Giustizia: forte con i deboli, debole con i forti… e i guasti che restano di Livio Pepino Il Manifesto, 8 novembre 2011 La politica della giustizia è stata una delle anomalie più rilevanti della lunga stagione berlusconiana. Anche rispetto a quella di altri governi di destra. L’aspetto più eclatante è stato la traduzione in leggi di un macroscopico conflitto di interessi e di una personale insofferenza dell’on. Berlusconi per la legalità. Certo, la pendenza di numerosi processi penali a carico del presidente del Consiglio è un macigno che nessun sistema politico tollererebbe in modo indolore. Ma quel che è accaduto in Italia sta scardinando le basi stesse dello Stato di diritto. L’approvazione di oltre trenta leggi ad personam (con cui si sono perseguite assoluzioni tout court, spostamenti e sospensione di processi, prescrizione di reati, proroga di magistrati graditi e veti per magistrati sgraditi e via seguitando) non ha solo - cosa che pur basterebbe! - favorito il presidente del Consiglio. Essa ha anche snaturato e corrotto la stessa funzione legislativa, perché la legge o è generale e astratta o altro non è che comando politico. Ma non c’è solo l’interesse personale. C’è, al suo fianco, quella che un tempo si sarebbe chiamata una logica di classe. La torsione della legge è stata perseguita dal presidente del Consiglio non solo per sé ma anche per il suo blocco sociale di riferimento. Così si è assistito al dilatarsi della forbice tra il codice “dei galantuomini” (cioè dei colletti bianchi) e quello “dei briganti” (i recidivi o, più semplicemente, i poveri tout court, i migranti, i tossicodipendenti) con l’emergere di un diritto penale virtuale (che occupa gran parte del codice ma si limita, in concreto, a misurare l’attesa che la prescrizione si sostituisca al giudice) e quello reale (che si riassume in pochi articoli ma segna la vita e i corpi delle persone e riempie il carcere come mai nella storia della Repubblica). Più in generale si è assistito alla realizzazione, anche fuori dal sistema penale, di una giustizia a due velocità, debole con i forti e forte con i deboli. Di più. Per conseguire senza intoppi il risultato voluto si è realizzato anche un intervento diretto sulla magistratura per sottrarle il controllo di legalità a tutto campo voluto dalla Costituzione, facendola rientrare nella logica delle compatibilità. Si collocano in quest’ottica la delegittimazione del sistema giustizia, presentato come un campo di battaglia in cui i giudici agiscono come soggetti politici anziché come controllori imparziali; l’intervento politico diretto sulla giurisdizione e sui processi (la pretesa della maggioranza di dettare la giusta interpretazione della legge, la rimozione del giudice da parte del guardasigilli al fine di impedire la prosecuzione di un processo, la minaccia di perseguire disciplinarmente l’interpretazione sgradita, la contestazione di decisioni non condivise con interpellanze parlamentari). E ancora, l’abbandono di ogni prospettiva organica di intervento sul servizio giustizia e il perseguimento del disastro organizzativo; la modifica dell’ordinamento giudiziario per ripristinare una magistratura gerarchica, piramidale, controllata (dall’esterno e dall’interno). Si tratta di elementi che hanno modificato il rapporto del sistema giustizia con il Paese e determinato anche nella magistratura fenomeni diffusi di auto normalizzazione e conformismo (anche se occultati dai processi sotto i riflettori). Il berlusconismo passerà (forse sta passando), ma lascia guasti profondi. Guai a pensare che siano destinati a rientrare in modo automatico. Giustizia: il bracciale elettronico farebbe uscire dal carcere decine di migliaia di detenuti di Stefano Lorenzetto Il Giornale, 8 novembre 2011 Qualche anno fa ho conosciuto Francesco Nitto (abbreviazione di Benedetto) Palma, attuale ministro della Giustizia. M’è sembrato la personificazione dell’equanimità. Non conosco dote migliore ascrivibile a un politico che per un lungo tratto della sua vita è stato un magistrato. Ci siamo poi visti in altre occasioni e mai è vacillata quella prima impressione che ebbi di lui. Quand’era deputato, ho avuto occasione di “moderarlo” (si fa per dire: egli incarna la moderazione fin dal tono di voce) in un dibattito dal titolo provocatorio, Processo alla giustizia. Mi ha anche concesso il privilegio di affidarmi in lettura, per un giudizio preventivo, il manoscritto di un suo romanzo, che poi ha deciso di rimettere nel cassetto (peccato). La premessa serve a chiarire che Nitto Palma, nonostante passi per un caratteraccio, non si adombrerà se oso offrirgli un consiglio su un tema quasi irritante di fronte all’escalation di reati che imporrebbero i ceppi a vita per i reclusi: il braccialetto elettronico. La nostra Costituzione stabilisce che la pena deve tendere alla rieducazione del detenuto. Purtroppo la Corte costituzionale ha introdotto suggestioni sociologiche secondo cui al reo non va protratta la pena in carcere qualora dimostri d’essersi ravveduto e l’ergastolo è da considerarsi illegittimo essendo inutile rieducare un assassino se poi non lo si rimette di nuovo in circolazione (nel caso uccidesse ancora, avremmo la prova che non s’era rieducato). Le conseguenze? Basta sfogliare i giornali. Le pene sono diventate virtuali: il codice commina 10 anni, ma se ne scontano solo 4; commina la galera, ma la si sostituisce con gli arresti domiciliari; commina multe milionarie, ma il nullatenente non le pagherà mai. La Corte avrebbe fatto molto meglio a occuparsi dei diritti umani violati per colpa di un sistema carcerario in cui, al 30 settembre scorso, 67.428 detenuti risultavano ammassati come bestie in 206 penitenziari che al massimo potrebbero accoglierne 45.817 e gli indagati in attesa di giudizio, gli appellanti e i ricorrenti, insomma i non condannati in via definitiva, erano addirittura 28.564, ben il 42% del totale (contro una media del 10-20% negli altri Paesi). E bench’ l’esperienza insegni che la metà di questi 28.564 cittadini verranno poi assolti, ciò non impedisce che nel frattempo siano sbattuti in celle sovraffollate insieme con i delinquenti abituali, costretti per mesi all’inerzia, brutalizzati. Eppure la tecnica moderna mette a disposizione dello Stato uno strumento che consentirebbe di evitare questa barbarie. È il braccialetto elettronico, già applicato a 100.000 detenuti negli Stati Uniti, a 60.000 nel Regno Unito e a un numero imprecisato in Svezia, Belgio e Olanda. Si tratta di un trasmettitore Gps da fissare alla caviglia, che trasmette in tempo reale a un server centrale la posizione di chi viene scarcerato. In Germania hanno calcolato che tenere un detenuto in prigione costa 800 euro al giorno, mentre sorvegliarlo sul territorio col sistema satellitare non richiede più di 20 euro. Il 97,5% in meno. Il braccialetto viene fornito dal produttore al costo di 7 euro al giorno; i rimanenti 13 euro vanno all’azienda che gestisce il servizio informatico. Qualcuno sostiene che col bracciale elettronico si corre il rischio di liberare schiere di reprobi che potrebbero macchiarsi di ulteriori crimini. Obiezione illogica: il rischio - meglio, la quasi certezza - sussiste già col nostro sistema attuale. Anche il soggetto più balordo capisce che non gli conviene commettere un reato in un luogo dove egli può essere localizzato all’istante: la prova a suo carico sarebbe schiacciante. Una volta che il braccialetto fosse introdotto su vasta scala, case circondariali e agenti di custodia diventerebbero come per incanto più che sufficienti, non occorrerebbe stanziare altri fondi per faraonici piani di edilizia carceraria e si recupererebbero gli spazi dove far lavorare i galeotti