Giustizia: carceri in tilt, l’amnistia può aiutare di Antonio Mattone Il Mattino, 7 novembre 2011 “Una vergogna per il nostro Paese, che non ci fa dormire sonni tranquilli”: è stato questo l’allarme del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulle carceri italiane, lanciato parlando ai ragazzi detenuti a Nisida. Attualmente in Italia sono i 67.500 detenuti presenti nei penitenziari, oltre 20.000 in più di quelli previsti. Questa drammatica situazione va avanti ormai da tempo, da quando sono terminati gli effetti dell’indulto, e non si intravede nessuna soluzione per uscirne fuori. Ma oltre al sovraffollamento il “sistema carcere” si trova a dover affrontare anche una grave emergenza economica. Mancano i fondi per comprare la benzina per gli automezzi e i beni di prima necessità, dalla carta igienica al sapone. Il personale dell’amministrazione penitenziaria, poi, lavora in condizioni difficili con l’organico sottodimensionato, costretto a fare turni massacranti, mentre i detenuti hanno soltanto 3,15 euro a disposizione per il vitto giornaliero e vedono diminuire le ore di lavoro all’interno degli istituti. Per non parlare delle difficoltà di chi in carcere si ammala: a causa della riduzione delle scorte per il trasporto in ospedale, della carenza del personale specialistico e delle apparecchiature diagnostiche, è talvolta sottoposto ad attese estenuanti per essere curato. In questo scenario, nei giorni scorsi, il cardinale Sepe ha varcato i portoni dei penitenziari di Secondigliano e di Poggioreale per celebrare assieme ai detenuti il Giubileo delle carceri. L’arcivescovo ha annunciato l’istituzione di alcune borse lavoro per gli ex-detenuti, chiedendo un gesto di clemenza alle Istituzioni in favore dei carcerati. Questa visita evoca l’iniziativa di Giovanni Paolo II che nel 2002, durante la visita al parlamento italiano, chiese in modo solenne un atto di clemenza nei confronti dei detenuti. Quelle parole sollecitarono la classe politica ad emanare l’indulto, provvedimento votato da molti e rinnegato poi da quasi tutte le forze politiche. La ricetta suggerita da tanti per superare questa nuova emergenza è la costruzione di nuove carceri. Ma dove prendere le risorse per realizzare progetti di edilizia penitenziaria capaci di contenere 20.000 detenuti? L’edificazione di nuove prigioni è utile per dare un può di respiro, ma non risolverebbe il problema alla radice. Credo che invece, per superare lo stato di degrado in cui versa il sistema penitenziario italiano, sia necessario mettere in campo un provvedimento di amnistia per i reati meno gravi. Bisogna, inoltre, ampliare ed incentivare il sistema delle misure alternative al carcere. Misure che devono essere estese a tutti i malati gravi e alle persone in età avanzata, che faticano ad accedere alle misure assistenziali garantite dal sistema sanitario nazionale. Sono proposte di buon senso che non espongono la società alla mercé del crimine come qualcuno potrebbe pensare. I dati parlano chiaro. Mentre il carcere italiano produce il 68,45% della recidiva, coloro che hanno usufruito dell’indulto sono rientrati in carcere nel 33,92% dei casi, un tasso questo che rispecchia il tasso di recidiva di chi accede alle misure alternative. Inoltre, chi ha beneficiato di questo provvedimento di clemenza usufruendo di misure alternative (comunità terapeutiche, arresti domiciliari e altro), ha reiterato il reato nel 22% dei casi, tre volte di meno dei normali detenuti che hanno scontato tutta la pena. Questa è la realtà. Chi entra in carcere, a meno che non abbia subito gravi condanne, prima o poi ne esce. Il problema è come ne uscirà. Sappiamo che, questo contesto carcerario, piuttosto che rieducazione produce povertà, emarginazione, disturbi psichiatrici, criminalità. Basti pensare agli effetti del sistema di assistenza che fornisce la camorra ai detenuti e alle loro famiglie. Ma se chi è recluso (penso in particolare a chi è fragile, ai soli, a chi è alla prima esperienza detentiva) viene accompagnato con delle prospettive concrete di reinserimento più difficilmente ritornerà a delinquere. Le pene alternative riducono i reati, questa è la strada per avere una società più sicura. È difficile immaginare