarda i suicidi nelle carceri. In Italia se ne contano, dall’inizio dell’anno, ben 50. In Calabria ben tre dal primo gennaio, di cui due nella struttura detentiva del Pollino, nonostante gli sforzi della polizia penitenziaria, che tante volte, nel silenzio, salva le vite di quanti, per fortuna, non riescono a portare a termine gli insani gesti, forse dovuti alla disperazione, o ad altri fattori che è difficile comprendere. Un lavoro difficile quello della Polizia penitenziaria, che dopo l’ultimo episodio di ieri, del rumeno che a Castrovillari si è tolto la vita con la cintura dell’accappatoio, ha diffuso una nota stampa - a firma del segretario generale aggiunto del sindacato autonomo, Giovanni Battista Durante, e del segretario nazionale, Damiano Bellucci - nella quale raccontano di come il personale “fa fatica a garantire la sicurezza ed a controllare tutti i detenuti a causa del sovraffollamento e della carenza di personale”. All’ombra del Pollino, nell’istituto diretto da Fedele Rizzo, molto attento a tante forme di collaborazione e coinvolgimento con i detenuti ed il territorio, la popolazione carceraria si attesta intorno a 280 detenuti, dei 130 previsti dai posti disponibili. Ma nonostante la enorme varietà di proposta per far vivere i detenuti nel “modo” migliore il loro periodo di reclusione la scia dei suicidi registra nove morti dal 2000. Il primo episodio si registrò nel 2002 (il 10 marzo) quando a togliersi la vita su Giuseppe Pirrone, detenuto per minacce e lesioni. Poi il 9 gennaio 2003 fu Ilir Kakri, albanese di 38 anni, a decidere di farla finita durante la notte. Nel settembre dello stesso anno, un uomo di nazionalità jugoslava, S.S., di 50 anni, fu trovato morto verso le 3 di mattino dal personale di controllo. Una scia di morte che si interruppe per qualche anno e riprese poi nel maggio 2008 quando, Fabrizia Genovese, una agente della stessa polizia penitenziaria che tre giorni prima era stata arrestata per un presunto possesso di droga, si tolse la vita per impiccagione. Per questo episodio tre sue colleghe sono ora rinviate a guidizio per violazione dell’obbligo di sorveglianza. 10 settembre 2009 un diciannovenne cileno sceglie sempre l’impiccagione come forma di suicidio. Diciassette giorni dopo un 39enne di Morano Calabro decide di fare la stessa fine. Ultimo episodio, prima di quello del rumeno di ieri, si registra il 14 febbraio di quest’anno, quando Vasile Gavrilas, 37 romeno anche lui, detenuto per un omicidio di un bracciante agricolo di nazionalità bulgara, si strangola con i lacci delle scarpe. Il leader del movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, è intervenuto dopo il suicidio del detenuto nel carcere di Castrovillari, parlando di “situazione esplosiva e a forte rischio” e ricordando che “proprio meno di4 8 ore fa aveva fatto la sua ultima denuncia sul drammatico problema delle carceri, sul sovraffollamento, sulle condizioni disumane dei detenuti, sul dramma dei detenuti malati e sul rischio suicidi. Purtroppo sono stato facile profeta, avevo previsto e denunciato con forza il rischio concreto di suicidi, quello che poi è accaduto di li a poche ore in un carcere calabrese, quello di Castrovillari. Quello che inquieta, allarma e dovrebbe preoccupare tutti, - dice Franco Corbelli dei Diritti Civili - istituzioni e amministrazione penitenziaria, è che altri casi di suicidio potrebbe verificarsi se non si interviene subito per affrontare i drammatici problemi del sovraffollamento, delle persone recluse gravemente malate, delle condizioni disumane nelle quali sono costretti a vivere i detenuti, costretti in molti casi a convivere (e sopravvivere) in 7 - 8 in una cella di 20 metri quadri, di 5 passi per 4, con 2 tavolini, sette sgabelli, tre letti a due piani e una piccola branda singola, un bagno, una doccia, un lavello. Bisogna non chiudere gli occhi di fronte al dramma delle carceri e considerare che dentro quelle celle ci sono degli essere umani, spesso incensurati, in attesa di giudizio e arrestati anche per piccoli reati. Queste persone - aggiunge Franco Corbelli - purtroppo sono viste e trattati come dei sepolti vivi. Gente senza volto e senza diritti. Soprattutto se si tratta di poveri immigrati”. Corbelli chiede che insieme a questi problemi venga anche affrontato e immediatamente istituito il Garante dei diritti dei detenuti della Calabria, la cui proposta di legge è stata recentemente già approvata dalla competente commissione consiliare regionale calabrese. Bologna: viaggio nel carcere sovraffollato, la vita a tre in dieci metri di cella di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 14 ottobre 2011 Alla Dozza i detenuti sono 1.091, più del doppio della capienza. Una babele di lingue, gli stranieri sono il 63%. “Siamo in troppi. Io lavoro, sono uno dei pochi fortunati, non passo il tempo a fissare il soffitto”. Il carrello di plastica con le scorte di pere è di fianco al lava piedi e al water, nel bagno - dispensa - ripostiglio. Le pentole appese al muro sgocciolano sullo scopino. Il lavandino serve per sciacquare mani, piatti, stoviglie. In dieci metri quadrati di “camera” - così la chiama il regolamento penitenziario del Duemila, rimasto un sogno di carta in tre quarti del carcere - ci devono stare tre uomini, una branda, un letto a castello, arredi spartani, scarpe e ciabatte, libri, fili per stendere i panni, disegni dei figli e fotografie, fornelletti da campeggio per cucinare in proprio o preparare il caffè, sempre che sul conto corrente dello sportello bancario interno siano accreditati abbastanza soldi per acquistare cibo extra allo spaccio, il “sopravvitto”. Venti ore e più al giorno di convivenza forzata. Docce comuni ammorbate da muffa e infiltrazioni. Sofferenza e insieme dignità. Sembra un film neoralista, datato e sgranato, quello in cui si entra superando i cancelli delle sezioni “giudiziarie” della Dozza, riservate a chi è in custodia cautelare o in attesa di giudizio. In confronto il “penale”, dove sta chi sconta condanne definitive, è il paradiso. Celle a due posti. Porte blindate aperte dalle 8.15 alle 17.45. L’essere “sconsegnati”, con una relativa possibilità di movimento. “Mi ritengo fortunato - racconta Franco, 46 anni, fine pena nel 2014 - sono uno dei pochi con un’occupazione fissa. Lavoro nella squadra verde dei giardinieri. Vado in palestra. Non passo tutto il tempo steso in branda a fissare il soffitto. Sono un privilegiato rispetto ai tanti, ai troppi che siamo, con gli immigrati ultimi degli ultimi”. Non tutti reggono. Il reparto di osservazione psichiatrica è chiuso da anni. Chi perde l’equilibrio mentale va dritto all’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, l’ex manicomio criminale. “I più provati - spiega il comandante della polizia penitenziaria, Alberto Di Caterino, un passato da avvocato - sono i ragazzi tunisini sbarcati a Lampedusa, disorientati, senza punti di riferimento”. Educatori e educatrici, cinque a tempo pieno, uno part time ed una in congedo per maternità, non si risparmiamo. Gli psicologi nemmeno. Però sono due, presenti 64 ore al mese. E guai a farsi venire il