che devono espiare la condanna dietro le sbarre. Moltissimi detenuti tele sorvegliati potrebbero essere obbligati a sgobbare nei campi e nelle fabbriche, nella manutenzione dei corsi d’acqua e dei boschi, nelle opere di difesa del territorio. Sarebbe una pena ben più afflittiva dell’ozio per molti che non hanno mai piegato la schiena in vita loro. Non è chiaro quanto costi oggidì tenere un recluso in gattabuia. Secondo le statistiche ufficiali nel decennio 2000-2010 lo Stato ha speso mediamente 138,70 euro al giorno, esclusa l’edilizia carceraria. Prendo questo ottimistico importo per buono. Ebbene, applicando il bracciale a 25.000 detenuti (una cifra ragionevole, essendo inferiore al numero degli indagati che, per principio, non dovrebbero stare nelle celle in questo preciso istante) si risparmierebbe ogni anno oltre un miliardo di euro. Ci faccia un pensierino, signor ministro della Giustizia. Magari ne parli col suo collega Giulio Tremonti. Dovrebbe trovarlo interessatissimo. Gli stranieri? Sono la maggioranza Le statistiche cambiano di giorno in giorno, in quel flusso incontrollato di entrate e di uscite che le carceri milanesi registrano quotidianamente. Ma ormai a San Vittore, dove approdano i detenuti in attesa di giudizio, gli italiani sono ormai stabilmente una minoranza. E la percentuale di stranieri sale in continuazione anche negli altri due istituti che costituiscono, insieme alla vecchia e cadente “mala stalla” di piazza Filangieri, il sistema carcerario milanese: Opera, dove approdano i condannati alle pene più pesanti, e considerati più pericolosi, e Bollate, la struttura a sicurezza attenuata dove vengono avviati i condannati considerati più disponibili a percorsi di riabilitazione e reinserimento. Della comunità straniera, i detenuti di origine araba costituiscono la fetta più consistente: a San Vittore nella classifica complessiva delle nazioni di provenienza, il Marocco è al primo posto, l’Egitto al terzo, la Tunisia al quinto, l’Algeria al settimo. Tra i popoli maghrebini ci sono differenze culturali anche consistenti, ma in carcere finiscono per costituire una unica, grande “nazione islamica” che ha nella pratica religiosa il suo collante. E che, secondo i timori delle forze di polizia, trova nella popolazione detenuta un fertile terreno di coltura per la predicazione integralista. In base ai regolamenti della amministrazione penitenziaria, proprio per evitare fenomeni di proselitismo gli estremisti condannati per terrorismo devono essere destinati a carceri del circuito “differenziato”, a Benevento e a Macomer, in Sardegna: a Benevento, per esempio, è stato rinchiuso Abu Imad, imam della moschea di viale Jenner, quando è divenuta definitiva la sua condanna per terrorismo internazionale (nel frattempo, paradossalmente, Abu Imad ha ottenuto dall’Italia asilo politico per evitare di venire riconsegnato all’Egitto dopo avere espiato la pena: ma sarà interessante vedere che scelte farà quando uscirà dal carcere, ora che nel suo paese d’origine la situazione politica sta radicalmente mutando). Ma anche in assenza dei predicatori professionisti, in carcere la comunità islamica ha ottenuto di potersi organizzare. In ogni raggio di San Vittore una cella è stata adibita a moschea, e i detenuti di fede musulmana hanno scelto al loro interno il confratello destinato a rivestire il ruolo di imam. La predicazione e la preghiera avvengono regolarmente. E insieme al diritto di professare la propria fede, la comunità islamica avanza una serie di rivendicazioni, puntando a tradurre in risultati concreti la posizione di forza che riveste dentro il carcere: più posti di lavoro, più libri in arabo, e cibo halal macellato secondo il Corano. Il tema più delicato è quello dei “lavoranti”, i detenuti che vengono ammessi alle diverse mansioni all’interno del carcere. Non solo perché vengono (anche se modestamente) retribuiti, ma anche per la relativa libertà di movimento di cui i carcerati addetti alla distribuzione del cibo o della spesa, o impiegati nelle pulizie, godono inevitabilmente, e che ne fa degli strumenti di collegamento tra i diversi reparti. Per questo, i vecchi clan malavitosi italiani facevano di fatto da “ufficio di collocamento” interno: un ruolo di cui oggi puntano a impadronirsi i clan venuti dal Maghreb. In carcere è guerra di religione Nel carcere di Opera le preghiere del Ramadan disturbavano i detenuti italiani: ma quando uno di loro ha osato protestare, è stato aggredito e picchiato dai prigionieri musulmani. Ne è scaturito un regolamento di conti di violenza inaudita, e solo per caso non è scappato il morto. Da una parte gli italiani, tra cui un ergastolano, e altri legati al mondo del crimine organizzato; dall’altra il fronte compatto degli arabi, che nel supercarcere di via Ripamonti sta assumendo dimensioni e potere sempre maggiori. Arabi ed italiani si sono scontrati con armi improvvisate. E quando sono intervenuti gli agente di polizia penitenziaria per impedire che il “capo” degli arabi venisse ammazzato, gli italiani si sono rivoltati pesantemente contro di loro, accusandoli di proteggere i musulmani e colpendoli violentemente. La notizia del violento scontro era rimasta chiusa all’interno del carcere. Ma la Procura ha avviato una inchiesta sulla base dei rapporti della polizia penitenziaria e dei referti medici. L’indagine è stata condotta dal pubblico ministero Antonio Sangermano che ha inviato nei giorni scorsi otto avvisi di chiusura indagini ad altrettanti protagonisti del regolamento di conti (sei italiani e due arabi): nelle carte dell’inchiesta, un ritratto di come anche nel mondo carcerario i rapporti di forza tra italiani e stranieri stiano cambiando radicalmente, mettendo in discussione la supremazia della vecchia “mala”. Coltellate tra italiani e islamici Scena: le docce del carcere di Opera. Protagonisti: da una parte un gruppo di detenuti italiani, gente di peso, alcuni provenienti dalle fila della malavita organizzata; dall’altra parte, un plotone di detenuti arabi. Il regolamento di conti parte all’improvviso, cogliendo di sorpresa le guardie, ma era nell’aria da tempo: tanto che, da una parte e dall’altra, c’è chi alla doccia si è presentato già attrezzato per lo scontro, armato di quelle armi artigianali che da sempre in carcere spuntano fuori al momento dello scontro. La rissa esplode furibonda e incontenibile. Era da tempo, che in un carcere milanese non si vedeva tanta violenza. Del tutto inedito, poi, è il movente che scatena la battaglia: l’insofferenza degli italiani per i riti religiosi della comunità musulmana, le preghiere a tutte le ore il cui eco rimbalza dalle celle e invade i reparti del supercarcere. Di quella rissa che ha cambiato gli equilibri interni alla più tosta delle tre prigioni milanesi non era trapelato nulla all’esterno. Ma i rapporti erano inevitabilmente arrivati sui tavoli della Procura. Il pubblico ministero Antonio Sangermano ha lavorato a lungo per ricostruire non solo la dinamica precisa dello scontro furibondo, ma anche le sue cause e la sua genesi. E nei giorni scorsi ha inviato a otto protagonisti (su entrambi i versanti) del regolamento di conti l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio per rissa aggravata, lesioni, nonché per resistenza e violenza a pubblico ufficiale: perché quando gli agenti di polizia penitenziaria cercarono di sedare la rissa e separare i contendenti, le botte arrivarono anche per loro. Di scontri tra etnie per la supremazia in carcere, da quando quello delle prigioni è diventato un universo marcatamente multietnico, ce ne sono già stati: memorabile quello di un paio d’anni fa a San Vittore, albanesi contro marocchini. Ma lo scontro nelle