Il diario di Elton: “Il pericoloso richiamo della bella vita” Redattore Sociale, 10 ottobre 2011 “Sicuramente anche nel mio paese questo mito continua a inquinare la mente di tanti giovani, destinati a emigrare e forse a riempire le galere” Padova, 11 ottobre 2011 - L’altro giorno ho telefonato a casa. Mia madre non sta più sulla pelle dalla gioia di vedermi, finalmente, libero. Quando i miei genitori sono venuti a sapere che ero in carcere si sono letteralmente ammalati. Non si sarebbero mai aspettati un figlio in galera, loro che si sono sempre ritenuti persone dalla correttezza e onestà inattaccabili. Ricordo che, appena finito il liceo, ho festeggiato il mio diciannovesimo compleanno a Tirana e dopo dieci giorni ero già in Italia. Il paese della “bella vita” che tanto avevo sognato. Sogni di cui sono lastricati i corridoi di questa galera, che sto per lasciare. Anche se da qui sembra che la “bella vita” sia diventata un modello da inseguire a tutti i costi, sono cosciente che mi attende una prospettiva diversa, senza le belle macchine, le belle donne e le feste che continuano ad animare i sogni di molti ingenui, dentro e fuori le galere, dentro e fuori l’Italia. E mentre penso che forse dovrò alzarmi all’alba per andare a lavorare e dovrò faticare per comprarmi un paio di jeans in più o per portare a cena una ragazza, mi torna in mente l’Albania della mia infanzia: intorno a me una società con poche ricchezze e i miei genitori che, con massima “naturalezza”, lavoravano, studiavano, passavano le serate leggendo romanzi e facendo progetti sul mio futuro. Quello che ritroverò ora sarà un paese che sfoggia un’opulenza cui solo una piccola parte può accedere. Come quella che ho trovato in Italia prima della galera. Forse le persone che incontrerò staranno combattendo con la povertà o forse mi troverò in mezzo a gente abituata a sfoggiare le proprie ricchezze, mentre io, a trentacinque anni, non potrò permettermi altro che pranzare e cenare dai miei genitori. Tuttavia, mi incoraggia l’idea che questa esperienza mi sarà d’aiuto per affrontare i problemi in modo ragionato, senza cercare quelle scorciatoie che portano noi comuni mortali direttamente in carcere. Sicuramente anche nel mio paese il mito della bella vita continua a inquinare la mente di tanti giovani, destinati a emigrare e forse a riempire le galere. Mentre io, vittima in passato della stessa ubriacatura, rimpiango gli anni in cui si stava peggio, ma perlomeno non c’era questa mania di accumulare sempre più denaro per realizzarsi, per essere qualcuno che conta. Senza la mania della “bella vita” non c’erano nemmeno così tante persone disposte a rubare, a spacciare o a rapinare come ci sono oggi. E forse anch’io, nonostante la ferma convinzione di “rigare dritto” nella legalità, faticherò a restare immune da questo desiderio di un pò di “bella vita”, dopo tanta vita orribile da galera. Elton Kalica (in collaborazione con Ristretti Orizzonti) Elton è un 35 enne albanese, detenuto nel carcere Due Palazzi di Padova con una condanna a 14 anni e 8 mesi per sequestro di persona a scopo di estorsione (senza armi e durato due giorni). Il prossimo 25 ottobre finirà di scontare la sua pena e tornerà libero. Firma storica della rivista Ristretti Orizzonti, attende di sapere se sarà rimpatriato in Albania o se potrà restare in Italia e lavorare da esterno per Ristretti. Ha deciso di raccontare su “Redattore sociale” i suoi ultimi giorni dentro. Tante domande per una “sana” curiosità sui reati, sulle pene, sul carcere Il Mattino di Padova, 10 ottobre 2011 Riparte, con il sostegno del Comune di Padova e della Casa di reclusione, il progetto di confronto tra scuole e carcere, che coinvolge moltissime scuole, di Padova e non solo. Sono davvero tanti gli studenti che hanno cercato di scandagliare in questi anni ogni dettaglio della vita in carcere, ogni sfumatura dei sentimenti di chi vi è rinchiuso, per cercare di trarne delle riflessioni su come si può facilmente avere dei comportamenti che escono dai limiti consentiti e mettere a rischio la vita propria e degli altri. Quelle che seguono sono alcune delle domande che gli studenti pongono, sempre profonde, vivaci, raramente banali, e le risposte di alcuni detenuti. Come ti sei sentito al momento dell’arresto? Chiaramente male, molto male soprattutto perché non ho mai fatto veramente una scelta precisa delinquenziale, quindi il mio ultimo arresto è legato ad una ricaduta rovinosa con la droga, durata circa un mese e mezzo, dopo due anni nei quali, nonostante tutte le avversità, ero riuscito a non drogarmi. La prima sensazione appena rientrato in carcere è stata di totale fallimento esistenziale, ci ero ricaduto di nuovo e questa volta non ne sarei uscito facilmente. Agenti ed ex compagni ironizzavano sul fatto che fossi stato nuovamente arrestato. Ogni volta è sempre così, lunghi corridoi con finestre sbarrate in alto, muri fatiscenti con infiltrazioni di acqua in molti posti e poi la sezione con i suoi odori caratteristici, i suoi lavori di riparazione mai finiti o mai cominciati, i colori che son sempre cupi (ciò che domina è un color rosso scuro tipo sangue raggrumato). Sezioni che posto di contenere 100 detenuti ne hanno ben 200 negli stessi spazi, un incubo di disperazioni varie e più o meno consce di quello che si è commesso. Appena entrati, anche se non è la prima volta, è sempre come se lo fosse! (Filippo F.) Sei pentito di ciò che hai fatto, che ti ha portato qui? Se sì, quanto tempo è passato prima di pentirtene? E cosa è successo, perché è avvenuto il pentimento? Una cosa sono le chiacchiere, dire o scrivere in maniera strumentale “sono pentito”. Altra cosa è riuscire a fare un percorso di presa di coscienza interiore, rivisitando a ritroso la propria vita, ed operare nel presente e muoversi diversamente da come si è fatto in passato. Comunque si, sono pentito ma ciò non cambia lo stato delle cose odierne. Ed anche se generalmente cerco di vedere in modo critico ciò che per anni mi sono ostinato a fare, in alcuni momenti ho come la sensazione di aver pagato decisamente troppo, ma anche di aver buttato alle ortiche diverse vie di uscita che mi si sono presentate nel corso degli anni. (Filippo F.) Se dovessi uscire domani, avresti paura di ciò che ti aspetta fuori? La paura di uscire dal carcere dopo tanto tempo esiste e non la si può sconfiggere, si è consapevoli di dover affrontare numerose difficoltà dopo essere stati per molti anni lontani dal mondo. La tecnologia ha fatto passi da gigante e tu sei rimasto indietro, molte cose non le conosci, altre non le hai mai viste, alcune sai che esistono solo per sentito dire. Sai che avrai dei problemi a relazionarti con le persone, prima eri un giovane e ti ritroverai uomo, senza la dovuta esperienza, ad esempio prima ti rapportavi con una ragazza giovane, dopo anni di carcere il tuo confronto dovrà essere con una donna ed il timore di non esserne all’altezza è reale. Chi non ha più i propri cari, o la famiglia, perché molto spesso il carcere disgrega il nucleo famigliare, è consapevole di trovare attorno a sé il deserto, e non è facile da coltivare un terreno arido per farlo rifiorire (Enos M.) Cosa ti spinge ad accettare così spesso di incontrare giovani e, magari, di sentirti rivolgere domande che vanno a rivoltare il tuo vissuto? Mi spinge il desiderio di confrontarmi con altre persone. Vorrei tanto che il mio comportamento sbagliato potesse essere d’aiuto ad altri. Sono consapevole che quasi sempre l’esperienza delle persone non serve ad altre, perché se così fosse, non ci sarebbero più guerre da molti anni, perciò ognuno farà le proprie esperienze, però spero che i miei sbagli possano almeno far riflettere prima di commettere determinate azioni. (Enos M.) Se ti sei sentito in colpa, sei riuscito a perdonare te stesso? Io non riuscirò mai e poi mai a perdonare me stesso, e penso che non ci sia modo di farmi desistere da questa idea, anche perché devo vivere tutta la vita con questo rimorso ed è un peso che mi porterò sempre appresso, lo vivo male, è brutto che tutte le sere e tutte le mattine fisso il soffitto e ripenso all’accaduto e mi chiedo sempre se le cose non sarebbero potute andare in maniera diversa. Se quel fatidico giorno fossi andato a finire sotto una macchina era meglio, forse avrei meno problemi di quelli che ho adesso, perché quando commetti un omicidio non puoi e non riesci mai a venirne fuori, la cosa ti perseguiterà per tutto il resto della vita, ed un’altra cosa che penso è che sia meglio stare qui dentro, piuttosto che uscire e dover guardare tutti i giorni i tuoi figli in faccia e dover abbassare lo sguardo per la vergogna di quello che hai fatto e che non sai spiegare, non c’è modo di poter spiegare un fatto simile. Lo so che può sembrare vigliaccheria, ma per adesso la penso così, poi un domani si vedrà. (Santo N.) Hai mai ricevuto e/o dato un abbraccio da quando sei stato recluso? Certo che ho dato un abbraccio da quando sono recluso, vi posso dire che forse al contrario di fuori ne ho dati molti di più qui dentro, anche perché quando siamo liberi certi valori li perdiamo o non gli diamo più tanta importanza, comunque tutte le volte che faccio colloquio o che esce alla fine della pena qualcuno di noi, ovviamente lo saluti con affetto specialmente se ci hai passato assieme una buona parte della tua carcerazione e si è instaurato un bel rapporto di amicizia, certo che non può essere così con tutti, in carcere si impara ad essere diffidenti verso tutto e tutti, cosa che penso poi, purtroppo, ti porterai fuori nel mondo esterno (Santo N.) Cosa si prova a stare isolati da tutto? Per chi come me è entrato in carcere a 54 anni, dopo una vita precedentemente regolare, avendo raggiunto tutto quello che una persona può desiderare, dopo aver formato una famiglia, lavorato per 35 ani, sentendomi utile a me stesso e soprattutto agli altri, di colpo trovarsi catapultato in un mondo sconosciuto, isolato, recluso non è affatto una cosa facile da sopportare. L’essere privato della libertà in tutti i sensi non ti fa più sentire una persona umana. Ti senti impotente, per ogni cosa devi chiedere agli agenti. E per quello che hai lasciato all’esterno devi poter contare su parenti, amici, avvocati. Tu non puoi disporre di nulla. Se la condanna supera i cinque anni viene dichiarata la tua interdizione legale e dai pubblici uffici, devi nominare un tutore e tutto deve passare attraverso decisioni del giudice tutelare (Ulderico G.) Le visite di familiari, amici, persone legate affettivamente, provocano dolore? Le visite di familiari, parenti, amici, possono durare in totale sei ore al mese. Di primo mattino ti poni in attesa di essere chiamato con una certa ansia in corpo, la voglia e contemporaneamente la paura dell’incontro. Non sai quali notizie ti verranno riportate e tu cosa dirai a loro; spesso mi preparo anche biglietti dove annoto cose che mi vengono a mente nei giorni precedenti. Prima dell’ingresso in sala colloquio si è sottoposti a perquisizioni, stessa cosa anche per i visitatori. Finalmente le porte si aprono e c’è la ricerca del volto della persona che ancora non sai se è un parente, un amico, un collega. L’incrocio degli sguardi fa scattare il sorriso, la felicità dell’incontrarsi, abbracciarsi e sedersi ad un tavolo e poter rientrare in contatto con chi prima ti era vicino “fuori”, e da cui sei stato separato. Certamente cerchi di non sovraccaricare le situazioni di negatività, come per voler salvaguardare la tranquillità delle persone care. La parte più dura è l’inesorabile fine del colloquio che si avverte appena senti aprire la porta con la chiave che gira nella toppa. Guardi l’orologio: è già passata l’ora. Ci si riabbraccia, ci si risaluta con un sorriso, ma poi oltrepassata la porta