un’azione bipartisan dei parlamentari campani che, con coraggio e audacia, propongano quell’atto di clemenza invocato da più parti e atteso da tanti detenuti? Giustizia: Sbriglia (Sidipe); i direttori penitenziari non sono contrari ad un’amnistia Ansa, 7 novembre 2011 Il Sidipe (Sindacato dei direttori dei penitenziari) non è contrario all’amnistia. Lo ha detto oggi il segretario generale, Enrico Sbriglia, direttore del carcere di Trieste. “Se per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri il Parlamento dovesse pensare all’amnistia - ha detto Sbriglia - noi direttori non ne saremmo scandalizzati o indignati. Ci indigna invece ciò che ogni giorno siamo costretti a vedere e subire”. Secondo Sbriglia “le carceri italiane assomigliano sempre di più a favelas ingabbiate, dove il personale - ha detto - vive situazioni di grande stress e sempre più si vergogna per le risposte che non riesce a dare alle istanze dei detenuti e dei cittadini sul pieno riconoscimento di diritti fondamentali che esse devono assicurare”. “Costretti ad esprimere, ancora una volta, indignazione e rabbia per come passi in silenzio tutto ciò - ha detto ancora Sbriglia - noi Direttori penitenziari siamo preoccupati perché il tempo delle barbarie verso il quale corriamo rischia di seppellire le spinte legalitarie e riformiste che speravamo dovessero divenire gli strumenti principali per avviare, in modo progressivo e veloce, un concreto miglioramento del sistema carcerario - ha concluso - nonché favorire la formazione di una coscienza più forte e comune in materia di diritti umani e sistema penale”. Il comunicato del Sidipe: “emergenza penitenziaria” La difficile situazione che l’Italia sta vivendo in questo scorcio di fine 2011, dove soprattutto i problemi economici sembrano assorbire l’interesse dei mass-media e della politica, sta ponendo in secondo piano quello del mancato funzionamento della Giustizia civile, di quella penale e del suo percolato di carcere che sulla nostra pelle ogni giorno proviamo. Assistiamo basiti come le esortazioni del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, del luglio scorso - il quale richiamava tutti ad affrontare in termini vigorosi, nuovi, civili ed urgenti le questioni della pena e delle carceri - sembrino essere state metabolizzate e risultino ininfluenti all’interno di un dibattito politico preoccupato al mantenimento di rendite di posizione o, al massimo, a rimodellare la mappa del potere. Come Dirigenti Penitenziari, a capo degli istituti carcerari e degli uffici dell’esecuzione penale esterna, desideriamo che siano perfettamente chiariti gli ambiti delle nostre responsabilità di gestione, rispetto a quelle di quanti, facendosi schermo di noi, non ci pongono in condizione di svolgere il nostro lavoro con dignità, nell’effettivo rispetto delle leggi solennemente enunciate e quotidianamente violentate, ne tantomeno favoriscono la trasparenza dell’azione amministrativa e del vivere penitenziario. Noi direttori penitenziari d’istituto e degli uffici dell’esecuzione penale esterna, privati di regole contrattuali in materia di rapporto di lavoro da sei anni, di un rapporto di lavoro speciale, solo nei doveri definito di “diritto pubblico” (alla stregua di quello dei magistrati, del personale diplomatico, dei prefetti, dei dirigenti delle forze di polizia, dei docenti universitari…), siamo stati, in verità, ricacciati negli angoli più bui di uno Stato che non sembra in grado di mantenere fede agli impegni ed alle promesse solenni celebrate nelle sue leggi. La verità di oggi è quella di carceri che assomigliano sempre di più a favelas ingabbiate, dove il personale vive situazioni di grande stress e sempre più si vergogna per le risposte che non riesce a dare alle istanze dei detenuti e dei cittadini sul pieno riconoscimento di diritti fondamentali che esse devono assicurare, quali quello alla salute ed alle cure mediche, ad una adeguata alimentazione, al diritto di ricevere una branda per la notte, a quello di poter utilizzare in modo ordinario docce, gabinetti, lavandini, di poter avere ambienti sufficientemente illuminati, pareti periodicamente tinteggiate e non solo lordate da umori umani, sporcizie o altro, che rappresentano i