mal di denti. Per essere curati nell’ambulatorio odontoiatrico, lindo e dignitoso come il resto del centro clinico, l’attesa è di otto mesi. Fotogrammi dal carcere alla periferia di Bologna, 25 anni portati male. Frammenti di vita quotidiana. Facce diverse di un istituto poliedrico, capace di sorprendere in positivo per le attività, i corsi e i laboratori, l’abnegazione degli agenti e del personale “civile”, il contributo dato da volontari e interlocutori esterni, il non arrendersi a una situazione critica e complicata. La direttrice Ione Toccafondi non nasconde i problemi né la sua visione di un mondo dove il carcere serva per i casi gravi e non sia riducibile a discarica sociale. “No, non mi sento una carceriera - risponde, doppiati i 32 anni di servizio nell’Amministrazione - sono un funzionario dello Stato che crede in quello che fa”. E le dispiacerebbe se le criticità oscurassero l’impegno dei collaboratori, le sfide quotidiane, ciò che funziona. L’ultima “invenzione” è l’apiario allestito nel prato su cui sorgerà il nuovo padiglione da 200 posti. Confapi ha donato il necessario. Quattro detenuti producono miele. Una cooperativa si sta organizzando per venderlo all’esterno. Altri quattro smontano vecchie lavatrici, dividendo i pezzi da avviare allo smaltimento differenziato. La storica tipografia è ferma. E così le serre, mai riattivate dopo il decesso dell’agricoltore che coordinava i carcerati - coltivatori “Per fortuna, grazie ad una convenzione con Regione e Caritas, dai mercati arrivano le eccedenze di frutta e verdura”. Altre mani generose non lasciano mancare carta igienica, abiti di ricambio, fondi per pagare le telefonate a casa a chi non un centesimo. Ma bastano i numeri aggiornati dall’ufficio matricola, feroci nell’appiattire differenze e identità, per riportare al lato duro della realtà, lo scenario che condiziona ogni cosa. Nei moduli progettati per 497 persone - con 903 come limite massimo tollerabile - si stipano 1.024 uomini e 67 donne. Un detenuto su quattro è tossicodipendente, la componente straniera sfiora il 63 per cento al maschile e supera il 58 al femminile. Le nazionalità rappresentate, in una babele di lingue e vissuti, arrivano a 52, contro quattro mediatori culturali. Per i detenuti cattolici i luoghi di culto interni abbondano. I molti islamici, salvo eccezioni legate al Ramadan, non hanno locali per la preghiera collettiva né un imam fisso. La Polizia penitenziaria è sotto di 200 unità. I tagli di risorse incidono in ogni settore, dall’istruzione alla riparazione dei furgoni blindati. I posti di lavoro interni - scopini, spesini, addetti alla “manutenzione ordinaria fabbricato”, cuochi, lavandai, barbieri... - sono più che dimezzati. “Ne restano 108 - dettaglia la direttrice - con turni ridotti, contratti a tempo determinato, stipendi abbassati di conseguenza”. Le quattro donne della sartoria al femminile, cantieri edili aperti e idee in divenire, cuciono dalle pantofole ai capispalla a pochi metri dal nido e dalla ludoteca, oggi senza bimbi, domani chissà. Però non hanno commesse dall’esterno, non guadagnano, disperano. E allora sabato 22 ottobre andranno fuori, in via Bassi e via Sauro, per presentarsi e chiedere aiuto. Agnes, 47 anni, fine pena nel 2014, dovrebbe essere del gruppo. Organista alle messe cantate, studentessa del Dams, divoratrice di corsi e stage, è lei a ricordare cioè che oltre queste sbarre sembra nulla, un dettaglio: “Il carcere toglie la libertà. E a me ha tolto anche la famiglia e la musica”. Bologna: ai detenuti non serve un garante poliziotto… di Massimo Pavarini La Repubblica, 14 ottobre 2011 Ho contribuito, con gli amici di Antigone, ad introdurre in Italia la figura del Garante dei diritti dei cittadini privati legalmente della libertà. Attraverso convegni, saggi e proposte normative e vincendo non poche resistenze, alla fine alcuni comuni sede di grosse carceri introdussero la figura del “ombudsman dei detenuti”. Negli intenti di chi lo propose, l’ombudsman è un cittadino nominato dalla comunità attraverso i suoi rappresentanti politici, che per autorevolezza di pensiero ed opere rassicuri le collettività della capacità di dare voce agli ultimi - i carcerati - che voce non hanno, prendendo quelle iniziative di informazione pubblica e di azione politica idonee a ridurre il deficit di tutela dei diritti che segna chi è privato legalmente della libertà. Si accede alla nomina a “garante” non per concorso e per meriti certificati, ma per designazione politica dei Consigli comunali, provinciali e regionali o per diretta cooptazione dei sindaci, presidenti provinciali e governatori regionali. E veniamo al caso cittadino: come chiunque mediamente informato, vedo un consiglio comunale in difficoltà, nonché la stessa maggioranza politica divisa. Al momento i candidati forti sembrerebbero tre. Un ex - questore e un avvocato proposti dalla maggioranza e un alto ex - funzionario dell’Amministrazione penitenziaria, proposto dall’opposizione. Dei tre, ne conosco personalmente solo uno, il dr. Nello Cesari, che è stato anche direttore alla Dozza, dirigente certamente solerte e competente dell’Amministrazione carceraria. Non ho motivo per dubitare che altrettanti attestati di solerzia e professionalità meritino i curricula degli altri due. Mi domando però: che c’entrano questi doverosi quanto scontati meriti professionali - ci mancherebbe che venisse proposto un incompetente - con la nomina a garante? Ora io sommessamente penso che chi ha ben meritato come questore vuol dire che è stato anche apprezzato per avere garantito l’ordine pubblico reprimendo la criminalità e aggiudicando i delinquenti a quella giustizia che infligge ai colpevoli la prigione; e chi ha eccelso nel governo delle carceri, abbia operato affinché dalle patrie galere non si evadesse. Apprezzabili meriti, ma che da soli non lasciano presumere alcuna vocazione a coprire il ruolo di garante di chi per tutta una rispettabile vita professionale ha cercato - doverosamente - di privare alcuni della libertà. Per quanto poi concerne il candidato avvocato, la questione già si era posta con il precedente garante, nota avvocatessa penalista: è assolutamente certo che l’attività professionale non interferisca con quella di garante? Nel caso precedente, l’avvocatessa Desi Bruno ha mostrato che è possibile. Ma una possibilità non equivale a certezza. E di nuovo si pone la questione: oltre ad essere avvocato, quali altri e diversi meriti per ricoprire il ruolo di garante dei diritti dei detenuti? A fronte di nessuna preclusione alla designazione di uno dei tre in competizione, è mai possibile che questo consiglio comunale non avverta che la questione è ben altra e che la divisa di super - poliziotto, quella di dirigente penitenziario o la toga di avvocato non possono in questa occasione e per questo servizio essere presentati come titoli di merito? Bologna: nomina Garante dei detenuti, anche l’Associazione Antigone critica il Comune La Repubblica, 14 ottobre 2011 La terna di nomi in ballottaggio contestata anche dai dirigenti nazionali e regionali dell’associazione, da oltre vent’anni in