che conduce ai vari piani delle celle il sorriso si spegne e ti prende nella sua pienezza l’amarezza, lo sconforto: non puoi più stare con loro come facevi prima di entrare in carcere. Poi ti devi convincere che questo malessere lo devi allontanare perché in ogni caso non puoi che continuare a vivere in questa realtà. Bisogna reagire per sopravvivere, per arrivare alla fine della pena con la speranza di ritrovare l’unione con chi sta fuori. Devi convivere con il dolore che è senza dubbio vivo da entrambe le parti, anche se mai dichiarato negli incontri, per non farsi del male a vicenda (Ulderico G.) Giustizia: i 25 anni della legge Gozzini; con le misure alternative meno affollamento e recidive Ansa, 10 ottobre 2011 Le misure alternative sono fondamentali per ridurre il sovraffollamento in carcere ma anche come misura di contrasto alla recidività. “Gli ultimi dati dimostrano come le recidive siano solo il 19% tra coloro ai quali sono state applicate misure alternative mentre raggiungono il 68% per i detenuti che invece sono rimasti in carcere”. Lo ha affermato Alessandro Margara, ex responsabile del Dap ed ex presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, oggi garante dei detenuti per la Toscana, che ha partecipato alla tavola rotonda organizzata dall’associazione “Antigone” a 25 anni dalla legge Gozzini sulla funzione rieducativa della pena. Le carceri in Italia sono sempre più affollate e molto ancora si deve fare per applicare le misure alternative e rieducare chi sbaglia in nome dei principi enunciati dalla stessa legge Gozzini, è stato sottolineato nella tavola rotonda. La necessità di una depenalizzazione, di intervenire con più misure alternative è il punto di partenza sul quale si è incentrato il dibattito a cui hanno partecipato, oltre al presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, tra gli altri, Gaetano Pecorella (Pdl) intervenuto sulla necessità di una riforma strutturale della politica sul crimine e del codice penale. Anche il vice capo vicario del Dap Emiliano Di Somma ha sottolineato che mai come ora le carceri sono state così affollate nonostante i tentativi di riforma in tal senso. Presente all’incontro anche lo scrittore - giudice Giancarlo de Cataldo che a margine ha evidenziato come una riforma che mira alla depenalizzazione e misure alternative debba passare anche da “un lavorio culturale di fondo per far capire alla gente la convenienza di un sistema di carcere minimo e i rischi della carcerizzazione della società”. Giustizia: nelle disastrate carceri italiane niente soldi, niente cibo di Andrea Spinelli Barrile Notizie Radicali, 10 ottobre 2011 Nelle disastrate carceri italiane a mancare non è più solo la legalità degna di uno Stato democratico, ma anche il cibo: è quanto si legge in una circolare choc emanata la scorsa settimana dal Dap, in cui si apprende che cominciano a mancare i soldi per l’acquisto del “rancio” ai detenuti. L’allarme è partito dalla direzione penitenziaria del carcere Dozza di Bologna (1.200 detenuti in 450 posti letto), davanti al quale si è tenuto, sabato scorso, un presidio organizzato dal Sappe per protestare contro le condizioni di lavoro e di vita dentro la struttura emiliana. “I fondi per il vitto quotidiano (3.65 euro pro capite al giorno per detenuto per colazione, pranzo e cena) sono praticamente esauriti”, ma i problemi economici sono evidenti per ogni nota di spesa ordinaria: benzina per gli automezzi (che significa rinuncia, per il detenuto, alla presenza nelle aule dibattimentali), materiali di pulizia, cibo ed acqua, “per non parlare delle somme che l’Amministrazione deve al personale di polizia penitenziaria da circa diciotto mesi”. Le notizie che giungono dalle carceri sono sempre più agghiaccianti, in barba al piano carceri e ai processi politici ai Radicali : in un comunicato stampa la Uil-pa Penitenziari denuncia la situazione igienico sanitaria del carcere di Sollicciano “in cui si è accertata una importante presenza di zecche dei piccioni” e, viene denunciato, per questo motivo “si è dovuto procedere alla chiusura preventiva e cautelare per la disinfestazione di una sala colloqui ubicata presso l’infermeria del carcere”. 68.000 detenuti a fronte di 42.800 posti disponibili rappresentano per l’Italia tutta “orrore e vergogna” parafrasando il Capo dello Stato; orrore e vergogna che, denunciano gli operatori, sono corridoi senza uscita, vista la disastrata situazione economica dell’Amministrazione carceraria (150milioni di euro di debiti, denuncia Uilpa), che impedisce il raggiungimento degli obiettivi della Carta Costituzionale, costringendo la realtà carceraria all’illegalità, ad un ammasso di carne umana nel degrado di celle luride e fatiscenti. Numeri che parlano da soli ed inquietano le anime di chi sta fuori: se i detenuti fossero 43mila, l’organico previsto per la Polizia Penitenziaria sarebbe di 45mila unità; oggi, a fronte di 68mila detenuti, si contano 37mila unità, di cui 2.500 impiegati in strutture non detentive. Il ricorso alla Cassa Ammende da parte del Presidente del Dap Franco Ionta, per la risoluzione ed il tamponamento delle spese più urgenti, sono gocce nel mare. Il rischio è che vengano a mancare anche queste gocce, con il prosciugarsi del fondo della Cassa Ammende. I sindacati chiedono chiaramente al ministro Nitto Palma di fronteggiare tale dramma economico stornando i fondi dal Piano Carceri ad un piano di manutenzione straordinaria e di automazione (meno carceri ma più funzionali). I Radicali urlano “Amnistia” . Ma la politica fa poco o nulla per questa barbarie. Giustizia: Evangelisti (Idv); restituiamo mezzi e dignità alla polizia penitenziaria Adnkronos, 10 ottobre 2011 Restituire risorse in favore di una più efficiente operatività delle forze dell’ordine e della polizia penitenziaria. È questo il senso dell’interrogazione al Ministro dell’Interno Roberto Maroni depositata oggi alla Camera dei Deputati dall’on. Fabio Evangelisti, segretario Idv Toscana, dopo che, la scorsa settimana, al Tribunale di Arezzo sono saltati tre processi proprio a causa della mancanza di benzina, che ha impedito il trasferimento di tre imputati dal carcere fiorentino di Sollicciano. “I rappresentanti del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Seppe, avevano già denunciato questo rischio nel luglio scorso, quando erano saltate le convenzioni per la fornitura di carburante con la Q8”, spiega Evangelisti. “Ma evidentemente niente è cambiato e al Ministero dell’Interno continuano a fare orecchie da mercante. Si vede che Maroni è più preoccupato da questioni fondamentali come l’indipendenza della Padania, o l’impunità il suo datore di lavoro, Berlusconi, con il processo lungo e non trova il tempo e le risorse per garantire l’operatività delle forze dell’ordine”. “Di questo passo la giustizia in Toscana rischia la paralisi”, aggiunge Evangelisti. “Il budget già ridotto del Nucleo traduzioni di Sollicciano aveva visto ulteriormente scarseggiare le proprie risorse poiché ai problemi legati al sovraffollamento del carcere di fiorentino si erano aggiunti quelli dovuti alla presenza di tutti gli arrestati del tribunale di Arezzo. Anche a Prato, Pistoia e Livorno si apprende vi siano situazioni di gravi difficoltà con richieste di aiuto in quanto i consumi di carburante sono aumentati mentre gli stanziamenti sono rimasti gli stessi e in più ora la Q8 ha deciso appunto di non erogare più benzina”. “Oltre a questi problemi contingenti - conclude Evangelisti - il Nucleo traduzioni di Sollicciano ha noti e antichi problemi relativi alla manutenzione dei propri mezzi di trasporto: molti sono omologati come euro zero e la maggior parte hanno già percorso centinaia di chilometri. Inoltre, hanno le gomme lisce, il controllo dei freni inesistente. Sono, insomma, in una condizione di incuria e di abbandono: proprio come questo Governo del non-fare”. Giustizia: Sarno (Uil-Pa); ministro Palma visiti gli istituti di pena senza preavviso… Agenparl, 10 ottobre 2011 “Il Ministro della giustizia ascolti le nostre proposte e visiti gli istituti di pena senza preavviso, solo cosi si renderà conto della disastrosa situazione in cui sono costretti a operare gli agenti della polizia penitenziaria”. Lo ha detto Eugenio Sarno, Segretario generale della Uil-Pa, intervenendo alla trasmissione “Cittadini in divisa” condotta da Luca Marco Comellini, Segretario del Pdm, che andrà in onda questa sera alle 23.30 su Radio Radicale”. “Sarno ha anche invitato il Ministro a stornare parte dei 600 milioni di euro accantonati per il “piano carceri” a favore di opere di ripristino e automazione degli istituti di pena esistenti prima che questi crollino in attesa della realizzazione di quelli nuovi”. Nel Corso della trasmissione Comellini ha anche voluto ricordare, con la presenza in studio delle ormai famose sagome dei “poliziotti accoltellati alle spalle”, il trattamento che il Governo sta riservando fin dall’inizio della legislatura a coloro che indossano una divisa con l’emanazione di provvedimenti, come la “specificità”, che si sono poi rilevati essere solo “propaganda” a cui hanno fatto eco i pesanti tagli di bilancio e il blocco degli stipendi e delle indennità per coloro che servono lo Stato in divisa e che spesso pagano con la vita la loro fedeltà alle Istituzioni. Comellini ha quindi rivolto l’invito a partecipare alla trasmissione al generale Domenico Rossi, presidente del Cocer interforze in corsa per la nomina al vertice dell’Esercito e al generale Raggetti, presidente del Cocer carabinieri al quale - ha detto Comellini - di voler rivolgere molte domande sulla disastrosa condizione dei diritti dei militari ormai privati di ogni “utile” rappresentanza”. Lo dichiara Luca Marco Comellini, Segretario del Partito per la tutela dei Diritti di Militari e Forze di polizia (Pdm). Giustizia: i miei figli picchiati in questura… il processo contro i poliziotti verso l’archiviazione di Cinzia Gubbini Il Manifesto, 10 ottobre 2011 Due ragazzi, figli di un polizotto, finirono in ospedale dopo un fermo. Gli agenti dicono di essere stati aggrediti. Parla la madre di Nicolò e Tommaso: “Voglio giustizia, ma temo un’archiviazione”. “Quando sono arrivata l’ho visto in piedi, che sputava sangue, ho urlato ‘che siamo, in America?’, mi sembrava uno di quei film”. La signora Simonetta Cordella ricorda tutto di quella notte del 2 aprile del 2009. Ricorda soprattutto la telefonata del figlio Nicolò, 25 anni: “Correte in questura, hanno ammazzato mio fratello”. Sono momenti che nella memoria sembrano durare ore, in realtà tutto si è svolto in una trentina di minuti. Lei e suo marito corrono giù in strada, abitano a due passi dalla questura: “Sono un collega, vado alle volanti”, dice il marito della signora esibendo il tesserino. Perché il padre dei due ragazzi, è Walter De Michiel, ispettore capo della polizia di frontiera di Venezia. Quando i coniugi De Michiel arrivano nel chiostro della questura di Santa Chiara, la situazione è surreale: Tommaso, 23 anni, ha il labbro spaccato, un occhio pieno di sangue, fatica a respirare, ed è circondato da almeno dieci poliziotti, racconta Simonetta. Ha bevuto, ma soprattutto è spaventato, alterna pianti a urla: “Non mi picchiate più adesso, non mi picchiate perché ci sono i miei genitori?”