docce di Opera vede per la prima volta una comunità straniera andare senza timori reverenziali allo scontro con gli italiani, cioè con il gruppo etnico la cui supremazia in carcere non era mai stata messa in discussione. Ed è significativo il fatto che lo scontro frontale si sia consumato intorno ai riti religiosi che costituiscono un poderoso collante della comunità islamica. In gioco, insomma, non c’era solo l’inquinamento acustico causato dalle preghiere, ma la supremazia in carcere. L’avviso di conclusione delle indagini è stato notificato ai detenuti negli altri carceri dove sono stati tutti trasferiti dopo la rissa. Sono accusati dalla Procura di “avere dato vita a una rissa scaturita all’interno della casa di reclusione di Milano Opera, tra soggetti ivi detenuti a seguito dell’aggressione attuata dal detenuto H.H. nei confronti del detenuto S.G., il quale intendeva verbalmente rimostrare per i disagi arrecati dal predetto H.H. e da altri detenuti di fede islamica nella realizzazione delle pratiche religiose connesse al Ramadan, svolte anche in orario notturno, con conseguenti fastidi per gli altri detenuti di fede non islamica, rissa connotata da reciproche offese alla incolumità personale dei soggetti che vi partecipavano, schierati in due gruppi di contendenti”. Giustizia: Riccardo Arena (Radio Carcere); donne senza cure e bimbi detenuti di Vincenza Foceri www.clandestinoweb.com, 8 novembre 2011 L’emergenza carceri ha anche una declinazione al femminile. Le donne che finiscono nelle prigioni italiane convivono con problemi alle volte insopportabili, che calpestano la loro femminilità, che non rispettano nemmeno l’aspetto della salute. Riccardo Arena, direttore di Radio Carcere, cha raccolto nel suo programma una serie di storie che la dicono lunga sulla situazione. Come vivono le donne nei penitenziari italiani? Anche se le donne sono una minoranza nelle carceri italiane, purtroppo il sovraffollamento ha invaso anche le sezioni femminili. Qui, non diversamente da quanto accade nelle sezioni maschili, si convive con spazi carenti e igiene scarsissima. Si può parlare, quindi, di un’emergenza al femminile? Assolutamente si e le storie di vita quotidiana ce ne danno conferma. Nel corso della mia trasmissione ha raccolto la testimonianza di Silvia che racconta come nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, la più grande d’Italia, ci sono anche 7 /8 detenute per cella. Per colpa del sovraffollamento e dell’assenza di spazi qui le detenute non possono fare nessuna attività, vivono le loro giornate nell’ozio. E poi ci sono altri racconti che la dicono lunga su come viene denigrata la femminilità in carcere. Nell’Istituto di Sollicciano a Firenze non hanno il ginecologo, mentre a Catania non si possono avere assorbenti e ci sono difficoltà nel reperire saponi specifici per l’igiene intima. E non è un caso che qui le infezioni vaginali siano diffusissime. E cosa succede quando queste detenute hanno un bisogno urgente di cure o prodotti? Si arrangiano. Se hai i soldi e puoi comprarti gli assorbenti, con tempi molto lunghi, ti arrivano se no resti senza. Quanto al ginecologo nulla, aspetti di uscire per farti visitare. Una ragazzo detenuta a Catania, di 23 anni, ad esempio, non ha avuto il ciclo per diversi mesi. Lo ha detto al medico generico del carcere il quale le ha detto che era colpa dello stress da detenzione. Tuttavia, quando è uscita si è fatta una visita e le è stata diagnosticata una menopausa precoce. È assurdo che questa ragazza, così giovane, per trascuratezza rischia di non avere più figli. Nelle sezioni femminili delle carceri italiane vivono anche i bambini, fino ai tre anni. I nidi nei penitenziari son un problema ancora irrisolto, perché? I bambini detenuti con le mamme, al momento, sono 70 in Italia. Vivono in prigione con le madri fino ai tre anni. Vengono perquisiti come gli adulti, patiscono le puzze e la cattiva igiene del carcere. E poi è veramente drammatico vedere che questi bambini che quando si chiude il blindato della cella battono sulle sbarre. Inoltre, una volta usciti parlano il linguaggio del carcere. Quando devono uscire, andare in un parco dicono, ad esempio, “Andiamo all’aria”, oppure quando vedono un vigile urbano lo apostrofano con la parola “guardia”. Il carcere per loro è un trauma, una vergogna per tutto il paese. Inoltre la cosa peggiore non è tanto la detenzione ma quanto l’allontanamento al terzo anno di età dalla mamma. La mamma resta in carcere e il bambini al raggiungimento del terzo anno vengono letteralmente strappati dalle loro braccia. Come si è tentato di risolvere il problema? Si è tentato di risolvere il problema con la Legge Finocchiaro, che prevedeva misure alternative per le madri ma è servita a poco. Poi è arrivato Alfano che ha ripetuto come una nenia “Mai più bimbi in carcere”. Alla fine nel marzo del 2011 il Parlamento ha approvato una legge sulle mamme detenute che non soltanto convince poco ma entrerà in vigore solo a partire da gennaio del 2014. E nel frattempo che facciamo? Niente ce ne freghiamo che i bambini stiano in carcere. Qual è la soluzione definitiva secondo te? Non serve una legge del Parlamento. Basta un accordo amministrativo, come è successo a Milano. Nel carcere di San Vittore il problema è stato risolto con un semplice accordo tra Dap, carcere e comune. Le detenute con bambini vengono mandate in un appartamento di Milano nel quale è stata creata una sezione femminile speciale. Qui le donne detenute stanno con i loro bambini. Le porte delle stanze vengono chiuse la sera e riaperte la mattina. I bambini vanno all’asilo e gli agenti vestono in borghese. Tutto funziona alla perfezione e non è servito nient’altro se non un po’ di buona volontà e buon senso. Il punto è questo: se questa politica, di destra e di sinistra senza distinzione, non è in grado di risolvere il problema di 70 bambini detenuti come pensiamo possa riuscire a risolvere il problema di 68 mila detenuti e 4 milioni di processi pendenti? Giustizia: l’agonia in una cella della caserma… ecco come hanno lasciato morire Saidou di Paolo Berizzi La Repubblica, 8 novembre 2011 Brescia, in un video l’agonia in caserma del senegalese. L’avvocato: riaprire le indagini. L’uomo venne ucciso da un attacco d’asma “Nessuno lo ha soccorso”. Grida per chiedere aiuto, picchia le mani contro la porta della cella, disperato. Le dita che escono dallo spioncino. Quando il carabiniere lo fa uscire, inizia una lenta, atroce agonia: 8 minuti durante i quali l’uomo è paralizzato dal dolore, il respiro spezzato, lo sguardo moribondo. E nessun militare interviene. Lo lasciano lì, da solo, con la morte che lo sta strappando via dalla porta di ferro alla quale si aggrappa mentre a fatica si toglie i vestiti e tira fuori lo spray dalla tasca dei pantaloni, in un ultimo, inutile, tentativo di riuscire a respirare. Poi si accascia a terra, e muore. Sono gli ultimi minuti di Saidou Gadiaga, 37 anni, senegalese, morto dopo un attacco di asma in una cella della caserma Masotti, sede del comando provinciale dei carabinieri di Brescia. È la mattina del 12 dicembre 2010. Quella sequenza di morte - sulla quale un magistrato ha indagato per un anno e poi chiesto l’archiviazione del caso - è contenuta in un video di cui Repubblica è entrata in possesso. Le immagini, registrate da una telecamera puntata sull’atrio antistante le due camere di sicurezza, non mostrano solamente il calvario di un uomo che soffriva d’asma e che è stato abbandonato a se stesso: assieme a nuovi elementi - forse sottovalutati -, riapre, di fatto, una vicenda che da subito era sembrata controversa. A tal punto da attivare il console senegalese a Milano e interessare i vertici dello