graffiti della disperazione, così come di poter essere, seppure minimamente, garantiti da eventuali rischi d’incendio, di malattie infettive, etc. Costretti ad esprimere, ancora una volta, indignazione e rabbia per come passi in silenzio tutto ciò, Noi Direttori Penitenziari, davvero preoccupati che il tempo delle barbarie verso il quale corriamo seppellisca le spinte legalitarie e riformiste che speravamo dovessero divenire gli strumenti principali per avviare, in modo progressivo e veloce, un concreto miglioramento del sistema carcerario, nonché favorire la formazione di una coscienza più forte e comune in materia di diritti umani e sistema penale, siamo ancora una volta pronti alla mobilitazione per denunciare tutto ciò. Non intendiamo, infatti, sottrarci alle nostre responsabilità etiche che sono, come maggior sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari, quelle di sostenere ogni seria iniziativa di sensibilizzazione finalizzata a riportare l’attenzione delle istituzioni e dei cittadini sul sistema carcerario. A tal riguardo, non possiamo non essere grati alla benemerita azione di quanti, come Marco Pannella, si impegnino su questo fronte scomodo e di tutta quella miriade di realtà associative, laiche e non, che continuano incessantemente a ricordare la gravità di una situazione che potrebbe da un momento all’altro sfuggire di mano, con conseguenze inimmaginabili per la sicurezza degli operatori penitenziari, di quelli di giustizia, della cittadinanza tutta. A quanti si sono dimostrati essere i più seri nostri interlocutori, e che hanno mostrato di comprendere, liberi da pregiudizi ideologici, sicuritari o ipergarantisti, come il problema delle carceri e della giustizia richiedano strategie nuove, rivolgiamo l’invito ad una più forte ed urgente mobilitazione, prima che sia davvero troppo tardi. Come più volte abbiamo ribadito, noi siamo servitori dello Stato e non complici di illegalità. Se per ricostruire una logica penitenziaria che non sia solo quella della punizione e della deprivazione che nei fatti trasuda da ogni istituto, se per restituire alla pena il suo valore rieducativo, se per abbattere il rischio di una impennata dei suicidi di persone detenute così come quelle di operatori penitenziari, se per davvero e subito si vogliono recuperare risorse economiche per destinarle al sistema penitenziario, al rafforzamento dei suoi organici della dirigenza penitenziaria, dei ruoli tecnici e delle aree educative, del personale della polizia penitenziaria, se per fare tutto ciò si dovesse ricorrere, da parte di un Parlamento che torni in se stesso, ad uno strumento delicato quale risulti essere quello dell’amnistia. Noi direttori non ne saremmo scandalizzati o indignati: ci indigna invece ciò che ogni giorno siamo costretti a vedere e subire. Talché parteciperemo senza indugio alle iniziative che si intenderanno promuovere al fine di sensibilizzare la classe politica, le istituzioni e l’opinione pubblica perché ci venga data la dignità di un serio contratto di lavoro e perché il sistema penitenziario torni ad essere propositivo, umano e davvero sicuro. Siamo convinti, inoltre, che un processo di riforma dell’intero sistema dovrà essere necessariamente rielaborato, dando il giusto risalto a quanti, nostri collaboratori (polizia penitenziaria, educatori, psicologi, assistenti sociali, medici, personale amministrativo e tecnico, ingegneri, architetti, agronomi, etc.), vivono analoga situazione di emarginazione, tutti uniti in un disagio dell’esecuzione penale che, ove non affrontato e risolto, rischia paurosamente di assistere ad un refrain di violenze e lutti. In tal senso non faremo mancare la nostra seria collaborazione e le nostre competenze specifiche. Il Segretario Nazionale Dr. Enrico Sbriglia Giustizia: il Sappe incontra ministro Nitto Palma; manifestazione prevista è stata sospesa Comunicato stampa, 7 novembre 2011 Si è svolto questa mattina al Ministero della Giustizia un incontro tra una delegazione della Segreteria Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, il più rappresentativo della Polizia penitenziaria con 12mila iscritti, ed il Ministro Guardasigilli Francesco Nitto Palma. Presente anche la