prima linea sul fronte della difesa dei diritti delle persone in carcere e delle garanzie del sistema penitenziario. Anche l’associazione Antigone, da oltre vent’anni in prima linea sul fronte dei diritti dei detenuti e delle garanzie nel sistema penitenzio, si inserisce criticamente nel dibattito e nelle polemiche sulla selezione dei candidati tra cui scegliere il Garante comunale per chi sta in cella. I responsabili nazionali e regionali. ricordando i contenuti della proposta di legge istitutiva di una authority nazionale, esprimono “forti perplessità sulla rosa dei nomi indicati in Commissione Affari istituzionali” di Palazzo d’Accursio. La terna predisposta, ricordano i dirigenti di Antigone, è composta da un ex funzionario di polizia, un ex funzionario dell’amministrazione penitenziaria e da un avvocato. “Particolarmente sorprendente” è ritenuta l’inclusione tra i papabili del ex numero uno del dipartimento regionale delle carceri ed ex direttore della Dozza, Nello Cesari, da poche settimane in pensione. “Ci pare che costui si possa ben trovare in situazioni di palese conflitto di interessi. I diritti delle persone detenute vanno garantiti innanzitutto nell’ambito dei rispettivi ruoli istituzionali attivi e non al temine di una carriera”. E ancora: “La figura del Garante deve essere una figura di di garanzia che non può essere ricoperta da soggetti che, per posizione istituzionale attuale o pregressa o per ragioni professionali, risultino evidentemente incompatibili in relazione al mandato da svolgere”. A sorprendere in negativo è l’idea “che a Bologna non vi sia altra figura proveniente dal mondo dell’accademia, dell’associazionismo, dell’impegno sociale che possa per competenza, professionalità, esperienza ricoprire quell’incarico”. Da qui l’appello a Palazzo d’Accursio, sempre da Antigone: “Chiediamo al comune di Bologna di soprassedere alla nomina qualora non intenda rivolgersi a figura che per storia, autorevolezza, indipendenza, impegno sociale sia realmente terza rispetto alle istituzioni e non una longa manus delle stesse”. Firenze: troppi detenuti a Sollicciano, superata di nuovo “quota” mille La Repubblica, 14 ottobre 2011 Nel carcere di Firenze la capienza è di 447 persone ma in questi giorni ci sono 1011 adulti e 6 bambini. Al sovraffollamento, nei penitenziari della Toscana, si aggiungono altri disagi come la carenza di benzina, di riscaldamento e personale. Superata quota 1.000 detenuti al carcere Sollicciano di Firenze. “È una situazione fuori controllo” dichiara Franco Corleone, garante per i diritti dei detenuti del Comune di Firenze. 1011 adulti e 6 bambini sono rinchiusi nella struttura carceraria, a fronte di una capienza di 447 persone. “In questi giorni il sovraffollamento sta assumendo proporzioni da record, dichiara Corleone, basti pensare che già oltre le 500 persone si è al limite”. “A questo si aggiunge il silenzio dell’amministrazione penitenziaria, continua il garante, anche per piccole riforme che potrebbero migliorare le condizioni di vita dei detenuti”. Come la possibilità di avere una tessera telefonica per chiamare i familiari o la costruzione di un supermercato per poter fare una spesa. Al sovraffollamento, denuncia Franco Corleone, “si aggiungono altri disagi come la disdetta delle forniture di gasolio a Montelupo e ad Empoli, la mancanza di benzina che ha provocato l’annullamento di processi a Sollicciano in questi giorni. E a San Gimignano dove i detenuti, per carenza di personale, non possono essere curati in ospedale”. Per Corleone una soluzione per ridurre il sovraffollamento potrebbe essere quella di far uscire il maggior numero di tossicodipendenti dalle carceri introducendo, “se la strada delle comunità dovesse essere troppo impervia, una legge sulla detenzione domiciliare per l’ultimo anno di pena”. “Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, conclude Corleone, “pensa a costruire nuove carceri invece di garantire i diritti. Bisogna inventarsi qualche forma di protesta e di denuncia originale”. Viterbo: conferenza stampa dei sindacati di polizia penitenziaria sulle criticità del carcere www.viterbonews24.it, 14 ottobre 2011 Sovraffollamento dei detenuti, carenza del personale, mancanza di un direttore titolare dell’istituto, presenza di detenuti psichiatrici acuti in una struttura non idonea e sovrannumero di detenuti Alta Sicurezza. Questi, in breve, i problemi che affliggono da tempo il carcere Mammagialla di Viterbo, oggetto della conferenza stampa all’ordine del giorno di oggi convocata dai rappresentanti delle organizzazioni sindacali. Due sono state le richieste degli enti sindacali della penitenziaria accolte dal sindaco Giulio Marini, nominare un direttore e aumentare il numero degli agenti. “La situazione - spiega Andrea Fiorini, Cisl - non è circoscritta al solo carcere di Viterbo, ma è un problema che riguarda l’Italia intera. Parlando in termini numerici, a Mammagialla sono presenti attualmente più di 740 detenuti, quando la struttura dovrebbe contenerli 444”. “Questa estate - continua Fiorini - è stato raggiunto il picco di oltre 750 carcerati, numero che si è sfoltito soltanto perché il tribunale a settembre ha ripreso le attività ordinarie. Oltre a non avere un numero adeguato di agenti per garantire il normale svolgimento delle operazioni, ad oggi più di 100 detenuti psichiatrici, di cui 20 “acuti”, occupano le unità dell’istituto viterbese che non è attrezzato per questo tipo di detenzione”. “La manifestazione di protesta “Insieme per Mammagialla” - spiega Luca Floris, segretario provinciale del Sappe - che abbiamo organizzato per lunedì 17 ottobre alle ore 10 e che partirà da piazza Verdi per arrivare a piazza del Plebiscito ha lo scopo di rendere note queste problematiche che riguardano la cittadinanza tutta e arrivare a soluzioni definitive come la nomina di un direttore in pianta stabile della struttura e un aumento degli agenti penitenziari. Il nostro motto è “Perché i nostri problemi di oggi non siano i problemi dei nostri figli domani”, a significare l’importanza della protesta per i futuro prossimo. Ringraziamo la mobilitazione politica che, dall’estrema sinistra all’estrema destra, ha raccolto le nostre richieste fornendoci un supporto e una collaborazione continui. Stiamo operando senza colori politici, ci troviamo esattamente a metà tra il sindacato e la cittadinanza”. L’istituto di Viterbo - dichiara Antonio Maffettone, segretario provinciale dell’Osapp - è tra i più pericolosi in Italia, è presente la delinquenza più radicata e questo costituisce un alto rischio per il territorio. Circa quattro fa giorni è stato sventato un tentativo di suicidio di un detenuto psichiatrico che avevamo espressamente chiesto di non “ospitare”. Gli agenti hanno anche questo come compito, salvare vite, e purtroppo non sono casi infrequenti; il fatto che questi episodi spesso non vengano resi noti dimostra, purtroppo, che rientrano nell’ordinario”. Aderiscono alla protesta anche Uil Pubblica Amministrazione Penitenziari e Cgil: “La situazione sta diventando incandescente, il personale è letteralmente impossibilitato a garantire