Stato africano. Raccontiamola. È l’11 dicembre. Gadiaga viene arrestato dai carabinieri perché sprovvisto del permesso di soggiorno e già raggiunto da provvedimento di espulsione. Se lo avessero fermato tredici giorni dopo - quando anche l’Italia recepisce la normativa europea sui rimpatri che annulla il reato di inottemperanza al provvedimento di espulsione - le manette non sarebbero scattate. Ma tant’è. Su indicazione dello stesso pm Francesco Piantoni, l’immigrato non viene rinchiuso in carcere ma nella caserma di piazza Tebaldo Brusato. Gadiaga è un paziente asmatico. I carabinieri lo sanno perché ha subito mostrato il certificato medico. Alle prime ore del mattino il senegalese ha una crisi. Lo conferma un testimone, Andrei Stabinger, bielorusso detenuto nella cella accanto. “Sono stato svegliato dal detenuto che picchiava contro la porta e chiedeva aiuto gridando. Aveva una voce come se gli mancasse il respiro. Dopo un po’ di tempo ho sentito che qualcuno apriva la porta della cella e lo straniero, uscito fuori, credo sia caduto a terra”. Quanto tempo è trascorso tra la richiesta di aiuto e l’intervento del militare? “Penso 15-20 minuti - fa mettere a verbale il testimone - durante i quali l’uomo continuava a gridare e a picchiare le mani contro la porta”. Il video fissa la scena e i tempi. Da quando si vedono le dita di Gadiaga sporgere dallo spioncino (sono le 7.44, l’uomo sta chiedendo aiuto già da parecchi minuti) all’arrivo del carabiniere, passano due minuti e 35 secondi. Gadiaga, uscito finalmente dalla cella, cade a terra alle 7.52: otto minuti dopo essersi sporto dalla camera. Altri 120 secondi e arrivano i medici del 118. Gadiaga è già privo di conoscenza, per lui non c’è più niente da fare. L’autopsia conferma che la morte è avvenuta a causa di “un gravissimo episodio di insufficienza respiratoria comparso in soggetto asmatico”. E attesta, inoltre, che l’uomo “era clinicamente deceduto già all’arrivo dell’autoambulanza”. La versione dei carabinieri disegna un quadro un po’ diverso. Nella relazione di servizio inviata alla Procura, e in altre comunicazioni al consolato senegalese, i militari collocano il decesso di Gadiaga in ospedale, parlano di un aneurisma, escludono ritardi e carenze nei soccorsi. Il maresciallo che apre la porta all’immigrato viene addirittura premiato dal comandante provinciale dell’Arma. Che dice: “In un video che abbiamo consegnato alla Procura c’è la conferma della nostra umanità”. Il video, però, racconta altro. Quando esce dalla cella Gadiaga, in evidente stato confusionale, viene lasciato solo. I militari fanno notare che l’ultima uscita dalla cella - per fare pipì - dell’immigrato, risale a otto minuti prima della crisi: “Stava bene”. In realtà l’orario delle immagini fissa quell’uscita 26 minuti prima: non otto. La testimonianza dell’altro detenuto fa il resto. “Perché i carabinieri hanno detto che Gadiaga è morto in ospedale e non in cella?”, ragiona l’avvocato Manlio Gobbi. E perché - di fronte a tanti punti oscuri - il pm ha chiesto l’archiviazione del caso? “Chiediamo nuove indagini, da subito”, aggiunge. Il consolato del Senegal, da parte sua, promette che andrà fino in fondo per chiedere che sia fatta chiarezza. Idv: La Russa faccia chiarezza su morte Gadiaga “Il ministro La Russa deve fare chiarezza sulla morte del trentasettenne Saidou Gadiaga e verificare le eventuali responsabilità della mancata assistenza medica al detenuto senegalese. Il video denuncia di è agghiacciante perché mostra l’agonia dell’africano, in preda ad una crisi d’asma, nella più totale indifferenza. Non vorremmo che si trattasse di un altro caso Cucchi”. È quanto afferma in una nota il portavoce dell’Italia dei Valori, Leoluca Orlando. “Non è tollerabile che si lasci morire così un essere umano - aggiunge l’esponente dipietrista - fra atroci sofferenze. Abbiamo presentato un’interrogazione al ministero della Difesa affinché sia fatta luce su quanto è accaduto il 12 dicembre del 2010 nella caserma del comando provinciale dei carabinieri di Brescia di piazza Tebaldo Brusato”. Difesa: interrogazione su morte Gadiaga rivolta ad altro ministero “Sulla morte del detenuto senegalese Saidou Gadiaga c’è già un’interrogazione parlamentare, rivolta ad un altro ministero, non alla Difesa, che è competente per la risposta”. È quanto precisano all’Adnkronos fonti del ministero della Difesa, dopo la richiesta che il portavoce dell’Idv Leoluca Orlando ha rivolto al ministro della Difesa Ignazio La Russa di far chiarezza sull’argomento. Da palazzo Baracchini si resta “in attesa che l’azione della magistratura faccia il suo corso” su quanto avvenuto il 12 dicembre 2010 nella caserma del comando provinciale dei carabinieri di Brescia e si ricorda che “anche in altre occasioni, l’Arma dei Carabinieri è risultata del tutto estranea ad accuse di questo genere”, esprimendo “la sincera solidarietà ai Carabinieri da parte del ministero della Difesa”. Consolato Senegal chiede chiarezza sul web video shock Il consolato del Senegal ha chiesto che venga fatta chiarezza sulla morte per un fortissimo attacco d’asma di Saidou Gadiaga, senegalese di 37 anni deceduto il 12 dicembre scorso dopo aver avuto un malore in una cella di sicurezza nella caserma Masotti, sede del comando provinciale dei carabinieri di Brescia. Anche l’avvocato Manlio Vicini e i familiari dell’uomo hanno sollecitato nuove indagini sulla morte dell’uomo. Oggi sul web è stato pubblicato un video shock. Le immagini, riprese dalle telecamere di sicurezza della caserma, mostrano l’uomo che si sente male, cerca aiuto e poi viene soccorso. Sulla tempistica ci sono sempre state discordanze tra le versioni dei carabinieri e quelle di altri detenuti nelle celle di sicurezza. Gadiaga era stata arrestato l’11 dicembre 2010 dai carabinieri perché irregolare. Giustizia: caso Cucchi; ex direttore Asl, da indagine interna la sua fu “morte improvvisa” Ansa, 8 novembre 2011 Quella di Stefano Cucchi fu una morte improvvisa e inattesa. Sono entrati a far parte del fascicolo processuale gli esiti dell’indagine interna effettuata dalla “Uoc Risk Management” dell’Asl Rm/B sulla cause del decesso del giovane romano una settimana dopo il suo arresto per droga nell’ottobre 2009. È stata l’ex direttore generale dell’azienda sanitaria, Flori Degrassi, a fornire i dati dell’indagine nel corso dell’udienza di oggi del processo. I risultati, nel novembre 2009, portarono alla revoca del trasferimento d’ufficio in precedenza disposto per Aldo Fierro, responsabile del reparto medico penitenziario, e per i medici Stefania Corbi e Rosita Caponnetti; tutti e tre, oggi nell’elenco degli imputati che prevede anche altri tre medici, tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria. Per il resto, la Degrassi, insieme con l’ex direttore sanitario dell’Asl Rm/b Antonio D’Urso e con il direttore sanitario del carcere di Rebibbia, hanno poi illustrato le procedure d’ingresso dei pazienti/detenuti nella struttura penitenziaria protetta, nonché i termini del protocollo firmato con il ministero della Giustizia al fine di regolamentare la fase della richiesta di informazioni dei familiari dei detenuti. “All’epoca - ha spiegato D’Urso - i medici non potevano dare informazioni senza l’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria. Dopo la morte di Cucchi, un ordine di servizio del dirigente amministrativo del carcere di Rebibbia autorizzò la polizia penitenziaria a comunicare ai medici eventuali richieste di informazioni da parte dei familiari dei detenuti-pazienti”. Visto in aula filmato sopralluogo celle tribunale Un filmato con le immagini del sopralluogo che alla fine di novembre 2009 fu fatto dalla polizia scientifica