. Intanto da dietro una porta sentono la voce dell’altro figlio: “Ho aperto la porta a vetri, l’ho visto seduto, ammanettato anche lui, ma a una sbarra. Ero una furia”. In ospedale Tommaso avrà una prognosi di venticinque giorni, che diventeranno quaranta: ha due costole rotte, una tumefazione al torace, il labbro spaccato e lo scroto annerito, con tracce di sangue nell’urina. Lo tratteranno quella notte. A Nicolò è andata meglio: quattro giorni di prognosi. “Tic, tac, tic, tac”, scrive Simonetta sul gruppo Facebook nato due anni fa “Per non dimenticare”. Vuol dire che il tempo sta per scadere. Le indagini sono aperte da due anni e mezzo, la famiglia De Michiel teme un’archiviazione. Forse anche per questo, l’altra sera a Padova, durante una serata sulle vittime di Stato, a cui partecipavano Patrizia Moretti e Lucia Uva - madre e sorella di due ragazzi uccisi dopo un fermo di polizia - si è alzata e ha raccontato questa storia, che il giornalista Filippo Vendemmiati ha rilanciato sul sito di Articolo21. In città la vicenda dei fratelli De Michiel se la ricordano un po’ tutti. Lì per lì ha fatto scalpore, ma con il tempo le cose sembrano essere un po’ cambiate. La versione della polizia parla di un intervento per sedare una rissa, di due ragazzi molto agitati che hanno aggredito i poliziotti, tanto da ferirne cinque. E in quanto ai fratelli De Michiel in molti sussurrano che siano due teste calde. Eppure ci sono ancora un paio di cose da sottolineare in questa storia tutta da chiarire. Intanto c’è una testimone, una donna che ha assistito al fermo dei due fratelli. È stata ascoltata dall’avvocato della famiglia, ma non ancora dal pm che segue le indagini. La donna dice di aver visto i due ragazzi discutere, ma che certo non si trattava di una rissa. Quando sono arrivati i poliziotti - erano a bordo di una volante lagunare - si sono fermati per chiedergli i documenti, e subito hanno avuto un “confronto” con Tommaso, che era senza documenti. “Porta rispetto”, gli dicevano i poliziotti. E lui: “Se non me lo porti tu, non te lo porto neanche io”. Finisce che Tommaso viene portato sulla barca e lì si ribella: sono pugni e calci per ammanettarlo. La testimone era alla finestra di casa sua, e avrebbe gridato: “Ma che fate a quel ragazzo?”. Un agente avrebbe risposto: “Ha qualcosa da dire, signora?”. I due fratelli finiscono in questura, e lì comincerebbe la “rieducazione” del riottoso Tommaso. Il testimone è il fratello, che viene subito ammanettato alla sbarra: vede un poliziotto dare un calcio potentissimo a Tommaso sullo scroto. Il ragazzo cadere a terra e il poliziotto mettergli un piede sulla testa: “Hai finito di rompere i coglioni?”. Nicolò urla di lasciarlo stare, e allora tocca a lui: un poliziotto gli dà due calci negli stinchi e esce chiudendo la porta. È a quel punto che Nicolò, cercando di raggiungere la maniglia della porta, si mette la mano in tasca alla ricerca di qualcosa che possa aiutarlo. Trova il cellulare e chiama i genitori. E ancora: quella notte a Tommaso e Nicolò viene notificata solo una denuncia per ubriachezza manifesta. Solo in seguito Simonetta saprà che sia lei che i figli sono stati denunciati per resistenza a pubblico ufficiale, e Tommaso anche per lesioni. E poi: due giorni dopo il fatto, alcuni ragazzi organizzano una manifestazione. Tommaso prende il microfono, il padre lo vede in difficoltà e interviene. Dice che si dissocia dal comportamento di quei poliziotti, ma che la polizia è fatta di persone perbene. Per aver preso quel microfono, l’ispettore De Michiel è stato deferito alla Commissione disciplinare con l’accusa di manifestazione non autorizzata, oltraggio al corpo di polizia e pure omissione di atti di ufficio. Perché lui doveva sapere chi aveva organizzato la manifestazione, che poi si è chiusa con qualche “disordine” davanti alla questura, e avrebbe dovuto avvertire la polizia. All’inizio è stata condannato al licenziamento, poi commutato in una più “morbida” sospensione per sei mesi a mezzo stipendio. Un’ultima cosa: Tommaso ha un processo in corso per lesioni, perché un militante di Forza Nuova lo ha riconosciuto tra le persone che lo hanno picchiato il 12 maggio 2009, anche se altri ragazzi presenti non lo ricordano. È il giorno dopo la scadenza della prognosi. Davvero un facinoroso, questo Tommaso: appena tornato al lavoro si butta subito in una rissa. Facinoroso o no, uscire con quaranta giorni di prognosi da una questura italiana merita qualche approfondimento. Basilicata: le carceri sono una vergogna, serve un accordo tra ministero e regione www.basilicatanet.it, 10 ottobre 2011 Il consigliere regionale di “Io Amo la Lucania” nell’annunciare la visita alla casa circondariale di Potenza per giovedì 13 ottobre, auspica un accordo tra il ministero di Giustizia e la Regione. “Si parla molto della proposta di consentire maggiormente il ricorso alle misure alternative alla detenzione al fine di adeguare il numero dei detenuti alle capienze regolamentari degli istituti penitenziari. Bisogna dare allora effettività agli strumenti che realizzano tale condizione”. È quanto sostiene il consigliere regionale Alfonso Ernesto Navazio evidenziando che “il movimento politico “Io Amo la Lucania” si pone tra i suoi obiettivi quello di affrontare da vicino il fenomeno del sovraffollamento all’interno degli istituti penitenziari ed è per questo che giovedì 13 ottobre, mi recherò presso la casa circondariale di Potenza”. “La mia non sarà una passerella politica - afferma Navazio - ma un prendere consapevolezza della situazione locale e procedere poi, con dati alla mano, verso un percorso che coinvolga il governo regionale”. “Sono trent’anni che in Italia non c’è un dibattito vero sulla questione, malgrado da altrettanti anni i Radicali, in particolare, si battono per una riforma necessaria a tutto il Paese ‘per uscire dall’illegalità’. E sono anni che, a livello regionale, la questione rimane aperta solo sotto forma di qualche slogan politico. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano - ricorda il consigliere - in un’intervista a Rai News 24 del 3 ottobre scorso, definì la situazione delle carceri italiane “una vergogna per il paese, la sentiamo tutti anche come umiliazione per l’Italia, quando veniamo condannati a livello europeo perché non sono degne di esseri umani le carceri sovraffollate, come sono oggi sovraffollate. Noi non possiamo dormire tranquilli”. “ Nel condividere pienamente le parole del Presidente, ritengo doveroso - sottolinea Navazio - come cittadino prima e nelle funzioni di consigliere regionale poi, tentare di rimediare ad una programmazione sociale troppo generale, carente di progettazione, in cui si proclamano i livelli essenziali di assistenza ma non si spiegano le risorse, gli obiettivi, le azioni e le responsabilità dei risultati. La questione investe le competenze della Regione in materia di interventi sociali, formativi e lavorativi; le misure alternative alla detenzione si traducono in programmi di rieducazione ed inclusione sociale dei detenuti”. Il 27 aprile scorso tra il ministero della Giustizia e le Regioni si è stipulato l’Accordo Interregionale Transnazionale “Interventi per il miglioramento dei servizi per l’inclusione socio - lavorativa dei soggetti in esecuzione penale”. “Le procedure di attivazione dell’accordo quadro - suggerisce Navazio - possono essere avviate solo attraverso la definizione ed approvazione di uno specifico Accordo tra il ministero di Giustizia e la Regione”. “Ad oggi - ricorda il consigliere - la Regione Basilicata non ha ancora programmato un accordo in tal senso e tanto meno ha predisposto una programmazione sociale che tenesse almeno in considerazione la possibilità di collaborare con il Ministero della Giustizia, per alleggerire il disagio nelle carceri. Basta dare un’occhiata alla proposta del Piano regionale della Salute e dei Servizi alla Persona 2001 - 2013 per accorgersi dell’assenza totale di interesse per il problema”. “Le carceri lucane sono sovraffollate di circa cento detenuti”. A tal proposito, il Presidente di Io Amo la Lucania sostiene quanto sia “facile capire come l’avvio di accordi progettuali con il ministero della Giustizia per l’assegnazione alle misure alternative alla detenzione di qualche decina di detenuti, per i quali vi sono le condizioni di legge, risolverebbe almeno in parte il problema di affollamento”. “Tuttavia - aggiunge Navazio - non dimentichiamo che circa un sesto dei detenuti è in attesa del primo giudizio, evidenziando la complessità delle cause del sovraffollamento, talune, insite nel sistema giustizia che ha difficoltà a rendere una risposta tempestiva”. “La prepotente urgenza non può essere disattesa. La via dell’amnistia può essere il traino per far decollare tutte le riforme necessarie. La partitocrazia è ferma ed impaurita, rinvia al dopo. Noi stiamo tentando di fare la nostra parte” conclude Navazio. Toscana: manca la benzina, bloccato il servizio traduzioni dalle carceri alle aule del tribunali L’Unità, 10 ottobre 2011 Senza benzina, stop alle udienze. È paralisi del sistema sicurezza. La denuncia dei sindacati Sappe e Uil. Finiti anche i fondi per il vitto dei detenuti e le pulizie. Per la prima volta la mancanza di fondi provoca uno stop reale nei servizi di giustizia e sicurezza. Per mancanza di benzina non è stato possibile portare nelle aule di Tribunale i detenuti e sono saltate 16 udienze. In qualche modo, nonostante tutto, finora sono andati avanti. C’è chi s’è portato da casa l’auto, il computer, la stufetta e persino la carta igienica per riscaldare e rendere abitabili caserme gelate in cui dovevano lavorare anche tutta la notte. Di recente il fenomeno fai-da-te riguarda i giubbotti antiproiettile, il modello ultra light detto camicia, decisamente più maneggevole rispetto alla corazza in dotazione: i poliziotti lo acquistano con i propri soldi; chi è più fortunato e riesce ad averlo, capita che lo debba prestare “per esigenze di servizio al centro”, leggi Roma, la capitale. Per non parlare della carta per le fotocopie e dei toner per le fotocopiatrici: mancano dappertutto, questure, procure, caserme. Al blocco vero, grave, all’impossibilità di svolgere un servizio pubblico delicato ed essenziale, non si era però ancora mai arrivati. È successo in Toscana, nei giorni scorsi, tra Arezzo e Firenze: gli agenti del servizio traduzioni della polizia penitenziaria, quello che si occupa di trasportare i detenuti dal carcere ai tribunali e alle aule bunker per i processi, si sono presentati dal benzinaio per fare il pieno al cellulare ma il distributore non aveva più i buoni benzina. Blocco totale per 72 ore. “Sono saltate 16 udienze e tre visite in ospedale” spiega Eugenio Sarno della Uil-Pa Penitenziari. “Il servizio del nucleo di polizia penitenziaria di Firenze è ripreso a pieno alle 12 di venerdì 7 ottobre - spiega Sarno. Il blocco delle attività di 72 ore è stato causato dall’impossibilità di effettuare il pieno agli automezzi per mancanza di fondi. Quanto accaduto a Firenze è il più eloquente degli esempi di quanto può succedere su scala nazionale se non si provvede immediatamente a finanziare i capitoli di bilancio. Siamo di fronte ad un concreto rischio di paralisi dell’attività giudiziaria”. Non è stato un blitz. Meno che mai una provocazione. Nessuno degli agenti si è permesso di giocare con alibi o con la carta della non collaborazione. L’allarme era già scattato a luglio: anche allora erano finiti i soldi per il carburante e la Q8, convenzionata con il carcere di Sollicciano, aveva bloccato le speciali carte di credito che consentono al Nucleo traduzioni di fare benzina. La situazione si era sbloccata. Tre mesi dopo si è riproposta, identica. È stato dato di nuovo l’allarme il 5 ottobre quando le agenzie di stampa hanno riportato il comunicato del Sappe, il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria. “Stamani - si legge sui lanci del 5 ottobre - sarebbero saltati cinque trasferimenti di detenuti dal carcere di Sollicciano, mentre per domani si paventa il blocco totale dei servizi se nelle 24 ore non verranno stanziati i fondi necessari per l’acquisto di carburante”. “Parrebbe - affermava Francesco Falchi, vicesegretario regionale per la Toscana del Sappe - che ancora