le attività. Le amministrazioni prendono tempo, ma sono loro i diretti responsabili delle sorti di Mammagialla”. “L’organico degli agenti penitenziari - sostiene Daniele Micassini, Uil - deve essere aumentato e non soltanto di 20 unità perché queste ultime servirebbero solo a coprire l’anno in corso. Le statistiche dicono che ogni anno perdiamo 14 agenti. Questo significa che ci si trova a svolgere quotidianamente 2 o 3 incarichi lavorativi e, ovviamente, ne va del risultato finale”. “Accogliere detenuti con problemi psichiatrici a Mammagialla, costituisce anche un aggravo economico per i cittadini, aspetto da non sottovalutare: è la popolazione che paga gli psicofarmaci ai detenuti, e spesso questi diventano oggetto di mercato e di scambio tra i carcerati creando centri di potere, liti e quant’altro”. “Ulteriore problema - spiega Maffettone, Osapp - è la mancanza di fondi: siamo tutti a conoscenza dello stato di crisi che il nostro paese sta attraversando, ma le carceri, si sa, sono l’occhiello della civiltà, pertanto devono essere considerati una priorità. Sulla scia della manifestazione a sostegno di Mammagialla, abbiamo ricevuto comunicazione che il 18 ottobre è stata organizzata dai segretari del Sappe una protesta a Roma, a dimostrazione del fatto che a livello nazionale siamo tutti concordi nel denunciare la situazione”. “Quella del 17 ottobre sarà la più grande manifestazione che la polizia penitenziaria abbia mai organizzato. Vogliamo un corteo pacifico ma che sia efficace”. Roma: orchestrali in servizio come agenti penitenziari, il Sappe scende in piazza Il Velino, 14 ottobre 2011 Il sindacato protesta contro la “decisione assurda” dell’amministrazione penitenziaria lunedì 24 davanti al ministero della Giustizia. Si tratta di restituire al servizio d’istituto i componenti della banda per convocarli solo in prossimità di eventi Restituire al servizio d’istituto in carcere gli orchestrali della banda musicale della polizia penitenziaria per convocarli solo in prossimità di eventi musicali istituzionali. È la decisione choc dell’Amministrazione Penitenziaria, contro la quale scende in campo il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che terrà una manifestazione di protesta lunedì 24 ottobre davanti al ministero della Giustizia. “È una decisione assurda, l’ultima in ordine di tempo di una amministrazione penitenziaria sempre più matrigna verso le donne e gli uomini della polizia penitenziaria. La decisione di snaturare e smobilitare la Banda musicale del Corpo è semplicemente incredibile: gli orchestrali, tutti diplomati presso i Conservatori di musica italiani, verrebbero restituiti al servizio d’istituto in carcere, ma il bello è che rivestono un grado - ispettore - senza avere alcuna competenza tecnica operativa nel ruolo perché la loro è una insegna di rappresentanza. A cosa serve dunque smantellare la Banda musicale della polizia penitenziaria?”, si chiede il segretario generale del Sappe, Donato Capece, che aggiunge: “Lunedì 24 ottobre saremo in piazza davanti al Ministero della Giustizia, sotto le bandiere azzurre del Sappe, per protestare ancora una volta contro quella parte di dirigenza dell’Amministrazione penitenziaria che da vent’anni ostacola ogni evoluzione ed accrescimento professionale della Polizia penitenziaria. Porteremo in piazza l’ira delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria che, nell’indifferenza dei piani alti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, combattono ogni giorno - nella prima linea delle sezioni detentive delle carceri, a bordo dei mezzi che trasportano i detenuti, nelle sale degli ospedali in cui piantonano i detenuti ricoverati - le gravi criticità penitenziarie che si caratterizzano per il pesante sovraffollamento e la consistente carenza dei nostri organici. Uomini e donne che sono obbligati ad effettuare turni di lavoro straordinario senza vedersi corrisposti i relativi emolumenti economici ed a anticipare le spese nei servizi di traduzione, compiuti spesso su mezzi fatiscenti ed inadeguati”. Capece conclude che il Sappe chiederà al ministro Guardasigilli Palma di “commissariare il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, visto che il Capo Dipartimento Franco Ionta è Commissario delegato sul piano carceri - anche se fino ad oggi nulla di concreto si è visto su questo fronte - ed i burocrati del Dap si preoccupano solo della propria poltrona, gli stessi che hanno boicottato e boicottano subdolamente e costantemente una non più rinviabile, adeguata e funzionale organizzazione del Corpo di Polizia penitenziaria con l’istituzione della Direzione generale del Corpo, in seno al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, indispensabile e necessaria per raggruppare tutte le attività ed i servizi demandati alla quarta Forza di Polizia del Paese. Proprio per colpa dei burocrati dell’Amministrazione penitenziaria, la Banda musicale della Polizia Penitenziaria rischia di essere smantellata definitivamente”. La Spezia: in arrivo 15 nuovi agenti, per l’imminente apertura di nuove sezioni detentive Comunicato stampa, 14 ottobre 2011 Il Sappe incontra la Direzione del penitenziario spezzino e torna a sollecitare garanzie sulle condizioni lavorative della Polizia Penitenziaria. Dovrebbero essere 15 gli agenti di polizia penitenziaria che andranno a rinforzare il Reparto del carcere spezzino di via Fontevivo in vista dell’imminente apertura parziale della nuova sezione detentiva del carcere di La Spezia. È quanto riferisce il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, che questa mattina ha incontrato la Direttrice del penitenziario spezzino, Maria Cristina Bigi, in una riunione finalizzata ad esaminare la nuova organizzazione del lavoro dei Baschi Azzurri di Spezia. Spiegano Roberto Martinelli, Segretario Generale Aggiunto Sappe, ed Emanuele Frasca, Segretario Provinciale Sappe di Spezia: “Anche oggi, come già avevamo fatto il 26 settembre scorso nell’incontro con il Prefetto di Spezia, Giuseppe Fiorani, ed il Sindaco Massimo Federici, abbiamo tenuto a evidenziare come l’apertura di nuove sezioni detentive comporta inevitabilmente nuovi posti di servizio ed un aumento dei carichi di lavoro per il personale di Polizia Penitenziaria che, allo stato, non è in numero sufficiente. Oltre ai tradizionali posti di servizio nelle sezioni detentive vi saranno infatti evidenti ricadute nei servizi di traduzione e piantonamento, dalle visite ambulatoriali alla partecipazione delle udienze. Senza un concreto potenziamento di agenti, insomma, il Reparto di Spezia non sarà messo nelle condizioni di lavorare. Ed è del tutto evidente che una nuova e complessiva organizzazione dei servizi della Polizia Penitenziaria di Spezia è subordinata ad un concreto incremento di organico, come peraltro da noi rappresentato anche nell’incontro con il Prefetto ed il Sindaco. In questo contesto, nell’incontro di questa mattina, la Direzione del carcere ci ha assicurato che gli Uffici regionali e nazionali dell’Amministrazione penitenziaria hanno garantito l’arrivo a Spezia di 15 nuovi Agenti. Adesso si tratta di