nelle celle della Città giudiziaria romana di piazzale Clodio è stato visto in aula oggi nell’ambito del processo sulla morte di Stefano Cucchi, il romano di 31 anni fermato il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo all’ospedale capitolino “Sandro Pertini”. Le immagini, illustrate dal sostituto commissario della Polizia scientifica Armando Parmegiani e poi confermate dall’assistente di polizia Francesco Stirpe, sono servite ai giudici per fissare la zona delle celle. Ancor più importante dopo che qualche giorno dopo la morte di Cucchi fu sentito un detenuto del Gambia che il 16 ottobre 2009 si trovava nelle stesse celle dove c’era Cucchi. Due i sopralluoghi compiuti con il gambiano: nel primo disse di non essere in grado di riconoscere quelle celle e quel corridoio; nel secondo, tre giorni dopo, invece, disse di aver assistito al pestaggio di Cucchi. Secondo quanto confermato oggi in aula, dal video la visione dello stato dei luoghi è apparsa assolutamente parziale, mentre da una fotografia allegata agli atti processuali la visibilità è stata ritenuta sufficiente a vedere quanto accaduto. Tesi, questa, contestata dalla difesa, secondo la quale la visibilità era limitata al massimo a vedere la spalla di una persona. È stata sentita oggi in aula anche la genetista Carla Vecchiotti, la quale ha accertato che all’interno e all’esterno della gamba sinistra del jeans di Cucchi c’erano macchie del suo sangue. Quella all’interno aveva la forma di una strisciata compatibile secondo l’accusa col fatto che il gambiano sostenne che Cucchi si era alzato il pantalone per mostrargli la ferita. La prossima udienza saranno sentiti i consulenti medico-legali del pm. Marche: convegno su svantaggio sociale di sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria Agenparl, 8 novembre 2011 Superare lo svantaggio sociale di adulti e minori sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria è uno degli obiettivi perseguiti dalla Regione Marche per il miglioramento delle condizioni di vita all’interno delle carceri e in vista di un reinserimento nella società. Il tema sarà al centro di un convegno, organizzato dall’Assessorato alle Politiche sociali, in programma giovedì 10 novembre, alle ore 9, ad Ancona, nella Sala Parlamentino di Palazzo Li Madou. “Nel 2008 - spiega l’assessore Luca Marconi - è stata approvata una legge in materia per la realizzazione di un sistema integrato di servizi. A tre anni di distanza, pensiamo sia utile fare il punto sullo stato di attuazione, sui risultati raggiunti e sulle criticità; ma, soprattutto, sarà l’occasione per illustrare l’insieme degli interventi che andremo a finanziare per il 2011, primo tra tutti il progetto di inserimento lavorativo per i detenuti”. “Un lavoro lungo - dichiara Marconi - portato avanti raccogliendo le indicazioni del Consiglio e del difensore civico regionale. Un piano d’interventi fortemente voluto perché solo garantendo condizioni di vita accettabili all’interno del carcere e costruendo le condizioni per un pieno inserimento in seno alla società una volta scontata la pena, si potranno ottenere benefici sia per i singoli individui che per l’intera comunità”. Al convegno interverranno, tra gli altri, Sebastiano Ardita (direttore generale Ufficio detenuti e trattamento, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Ministero della Giustizia), Giorgio Caraffa (direttore sanitario dell’Asur), Elena Cicciù (coordinatore del Centro regionale per la mediazione dei conflitti Regione Marche), Patrizia Giunto (responsabile Ufficio Servizi Sociali Minorenni delle Marche, Centro Giustizia Minorile, Ministero della Giustizia), Patrizio Gonnella (presidente dell’Associazione Antigone), Daniela Grilli (responsabile area trattamento, Provveditorato Amministrazione Penitenziaria Marche, Ministero della Giustizia), Paolo Mannucci (dirigente PF Coordinamento Politiche sociali, Regione Marche), Marco Nocchi (responsabile area prevenzione e disagio sociale, Regione Marche), Elena Paradiso (responsabile dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, Provveditorato Amministrazione Penitenziaria Marche, Ministero della Giustizia), Serena Tomassoni (presidente della Conferenza regionale volontariato giustizia), Italo Tanoni (Ombudsman regionale e Garante dei diritti dei detenuti delle Marche). Previsto uno spazio artistico con letture teatrali di Luca Violini. Le conclusioni saranno affidate all’assessore Marconi. Rieti: venerdì alla Casa circondariale il convegno “Assistenti volontari e polizia penitenziaria” Dire, 8 novembre 2011 Venerdì 11 Novembre presso la Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso, organizzato dal SEAC - Coordinamento nel Lazio degli Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario, si svolgerà il convegno “Assistenti Volontari e Polizia Penitenziaria”. Partecipi di un impegno comune e programmato al trattamento rieducativo dei detenuti”. Il volontariato penitenziario cristiano opera da decenni nelle carceri italiane per l’ assistenza e per la rieducazione finalizzate al reinserimento sociale dei detenuti. Il Coordinamento SEAC è da sempre attivo per la riflessione e per la proposta legislativa, migliorativa del sistema penitenziario finalizzato al rispetto della dignità umana e alla rieducazione dei detenuti, il processo di rieducazione è essenza e condizione per l’ accesso alle misure alternative alla detenzione. Per queste finalità gli Assistenti Volontari danno la loro collaborazione all’ Area Educativa negli Istituti Penitenziari, soprattutto in questo periodo di grande difficoltà dovuta al sovraffollamento e alla mancanza di risorse economiche necessarie. La vigilanza nelle carceri è garantita dalla Polizia Penitenziaria insieme ad altri numerosi compiti ad essa affidati, ma la riforma della Legge 395/1990 prevede anche la partecipazione, nell’ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati, - compito istituzionale mai concretamente attuato - afferma il Coordinatore Seac nel Lazio Nazzareno Figorilli. L’ importanza del convegno è data dalla partecipazione dei vertici dell’Amministrazione Penitenziaria con il vice capo vicario del DAP Emilio di Somma, del Provveditore del Lazio Maria Claudia Di Paolo, del Direttore del Nuovo Complesso della Casa Circondariale di Rieti Annunziata Passannante, del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma Giovanni Tamburino, del Segretario Generale Aggiunto del Sappe Sindacato di Polizia Penitenziaria Giovanni Battista Durante, del Presidente Nazionale del Seac Luisa Prodi. Partecipano al convegno Assistenti Volontari di molte Regioni ed appartenenti alla Polizia Penitenziaria. Cuneo: i detenuti parlano dalle finestre, vietata la sosta nella via davanti al carcere www.cuneocronaca.it, 8 novembre 2011 La decisione dopo le segnalazioni di scambi di oggetti e di comunicazioni verbali tra i detenuti e le persone all’esterno. La Polizia Municipale di Cuneo ha emesso un’ordinanza con la quale vieta la fermata dei veicoli in via Roncata, di fronte ai padiglioni del carcere, nella frazione di Cerialdo. Il provvedimento è stato reso operativo attraverso cartelli. Spiega la comandante Stefania Bosio. “Il problema è sorto soprattutto dopo l’apertura del nuovo padiglione (255 posti), che è stato costruito forse troppo vicino alla strada. Il direttore del carcere e il comandante della Polizia Penitenziaria ci hanno segnalato che, in numerose occasioni, i detenuti, anche quelli sottoposti al regime duro del 41 bis, parlavano con le persone - si presume i famigliari - ferme sulla macchine in via Roncata. Quindi, d’accordo con loro, abbiamo deciso di imporre il divieto di fermata, in modo da garantire le condizioni di sicurezza