Vice Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Simonetta Matone. Tra i temi dibattuti, le problematiche del Corpo di Polizia Penitenziaria e del sistema carcere, oggi alle soglie dello “stato di calamità” con oltre 67mila detenuti presenti, a fronte dei circa 43mila posti letto, e 7mila e 500 agenti in meno in organico. Criticità rispetto alla quali il Sappe aveva preannunciato una manifestazione nazionale di protesta a Roma il prossimo 12 novembre, in occasione della cerimonia di giuramento dei neo Agenti del 163° Corso. Ma la manifestazione è stata sospesa, proprio dopo l’incontro che si è tenuto con il Ministro Guardasigilli, mentre permane lo stato di agitazione della Categoria proclamato dal primo Sindacato della Polizia Penitenziaria. “Nel corso dell’incontro” dichiara il Segretario Generale Sappe Donato Capece “sono stati affrontati e portati all’attenzione del Ministro Palma, come sempre cordiale ed attento alle nostre rivendicazioni e sollecitazioni, alcune priorità di intervento per il Corpo di Polizia Penitenziaria e per il sistema carcere. Abbiamo denunciato il mancato pagamento di migliaia di missioni svolte dal Personale e di decine di migliaia di ore di lavoro straordinario; le pessime condizioni di molti posti di servizio nei quali quotidianamente lavorano i Baschi Azzurri, compresi i mezzi del Corpo in uso principalmente ai Nuclei Traduzioni e Piantonamenti; le decisioni incomprensibili e penalizzanti che vedrebbero la chiusura di alcune Scuola del Corpo e il demansionamento degli orchestrali della Banda musicale della Polizia Penitenziaria. Abbiamo quindi chiesto l’autorevole intervento del Ministro Palma perché si individuino con ragionevole urgenza adeguati stanziamenti di denaro a favore della Polizia penitenziaria e per fare in modo che i circa 760 agenti che hanno terminato il corso di formazione nelle Scuole del Corpo possano essere assegnati quanto prima nelle sedi penitenziarie stanti le gravi organiche degli Istituti, anche per consentire una mobilità del Personale di Polizia in servizio che da tempo aspira ad essere trasferito in altre sedi. Il Ministro Guardasigilli ci ha assicurato che adotterà ogni provvedimento di suo competenza per risolvere le criticità rappresentate, anche avvalendosi della preziosa collaborazione della Vice Capo del Dap Simonetta Matone. Una sensibilità concreta, non di facciata, che ci ha convinto e che abbiamo molto apprezzato, tanto da avere deciso di sospendere la manifestazione in programma per il 12 novembre prossimi. Ora auspichiamo che seguano fatti concreti per valorizzare il Corpo di Polizia Penitenziaria”. Giustizia: fondi nuove carceri da dismissione immobili; nella bozza della Legge di Stabilità Dire, 7 novembre 2011 “Per fronteggiare l’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari” il ministero della Giustizia “può individuare immobili statali, comunque in uso all’amministrazione della giustizia, suscettibili di valorizzazione e dismissione in favore di soggetti pubblici e privati, mediante permuta, anche parziale, con immobili già esistenti o da edificare e da destinare a nuovi istituti penitenziari”. È quanto si legge in una delle bozze del maxiemendamento alla legge di stabilità. Giustizia: “malapolizia”, la linea sottile tra ordine pubblico e abuso di potere di Checchino Antonini Liberazione, 7 novembre 2011 Molti anni dopo, di fronte a un cadavere con dodici costole fratturate e la milza spappolata di un ragazzo morto nelle procedure d’arresto, faccia a terra, con i segni delle manette - qualsiasi “nerista” scriverà che si tratta di un nuovo caso Aldrovandi. Lo scriverà, sebbene con mille cautele e condizionali all’ingrosso. Riporterà invece puntualmente le dichiarazioni dei vertici di polizia o carabinieri, parole rassicuranti che, anche di fronte all’evidenza, ci marceranno pescando nel repertorio della retorica delle “mele marce”. Ma quel nerista non potrà non fare cenno al caso Aldrovandi. Era l’alba di una domenica di settembre del 2005 quando il diciottenne ferrarese restò ucciso nel corso di un misterioso e violento “controllo di polizia” di fronte al cancello dell’ippodromo della sua città. Chi parlò a nome della Questura usò proprio questa formula “controllo di polizia”. Ma