una volta e con ciclicità ormai preoccupante, la spa convenzionata con l’amministrazione penitenziaria per i servizi di erogazione carburante sia esposta così notevolmente tanto da indurre una perentoria chiusura delle pompe di carburante”. “Le conseguenze indotte dall’insolvenza dell’ amministrazione penitenziaria - scriveva il Sappe - hanno già causato oggi (il 5, ndr) gravissimi disagi al sistema giudiziario e si registrano sospensioni di udienze in diversi tribunali”. È stato un grido d’allarme chiaro, preciso sulla “sostenibilità dell’ intero sistema carcerario” e alla luce delle “enormi difficoltà finanziarie con cui l’intero paese è chiamato a confrontarsi” e che sta “mostrando i primi concreti e tangibili segni di cedimento”. C’era quindi tutto il tempo per intervenire. Nessuno lo ha fatto. Ed è arrivato il blocco. Analoghi allarmi, in queste settimane, riguardano “i fondi praticamente esauriti per il vitto dei detenuti” e “i materiali di pulizia per le celle”. Il tutto di fronte alla piaga del sovraffollamento carcerario arrivato ad oltre 67 mila contro 46 mila posti disponibili. La polizia penitenziaria “è fortemente preoccupata che il futuro possa riservare tensioni e disordini se non verranno seriamente risolti i punti cruciali del sistema carcerario”. Il segretario Silp-Cgil: modello legalità stravolto servono anni per riprendersi La mancanza di benzina per i furgoni cellulari che trasportano i detenuti e la relativa cancellazione delle udienze fa il paio con i poliziotti che devono andare a chiedere in regalo risme di carta alle banche per poter compilare le denunce dei cittadini. O con le radio delle forze di sicurezza che in certe aree del sud non funzionano, e quindi gli operatori non possono comunicare o restano isolati, perché non ci sono i soldi per aggiustare i ponti radio. Siamo alla paralisi organizzativa di due settori come la sicurezza e la giustizia che sono i pilastri di uno stato di diritto”. La denuncia si ripete, identica da tre anni ormai. È il numero dei disservizi che aumenta. E le relative conseguenze del danno. Che portano, appunto, alla paralisi. Come è successo nelle ultime 72 ore in Toscana con il servizio traduzioni della polizia penitenziaria costretto allo stop per mancanza di buoni benzina. La conseguenza è che non sono state celebrate udienze in direttissima con detenuti. Claudio Giardullo, segretario nazionale del Silp-Cgil della polizia, parla di “una piaga” che provoca “un danno enorme al sistema paese Italia”. Perché? “Gli indici di legalità sono elementi primari, con la liquidità delle banche, gli indici di occupazione, del prodotto interno lordo e del debito pubblico, nella valutazione di affidabilità del sistema paese. Chi viene ad investire in un paese dove i processi non finiscono mai e non c’è controllo del territorio?”. Eppure nel 2008, anche se può sembrare un secolo fa, sicurezza e legalità sono stati cavalli di battaglia nella campagna elettorale del centro-destra. “Dal 2008 al 2013 sono stati tagliati tre miliardi al comparto sicurezza e altrettanti a quello giustizia. Non credo che il governo non se ne renda conto. Credo ci sia invece molto cinismo: tutti avranno notato che la sicurezza non è più un problema della politica, non se ne parla più, spariti indici e dati. È un governo che minimizza la realtà. E poi si ritrova Roma con 27 omicidi dall’inizio dell’anno, regolamenti di conti tra clan e mafie”. La crisi economica, di per sé, è un grave danno per le aziende e un vantaggio per il crimine organizzato a cui non fa mai difetto, ad esempio, la liquidità. Il governo, la politica, cosa fanno? “Il paradosso è che assistiamo al ritiro delle istituzioni sia sul fronte, più diretto, del controllo del territorio sia su quello della conoscenza dei meccanismi e delle presenze criminali. Voglio dire che 40mila operatori in meno tra le cinque forze di polizia - polizia, carabinieri, finanza, penitenziaria e forestale - entro il 2013, è un numero che stravolge il modello di sicurezza. Taglia professionalità, presenze sul territorio, esperienza. Ci sono cose che si vedono subito, le auto senza benzina, e altre che invece noti solo dopo, quando in genere è troppo tardi. La verità, ripeto, è che si sta distruggendo un modello di sicurezza. Serviranno anni per rimetterlo in piedi”. Si leva acqua al modello di sicurezza pubblico, dello stato, in favore di un modello privato? “C’è stato, ed è in corso, anche questo tentativo. Clamoroso è stato il fenomeno delle ronde private, fallito. Sono stati privatizzati alcuni servizi nei porti, aeroporti, stazioni. Questo va bene se però si tiene fermo il punto del modello di sicurezza pubblico, competente e centralizzato. Per fortuna la fermezza del Capo dello Stato e alcuni interventi parlamentari delle opposizioni hanno sventato progetti folli. Di recente anche membri del governo, lo stesso ministro Maroni e il sottosegretario Crosetto, hanno alzato la voce”. Giardullo, manca benzina, carta, personale. Poi? “Il personale sta acquistando con i propri soldi i giubbotti antiproiettile. Usano auto private per i pedinamenti. Oggi in una città come Roma escono 12 - 13 volanti per turno con 2 agenti. Vent’anni fa erano 24 - 25 con tre agenti. Non ci deve stupire se nelle periferie non passa mai una volante”. Puglia: Sappe; mancato pagamento dei servizi di missione, anche 18 mesi di arretrato www.turiweb.it, 10 ottobre 2011 Stanno pensando di incatenarsi davanti ai cancelli di ingresso degli Istituti penitenziari, oppure attuare uno sciopero della fame, i poliziotti penitenziari in servizio presso la maggior parte degli Istituti della Regione per protestare per il mancato pagamento dei servizi di missione che in alcuni casi arriva ai 18 mesi di arretrato. Il ritardo dei rimborsi vuol dire che i lavoratori sono costretti ad anticipare somme di tasca propria, togliendole dal proprio bilancio familiare, per assicurare la continuità dei servizi , (soprattutto traduzioni dei detenuti) che ogni giorno vengono effettuati. Il Sappe per bypassare tale situazione, attraverso il proprio studio legale aveva ottenuto centinaia di decreti ingiuntivi contro l’Amministrazione Penitenziaria, per ottenere i pagamento dovuti, Purtroppo però, nonostante ciò la situazione rimane drammatica. Per questi motivi nei prossimi giorni il Sappe incontrerà i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria sia a livello Centrale che Regionale per cercare di trovare una soluzione alla questione che investe centinaia di Poliziotti Penitenziari pugliesi che per serietà professionalità, e grande attaccamento al dovere continuano ad anticipare parte delle somme, togliendole da proprio bilancio familiare, al fine di non creare disagi o disservizi che potrebbero portare a situazioni pericolose per la sicurezza dei cittadini. Qualora un accordo non verrà trovato, il Sappe quale sindacato più rappresentativo in accordo proprio con i lavoratori, porrà in essere tutta una serie di iniziative clamorose in tutti gli Istituti della Regione da Lecce a Foggia, da Taranto a Trani, da Brindisi a Trani, da Turi a San Severo, non escludendo l’incatenamento simbolico davanti ai cancelli di ingresso degli Istituti, scioperi della fame, oppure sit-in davanti alle sedi Istituzionali per portare all’attenzione dell’opinione pubblica questa ulteriore grave problematica che investe il sistema penitenziario pugliese, già al collasso per il sovraffollamento di detenuti , per la situazione di fatiscenza delle strutture, per la grave e cronica carenza di organici di Polizia Penitenziaria. La rabbia sta per esplodere e qualora non ci saranno risposte positive da parte dell’amministrazione penitenziaria, verranno poste in essere iniziative clamorose tese a far conoscere l’opinione pubblica in quali gravi situazioni si è costretti a lavorare per assicurare sicurezza e legalità. Federico Pilagatti Segretario Nazionale Sappe Sassari: detenuto di 23 anni ucciso in carcere da una “overdose” di gas La Nuova Sardegna, 10 ottobre 2011 Morire in carcere, dove gira liberamente una droga “povera”, l’unico tipo di sostanza per cui la produzione e la vendita non costituisce reato. Fabrizio Piras, 23 anni di Sassari, è deceduto venerdì notte in una cella di San Sebastiano a seguito di una “overdose” di gas inalato dalla bomboletta di un fornellino da campeggio. E sulla sua morte è mistero, perché ci sono le versioni contrastanti dei cinque compagni di cella. Diversi i dubbi da chiarire. “Soffocamento per dilatazione dell’epiglottide”, ha detto dopo i primi sommari accertamenti il medico legale Francesco Lubinu. Ma il magistrato titolare dell’inchiesta, Gianni Caria, ha disposto l’autopsia che sarà effettuata domani mattina all’istituto di Patologia forense. Sotto sequestro la cella, sigillata dagli investigatori del Servizio investigazioni scientifiche. Le indagini sono state affidate ai carabinieri della compagnia di Sassari e del Reparto operativo. L’obiettivo è accertare la verità, capire che cosa è successo e definire eventuali responsabilità. Stabilire con certezza se si è trattato di un incidente, se il giovane detenuto ha assunto il gas dalla bomboletta per stordirsi, come sonnifero per tentare di dormire e provare a sopportare il disagio del vivere in una cella degradata e sovraffollata. Se ha fatto tutto da solo, senza la partecipazione di terze persone. Se ha sbagliato perché era inesperto. In ogni caso, fino a quando l’inchiesta non sarà conclusa, non si può bollare come incidente o suicidio un decesso che potrebbe non essere tale. La tragedia poco prima delle 22.30, in una delle celle al primo piano del vecchio carcere di via Roma. Sei detenuti, alcuni guardano la tv, altri propongono una camomilla prima di andare a dormire. Fabrizio Piras è in carcere da poco meno di un mese, non gradisce la tisana rilassante. Dice che preferisce prepararsi lui una camomilla doppia, prende il fornellino e compie pochi passi verso il bagno. È lì che solitamente i detenuti cucinano il cibo. Da questo momento le testimonianze dei compagni di cella diventato contrastanti, tanto che ci sono diversi aspetti da chiarire. E il sostituto procuratore della Repubblica Gianni Caria non vuole sorprese: troppo recente la vicenda di un altro detenuto, Marco Erittu, morto in una cella d’isolamento. Vicenda inizialmente archiviata come suicidio, salvo poi scoprire - a distanza di anni - che l’uomo era stata ucciso. Sono stati arrestati presunto esecutore, mandante e altri complici (tra i quali anche un agente della polizia penitenziaria). La storia di Fabrizio Piras, però, è diversa. Alcuni compagni di cella raccontano di averlo visto uscire barcollante dal bagno, quindi cadere a terra privo di sensi. Altri - tra i quali un cugino della vittima - hanno invece riferito di essersi preoccupati perché il ragazzo non tornava dal bagno, la porta era socchiusa. E quando sono andati a controllare se c’era qualche problema l’avrebbero trovato rigido, con gli occhi sbarrati, incapace di muoversi. Come se fosse un robot, tanto che sulle prime hanno pensato a uno scherzo. Invece era tutto terribilmente vero: Fabrizio Piras aveva la bava alla bocca. Sono scattati i soccorsi, tra urla e concitazione: massaggio cardiaco e respirazione. Operazioni di rianimazione alle quali avrebbe preso parte anche la guardia di servizio al piano. Fabrizio, però, non reagiva, da qui la decisione di trasferirlo in infermeria dal medico di guardia e dove - secondo quanto si è appreso - sarebbe arrivato già morto. Nessun segno di colluttazione sul corpo che possa fare pensare a una azione violenta. Un mistero. L’ipotesi privilegiata dagli investigatori è quella del “fatto incidentale”. Si aspetta l’esito dell’autopsia e si valutano le dichiarazioni dei compagni di cella. Perché quelle versioni differenti? Gli stessi effetti dell’eroina: il butano e le sniffate dei detenuti..