della struttura carceraria”. Parrebbe, infatti, che, oltre alle comunicazioni verbali, tra le persone all’esterno e la popolazione detenuta ci fossero pure degli scambi di oggetti. Una situazione non tollerabile e impossibile da gestire senza alcun tipo di restrizione. Rimane il problema di far rispettare il provvedimento. “In questo caso - sottolinea la comandante Bosio - non si tratta di divieto di sosta, per cui se c’è una persona sopra la macchina la si invita a cercare un altro posto, ma il provvedimento è più radicale perché non consente proprio di fermarsi. Di conseguenza, a parte più gravi responsabilità penali, la violazione è punita, in ogni caso, con la multa, come previsto dal Codice della strada. E lo possono fare direttamente gli operatori della Polizia Penitenziaria, senza dover chiedere l’intervento delle altre Forze dell’ordine”. Conclude la comandante: “La questione non è di viabilità, ma di sicurezza del carcere. Speriamo, perciò, che, grazie al provvedimento, si possa ovviare al problema”. Venezia: la presidente della Provincia visita il carcere femminile della Giudecca Il Gazzettino, 8 novembre 2011 La presidente della Provincia di Venezia Francesca Zaccariotto ha visitato oggi il carcere femminile della Giudecca, accogliendo un invito del direttore dell’istituto penitenziario Gabriella Straffi e del presidente della cooperativa sociale Il Cerchio Gianni Trevisan. La presidente ha visitato tutto l’edificio, un antico ex convento di suore, le camerate con cucina delle detenute, l’asilo nido, la biblioteca, spazi nei quali le detenute si possono muovere senza restrizione di orario. Particolarmente apprezzati i luoghi di lavoro delle detenute: i laboratori di cosmesi naturale, l’orto a coltivazione biologica (curato dalle ospiti dell’istituto insieme alla cooperativa Rio Terà dei Pensieri), la sartoria, la lavanderia, la stireria, dove le detenute apprendono un lavoro retribuito e avviano un percorso di recupero e formazione. Presidente Zaccariotto: “È lodevole lo sforzo della direzione del carcere e delle cooperative di insegnare un lavoro alle detenute, che poi può diventare la loro attività, una volta ritornate libere. Mi è piaciuto molto il rapporto di collaborazione fra la struttura carceraria e la vita produttiva della città di Venezia e del territorio. Il fatto per esempio che i prodotti dell’orto siano commercializzati e apprezzati dalla clientela, che il laboratorio di cosmesi venda i suoi prodotti ai migliori alberghi della città e ai negozi specializzati è un segnale di grande significato. Le detenute imparano a riconoscere il valore del lavoro, il rispetto delle regole e la legge della domanda e dell’offerta del mercato”. Il direttore del carcere Straffi ha ricordato come l’obiettivo primario del carcere sia il recupero integrale della persona e il lavoro è un tassello fondamentale di questo percorso. Ha poi mostrato i diversi progetti in corso, in particolare la nuova area dove saranno ospitate in un prossimo futuro le mamme con bambini, che sarà colorata, curata e arredata in modo adatto ad ospitare un bambino e che avrà un ingresso del tutto autonomo rispetto al resto della struttura. Bologna: carcere Dozza; i soldi non ci sono… e i furgoni della polizia penitenziaria restano in garage La Repubblica, 8 novembre 2011 Fanali rotti, gomme bucate non sostituiti, mezzi nuovi ma fermi perché non si può fare il tagliando. “Nelle carceri italiane non si riescono a svolgere i compiti istituzionali a causa della mancanza di risorse economiche”, denuncia il sindacato della polizia penitenziaria. In garage, coi motori spenti, restano fermi un furgone nuovo di zecca, ma senza tagliando; un’auto anch’essa senza tagliando e cui serve un treno di gomme nuove; un altro furgone che avrebbe bisogno di sei nuove gomme e un fanale, oltre che la cella interna per il trasporto delle persone; un altro mezzo che presenta infiltrazioni d’acqua, un altro ancora con parabrezza e lampeggiante rotti, un autobus con la gomma forata, un furgoncino lasciato in officina perché non ci sono i soldi per pagare il meccanico. Totale: quasi 10mila euro, senza i quali dal carcere della Dozza non si muove nessuna vettura. È infatti il sindacato della polizia penitenziaria a stilare questo elenco che comprende otto mezzi al palo o inutilizzabili perché non ci sono i fondi per rimetterli in moto o adeguarli. “Nelle carceri italiane - denuncia il segretario aggiunto Giovanni Battista Durante - ormai, non si riescono più a svolgere i compiti istituzionali, a causa della mancanza di risorse economiche. Ciò incide sul mancato pagamento delle missioni e dello straordinario al personale, spesso costretto ad anticipare i soldi dal proprio stipendio, ma anche nel servizio delle trasporto dei detenuti, per il quale il provveditorato deve mandare i mezzi da altri istituti, fin quando anche lì non avranno gli stessi problemi, considerato che molti di questi hanno già’ fatto 300-400mila chilometri. Credo che presto saremo costretti ad incrociare le braccia”. Napoli: detenuto a Santa Maria Capua Vetere tenta il suicidio in cella, salvato dagli agenti Ansa, 8 novembre 2011 Un detenuto di 36 anni, rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ha tentato il suicidio nella mattinata di oggi ed è stato salvato grazie al tempestivo intervento della polizia penitenziaria. Il giovane, a quanto si è appreso, avrebbe tentato di impiccarsi. Era solo in cella perché escluso dalle attività in comune a seguito di un diverbio avuto con un compagno di reclusione. I poliziotti della penitenziaria, coordinati dal commissario Michele Fioretti, lo hanno soccorso immediatamente perché la perlustrazioni delle stanze è costante. Quindi gli agenti allertato subito i sanitari del penitenziario che hanno portato il 36enne in infermeria. Le condizioni del detenuto, originario della provincia di Napoli, per fortuna, non destano più preoccupazioni. Porto Azzurro (Li): aggressioni in carcere, sindacato Fsa Cnpp chiede trasferimento detenuti violenti Il Tirreno, 8 novembre 2011 “Allontanare al più presto in altri istituti quei soggetti non più governabili che si siano resi protagonisti di fatti gravi nei confronti del personale”. Questa la richiesta che i rappresentanti del sindacato della polizia penitenziaria Fsa Cnpp hanno inoltrato al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Firenze, al direttore del carcere di Porto Azzurro e al Prefetto dopo le ultime aggressioni a due agenti da parte di un detenuto. Due episodi consecutivi - che seguono ingiurie e minacce da parte dell’uomo al personale della penitenziaria e che hanno procurato lesioni, fortunatamente non gravi, ai due agenti finiti in ospedale - a seguito dei quali per il sindacato occorrono provvedimenti urgenti e una maggiore attenzione da parte degli organi preposti. Il documento inviato a Firenze, a firma dei sindacalisti Montuori, Mazzei e Pagliuca, sottolinea come il personale in servizio a Porto Azzurro sia di soli 110 agenti contro i 350 detenuti del carcere, non tutti idonei a un regime penitenziario aperto e trattamentale. Ed anche per questo la segreteria del Fsa Cnpp chiede che sia posta “massima attenzione alla tipologia di detenuti da assegnare a questa sede”. Rovigo: picchia un detenuto, ex agente penitenziario condannato a un anno e mezzo Il Gazzettino, 8 novembre 2011 Era già finito in manette per aver chiesto 2.500 euro a un detenuto in cambio dell’uso del proprio cellulare. E due anni fa era stato rinchiuso nel carcere di Padova, con un anno e cinque mesi da scontare per corruzione. Ma per l’ex agente di polizia penitenziaria Luigi Marini, 42 anni, non è finita, perché tra capo e collo gli fiocca un’altra pena. Ieri il