vedere se l’Amministrazione Penitenziaria rispetta la parola data, perché se così non fosse è evidente che verrebbero meno i livelli minimi di sicurezza necessari per aprire una nuova sezione detentiva”. I sindacalisti del SAPPE tornano a sottolineare che “l’organico attuale di Polizia Penitenziaria effettivamente amministrato è pari a 116 unità, 13 delle quali in forza al Nucleo Traduzioni e Piantonamenti. I detenuti presenti sono 173, rispetto ai 128 posti letto regolamentari. Con l’apertura parziale (2 piani) della nuova sezione vi sarà un incremento di 60 detenuti a capienza regolamentare. Noi anche oggi, come già fatto nell’incontro con il Prefetto ed il Sindaco di Spezia, abbiamo chiesto uomini per garantire l’apertura della nuova sezione e per permettere alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria di lavorare nelle più idonee condizioni di sicurezza”. Ferrara: finita la carta del fax, la compra l’Anm; senza erano a rischio le scarcerazioni Ansa, 14 ottobre 2011 L’Anm (Associazione nazionale magistrati) dell’Emilia-Romagna, ha acquistato di tasca propria, ricorrendo alle quote associative, la carta per il fax del Carcere di Ferrara, dopo che lunedì il direttore della Casa Circondariale aveva comunicato al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia e agli Uffici Giudiziari di tutto il distretto l’impossibilità di ricevere e trasmettere ogni tipo di fax per mancanza di carta. Una situazione a rischio denunciata per prima dalla Uil-Pa, che sottolineava come la mancanza del fax metteva a rischio le attività ordinarie, comprese le scarcerazioni, con comprensibili gravi guasti all’amministrazione della giustizia. “Attesa l’urgenza e indifferibilità della situazione, trattandosi di un servizio vitale per il normale andamento dell’attività degli Uffici Giudiziari (ordini di traduzione, scarcerazioni, ricezione di istanze e dei relativi esiti etc.), oltre che del carcere interessato - si legge nella nota - la Giunta distrettuale dell’Anm - ha provveduto oggi, in assenza di notizia di altri tempestivi interventi, ad acquistare con fondi propri, derivanti dalle quote associative, la carta necessaria per consentire la prosecuzione del servizio suddetto”. Roma: telemedicina a Regina Coeli, è la prima volta in un carcere italiano Adnkronos, 14 ottobre 2011 Per la prima volta in Italia la telemedicina entra in carcere. I detenuti di Regina Coeli affetti da problemi cardiaci possono, infatti, contare su un nuovo servizio di tele monitoraggio e teleconsulto specialistico gestito da una struttura di eccellenza, il Dea cardiologico dell’ospedale San Giovanni di Roma. Il progetto di telemedicina, proposto dall’ufficio del Garante dei detenuti del Lazio, è stato realizzato grazie al contributo della Regione e alla collaborazione del Dipartimento Regionale per l’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia e le aziende sanitarie romane San Giovanni - Addolorata e Rm/A. L’iniziativa è stata inaugurata questa mattina dal presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, alla presenza fra gli altri del Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, e del Direttore del carcere Regina Coeli, Mauro Mariani. Il progetto per Regina Coeli - dove ha sede un Centro diagnostico e terapeutico tra i più importanti d’Italia - intende ottimizzare il trasferimento dei detenuti/pazienti in ospedale, garantendo la riduzione dei costi e un servizio di qualità. “La novità della telemedicina è, infatti, quella di fornire valutazioni diagnostiche, notizie e prescrizioni prognostico - terapeutiche facendo viaggiare le informazioni anziché il paziente - si legge in un comunicato - All’interno del Centro Diagnostico del carcere è stata installato un elettrocardiografo connesso in rete con il reparto di Telemedicina del San Giovanni che consente di effettuare un teleconsulto specialistico internistico asincrono e un teleconsulto specialistico cardiologico sincrono in qualsiasi momento del giorno e della notte”. “Il progetto pilota - ha affermato la presidente della Regione Lazio, Renata Polverini - è un servizio innovativo, primo in Italia, che va nella direzione della prevenzione e della cura, e garantisce interventi di maggiore efficienza per i pazienti e di ottimizzazione nell’utilizzo delle risorse”. “Oggi vediamo nascere un servizio - ha invece affermato Marroni - a tutela del diritto alla salute e al miglioramento della qualità della vita dei detenuti, prerogative personali tra le più disattese in carcere. Le norme di legge sanciscono che detenuti e internati abbiano diritto all’erogazione di prestazioni sanitarie efficaci ed appropriate. Il ricorso ad uno strumento tecnologicamente all’avanguardia come la Telemedicina, permetterà di fornire cure a distanza, consentendo di limitare i costi di gestione e di evitare che la privazione della libertà personale possa costituire un ostacolo insormontabile all’accesso alle cure”. Cangemi: telemedicina a Regina Coeli segno di attenzione “Il progetto di telemedicina presentato oggi testimonia la concreta attenzione che l’attuale Giunta Polverini dedica al mondo dei detenuti, nel tentativo di rendere la loro permanenza nel carcere nel rispetto dei loro diritti. Il nuovo servizio di telemedicina all’interno di questo carcere, rappresenta un servizio innovativo, primo in Italia, perché per la prima volta la telemedicina fa il suo ingresso in un istituto penitenziario. È un progetto in cui abbiamo fortemente creduto, che la regione ha finanziato e realizzato su proposta del Garante dei detenuti del Lazio, e in collaborazione con il Dipartimento Regionale per l’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, la direzione del Carcere, l’Azienda ospedaliera San Giovanni - Addolorata e la Asl Rm/A”. È quanto ha dichiarato l’assessore agli Enti Locali e Sicurezza Giuseppe Cangemi durante la presentazione dell’innovativo progetto di telemedicina con Istituto Penitenziario di Regina Coeli. “Questo progetto pilota di telemedicina, si inserisce nella più ampia e complessa attività messa in campo da questa amministrazione per garantire i diritti dei detenuti: una attività che ci vede fortemente impegnati non solo per il diritto alla salute ma anche per la formazione, il diritto allo studio, il reinserimento lavorativo, la solidarietà. Ho visitato tanti istituti penitenziari con la Presidente Renata Polverini, in questi primi 18 mesi di governo, e abbiamo dato risposte quando la direzione carceraria ha evidenziato problematiche da risolvere. Il nostro impegno, insieme alla valida collaborazione del Garante, proseguirà su questa strada per continuare a migliorare le condizioni dei detenuti e degli agenti della polizia penitenziaria che operano nelle carceri” ha concluso Giuseppe Cangemi. Livorno: alle Sughere 264 posti, ma i detenuti sono 460 Il Tirreno, 14 ottobre 2011 A causa della mancanza di fondi per fare benzina ai mezzi della polizia penitenziaria, i detenuti non hanno potuto raggiungere i tribunali per le udienze. È successo a Firenze. Caso isolato? Non direi proprio. Alle Sughere la situazione è comunque critica. L’intero reparto di