- “Gas galeotto”, lo chiamano così in carcere. È il butano delle bombolette che girano liberamente per le celle. Anzi, in molti casi sono consentite anche le scorte. È la droga dei poveri, capace di provocare gli stessi effetti dell’eroina. Sniffing, il fenomeno si chiama così. Non ha statistiche, è una sorta di fantasma che ha già ucciso parecchie volte nelle galere italiane. I detenuti possono acquistare le bombolette di gas, il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sanno che se ne fa altro uso, oltre quello di cucinare i cibi. Insomma, la prassi dello sballo è conosciuta. Ma la sostituzione con le piastre elettriche non è mai avvenuta. Il ministero si è limitato a una circolare inviata ai direttori delle carceri: si suggerisce di fare firmare ai detenuti una liberatoria quando acquistano le bombolette. Come dire: se capita qualcosa è colpa vostra. Problema risolto. Messina: un nuovo “caso Cucchi”?; interrogazione di Rita Bernardini su morte detenuto romeno www.clandestinoweb.com, 10 ottobre 2011 La deputata radicale, Rita Bernardini, ha depositato un’interrogazione a risposta scritta ai ministri dell’Interno, della Difesa, della Giustizia e della Salute per chiedere informazioni in merito al detenuto rumeno della casa circondariale di Gazzi. Bernardini, sul suo blog, ha pubblicato il testo integrale che serve a far luce su una vicenda che ha ancora dell’oscuro e che potrebbe far pensare ad un nuovo “Caso Cucchi” a Messina. Ecco il testo integrale dell’interrogazione sul blog di Rita Bernardini: “Premesso che: lo scorso 6 ottobre l’agenzia di stampa Agi ha diramato la notizia relativa alla morte di un detenuto romeno che durante l’arresto si sarebbe fatto male da solo “sbattendo più volte il viso sul pavimento”; Marcel Vitiziu, 30 anni, ristretto nella casa circondariale di Gazzi, a Messina, è morto lunedì 3 ottobre per arresto cardiaco, mentre in ambulanza veniva trasferito al Policlinico; l’uomo era stato arrestato il venerdì precedente dai carabinieri in una rivendita di tabacchi di Camaro Inferiore. Al momento dell’arresto sarebbe stato ubriaco e si sarebbe scagliato contro i militari con calci e pugni, tanto è vero che, secondo alcuni, i carabinieri sarebbero riusciti a mettergli le manette con molta fatica e che, ciò nonostante, Marcel Vitiziu sarebbe riuscito ugualmente a divincolarsi perdendo l’equilibrio, cadendo e sbattendo il viso sul pavimento. Vista la situazione, per metterlo sull’ambulanza sarebbe stato addirittura necessario legarlo alla lettiga e ammanettarlo. Al pronto soccorso dell’ospedale “Piemonte” l’uomo viene sedato e giudicato guaribile in 30 giorni atteso che lo stesso presenta lesioni al naso ed all’arcata sopraccigliare. Viene trasferito in carcere poco dopo la mezzanotte; il giorno seguente, alle 11, sull’uomo, che nel frattempo era stato portato di nuovo in ambulanza al Policlinico e sottoposto alla Tac, è stato rilevato un trauma cranico-facciale, la rottura del setto nasale e un edema; condotto in carcere, le condizioni di Marcel Vitiziu peggiorano e domenica due ottobre, alle 8.18, viene sottoposto al Policlinico ad un’altra Tac che conferma la diagnosi precedente. Ma nonostante le sue precarie condizioni di salute, dopo gli esami di rito, viene riportato nuovamente in carcere; lunedì 3 ottobre, alle 9.30, il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Messina, dott. Massimiliano Micali, non riesce nemmeno a convalidare l’arresto a causa delle gravi condizioni psicofisiche in cui versa il detenuto portato al suo cospetto; nel corso della stessa giornata, alle 11.15, l’uomo ha un arresto cardiaco mentre un’ambulanza corre verso il Policlinico. Inutili i tentativi di rianimarlo: a mezzogiorno viene dichiarato il decesso; sulla vicenda la Procura della Repubblica territorialmente competente ha avviato un’inchiesta: quali siano le cause esatte del decesso dell’uomo; da dove eventualmente derivino e da che cosa siano state provocate le lesioni interne patite dal detenuto, se da traumi o da percosse; se la morte del detenuto sia stata provocata da lesioni interne non correttamente diagnosticate tra venerdì sera (momento dell’arresto) e lunedì mattina (momento del decesso); per quali motivi l’uomo che al momento dell’intervento dei carabinieri stava dando in escandescenze, oltre ad essere ubriaco e visibilmente sovraeccitato sia stato portato in carcere in stato d’arresto per resistenza a pubblico ufficiale e non invece sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio”. Dopo l’autopsia sul detenuto romeno restano i dubbi L’autopsia sul detenuto romeno Marcel Vizitiu morto lunedì, tre giorni dopo le ferite riportate durante le concitate fasi dell’arresto da parte dei carabinieri, a Messina, non ha sciolto i dubbi sollevati dal suo difensore d’ufficio Giuseppe Serafino sulle cause del decesso. L’esame autoptico è stato eseguito dal medico legale di Agrigento, Cettina Sortino, che solo tra 60 giorni e dopo gli esami istologici e tossicologici, potrà rispondere ai quesiti posti dal sostituto procuratore Federica Rende. Il romeno che non parlava l’italiano, completamente ubriaco, venerdì sera era stato arrestato per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale in una rivendita di tabacchi nel rione di Camaro Inferiore. A fatica i carabinieri erano riusciti a mettergli le manette ma nonostante ciò lui era riuscito a divincolarsi - questa la versione ufficiale dei militari - e cadendo aveva sbattuto il viso sul pavimento, fratturandosi il setto nasale. Era stato sedato al pronto soccorso dell’ospedale “Piemonte” e trasferito nella casa circondariale di Gazzi; quindi per tre volte era stato portato al Policlinico per sottoporlo alla Tac che aveva evidenziato anche un trauma cranico-facciale e un edema. Lunedì a mezzogiorno il 30enne è deceduto mentre, in ambulanza, veniva trasferito al vicino pronto soccorso del Policlinico dopo un attacco cardiaco. Serafino chiede di sapere perché, visto il suo stato psicofisico (ubriaco, era andato in escandescenze aggredendo i militari) “è stato arrestato e portato in carcere invece di sottoporlo a trattamento sanitario obbligatorio”. Non solo, i referti delle Tac effettuate al Policlinico hanno evidenziato il trauma cranico-facciale, la rottura del setto nasale e un edema mentre il decesso sarebbe stato provocato da lesioni interne “non correttamente diagnosticate”. “Quelle lesioni - si chiede il legale - da chi o da cosa sono state provocate? Dalla rovinosa caduta sul pavimento o da eventuali percosse durante o dopo l’arresto?”. Lunedì mattina il gip Massimiliano Micali dovrà comunque convalidare l’arresto del romeno per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale prima di restituire gli atti alla procura che archivierà quest’aspetto per “sopravvenuta morte del reo”. Palermo: all’Ucciardone condizioni disumane, la denuncia della Cisl-Fsn di Luca Mangogna Quotidiano di Sicilia, 10 ottobre 2011 Servizi igienici guasti senza sapone né asciugamani e muffe alle pareti. Il sindacato ha iniziato una battaglia per la chiusura dei padiglioni fatiscenti. La situazione dell’Ucciardone, specialmente dal punto di vista igienico-sanitario, è altamente drammatica e coinvolge tutte le persone che sono costrette, per detenzione o per lavoro, ad averci costantemente a che fare. Un water per gli agenti di custodia che è ormai in stato di deterioramento, spesso otturato e con lo sciacquone mal funzionante. Il lavandino ha il tubo di scarico staccato e un secchio è messo sotto per raccogliere l’acqua che, una volta tracimata dal secchio, si riversa sul pavimento per incontrare un foro che dovrebbe servire a farla defluire. Ma il più delle volte è otturato anche quello. Il rubinetto del lavandino schizza acqua da tutte le parti e inoltre vi sono delle muffe sui muri che rendono ancora più tetro e sinistro l’ambiente. Manca spesso anche il sapone e rare sono le apparizioni di asciugamani e carta igienica. Sono solo alcuni delle gravissime carenze che ha denunciato la Fns, la federazione Cisl della sicurezza. Ma questa denuncia, che risposte ha avuto? “Dagli organi competenti non abbiamo avuto nessuna risposta - ha affermato Paolino Campanella, segretario provinciale della Fns - è da tempo che noi denunciamo questa situazione. Già dall’anno scorso abbiamo iniziato una battaglia per far chiudere questi padiglioni fatiscenti, chiedendo l’apertura dell’unico padiglione che è stato ristrutturato e che rispecchia al 90 per cento le disposizioni europee in materia, l’unico in tutta la struttura dell’Ucciardone che può definirsi una struttura di accoglimento per detenuti. Restiamo ancora in attesa - ha concluso Campanella - per la ristrutturazione di questo istituto”. Lo stato totalmente deficitario dell’istituto e l’assoluta mancanza del rispetto delle benché minime norme in materia igienico - sanitaria, naturalmente stanno portando a delle gravi conseguenze. Campanella ha infatti spiegato che continuano a propagarsi i casi di malattia infettiva perché manca del tutto un minimo di profilassi. “Le condizioni - ha continuato - sono talmente drammatiche che è allucinante pensare che vi si possa entrare solo per guardarlo, figurarsi gli agenti che sono costretti a rimanervi per nove ore durante i loro turni e i detenuti che nel loro periodo di coercizione vivono questa situazione disumana per 24 ore al giorno. Il fattore umano - ha concluso - ne esce assolutamente annientato. Il segretario Fsn ha sottolineato che si tratta di una questione che tocca la cittadinanza, anche per un fattore di compassione “e per questo - ha concluso - bisogna svegliare le coscienze e sensibilizzare fortemente sul problema”. La replica della direzione: cerchiamo di tamponare ma c’è tanto da fare La dura denuncia della Fns sulle condizioni igienico-sanitarie dell’Ucciardone, ha trovato conferma nella replica della direzione del carcere. “Essendo un edificio così vecchio, risalente al periodo borbonico - ha detto Giuseppa Rita Barbera, direttore dell’istituto penale - è chiaro che necessita continuamente di manutenzione. È giusto dire che la struttura presenta delle gravi inefficienze e noi cerchiamo man mano di tamponare ove possibile, ma naturalmente c’è tanto da fare, non possiamo dire che non sia vero e ci sono sicuramente tante cose da sistemare”. Un problema sottolineato dal mancato rispetto dai vigenti regolamenti dell’Ue. “È altrettanto sicuro che la struttura non sia conforme alle normative europee - ha confermato il direttore - anche perché si tratta di normative molto avanzate e non riusciamo a mantenerci adempienti, a maggior ragione adesso che la struttura presenta un sovraffollamento. Ci sono però interventi continui, e attualmente siamo sempre al lavoro”. Cosenza: il Movimento Diritti Civili denuncia; detenuti costretti a vivere in condizioni disumane Agi, 10 ottobre 2011 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, denuncia la “grave e preoccupante situazione, segnalata con alcune lettere recapitate allo stesso Corbelli, della casa circondariale di Cosenza per il problema del sovraffollamento, delle condizioni disumane in cui sono costretti a vivere le persone detenute” e si dice “fortemente preoccupato per i casi di disperazione di alcuni reclusi gravemente malati e a rischio suicidio. Continuo a ricevere diverse missive dal carcere di Cosenza da parte di alcuni detenuti, gravemente malati, che mi partecipano i loro drammi, la loro disperazione, la voglia di farla finita. Mi descrivono le condizioni disumane nelle quali sono costretti a sopravvivere. Ci sono detenuti ciechi, paraplegici, in alcuni casi si tratta anche di incensurati, in attesa di processo. C’è un detenuto che per meglio descrivermi la