i giudici scopriranno che già era partita la macchina del depistaggio. Da allora il caso Aldrovandi è l’archetipo della “malapolizia”, un termine coniato da Liberazione - il primo quotidiano a raccogliere la denuncia di Lino e Patrizia, i genitori del ragazzo - per indicare i misteri e la mole di abusi nel “normale” svolgersi delle funzioni di polizia. Qualcosa di diverso ma non meno feroce dalla “straordinaria” repressione vista in atto sulle strade genovesi o alla Diaz e a Bolzaneto. Qualcosa di quotidiano, consuetudinario. Normale, appunto. Così normale che più di tre quarti dei colleghi dei quattro indagati, duecentocinquanta agenti della questura estense, manifesteranno in varie forme la propria solidarietà alle ultime quattro divise che videro vivo un ragazzo disarmato, incensurato, inerme, che non stava commettendo alcun reato. La condanna dei quattro in fondo a una faticosissima inchiesta della famiglia, sostenuta da una campagna di solidarietà in diverse città, ha scosso la proverbiale prudenza dei “neristi”, assuefatti al flusso di notizie ben pastorizzate distribuite dagli uffici stampa delle forze dell’ordine. Da allora, infatti, sono usciti un bel pò di articoli, programmi tv e libri su quello e su altri casi di malapolizia. Questo libro ha il merito di averne messi in fila un bel po’, nell’assenza di qualsiasi statistica ufficiale, e di aver cercato un filo nero che li collegasse. Perché non è vero che di certe cose la stampa non ne parli. All’epoca del web è quasi impossibile che un fatto di cronaca venga insabbiato. È vero che la stampa main-stream soffre di una dipendenza dalle fonti ufficiali - un giudiziarista penderà dalle labbra della Procura, un nerista da quelle dei comandi e così via - che ha l’effetto collaterale di produrre censura e autocensura. È vero che, dopo il clamore del caso Aldrovandi, quel tipo di stampa ha imparato a parlarne come sa fare lei: trasformando in spettacolo il dolore di chi, scaraventato sulla scena pubblica dalle manganellate letali di un tutore dell’ordine su un figlio o un fratello, è costretto a rivivere lo strazio più immane della propria vita inseguendo brandelli di verità e giustizia. Così può accadere che Giuliano Giuliani, un decennio dopo l’omicidio di suo figlio in piazza Alimonda, sia ancora in giro per l’Italia a mostrare il filmato dell’agonia di Carlo. Oppure Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, morto dopo essere desaparecido per sei giorni tra un carcere e un repartino penitenziario di un ospedale romano, si senta chiedere da un noto anchorman dell’ammiraglia Mediaset: “Ma com’era suo fratello da bambino?”. Bisogna fare pena se non si riesce a ribaltare i ruoli - come è capitato a Carlo come è stato tentato con Federico. E alla fine faranno pena tutti, aggressori e aggrediti perché resta potente la retorica pasoliniana dei figli del popolo. Tutto il dolore possibile va in scena, anche il sangue buca lo schermo, purché si eviti un ragionamento pubblico su che tipo d’uomo scelga di fare il poliziotto o il carabiniere al tempo del nuovo modello di difesa e della tolleranza zero. E di quale tipo di agente riesca a far carriera operando in quello che ormai appare come il fronte interno della guerra globale. Il Viminale e Viale Romania, quartier generali di ps e carabinieri, preferiscono distrarre l’opinione pubblica fornendo tutto il know how all’industria della fiction e perfino la pletora di sindacati di polizia, con marginali eccezioni, si sottrae al confronto pubblico sulla “malapolizia”, ovvero sul moltiplicarsi di episodi di devianza da parte di cittadini in divisa e sulla relazione che questa devianza ha con i processi di rimilitarizzazione, con il modello di reclutamento e formazione in auge. E tutti si rifiutano di accettare perfino blande misure - come un codice alfanumerico sul casco di chi agisca travisato in ordine pubblico - che garantiscano i cittadini con la divisa o senza. Anzi, una delle sigle più importanti, ha inviato propri osservatori in Val Susa “per monitorare il comportamento dei manifestanti” e ha istituito una “help line telefonica” per i colleghi che occupano militarmente la valle a cui si promette “assistenza a 360 gradi gratis, anche legale