tribunale lo ha condannato a un anno e mezzo di reclusione per le lesioni procurate a un detenuto. Assoluzione piena invece, come chiesto dal pm Stefano Longhi, per il reato di abuso d’ufficio. Il rodigino, residente a Costa, era imputato per alcuni episodi avvenuti all’interno della casa circondariale di via Verdi nel gennaio 2005. In un caso era stato accusato di aver percosso un detenuto con un manico di scopa. Un’altra volta Marini, invece di riportare in cella un carcerato, l’aveva condotto in quella di altri due, permettendo che lo prendessero a schiaffi. Gli episodi sono stati confermati da circostanze e testimoni e alla fine è arrivata la condanna: un anno e sei mesi per lesioni. Caduta invece l’accusa di abuso d’ufficio, per la quale l’agente è stato assolto. Marini, addetto alla vigilanza della sezione maschile, ha già alle spalle una serie di grane giudiziarie. Anni fa era stato condannato a sette mesi di reclusione (pena sospesa) per il favoreggiamento di un detenuto, per conto del quale aveva portato all’esterno del carcere di via Verdi alcune lettere. Quindi, nel 2007, era scoppiato il caso del cellulare ceduto a un carcerato in cambio del pagamento di 2500 euro. In realtà si trattava di un agente sotto mentite spoglie. Una trappola messa in atto dalla Squadra mobile, dopo che alcuni suoi colleghi si erano insospettiti per alcuni comportamenti troppo confidenziali di Marini con i detenuti. Due anni fa la condanna a un anno e cinque mesi, con ordinanza di carcerazione a Padova. E ieri ecco la nuova botta da un anno e sei mesi: l’ultimo conto rimasto da saldare. Milano: Uil; a San Vittore la caserma degli agenti è in condizioni indecorose Agi, 8 novembre 2011 Risolvere i problemi della Caserma di San Vittore (la “ex semiliberi” di via Azario 8) e aumentare il numero dei parcheggi. La richiesta, rivolta all’assessore ai lavori pubblici Lucia Castellano, è stata messa nero su bianco in una lettera del sindacato Uil Penitenziari. “La caserma - sottolinea il sindacato - versa in condizioni igienico sanitarie indecenti. Gli ambienti sono insalubri e fatiscenti, le pareti sono sporche, i vetri di alcune finestre sono rotti, le infiltrazioni d’acqua sono diffuse. Alle finestre delle camere, poi, sono ancora apposte le sbarre”. Altra questione quella dei posti auto. “L’area utilizzata per parcheggiare - si legge nella lettera - è insufficiente per soddisfare un’utenza così numerosa, visto anche l’utilizzo non esclusivo dell’area”. Arezzo: detenuto fa sesso con fidanzata nella sala colloqui, per il giudice non è reato Ansa, 8 novembre 2011 Aveva fatto sesso orale nel parlatorio del carcere con la fidanzata e per questo era stato picchiato dai compagni di cella. Denunciato per atti osceni, è stato assolto dal giudice perché il fatto era avvenuto non in luogo pubblico ma in una sala protetta e sorvegliata. Protagonista dell’insolita vicenda un dominicano di 43 anni che si trovava in carcere ad Arezzo per altri reati. La vicenda, rievocata oggi in aula davanti al giudice Isa Salerno, si è svolta alcuni anni fa nel penitenziario aretino di San Benedetto. Durante un colloquio l’uomo ebbe effettivamente un rapporto sessuale con la fidanzata. Qualche giorno dopo fu picchiato dagli altri detenuti poiché gli stessi temevano che l’episodio avrebbe comportato la sospensione dei colloqui per tutti. Oggi la conclusione del processo, dopo numerose udienze durante le quali sono stati ascoltati i compagni di cella dell’imputato e la guardia penitenziaria di servizio quel giorno che ha confessato di non essersi accorto del rapporto orale. Il pm Francesco Bianchi ha chiesto l’assoluzione dal momento e il giudice ha accolto la tesi dell’accusa assolvendo l’imputato. Nuoro: partita per la libertà… detenuti contro avvocati, geometri, poliziotti L’Unione Sarda, 8 novembre 2011 Non tutte le mura delle carceri di massima sicurezza sono invalicabili. A Badu ‘e Carros, grazie al progetto “Liberi nello Sport” dell’Unione sportiva Acli di Nuoro, col patrocinio della presidenza nazionale e regionale, la scommessa è abbattere idealmente quel muro e avvicinare la vita dei detenuti a quella della città. Il progetto nato l’anno scorso portò a un triangolare di calcio tra gli avvocati dei Fori di Nuoro e Sassari e una squadra di detenuti. Triangolare allora vinto dalla formazione dei detenuti. Quest’anno, grazie all’infaticabile lavoro del presidente provinciale dell’Us Acli Salvatore Rosa e al prezioso contributo della direttrice del carcere Patrizia Incollu, e del comandante della Polizia penitenziaria Alessandro Caria, il progetto raddoppia: un vero e proprio campionato di calcio a otto con la partecipazione di dieci squadre. Due sono quelle dei detenuti - una formata dai carcerati dell’alta sorveglianza “Libera”, e l’altra, “Azzurra”, formata da detenuti comuni - entrambe seguite dal preparatore tecnico Massimo Becconi. Esordiranno sabato prossimo. Giocheranno sempre in casa, dentro il campo dell’istituto di pena, mentre le altre formazioni, le sfidanti, si affronteranno sul sintetico della parrocchia della Beata Maria Gabriella, grazie alla disponibilità di don Pietro Borrotzu. Squadre amatoriali che hanno sposato appieno l’idea che sta alla base dell’intero progetto. Ci sarà la formazione del “Foro di Nuoro” in cerca di rivincita, che dovrà fare però i conti con i giocatori della “Tecnocasa-Erg Murru”, la storica “Longobarda”, “L’Ordine dei geometri”, il “Cral delle Poste”, la “Cna” e i calciatori della “Polizia penitenziaria”. Cento quaranta atleti che si affronteranno nei campi di Badu ‘e Carros e della parrocchia della Beata Maria Gabriella fino alla fine dell’anno. “L’idea - spiega Salvatore Rosa - ha come obiettivo la realizzazione di iniziative che mettano in contatto l’ambiente esterno con la realtà carceraria favorendo il superamento della reciproca diffidenza e la creazione di una rapporto solidale tra società e detenuti. Ma anche - prosegue Rosa - sollecitare all’accettazione di occasioni formative pure in ambito sportivo”. Ma il campionato è solo la prima fase del progetto: l’idea è che il prossimo anno si possa allargare al settore femminile. Ma non solo. L’Us Acli ha avviato una collaborazione con l’associazione degli arbitri nuoresi per attivare un corso all’interno dell’Istituto di pena. Siracusa: corso di formazione per 40 detenuti, diventano allenatori di calcio Redattore Sociale, 8 novembre 2011 Succede nel carcere di Brucoli (Siracusa): 40 reclusi hanno seguito un corso del Coni regionale e hanno ottenuto il titolo di istruttori di primo livello. Costa (Coni): “Sport, formidabile mezzo per il reinserimento”. Quaranta detenuti della casa di reclusione di Brucoli, frazione di Augusta (Siracusa) sono diventati allenatori di squadre giovanili di calcio. La cerimonia di investitura si è svolta ufficialmente ieri nel teatro della casa circondariale nell’ambito della manifestazione conclusiva “Sport e vita”. Su 83 detenuti che avevano chiesto di partecipare al progetto ne sono stati selezionati quaranta, cercando di privilegiare i più giovani e coloro che avevano pene meno lunghe da scontare. A loro è stato riconosciuto il titolo di istruttori di primo livello di calcio, a conclusione di un corso specifico, organizzato dal Coni regionale, in collaborazione con la Scuola dello Sport Coni Sicilia e del Coni Siracusa. Il corso è stato condiviso dalla direzione della casa di reclusione, coinvolgendo un numero notevole di detenuti, che hanno seguito sedici lezioni della durata complessiva di cinquanta ore. Tutti i corsisti hanno sostenuto un esame per il rilascio dell’attestato di partecipazione e il brevetto di primo livello per chi ha superato l’esame finale. All’interno della