polizia penitenziaria, solo pochi giorni fa, si è trovato a dover affrontare l’arrivo di una quindicina di detenuti, provenienti da altri penitenziari. Un dato che non dice molto a chiunque non sia a conoscenza della pessima situazione del carcere livornese. A fronte di una ricettività tollerabile di 264 persone, la struttura, già di per sé fatiscente, ne ha accolte 460 l’8 ottobre. Come? Grazie all’ingegno degli operatori che, oltre ad improvvisarsi psicologi ed operai all’occorrenza, si sono inventati una soluzione emergenziale per garantire un posto letto di fortuna ai nuovi arrivati. E la denuncia più grande è quella che arriva dalla polizia penitenziaria: impotente e impreparata a controllare questi casi critici ed a garantire la sicurezza di chi, in carcere, c’è per essere rieducato e reinserito nella società e non certo per essere parcheggiato in stanze sovraffollate prive delle normali condizioni igieniche. Raccolgo, ancora una volta le comprensibili preoccupazioni degli agenti penitenziari e urlo, ad alta voce, la necessità di fare qualcosa. Marta Gazzarri Capogruppo Idv il Consiglio regionale Torino: Osapp; siamo grati al sindaco Fassino per visita a istituto penitenziario Agi, 14 ottobre 2011 “Non solo siamo contenti e ringraziamo Piero Fassino per la visita al carcere di Torino, ma auspichiamo che tale visita concorra a risolvere alcuni gravi problemi dell’istituto quali quelli della mancanza di acqua calda nelle caserme, dell’assenza di una navetta per il personale che conduca dal carcere alla metro di corso Marche, della mancanza di salubrità e igiene sui luoghi di lavoro (mancano detersivi e vi è presenza di pulci, ratti e scarafaggi) e della manutenzione stradale del tratto di via Pianezza che collega l’Istituto”. È quanto dichiarato da Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), in occasione della visita di oggi del sindaco Fassino, del presidente del consiglio comunale Giovanni Maria Ferraris e del garante dei detenuti Maria Pia Brunato all’istituto penitenziario di Torino Lo Russo e Cutugno. “Come sindacato - ha aggiunto Beneduci - abbiamo da tempo richiesto che in sede politica si provveda a conferire ai sindaci poteri di controllo e di iniziativa nei confronti delle carceri, analoghi a quelli sul territorio del Comune. Abbiamo anche richiesto e continueremo a richiedere che vi sia pieno riconoscimento normativo ai consiglieri comunali e ai garanti penitenziari sul territorio tenuto conto che l’attuale legge penitenziaria non riconosce poteri ispettivi e quindi la possibilità di accesso negli istituti di pena di alcuna di tali figure. Riteniamo - conclude il sindacalista - che Fassino possa fare molto anche per gli altri problemi che gravano sul già scarso contingente di polizia penitenziaria di Torino, quale l’incongrua sistemazione in carcere di soggetti che non sono detenuti e che magari escono dopo 24 ore a seguito delle udienze di convalida a cui dovrebbero essere accompagnati da chi opera il fermo o l’arresto e non dai poliziotti penitenziari, nonostante i 350mila euro spesi per la costruzione di apposite camere di sicurezza presso il commissariato di Corso Racconigi”. Trieste: morire in carcere… storia di Stefano e degli altri di Kenka Lekovich Il Piccolo, 14 ottobre 2011 Oggi si presenta il libro “Quando hanno aperto la cella” di Luigi Manconi e Valentina Calderone. Nonostante il titolo, “Quando hanno aperto la cella” (Il Saggiatore, pagg. 243, euro 19), che sarà presentato oggi, alle 17.30, all’Auditorium del Museo Revoltella, non è un libro sul carcere. Chi lo dice è Luigi Manconi, sociologo, già senatore, sottosegretario di Stato alla Giustizia e garante dei diritti delle persone private della libertà, che con Valentina Calderone, economista ricercatrice, lo ha scritto. “Un pugno nello stomaco”, scrive nella prefazione Gustavo Zagrebelsky, assestato a suon di storie, racconti di vita e di morte, di donne e di uomini vivi, entrati in quel braccio di ferro “tra chi dispone della forza e chi ne è a disposizione” - per uscirne morti. Non importa se colpevoli o innocenti; se dalla camera di sicurezza di un carcere, dalla finestra di una questura, dal cortile di un ospedale psichiatrico giudiziario o dal parco sotto casa. Vite umane, spesso giovani, giovanissime, di cui poco o niente sappiamo; riportarle alla luce, è ciò che vuole e dichiara, fin dal sottotitolo “Stefano Cucchi e gli altri”, questo libro il cui tema è altamente politico. “Politico perché riguarda il fondamento stesso della politica - spiega Manconi, - ossia il rapporto tra il cittadino e lo Stato, quella questione fondamentale della tutela dei diritti, delle garanzie, delle prerogative di tutti i cittadini, qualunque sia la loro condizione, anche di essere privati della libertà. Lo Stato trova la sua legittimazione morale e giuridica nel patto che stringe con i cittadini. Sta a dire che può chiedere al cittadino lealtà e ubbidienza fino a quando ne garantisce l’incolumità. E che diviene ancora più impegnativa e vincolante quando il cittadino si trova nelle mani dello Stato: in quel momento la sua vita è sacra. Scriviamo il libro perché la sacralità della vita del cittadino viene ripetutamente violata, subisce strappi, abusi, illegalità. Documentiamo questa rottura a opera dello Stato del patto stipulato con i cittadini”. Da Giuseppe Pinelli fino a Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Stefano Gugliotta e gli Altri. Non tutti, non basterebbe una vita a comporre la Spoon River di queste morti, che accadono con una frequenza tale da “non poter escludere una vera e propria strategia dell’abuso e della sopraffazione”. Quarant’anni fa come oggi, “quando la crisi del sistema della giustizia e del welfare”, prosegue Manconi, “ha portato a sostituire il sociale con il penale. Facendo del carcere, e di ogni altro luogo di privazione della libertà (un Cie, un Opg, gli stessi reparti detentivi degli ospedali), la principale agenzia di stratificazione sociale. Se guardiamo la popolazione detenuta, esclusi i criminali di media e alta pericolosità, tutto il resto - la stragrande maggioranza - è povertà, dipendenza, immigrazione, malattia. Persone ai margini e spesso oltre i confini del sistema dei diritti di cittadinanza, in balia delle istituzioni di controllo e della sindrome securitaria”. Un “j’accuse” impietoso, il libro, e che malgrado l’incomunicabile violenza, lo strazio da cui muove e di cui è intriso, non restituisce disperazione. “Il nostro non è un atto di denuncia generalizzato e indistinto”, dicono gli autori. “È una precisa presa di posizione basata su fatti, circostanze, nomi e cognomi. Atti giudiziari, referti clinici, perizie autoptiche, interviste ai parenti. Ma mai abbiamo detto, né lo hanno detto Ilaria Cucchi o la mamma di Katiuscia o l’amico di Pino Uva: buttiamo le bombe sulle prigioni, sciogliamo l’arma, diamo fuoco alle caserme. Né d’altro canto, il tono necessariamente emotivo reso dalle testimonianze dei familiari, in virtù di una chiara opzione narrativa, è quello della ragione del cuore contro la ragione di stato. È la determinazione di un cittadino che, a