se sarà necessario”. Da sempre gli unici posti al mondo in cui la gente si massacra cadendo dalle scale o si ammazza sbattendo la testa sul pavimento sembrano essere i commissariati o luoghi assimilabili. Da troppo tempo l’Italia è un “Paese di comitati”, unici strumenti per la memoria collettiva, come non si stanca di ripetere Manlio Milani, la cui moglie fu uccisa nella strage di Piazza della Loggia del ‘74. Lo scarto di questo libro dalla corposa bibliografia, che pure lo ha generato, sta nella capacità di far parlare le carte, di non fare leva sulla compassione per comprendere i fatti in questione. Sta nella scelta di far parlare i fatti fino a scoprire che la malapolizia è una categoria necessaria per una critica del neoliberismo. È proprio dentro le aree di esclusione sociale, indotte dai processi di precarizzazione delle vite e privatizzazione dei servizi, che mutano anche le politiche di controllo: questi cessa di essere uno strumento per la ricostruzione dell’integrazione sociale e diviene funzionale alla costituzione di recinti urbani, alla costruzione dello stigma per soggetti, etnie e classi “pericolose” perché marginali e subalterne. È così che funziona la fabbrica della paura. E, in questo senso, la legge Reale, la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi non sono più violente del pacchetto Treu o della legge 30. Questo libro ci insegna a leggere che ogni volta che siamo di fronte a un misterioso e violento controllo di polizia bisogna iniziare col domandarsi chi controlla la polizia. “Quello che vorrei - ha spiegato Fabio Anselmo, legale degli Aldrovandi all’indomani del giudizio d’appello - è che questo caso serva per spazzare via il pregiudizio deleterio della presunzione di fidefacenza degli imputati in divisa e dei loro colleghi che indagano. Gli imputati in divisa andrebbero trattati come imputati normali e le indagini su di loro affidate a terzi. Ma questo non accade mai”. Lettere: amnistia e indulto sono illusioni, ma esistono altri modi di svuotare le carceri di Achille della Ragione www.epomeo.com, 7 novembre 2011 Gentile Direttore, si parla tanto di amnistia ed indulto, alimentando inutili speranze tra i 70.000 detenuti, stipati come bestie nelle carceri, dimenticando il delicato momento politico con un governo che vive alla giornata, per cui è pura utopia sperare che si possa raggiungere in Parlamento la maggioranza qualificata necessaria a varare un provvedimento di clemenza. Si potrebbero invece svuotare rapidamente i penitenziari attraverso una legge ordinaria, che preveda il rispetto di leggi già esistenti, inapplicate per il congestionamento degli uffici dei giudici di sorveglianza, costretti, nonostante il loro lodevole impegno, ad esaminare con attese estenuanti migliaia di istanze. Le ragionevoli proposte che mi sentirei di avanzare al legislatore sono: 1) Il diritto automatico ai domiciliari per chi deve scontare meno di un anno. 2) L’avviamento obbligatorio ai servizi sociali per tutti coloro che devono scontare gli ultimi tre anni di reclusione. 3) L’utilizzo della carcerazione preventiva solo in casi eccezionali, facendo tesoro del braccialetto elettronico in uso in tutti i paesi civili e non dimenticando che secondo la Costituzione si tratta di innocenti. 4) La possibilità di scontare la pena ai domiciliari per tutti i malati passibili di peggioramento in regime di reclusione e per chi ha compiuto 65 anni. 5) Trasferire in strutture attrezzate i tossicodipendenti per un più efficace programma di recupero, favorendo un futuro inserimento nella società. Veneto: l’assessore Sernagiotto in Consiglio regionale sul sovraffollamento delle carceri www.rovigooggi.it, 7 novembre 2011 Sovraffollamento delle carceri al centro dell’attenzione del consiglio regionale veneto, venerdì 4 novembre. L’assessore ai servizi sociali Remo Sernagiotto ha risposto in aula a palazzo Ferro Fini ai consiglieri del Pd, tra cui Graziano Azzalin, che gli avevano rivolto alcune interpellanze circa la situazione delle case circondariali. “La Regione Veneto intervenga presso il Ministero della Giustizia per risolvere la grave situazione della casa circondariale di Rovigo e adempia alle proprie funzioni e competenze in materia