struttura penitenziaria sono stati costruiti 3 campetti di calcio e 1 di pallavolo. A consegnare gli attestati ai quaranta detenuti sono stati il noto campione Enzo Maiorca, il tecnico-istruttore della Figc Pino Maiori e la docente Paola Cortese. Inoltre hanno preso parte all’evento il direttore del carcere di Brucoli Antonino Gelardi, il coordinatore regionale della scuola dello Sport Sicilia Antonio Palma, il presidente del Coni di Siracusa Pino Corso e il presidente provinciale della Figc Maurizio Rizza. “Il grande impegno dimostrato dagli organizzatori e tecnici, Pino Maiori e Paola Cortese - ha dichiarato il presidente del Coni Siracusa, Pino Corso - ha consentito di affrontare con gli allievi tutte le tematiche, per consentire loro di apprendere nel modo migliore e di assimilare i contenuti sia didattici che tecnici, base importante sia per il conseguimento del brevetto che per spenderlo nel modo migliore, una volta scontata la pena. La finalità del corso oltre che sportiva e didattica è stata naturalmente sociale sia per l’ambiente che per i discenti, i quali hanno avuto modo di approfondire non solo gli aspetti tecnici ma anche i principi basilari dello sport: il rispetto delle regole, di se stessi e degli avversari, il fair play. L’arricchimento complessivo avuto dagli allievi costituirà senza dubbio una grande base sulla quale potranno edificare la loro nuova vita, una volta scontata la pena”. “Riteniamo che la formazione tramite lo sport rappresenti un formidabile mezzo per il reinserimento del detenuto, cittadino nella società - ha riferito il presidente del Coni Sicilia Massimo Costa. La convenzione con la struttura penitenziaria prevede programmi di mantenimento psico-fisico nella vita del detenuto per superare le tensioni che l’ambiente di costrizione può produrre”. Il progetto è stato realizzato grazie a un protocollo d’intesa tra il Coni Sicilia e il carcere di Brucoli, che ha sancito la collaborazione fra Coni regionale e Scuola dello Sport Coni Sicilia con la casa di reclusione, al fine di incentivare l’attività sportiva e implementare nuove strutture. Immigrazione: espulsioni senza retroattività, dopo pronuncia Corte Ue applicazione solo da giugno di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2011 “Dopo le modifiche disposte quest’estate, il reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine di allontanamento del questore nei confronti di un cittadino extracomunitario ha assunto una nuova fisionomia. Tale da fare escludere una continuità normativa con la precedente fattispecie, dando vita a una nuova incriminazione applicabile solo ai fatti verificatisi dopo l’entrata in vigore delle nuove disposizioni. A precisarlo è la Corte di cassazione con la sentenza 36451 della Prima sezione penale che ha affrontato il ricorso presentato contro la condanna riportata da un cittadino extracomunitario per il mancato rispetto dell’ordine impartito dal questore di Varese a lasciare il territorio dello Stato, dopo essere stato destinatario di un provvedimento di espulsione. La Cassazione osserva che il 28 aprile scorso la Corte di giustizia europea, chiamata in causa dalla Corte d’appello di Trento, ha stabilito che la vecchia norma che sanzionava il mancato rispetto dell’ordine di espulsione del questore doveva essere considerata inapplicabile perché in contrasto con la disciplina comunitaria. L’effetto era stato di una vera e propria abolitio criminis con la conseguente necessità, da parte dell’autorità giudiziaria, di dichiarare nei giudizi in corso che il fatto non era più previsto dalla legge come reato. Successivamente è intervenuto il decreto legge 23 giugno 2on, n. 89 con le misure successive per completare l’attuazione della direttiva sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva sul rimpatrio dei cittadini irregolari di Paesi terzi. Il decreto ha riformulato la disposizione “la quale non può dirsi in continuità normativa con la precedente versione, in tal modo confermando l’avvenuta abolitio criminis, non solo per il distacco temporale intercorso tra là sua emanazione e remissione della direttiva comunitaria anzidetta, ma anche per la diversità strutturale dei presupposti e la differente tipologia della condotta richiesta per integrare l’illecito penale in esame”. Infatti, in base alla nuova normativa, all’ordine di allontanamento dal territorio italiano si può arrivare solo dopo che sono risultati senza esito i meccanismi agevolatori della partenza volontaria e al termine del periodo di trattenimento presso un centro di permanenza. Per questo - conclude la Cassazione - bisogna ritenere che ci si trova davanti a una nuova incriminazione, in quanto tale applicabile solo ai fatti che si sono verificati dopo l’entrata in vigore delle misure estive. E se è vero che il ricorso è stato presentato contro una sentenza pronunciata all’esito di un patteggiamento e per questo dovrebbe essere giudicato inammissibile, è però altrettanto vero che l’impossibilità di rilevare cause di non punibilità in presenza di ricorsi inammissibili è destinata a cadere in ipotesi, come quella presa in esame dalla Cassazione, di successione di leggi nel tempo e di abolitio criminis. Stati Uniti: in Texas bloccata l’esecuzione di un detenuto che chiede test Dna Adnkronos, 8 novembre 2011 Una corte d’appello del Texas ha bloccato in extremis l’esecuzione di un detenuto, che da 16 anni si proclama innocente, per poter decidere sulla sua richiesta di un test del Dna. Era prevista per oggi l’iniezione letale che avrebbe ucciso Hank Sinker, condannato a morte con l’accusa di aver ucciso nel 1993 la sua fidanzata ed i suoi due figli. Skinner sostiene che al momento del delitto era sì sulla scena del delitto ma in una sorta di stato comatoso, dovuto ad un mix di alcolici e farmaci, e chiede che venga analizzato il Dna del sangue trovato su una giacca per scagionarlo. Da anni la sua richiesta viene rifiutata - e l’ultimo no era arrivato la scorsa settimana da un giudice distrettuale - e già lo scorso anno Skinner aveva ottenuto una sospensione dell’esecuzione, appena un’ora prima del suo inizio, da parte della Corte Suprema. Ora però i giudici hanno deciso di prendere in considerazione la sua richiesta “perché è cambiata la legge sui test del Dna e perché alcuni cambiamenti sono stati fatti proprio per questo caso”. I giudici ritengono quindi “prudente prendere tutto il tempo necessario per vedere come questi cambiamenti si applicano al caso”. Stati Uniti: la Corte Suprema deciderà sulla costituzionalità dell’ergastolo per i minorenni Tm News, 8 novembre 2011 La Corte Suprema statunitense deciderà sulla costituzionalità della pena dell’ergastolo senza possibilità di condizionale ai minorenni condannati per omicidio: è quanto pubblica il quotidiano statunitense The Washington Post. Nel 2005 la Corte stabilì che i minorenni non potevano essere giustiziati, e nel 2010 limitò la pena dell’ergastolo senza condizionale al solo reato di omicidio, decisioni che obbediscono al principio che le pene per i minorenni non possono essere altrettanto severe di quelle degli adulti. Secondo i dati delle ong vi sono circa 70 detenuti in 18 diversi stati che si trovano in questa situazione, condannati al carcere a vita per crimini commessi all’età di 13 o 14 anni. Messico: prostitute, marijuana e pavoni nel carcere di Acapulco Tm News, 8 novembre 2011 Un’ispezione a sorpresa nel carcere messicano di Acapulco ha portato alla scoperta di 19 prostitute, 100 televisori al plasma, due sacchi di marijuana, 100 galli da combattimento e due pavoni. Stando a quanto riportato da SkyNews, l’ispezione è stata condotta in vista del trasferimento di 60 detenuti in un carcere di massima sicurezza.