situazione allucinante disumana nella quale è costretto a vivere insieme ad altri sei detenuti, mi ha mandato anche un disegno della cella. Quel foglio stropicciato, quel disegno di una cella di 20 metri quadri, una stanzetta di 5 passi per 4 passi, due tavolini (cm 100×50), sette sgabelli, 10 pensili, tre letti a due piani, un letto singolo, il bagno, la doccia, il lavello, tutto in 20 metri quadri, dove devono convivere 7 (a volte anche 8) detenuti, è un atto d’accusa inequivocabile e durissimo sulla disumanità delle carceri. Si domandano questi detenuti: che giustizia è questa? È una giustizia giusta e umana, è uno Stato di diritto? Si possono trattare in questo modo degli essere umani? Questi detenuti al di là delle loro vicende processuali, per le quali continuano a ribadire la loro innocenza, chiedono semplicemente di poter essere curati in strutture adeguate per le loro gravi patologie, per non rischiare di diventare completamente ciechi, per non finire la loro esistenza paralizzati. Nelle lettere questi detenuti mi descrivono tutta la loro disperazione, mi chiedono di intervenire prima che sia troppo tardi, per scongiurare qualche nuova tragedia, mi manifestano, questi reclusi, in modo sincero e drammatico, il desiderio di porre fine a questa sofferenza. Per questo temo sinceramente e fortemente che possa verificarsi qualche insano gesto. Chiedo che si intervenga immediatamente considerando caso per caso quelli più gravi e drammatici, ad iniziare dai detenuti molto malati, incompatibili con il regime carcerario, che devono essere curati adeguatamente in strutture specializzate. Questi detenuti chiedono solo una giustizia giusta e umana. Un Paese civile - conclude Corbelli - ha il dovere di rispettare i diritti , elementari e fondamentali, di queste persone, di questi essere umani”. Perugia: c’è una vita dopo il carcere; 4 ex detenuti lavorano grazie ai progetti della coop Gulliver di Ilaria Raffaele La Nazione, 10 ottobre 2011 Uscire dal carcere dopo anni di detenzione può essere un trauma perché ci si ritrova in mezzo alla strada. Ora una cooperativa perugina sta portando avanti piani di sostegno in favore degli ex detenuti. Cosa accomuna una donna nigeriana che di mestiere lavora in un’industria di confetture, un’altra impiegata in un ristorante, un folignate occupato in una ditta di materiali in polistirolo e un bresciano che fa da receptionist in un hotel? Due cose, che visti i presupposti non sono poche. La prima è che tutti e quattro sono ex detenuti. La seconda è un nome: Luca Verdolini, della cooperativa Gulliver, promotrice del progetto “Ri.usci. re” a cui tutti e quattro partecipano. “È l’unica mosca bianca nel panorama dei progetti per reintegrare gli ex detenuti - dice Massimo, ex pilota di aereo, bresciano di nascita, che adesso lavora in un hotel del centro di Perugi. Gli altri fanno solo parole, Luca invece dà un aiuto concreto”. Sono quattro storie diverse quelle che raccontano i protagonisti. Le due donne, ad esempio, sono emigrate dalla Nigeria rispettivamente diciassette e diciannove anni fa. Alle spalle hanno situazioni di disagio, ma entrambe hanno trovato in carcere la possibilità di riscattarsi. “In questo momento di crisi è difficile trovare un lavoro, specie se si esce da un penitenziario e si è etichettati come delinquenti - dice Maria (la chiameremo con questo nome visto che preferisce mantenere l’anonimato). Io ho 37 anni e tre figli, come li potrei mantenere senza un lavoro?”. Anche Massimiliano, folignate di 43 anni “come non se ne trovano più” si ritiene fortunato di avere ottenuto la borsa lavoro di “Ri.usci.re” proprio adesso: “Per cinque mesi ho la possibilità di farmi conoscere, poi speriamo che alla scadenza mi assumano. È un buon progetto sia per me che per l’azienda che mi ospita, perché forma un nuovo dipendente senza alcun costo”. Il progetto è lodato da tutti, ex detenuti e datori di lavoro. Come Gabriele, che ha accolto Massimo e si dice fiero di averlo fatto: “Superare i pregiudizi è difficile, ma alla fine ho avuto ragione. Questa esperienza ti dà molto in cambio del tuo coinvolgimento. Tu dai 1 in rispetto alla persona con cui ti trovi ad avere a che fare e ricevi 10, perché poi diventi un punto di riferimento e si crea un rapporto umano speciale”. Come dice Gabriele, “non si finisce in galera per una malattia, ma perché non si ha potuto apprezzare determinati valori”. Un errore, per quanto tragico, non può rovinare una vita. È d’accordo con lui Luca, datore di lavoro di Miriam (anche lei vuole restare nell’anonimato): “Il nostro sistema giudiziario è estremamente ingiusto. Io cerco di dare una mano perché in futuro mi potrei trovare nelle stesse condizioni”. Delle brutte situazioni, che non coinvolgono soltanto la persona che ha sbagliato, ma anche i suoi familiari. Miriam ha due figli, una bambina che vive ancora in Nigeria e aspetta il ricongiungimento familiare, e un ragazzo di 15 anni che vive in Italia e qui frequenta la scuola: “Lui ha vissuto male la mia detenzione, anche se ho scontato un periodo ai domiciliari - dice Miriam. A scuola era stato additato come il figlio della delinquente, ora per fortuna le cose vanno meglio: io lavoro e lui è diventato più autonomo, e cambiando scuola si è trovato meglio”. Però Miriam per il suo futuro non pensa a sé stessa, ma agli altri: “Quando tutto sarà finito voglio che la mia casa diventi un luogo di accoglienza per le persone in difficoltà, come lo sono stata io”. La cooperativa pronta a sostenere altre 35 persone Il progetto si chiama “Ri.usci.re - Riqualificarsi per riuscire in un inserimento regolare”, e ha dato una formazione spendibile nella vita dopo il carcere a dieci persone nel 2011. I partner del progetto sono numerosi e significativi nella vita sociale ed economica di Perugia e dell’Umbria. Il piano è infatti sostenuto dall’Associazione temporanea di imprese, la cooperativa Frontiera Lavoro, l’Università dei Sapori e l’Istituto Tecnico Commerciale “Aldo Capitini - Vittorio Emanuele II”. I promotori sperano che altre strutture si associno presto a quello che è un lodevole tentativo di recupero e sostegno agli ex detenuti. E che, nelle esperienze fin qui vissute, ha dimostrato di poter dare davvero buoni frutti. Luca Verdolini è il motore del progetto. Lavora come dipendente di Frontiera Lavoro, e spiega in cosa consiste “Ri.usci.re”: “Come cooperativa ci occupiamo dell’organizzazione di progetti integrati di orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro per persone sottoposte ad esecuzione penale - dice. “Ri.usci.re” prevede un corso di formazione e poi il tirocinio in azienda, pagato da noi con un vero e proprio stipendio fra i 500 e gli 800 euro al mese”. Il prossimo passo in programma è un progetto che interesserà 15 uomini, 15 donne e 10 persone in misure alternative al carcere con l’obiettivo di fornire loro una formazione di addetto alla cucina o addetto alle colture vegetali e arboree. Si va avanti in una strada difficile, ma che rappresenta uno strumento da non trascurare. Catania: coop “Centro orizzonte lavoro”; chi esce dal carcere deve poter contare su aiuti concreti Gazzetta del Sud, 10 ottobre 2011 La conferenza organizzata nei giorni scorsi dall’Associazione nazionale forense al Palazzo di Giustizia, è stata un’occasione di confronto fra vari attori politico-istituzionali, fra l’associazione avvocati e interlocutori operanti nel settore della detenzione e coinvolti a vario titolo nel sistema carcerario (legislatori, politici, amministratori, magistrati); manifestazione che ha acceso i riflettori sulla funzione della pena detentiva e sul delicato rapporto tra giustizia, princìpi costituzionali e mondo carcerario. Un dibattito che ha abbracciato a 360 gradi la situazione penitenziaria. Se è vero, come ha spiegato il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, che fra i princìpi costituzionali in materia esecuzione delle pene, vale quello della finalità rieducativa del carcere, il che vuol dire “che la pena carceraria deve essere costruita e attuata in maniere tale da raggiungere il più possibile un risultato di reinserimento sociale”, da qui ne consegue che c’è la necessità “di usare misure alternative alla pena carceraria - come ha sottolineato il presidente dell’Anf di Catania Vito Pirrone”. In altre parole, il sistema sociale dovrebbe farsi carico di non favorire la recidiva del reato penale, accompagnando per mano l’ex detenuto nel ricollocamento lavorativo onesto e sano, in sostanza: “seguendo il detenuto dall’inizio del trattamento alla fine - ha continuato l’avv. Pirrone, noi abbattiamo il livello di soglia di criminalità, e da persone criminalizzate, ne facciamo persone civili, per una maggiore sicurezza sociale”. Di rieducazione del detenuto, (con una situazione dietro le sbarre negli istituti di pena catanesi drammatica, la nostra realtà carceraria - Bicocca ma soprattutto piazza Lanza - conta infatti un esubero di popolazione di oltre il doppio della capienza tollerabile), di una responsabilità “morale” collettiva del percorso di riabilitazione da fare fuori dal carcere, anche a livello di opportunità lavorative, ne abbiamo parlato con il presidente della cooperativa sociale catanese “Centro orizzonte lavoro” don Vincenzo Giammello, con tanti anni di esperienza nel comparto “borse lavoro” e delle politiche attive del lavoro per soggetti svantaggiati. “Cosa fare per il reinserimento sociale del detenuto uscito dal carcere - spiega il salesiano don Giammello, raggiunto presso l’ente di formazione catanese di via Teatro Greco. Quale impresa è disposta ad accogliere un ex detenuto? Senza opportunità di occupazione, però, i soggetti rischiano di rientrare prima o poi nel circuito penale”. E allora che fare, buttarli in galera e gettare via le chiavi della cella? “Sto lavorando a un progetto di solidarietà e sono alla ricerca di sponsor. Sto lanciando l’idea di una rete di enti partner, dalle cooperative alle organizzazioni solidali e del privato sociale, dalle associazioni datoriali - che rappresentano le realtà imprenditoriali sul territorio - ai club service e agli Ordini professionali. Occorre sensibilizzare le aziende, le imprese, l’opinione pubblica, fare una campagna di raccolta fondi, per condividere l’obiettivo di accogliere in un percorso lavorativo concreto chi esce dal carcere, con un patto d’impegno coi datori di lavoro. La triste realtà, è che l’ex detenuto non trova nessuno che gli offra opportunità e, spesso, ci sono le famiglie alle spalle da mantenere”. Siracusa: Osapp; carcere di Augusta in stato di emergenza, solo 210 poliziotti per 700 detenuti Italpress, 10 ottobre 2011 La situazione del personale di polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Augusta, in provincia di Siracusa, al centro di una lettera che il vicesegretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, Mimmo Nicotra, ha indirizzato al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Maurizio Veneziano e al direttore della casa di reclusione di Augusta Antonio Gelardi. “Con estrema preoccupazione ci vediamo costretti a denunciare la situazione di emergenza che vive la Casa di Reclusione di Augusta ove, allo stato, a fronte di circa 700 detenuti presenti, prestano servizio appena 210 poliziotti penitenziari - si legge nel documento. La situazione è nota a tutti e per questo non condividiamo lo stato di inerzia che, prima o poi, magari dopo qualche malaugurato evento critico, costringerà chi di competenza a prendere quegli opportuni provvedimenti che allo stato non riteniamo posticipabili. L’emergenza sopra evidenziata viene acuita dal malessere che palesa il personale che è costretto a sostenere carichi di lavoro massacranti. Riteniamo che un primo opportuno segnale potrebbe essere quello di far