partire dalla consapevolezza di quello strazio, ingaggia una lotta - parola così estranea in apparenza, politica e democratica insieme, per affermare la propria piena cittadinanza”. Bergamo: sparò e uccise ladro in fuga, imprenditore condannato per omicidio volontario www.bergamosera.com, 14 ottobre 2011 Dovrà scontare otto anni di reclusione per omicidio volontario Antonio Monella, l’imprenditore cinquantenne di Arzago d’Adda che nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2006 sparò ad un ladro in fuga dalla sua abitazione, uccidendolo. Lo ha deciso il giudice per l’udienza preliminare Vittorio Masia. Il processo si è svolto con rito abbreviato. La vittima, Helvis Hoxa, cittadino albanese, aveva 19 anni. Il legale dell’imprenditore, l’avvocato Enrico Mastropietro aveva chiesto l’assoluzione per legittima difesa. La nuova legge prevede infatti che, in casi di violazione di domicilio, il proprietario dell’abitazione possa difendersi per tutelare la sua incolumità, ma anche agire contro l’aggressione ai propri beni materiali. Quella sera, Monella era in casa con la moglie e il figlio. Dopo aver sentito dei rumori e ha incontrato in corridoio un gruppo di malviventi, che gli avevano già preso le chiavi del Suv, parcheggiato nel cortile di casa. L’imprenditore ha imbracciato il suo fucile calibro 12, regolarmente detenuto, e sparato dal balcone. Il giovane albanese è stato colpito gravemente a un fianco, mentre si trovava sul Suv. Sanguinante, il diciannovenne ha raggiunto i suoi complici che, poco dopo, lo hanno abbandonato di fronte ad un bar di Truccazzano, in provincia di Milano. Hoxa è poi morto in ospedale. Le perizie balistiche di accusa e difesa hanno dimostrato che l’imprenditore non aveva mirato contro il malvivente in fuga. Per questo motivo il pubblico ministero aveva chiesto l’ “eccesso colposo di legittima difesa” e non l’”omicidio volontario”. Il giudice Bianca Maria Bianchi, invece, aveva rispedito gli atti alla procura, sostenendo che il reato da ipotizzare era l’omicidio volontario. Ieri la sentenza. Secondo il giudice, sparando dal balcone doveva mettere in conto che qualcuno dei malviventi avrebbe potuto morire. Inoltre, sempre secondo il giudice, i ladri, al momento della fuga, non stavano mettendo a repentaglio l’incolumità dell’imprenditore o dei familiari. E quindi non rientrerebbero nella legge sulla legittima difesa. Catanzaro: l’arte come strumento di riscatto… con il corso del laboratorio di aerografia Gazzetta del Sud, 14 ottobre 2011 Sfumature, mascherature, uso dei colori primati e studio degli elementi naturali. Soni state queste le tecniche di base che sei ragazzi dell’istituto penale minorile “Silvio Paternostro” hanno appreso nel corso del laboratorio di aerografia realizzato dall’artista catanzarese Santo Alessandro Badolato, in arte Bado, in collaborazione con l’Associazione Universo Minori. La conferenza stampa che si è svolta all’interno del Tribunale per i Minorenni è servita per presentare il percorso formativo della durata di 20 ore attraverso il quale i ragazzi hanno potuto apprendere una tecnica artistica del tutto inconsueta. Quello che è trapelato dai lavori realizzati dai ragazzi ed esposti dall’artista Badolato rappresenta il risultato di un lavoro di grande impegno e di motivazione nell’apprendimento di una tecnica ancora per molti versi poco conosciuta. L’aerografo (o aeropenna) infatti viene utilizzato per spruzzare vernici di vario tipo nebulizzandole tramite aria compressa. Viene usato in lavori di precisione per produrre linee molto sottili, campiture di colore uniformi e toni sfumati. Il presidente dell’Associazione Universo minori Rita Tulelli dopo aver parlato dell’importanza che riveste il ruolo dell’educatore all’interno dell’Ipm e delle pene che solitamente costringono i ragazzi dentro ad una cella ha detto che “il progetto è stato fortemente voluto e supportato dall’associazione per dare, attraverso questa attività artistica, una possibilità di reinserimento sociale e lavorativo ai ragazzi una volta che hanno finito di scontare la pena. L’apprendimento di questa tecnica molto nuova infatti, potrà consentire loro di spendersi a livello lavorativo anche all’esterno. L’incontro con l’artista inoltre - ha proseguito la Tulelli - è stato molto importante perché, durante il periodo estivo, ha dato ai ragazzi la possibilità di poter socializzare con una figura che non sia solo l’educatore e quindi avere rapporti umani e relazionali anche con il mondo esterno. Grazie a questo progetto abbiamo dato ai ragazzi una speranza in più per sentirsi meno soli una volta usciti fuori dal circuito penale”. Molto soddisfatto del lavoro svolto dal minori dell’Ipm si è detto l’artista Badolato. “L’obiettivo che mi sono prefisso - ha detto - è stato quello di far conoscere lo strumento ai ragazzi e far comprendere loro tutte le potenzialità dell’aerografo. Molti di loro non avevano una base di disegno o coloristica per cui siamo dovuti partire proprio dalle nozioni primarie. I minori hanno appreso l’uso dello strumento, hanno imparato ad utilizzare ed a miscelare i colori primari, le sfumature, le mascherature, fino a arrivare via via al controllo dell’aerografo con risultati superiori a quelli che mi sarei mai immaginato di vedere. In loro compagnia ho imparato molto. Sono partito da un’idea e poi strada facendo non ero io colui che insegnava ma sono diventato colui che apprendeva. Non si è trattato solo di un laboratorio artistico ma anche di un laboratorio umano”. Modena: sorveglianza al minimo, i ladri vanno a rubare nell’abitazione del comandante La Gazzetta di Modena, 14 ottobre 2011 Se non c’è abbastanza sorveglianza, i ladri riescono a entrare nel luogo che in teoria dovrebbe essere il più protetto e controllato. Svaligiata la casa del comandante del reparto di polizia penitenziaria nel carcere di Modena. Lo ha rivelato il segretario aggiunto del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe, Giovanni Battista Durante. “Abbiamo appreso - sostiene Durante - che pochi giorni è stato compiuto un furto nell’alloggio di servizio del comandante della polizia penitenziaria di Modena. Il furto, nella casa situata accanto al carcere, lascia sgomenti per l’audacia dei ladri che si sono avventurati in una struttura oggetto comunque delle continue attenzioni della polizia. Bisogna però evidenziare, purtroppo, come le condizioni di sicurezza siano ormai al limite della tollerabilità, anche in strutture come queste, dove, a causa della carenza di personale, non è possibile assicurare la sorveglianza esterna”. Messico: sette morti in rivolta carceraria dopo l’arresto di un boss del narcotraffico Ansa, 14 ottobre 2011 Le vittime sono detenuti rimasti coinvolti nella sommossa scoppiata nel penitenziario nello stato di Nuevo Leon dopo l’arresto di un boss del narcotraffico. Sette detenuti messicani sono morti in una rivolta in un carcere dello Stato di Nuevo Leon, probabilmente scatenata dall’arresto di un leader del cartello della droga Zetas, Carlos Oliva Castillo. Il portavoce della sicurezza locale, Jorge Domene, ha riferito che circa 60 detenuti