rientrare in sede i molti distaccati che allo stato - conclude Nicotra - non costituiscono la soluzione per le diffuse emergenze che sono la costante nei penitenziari siciliani”. Catania: giornale dei detenuti dell’Ipm, con notizie sportive, riflessioni e mini guide turistiche La Sicilia, 10 ottobre 2011 “Quei ragazzi hanno un’anima. In fondo al loro cuore non c’è solo odio e delinquenza. Bisogna lavorare, impegnarsi per trasformare l’esperienza della detenzione carceraria - già forte di per sé, seppur necessaria - in un momento di crescita formativa. Rieducare è possibile, provare a trovare la chiave di volta per scardinare il seme dell’illegalità è un dovere che tutti noi che ci definiamo, a volte purtroppo sopravvalutandoci, “società civile” dobbiamo perseguire ogni giorno. A cominciare dalle istituzioni che devono mettere in campo ogni forza possibile per migliorare le condizioni dei giovani che si ritrovano dietro le sbarre. Per creare le condizioni affinché la detenzione punti a una riabilitazione nei fatti e non soltanto nella teoria”. Queste le considerazioni della dott.ssa Giorgia Garozzo, docente per quasi quattro mesi di uno dei moduli formativi del Cirpe (il Centro iniziative ricerche programmazione economica) all’interno dell’Istituto penitenziario per minorenni di Bicocca. “Un’esperienza importante - racconta - che mi ha fatto capire che dietro quelle sbarre non ci sono solo mostri, ma giovani che possono avere un futuro. Nonostante tutto, anche se hanno sbagliato”. “Quando per la prima volta - continua la dott.ssa Garozzo - sono arrivata davanti alla porta d’ingresso di ferro massiccio dell’Istituto penitenziario minorile di Bicocca per la prima lezione e ho sentito girare il chiavistello mi sono venuti i brividi. Ma man mano che sono trascorsi i giorni ho però percepito un’aria diversa, un’emozione strana. Ho imparato ad apprezzare questi ragazzi. Hanno dimostrato di avere un’anima. Pian piano sono riuscita a conquistare la loro fiducia e loro hanno ricambiato con un impegno e un’attenzione che mai mi sarei aspettata. Mi hanno accolta e mi hanno rispettata. Mi hanno seguito in questo percorso e si sono fatti apprezzare. Qualcuno si è pure confidato: situazioni familiari sconvolgenti, vite spezzate ancora prima di essere vissute. C’è chi ha il padre o il fratello maggiore in carcere e chi non ce l’ha più perché ucciso in un agguato. E c’è anche chi ha un figlio in tenerissima età e una compagna nemmeno maggiorenne che l’aspetta fuori. Molti si sono ritrovati a spacciare o a rubare che avevano ancora i calzoni corti”. “Alla fine, comunque, in queste ore trascorse insieme, questi ragazzi hanno avuto il coraggio di esprimere la loro semplicità di giovani. Il risultato è stato eccezionale, sorprendente, inatteso: abbiamo realizzato un bel giornalino pieno di bei contenuti, con notizie sportive, riflessioni personali e mini guide turistiche delle città d’origine. Qualcuno è pure riuscito ad aprire il suo cuore e ha scritto una lettera alla fidanzata o all’amico d’infanzia che qualche tempo fa ha rischiato di perdere la vita in un incidente. Senza vergognarsi questi giovani carcerati hanno saputo esprimere le emozioni che possono dare le melodie del cantante napoletano preferito. Lampi d’amore e di libertà. Hanno disegnato e colorato i loro sogni, paesaggi con il sole e un ruscello, un uccello che vola. Non si sono tirati indietro quando hanno dovuto scrivere un articolo come se fossero dei veri giornalisti, né di colorare un coccodrillo o un pesciolino che fa le bolle nei giorni in cui abbiamo studiato i cosiddetti “animali del giornalismo”. Si sono impegnati tutti e hanno imparato a sorridere”. Con gli occhi pieni di commozione per l’esperienza vissuta, la dott. Giorgia Garozzo aggiunge: “Man mano che si è avvicinato il giorno dei saluti, ho imparato ad apprezzare questi ragazzi che, dietro quelle sbarre di ferro gialle, hanno ancora il coraggio e l’incoscienza di vivere sognando un futuro migliore. Magari di cambiare. Ed è su questo che dobbiamo puntare. Non è un azzardo, è un nostro dovere. Quella porta e quel chiavistello fanno e faranno sempre lo stesso rumore sordo, ma varcando la soglia del carcere non provo più angoscia. Mi è rimasta solo la consapevolezza di una esperienza forte, ma viva. Che mi ha arricchito. Non posso negarlo, mi sono affezionata a questi ragazzi. Ed è per questo che l’ultimo giorno, quando abbiamo presentato il giornalino alla dott. Maria Randazzo, il direttore dell’istituto penitenziario, ho affermato con orgoglio e consapevolezza che questi ragazzi, con impegno e dedizione, erano riusciti in qualcosa di positivo. Possono cambiare, magari non tutti: ma riuscire a riportare sulla strada della legalità anche uno solo di loro può rappresentare un successo. Questa è la speranza sulla quale dobbiamo lavorare”. Alghero: detenuto uruguaiano non rientra dal lavoro esterno, rintracciato e arrestato Adnkronos, 10 ottobre 2011 L’uomo, uruguaiano, aveva un passaporto italiano falso e viaggiava con un cittadino algherese pregiudicato che lo ha aiutato nell’evasione. Un trafficante di droga uruguaiano è scappato dal carcere di Alghero (Ss) ma è stato rintracciato e arrestato. L’episodio risale al 3 ottobre scorso, ma solo oggi è stata resa nota l’operazione che lo ha riportato in carcere. Christian Carbonell Silveira, 30 anni detenuto nel carcere della città catalana per detenzione ai fini di spaccio di 3,5 chili di cocaina, era stato recentemente ammesso al beneficio del lavoro esterno ed il 3 ottobre dopo il suo turno di lavoro, non è rientrato in carcere. Dopo l’allarme della polizia penitenziaria gli agenti del commissariato di Alghero, coordinati da Valter Cossu, sospettando un favoreggiamento in loco, hanno indirizzato le indagini nell’ambito delle recenti scarcerazioni riconducibili a persone con i quali l’uruguaiano aveva condiviso la cella. Insieme alla polizia penitenziaria gli agenti di Alghero hanno iniziato a vagliare i nomi dei possibili sospetti e hanno fatto diversi appostamenti e pedinamenti, fin quando sabato i poliziotti di Alghero hanno visto Carbonell su un pullman di linea ad Oschiri (Ss) lungo la strada che da Sassari conduce ad Olbia. L’evaso aveva un passaporto italiano falso che lo ritraeva con generalità diverse. Con lui viaggiava un cittadino algherese, G.M., 61enne pregiudicato di Alghero, scarcerato lo scorso anno dallo stesso carcere dove era detenuto con Carbonell. G.M. è accusato di “procurata inosservanza di pena”, per aver aiutato Carbonell nell’evasione. I due sono stati portati al carcere di San Sebastiano di Sassari in attesa dell’udienza di convalida prevista per stamani. Ferrara: l’esperienza della “cella in piazza” è giunta al termine… Ristretti Orizzonti, 10 ottobre 2011 Circa 300 studenti di scuola media superiore e oltre un migliaio di cittadini hanno visitato la “cella in piazza” voluta dal Difensore civico regionale e installata nella piazza centrale di Ferrara dal 30 settembre al 9 ottobre. Ragazze e ragazzi del Liceo “G. Carducci”, Ipsia di Portomaggiore, Istituto Professionale “L. Einaudi” e ITI “Copernico - Carpeggiani” hanno sperimentato la sensazione di ritrovarsi, solo per qualche attimo, chiusi in una cella. Come loro cittadini di ogni età, singolarmente o a gruppi, di tutte le posizioni sociali e convinzioni politiche hanno preso contatto con la realtà carceraria attratti dalla cella e dai cartelli che riportavano alcuni dati sul carcere. Alcuni messaggi chiari Il confronto tra la diminuzione di reati gravi negli ultimi anni e il crescente interesse dei media per la cronaca nera lascia intuire una strategia pensata per creare insicurezza sociale. I dati sul sovraffollamento, sui suicidi dei detenuti e delle guardie penitenziarie, sulla condizione strutturale delle celle - molte senza acqua calda, senza doccia, senza la possibilità di accendere o spegnere autonomamente la luce… - e la carenza di personale per interventi di rieducazione (educatori, psicologi, assistenti sociali) hanno reso chiaro quanto sia infondata la favola delle “carceri d’oro”, e quanto sia difficile che l’esperienza della detenzione si traduca in percorso rieducativo e di integrazione sociale. La forte presenza di cittadini stranieri e di persone in attesa di giudizio evidenzia come il carcere sia aperto soprattutto a persone che hanno poche risorse per tutelarsi di fronte alla legge. Le reazioni dei cittadini Le reazioni dei cittadini sono state le più svariate. Lo testimoniano i grandi fogli di cartoncino nero messi a disposizione dei visitatori insieme ad alcune matite bianche per lasciare il proprio pensiero. Si spazia dalle attestazioni di vicinanza (“Non siete soli”), alle critiche per il sistema carcerario (“Io impazzirei”), alle riflessioni personali (“Meglio fare i bravi”) fino all’aggressività aperta verso i detenuti (“Bisognerebbe metterli nei forni”). E ci sono stati anche agenti di polizia penitenziaria o dei servizi sociosanitari che hanno confrontato la cella simulata con quelle che vedono nella Casa circondariale di Ferrara, così come ex detenuti o loro amici e parenti che si sono avvicinati per raccontare la loro esperienza di contatto diretto con il carcere. Tutti hanno mostrato di apprezzare la possibilità di portare il proprio punto di vista in un dialogo aperto e rispettoso, a contatto con volontari o operatori delle istituzioni in grado di dare informazioni realistiche su un mondo, quello del carcere, generalmente poco conosciuto e, semmai, riassunto in pochi luoghi comuni suggeriti dai media. L’iniziativa della “cella in piazza” è stata anche l’occasione per dare visibilità al Difensore civico, con circa 400 opuscoli distribuiti e con l’offerta di informazioni o la ricezione di alcune istanze. Le iniziative Dopo le centinaia di contatti dei primi tre giorni, favoriti dalla contemporaneità con il Festival della rivista “Internazionale”, è proseguito il dialogo con la cittadinanza. Alcuni eventi hanno favorito l’avvicinamento alla cella: - mercoledì 5 e sabato 8 ottobre si sono svolte delle “lezioni in piazza” con i Cristiana Valentini, Francesco Trapella e Andrea Pugiotto, tutti docenti della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara (da cui nasce l’idea delle presentazioni librarie “Un libro dietro le sbarre”). - giovedì 6 ottobre si sono svolte alcune letture a cura di attori ferraresi. Il gruppo “Tasso” ha proposto brani tratti da “Le mie prigioni” di Silvio Pellico, mentre Marcello Brondi ha ricordato i molti detenuti che, nel 2011, sono morti nelle carceri italiane per suicidio o per cause ancora da accertare. I promotori “La cella in piazza” è stata promossa dal Difensore civico regionale in collaborazione con il CSV di Ferrara, il Garante dei detenuti, gli Enti Locali. L’intera iniziativa non sarebbe stata possibile senza la collaborazione delle associazioni Viale K, Amnesty International, Renata di Francia, e della cooperativa sociale Il Germoglio, che si sono alternati presso la cella. Articolo de La Nuova Ferrara Galera, carcere, gattabuia, cella e sole a scacchi. Sono solo alcuni dei termini che si usano quando si parla di una struttura penitenziaria. La riproduzione della cella allestita in piazza Trento Trieste, ieri, ha chiuso i battenti. Portando con sé buonissimi risultati. Inaugurata il 30 settembre, in concomitanza con il primo giorno di Internazionale e il primo incontro presso la libreria Mel Bookstore per “Un libro dietro le sbarre”, la cella ha svolto un’importante funzione di sensibilizzazione verso i cittadini comuni, giovani e non, che del carcere sanno poco o niente. Grazie a questa riproduzione, la gente è potuta entrare in uno spazio di sei metri per quattro, sostare all’interno in gruppi da cinque o sei persone per avere un’idea più o meno tangibile di cosa significhi convivere in spazi così angusti per tante ore al giorno e, a volte, per tanti anni. Il difensore civico Daniele Lugli si è detto soddisfatto del risultato ottenuto “Certo sarebbero necessarie ulteriori campagne informative e altri progetti, ma l’affluenza di persone in visita non è affatto mancata”. Fondamentale è stato il coinvolgimento delle scuole. I “pionieri” dell’istituto tecnico Copernico di Ferrara, hanno spianato la strada ad altre scuole che hanno visitato la struttura (“Carducci”, “Einaudi” e “Ipsia” di Porto Maggiore). Quattro scuole superiori, dodici classi, per un totale di circa trecento partecipanti. “Ho accompagnato personalmente nove classi - dice Lugli - spiegando il problema del sovraffollamento carcerario e i vari aspetti della vita dei detenuti. Altre tre classi sono state seguite da Marcello Marighelli, Garante dei detenuti di Ferrara e Provincia e da Francesco Colaiacovo, Presidente del consiglio comunale di Ferrara”. Le associazione che hanno supportato l’iniziativa sono state “Amnesty International Italia”, “Germoglio”, “Renata di Francia” e “Viale K”. Messina: la Crivop onlus porta il cinema d’autore nel carcere di Mistretta Ristretti Orizzonti, 10 ottobre 2011 La Crivop è stata autorizzata dalla Direzione della Casa Circondariale di Mistretta (Me) a realizzare Sabato 15 ottobre 2011 il progetto “Onesimo” con la proiezione del Film “The Butterfly Circus” (Il Circo della Farfalla). Cortometraggio del 2009 diretto da Joshua Weigel. Emozionante e commovente “The Butterfly Circus” ha una bella fotografia e una narrazione poetica. Un messaggio di speranza, forte, diretto e positivo, insegna a non arrendersi. Molto bravo Nick Vujicic. Il corto è un po’ la storia della sua vita. Senza arti fin dalla nascita (ha però due piccoli piedi malformati) non ha mai smesso di credere in se e nella vita; è riuscito a laurearsi e adesso gira il mondo raccontando la sua storia, e cercando di portare in giro un messaggio di speranza a chi come lui ne ha bisogno. Proprio come quei detenuti che andremo a trovare. Michele Recupero Presidente Nazionale Crivop Onlus Immigrazione: la Corte di Giustizia Europea potrebbe cancellare il reato di clandestinità Corriere della Sera, 10 ottobre 2011 Il reato di clandestinità, introdotto nel 2009 con il “Pacchetto sicurezza”, rischia di essere cancellato. Un giudice di pace di Lecce ha fatto ricorso alla Corte di Giustizia sul caso di un immigrato senegalese espulso dall’Italia: sollevate forti perplessità in merito alla compatibilità del reato con gli obiettivi della Direttiva comunitaria sui rimpatri dei cittadini extracomunitari irregolari. Secondo quanto riportato dal Corriere del Mezzogiorno si tratta di una procedura esercitata dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea, che consente a un giudice di interrogare la più importante istituzione in materia di diritto sull’interpretazione o sulla validità di una norma. In particolare il giudice di pace di Lecce, Cosimo Rochira, chiamato ad esprimersi, nei giorni scorsi, sul caso di un senegalese espulso dal territorio italiano, ha inviato gli atti alla Corte di Giustizia Europea manifestando forti perplessità in merito alla compatibilità del reato di clandestinità (previsto dall’articolo 10 bis del testo unico sull’immigrazione), con gli obiettivi della Direttiva comunitaria sui rimpatri dei cittadini extracomunitari irregolarmente soggiornanti sul territorio degli Stati membri. La Corte di giustizia dell’Unione europea è un’istituzione dell’Unione europea ed ha sede a Lussemburgo. A sollevare il caso del cittadino extracomunitario M.A.K., è stato il legale dell’uomo, l’avvocato Salvatore Centonze (dello studio Centonze-Colella-Stomeo di Lecce, lo stesso studio che appena un mese fa aveva ottenuto la storica condanna dell’amministrazione penitenziaria al risarcimento dei danni nei confronti di un detenuto per sovraffollamento delle carceri). “Sin dalla sua entrata in vigore abbiamo denunciato che il reato di clandestinità, oltre a criminalizzare uno status personale, rappresenta un pericoloso espediente per sottrarre l’Italia ai suoi obblighi assunti nei confronti dell’Unione europea - dice l’avvocato Salvatore Centonze. Siamo fiduciosi che la Corte di Giustizia, come già ha fatto col reato di inottemperanza all’ordine di allontanamento, costringerà il nostro legislatore ad adottare misure meno propagandistiche e più razionali per gestire i flussi migratori”. Quello del senegalese, arrestato a marzo scorso, è del resto uno dei tanti casi che ogni giorno vengono sottoposti ai giudici di pace. Si tratta senza dubbio di un duro colpo inflitto alla legge Bossi-Fini. L’eventuale conferma della denunciata incompatibilità da parte della Corte di Giustizia comporterebbe, infatti, la immediata disapplicazione del reato di clandestinità. Già a fine aprile scorso, la Corte di giustizia, affrontando il caso di un cittadino tunisino condannato per non aver ottemperato al decreto di espulsione, aveva bocciato il reato di clandestinità introdotto dall’Italia. In quel caso il quesito posto ai giudici era diverso, e cioè che non si potesse condannare un cittadino straniero che si era rifiutato di lasciare il nostro Paese. Afghanistan: l’Onu denuncia torture sui detenuti… ma non è risultato della politica del governo Tm News, 10 ottobre 2011 I detenuti in alcune strutture carcerarie gestite da afgani sono stati picchiati e torturati. Lo denuncia un rapporto delle Nazioni Unite. Secondo lo studio i detenuti di 47 penitenziari in 24 province sotto la supervisione del Direttorato afgano della sicurezza e della polizia nazionale hanno subito abusi. Le accuse contenute nel rapporto furono portate a galla dalla Bbc a settembre. All’epoca il governò rispedì al mittente le accuse di torture e disse che il rapporto aveva motivazioni politiche. Il rapporto pubblicato sostiene che i prigionieri sono in larga parte sottoposti a tecniche di interrogatorio che equivalgono alla tortura secondo la legge internazionale e quella afgana. L’Onu ha tuttavia chiarito che il maltrattamento non è il risultato della politica del governo. Afghanistan: il “carcere delle torture” di Herat è stato costruito dal governo italiano di Gianluca Di Feo L’Espresso, 10 ottobre 2011 Un rapporto dell’Onu accusa: in Afghanistan, nella prigione di Herat, costruita e finanziata dal governo di Roma, e dove finiscono i presunti talebani catturati dal nostro contingente, ci sono “prove schiaccianti” di trattamenti inumani. L’accusa viene da un monumentale dossier delle Nazioni Unite appena pubblicato, che esamina la situazione dei reclusi in tutto l’Afghanistan. Un documento che dovrebbe far riflettere sui compromessi accettati dal nostro governo nella missione che dovrebbe portare “la civiltà” alle popolazioni afghane. L’inchiesta dell’Onu si concentra sulle persone custodite dai servizi di sicurezza di Kabul, chiamati National directorate of security o in sigla Nds. I quattro reclusi catturati dalla polizia nazionale, Anp, infatti non hanno nulla da denunciare. Invece dei dodici uomini affidati agli agenti speciali, ben nove parlano di maltrattamenti che arrivano fino alla tortura: tra loro c’è anche un ragazzo di sedici anni. La delegazione dell’Unama - l’organismo Onu che vigila sulla rinascita dell’Afghanistan - scrive che ci sono “prove schiaccianti che gli agenti del Nds sistematicamente torturano i detenuti per ottenere informazioni e, possibilmente, confessioni”. Cosa c’entra l’Italia? Il carcere in questione è stato ristrutturato e potenziato con i nostri soldi. Donazioni del ministero della Difesa sono state usate per costruire una centrale di videosorveglianza e ripulire i locali: il comandante regionale delle carceri è fotografato accanto al generale italiano mentre inaugura le nuove strutture regalate dal nostro paese nel 2010. Ma soprattutto molti di quei detenuti sono stati catturati dalle nostre truppe e poi consegnati alle autorità afghane. Le testimonianze raccolte dall’Onu sono agghiaccianti. Sembrano uscite dai verbali di Abu Ghraib, la prigione irachena dove gli americani torturavano i reclusi. A Herat durante la notte un agente del Nds preleva il detenuto dalla cella, gli lega le mani dietro la schiena e benda gli occhi, poi lo porta in un’altra stanza nell’edificio dell’intelligence afghana. Lì comincia l’interrogatorio e, a un certo punto, arriva la minaccia: se non ci dai le informazioni ti picchiamo. Allora lo sbattono con la faccia sul pavimento e cominciano a colpirlo sulla pianta dei piedi, con un cavo elettrico. Poi con i piedi sanguinanti lo costringono a camminare sul pietrisco o sul cemento grezzo. Nel rapporto sono inclusi i resoconti dei detenuti picchiati. “Io avevo gli occhi bendati e i polsi legati, stavo seduto su un tappeto. Loro urlavano: “Parlaci del capo dell’attacco. Io continuavo a rispondergli che non c’entravo, a ripetere il mio alibi. Sembrava che loro sapessero che io non ero coinvolto nell’attacco ma volevano informazioni da me e non mi credevano. Mi dicevano: “Se non ci dici la verità, ti picchiamo”. Allora mi hanno gettato con la faccia sul pavimento, legando le miei ginocchia e sollevandole in modo che i piedi fossero sospesi in aria. Quindi mi hanno colpito due volte sulla schiena con una specie di tubo, poi sono passati a colpire i miei piedi. Non cosa usassero, ma era molto doloroso: penso fosse un cavo elettrico, perché sulla pelle mi sono rimasti tanti buchi lasciati dai fili che spuntavano dalle estremità. Mi facevano domande, poi picchiavano e ricominciavano a chiedere. Io urlavo per il dolore. Allora mi hanno fatto alzare e camminare fino al cortile e mi hanno lasciato in piedi sul cemento grezzo per cinque minuti”. Secondo l’Onu, i pestaggi erano pianificati: un metodo sperimentato già in Iraq per indebolire la volontà e “ammorbidire” i reclusi per ottenere notizie nei successivi interrogativi. Gli ispettori ritengono che fossero “botte preventive”, non scaturite da una specifica negazione. I detenuti credono che le domande non fossero finalizzate a ottenere risposte, quando a insultarli: “abusi verbali”. In genere, i prigionieri venivano picchiati nei primi interrogatori e alla fine molti “crollavano” in altre deposizioni senza bisogno di maltrattamenti. Quanti di questi erano stati catturati dagli italiani? La sorte delle persone arrestate dai nostri militari finora non è mai stata chiarita al parlamento. Quante sono state dall’inizio della missione? Che fine hanno fatto? Formalmente, ogni nostro reparto consegna immediatamente i presunti talebani o i sospetti criminali nelle mani dei soldati afghani o della polizia nazionale Anp che accompagna sempre le unità tricolori. Ufficialmente quindi non abbiamo mai fatto prigionieri, nonostante esistano immagini di miliziani ammanettati dalla Folgore nel 2009 o rapporti ufficiali di operazioni concluse con la cattura di numerosi sospetti. I penitenziari di Herat - la capitale del distretto a guida italiana - sono sempre stati affidati a una sorta di supervisione delle nostre truppe. L’Italia in particolare ha curato la creazione di una struttura modello per le donne recluse, in modo da facilitarne l’inserimento nel lavoro. Ben diversa la situazione del carcere maschile, dove una Ong canadese ha contato più di 1800 detenuti tra cui molti bambini. In gran parte, accusati di piccoli reati. Mentre per i sospetti di collusioni con la guerriglia - stando al dossier Onu - ci sono le torture. Adesso le Nazioni Unite hanno chiesto al governo afghano di rimuovere e punire i responsabili degli abusi. E questo dovrebbe diventare un impegno anche della nostra missione, per spazzare via ogni sospetto di interesse verso le informazioni che l’intelligence afghana si procacciava a suon di bastonate.