della prigione vicina alla città di Monterrey hanno bruciato materassi e si sono attaccati a vicenda con lame improvvisate. Autorità federali e militari sono state convocate dopo che lo staff del carcere non è riuscito a sedare la rivolta. Domene ha spiegato che il motivo dello scontro è l’arresto di Castillo, probabile mandante del rogo al casinò di Monterrey che ha causato 52 vittime ad agosto. Norvegia: visita ad Halden, carcere a cinque stelle dove Breivik non è benvenuto di Emanuela Zuccalà www.corriere.it, 14 ottobre 2011 La tavola è apparecchiata con cura, tovaglioli bianchi e candele al centro. Il menu: polpette in salsa di ribes, crauti alla panna, cipolle caramellate, composta di prugne per dessert. “Non sapevamo del vostro arrivo, avremmo preparato qualcosa di speciale” si scusa Sylvia, insegnante di cucina piena di orecchini. E noi, pranzando con gli allievi detenuti che parlano un inglese perfetto, abbiamo già dimenticato di trovarci in un carcere di massima sicurezza, tra 250 criminali d’ogni specie che paiono docili come scolaretti. “Sono in vacanza” ride Karolis, un lituano condannato per spaccio, che stentava a crederci quando è arrivato qui: niente sbarre alle finestre; niente guardie cattive ma sorridenti giovani in divisa che girano in monopattino per i viali; atmosfera quieta, distante dalla tensione maleodorante che taglia l’aria delle galere. Siamo ad Halden, sudest della Norvegia, dentro quella che Time ha definito “la prigione più umana al mondo”. Quest’avanguardia del trattamento carcerario, inaugurata nell’aprile 2010 e costata un miliardo e mezzo di corone (quasi 200 milioni di euro), sorprende subito per l’armonia architettonica: il cemento sta fuori, nel muro di cinta nascosto dagli alberi; dentro solo legno e mattoni, vetrate, corridoi bianchi e arredi stile Ikea. I detenuti stanno in sezioni da dieci, ognuna con una sala - cucina dotata di maxi televisore e Xbox, divani, giochi da tavolo. Le celle sono singole, con televisore a schermo piatto, bagno privato, frigorifero, tastiere e chitarre per chi studia musica. Le due palestre e la biblioteca farebbero invidia ai migliori campus universitari. E nel verde c’è una casetta vera dove passare il weekend con i familiari, tra barbecue e giocattoli per i figli. “L’edificio è nuovo, ovvio che abbia ogni comfort” minimizza il direttore Are Hoidal. “Ciò che ci distingue è che qui ogni detenuto studia o lavora, ed è pagato 57 corone al giorno”. Circa sette euro, poco per la ricca Norvegia ma abbastanza per comprare sigarette e cibo in più (tre pasti al giorno li fornisce la prigione) nel negozio interno. La quotidianità è scandita: scuola o lavoro fino alle 15, cena (prestissimo, alle 16), poi le celle si chiudono per un’ora, giusto per ricordare che è pur sempre una galera. Sport in palestra o all’aperto, e alle 20,30 le celle si serrano fino al mattino. C’è una falegnameria dove si fabbricano mobili da giardino e culle per neonati, un’officina meccanica, un laboratorio di web design. Molti studiano per il diploma o per la laurea, altri imparano musica e riprese video, con cinquanta tra insegnanti, psicologi, assistenti sociali. Il concetto è: tutti devono uscire con un pezzo di carta per inserirsi nel mercato, che in Norvegia non conosce crisi. E la prigione aiuta nel collocamento. “Solo il 30 per cento dei detenuti sono stranieri” spiega il direttore “gli altri torneranno nella società norvegese: qui non esiste l’ergastolo, il massimo della pena è 21 anni, dunque ognuno potrebbe diventare il mio vicino di casa. E io non voglio un vicino rabbioso, che ha passato anni rinchiuso nell’ozio”. Funzionerà davvero un sistema così carezzevole? In fondo qui incontriamo grossi trafficanti di droga, assassini, pedofili... Anche se nella cucina bianca, mentre affetta peperoni, Kenneth che ha preso 18 anni per spaccio sembra solo un rampollo di buona famiglia un po’ annoiato: ad Halden si è iscritto a una prestigiosa università privata (settemila euro l’anno, paga il carcere) per laurearsi in “nuovi media”. E Jack, 23 anni, abuso su minore: quando lo senti suonare il piano ti chiedi dove sia evaporata la sua malvagità. E Chin, originario di Taiwan, accusato di essere il boss della droga di Oslo, immerso nello studio del marketing. In Italia a molti non piacerebbe un carcere tanto carente in afflizioni. Qui vince la logica dell’utilità: in Norvegia, a due anni dalla scarcerazione, solo il 20 per cento dei criminali torna a delinquere. Nel nostro Paese la recidiva è al 69 per cento forse perché, nelle galere affollate da 67mila detenuti, poco più di un quinto lavora. Allo Stato italiano ogni detenuto costa 113 euro al giorno; a quello norvegese, l’equivalente di 180: fatte le proporzioni di reddito pro capite, la Norvegia ottiene risultati migliori a un prezzo inferiore. Ad Halden gli agenti sono tanti, 290, tutti disarmati e per metà donne. Hanno una preparazione universitaria e, alla domanda: “Perché proprio questo mestiere?”, rispondono all’unisono: “Amo lavorare con la gente”. Lo dice Stine Rosten, 30 anni: “Qui è tutto nuovo, fresco. Vorrei solo poter passare più tempo con i detenuti per conoscerli meglio”. Già. Qui gli agenti giocano a freccette con i criminali, pranzano con loro, nei weekend accompagnano a sciare quelli della sezione tossicodipendenze. I detenuti apprezzano, ma ci ricordano che Halden resta carcere duro: solo venti minuti di telefonate a settimana, una visita di mezz’ora (ma in stanze private con lavandino, asciugamano e preservativi), le guardie sempre accanto. “Che lavoro facevo prima? spacciavo anfetamine” sorride Robert, che ne avrà fino al 2016. Qui dirige il programma Radio Inside, in onda su un’emittente locale: “È un talk show: in Norvegia non era mai esistita una trasmissione radio interamente confezionata da detenuti”. Tema della prima puntata: Anders Behring Breivik, l’estremista dagli occhi lividi che il 22 luglio ha massacrato 77 persone tra Oslo e l’isola di Utoya. È molto probabile che verrà ad Halden, terminato l’isolamento nel carcere di Ila. Il direttore si irrigidisce, smentisce, ma qualche agente osserva che c’è un’unica prigione, oltre a questa, con un livello di sicurezza adatto a Breivik, e si affaccia proprio su Utoya, l’isola insanguinata: chiuderlo lì sarebbe un sadico contrappasso. I detenuti di Halden, che hanno mandato corone di fiori ai parenti delle vittime, stanno in allerta. “Noi siamo criminali ma lui è diverso, è un’altra cosa” dice Robert. E Peter, anche lui dentro per spaccio: “Non si è mai pentito: devono trovare il modo di rinchiuderlo a vita”. In casi molto gravi, pochi finora, in Norvegia si prolunga la pena oltre i 21 anni. Ed è ciò che ci si aspetta per Breivik. “Mi sforzerei di restare professionale con lui, ma certo non ci giocherei a backgammon come con gli altri” ammette l’agente Stine. “Riabilitare una persona del genere” aggiunge Linn Andreassen, 23 anni “sarebbe una sfida per me e per l’intero sistema penitenziario norvegese”. Difficile però pensare che, dopo un soggiorno ad Halden, persino uno come Breivik si trasformerà nel vicino di casa che tutti vorremmo.