sociale, sanitaria e di interventi per la sicurezza”: questo il titolo della richiesta formalizzata da Azzalin alla giunta veneta a luglio. Sernagiotto ha risposto che la giunta non ignora il problema e che è stato avviato un progetto che vede impegnata la Regione con 500 mila euro e la Fondazione Cariverona con 1 milione e 500 mila euro, per la realizzazione di bandi per promuovere il lavoro in carcere. Sernagiotto ha ricordato che, nonostante le difficoltà economiche, sono stati elaborati interventi in materia penitenziaria e di recupero di persone soggette a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, affidandone la realizzazione a soggetti che operano nel terzo settore. “Credo - ha sottolineato Azzalin - che non si debba marginalizzare un problema che troppo spesso si finge di non vedere. Anche con poche risorse possono essere messe in piedi iniziative importanti che possono realmente alleviare le condizioni disumane in cui si trovano i reclusi anche nel nostro civilissimo Veneto. Il lavoro in carcere è, in questo senso, di fondamentale importanza. La priorità, infatti, deve sempre essere il reinserimento dei detenuti”. L’assessore Sernagiotto ha poi accolto l’invito rivoltogli dal consigliere polesano a visitare il carcere rodigino, “per toccare con mano e capire in quali siano le condizioni che devono fronteggiare reclusi e guardie carcerarie”. Catania: caso di Carmelo Castro; si cerca il dna sul cappio consegnato due anni dopo La Sicilia, 7 novembre 2011 Si muove, ma a piccolissimi passi, l’inchiesta giudiziaria sulla morte, per presunta impiccagione, nel carcere di piazza Lanza, del detenuto 19enne Carmelo Castro, originario di Biancavilla; il caso era stato archiviato dal gip Alfredo Gari (che sciolse la riserva sulla decisione dopo 5 mesi) nel settembre 2010, ma poi fu riaperto nel gennaio 2011 dopo un’intensa battaglia intrapresa dai familiari insieme alle associazioni per i diritti dei detenuti “Antigone” e “A buon diritto”. Il sostituto procuratore della Repubblica Miriam Cantone, accogliendo le richieste del difensore dei familiari di Carmelo, avvocato Vito Pirrone, negli scorsi giorni ha disposto l’accertamento di eventuali tracce biologiche risalenti a Castro nel lenzuolo (presumibilmente usato per l’impiccagione) che l’amministrazione penitenziaria di piazza Lanza ha consegnato alla Procura della Repubblica solo il 24 febbraio 2011 (a due anni dai fatti). Si dubita sul tipo di morte toccata a questo giovanissimo detenuto incensurato, il quale oltretutto non aveva mai manifestato (neppure la mattina stessa della sua morte, quando fu visitato da una psichiatra) intenzioni suicide. Il ragazzo pare sia stato costretto con le cattive maniere a fare i nomi dei complici della rapina e per questo temeva ritorsioni: ecco perché nei tre giorni di permanenza in cella rifiutò l’ora d’aria. L’accertamento tecnico irripetibile si svolgerà nella sede del Gabinetto regionale della Polizia scientifica di Palermo il prossimo venerdì 11 novembre. Alle operazioni della Scientifica, oltre al legale della famiglia, sarà presente anche il consulente tecnico di parte nominato dai signori Castro, il dottor Alberto Bellocchi. Il dubbio più atroce consiste sui risultati della perizia medico legale sul corpo di Carmelo, dal momento che furono rilevate, a detta della difesa, lesioni compatibili con una volontaria impiccagione. E poi c’è il fatto che il 19 enne - disse il personale del carcere - fu trovato impiccato al letto a castello alto un metro e 60: ma ci si chiede: come fa una persona alta un metro e 70 ad impiccarsi da un’altezza inferiore alla propria statura? Carmelo accusato di aver fatto da palo in una rapina, il 28 marzo 2009 a Biancavila, fu trovato impiccato, agonizzante, nella sua cella di isolamento di piazza Lanza a soli tre giorni dal suo arresto. Il giovane era detenuto in regime di “grandissima sorveglianza”, una sorveglianza che evidentemente “grandissima” non è affatto stata. Su caso sorsero macroscopici dubbi sin dal primo momento, dubbi sui quali, in un primo tempo, la Procura sorvolò. Sul caso vi sono state varie interrogazioni parlamentari bipartisan al ministro della Giustizia, nonché l’intervento del Garante dei diritti dei detenuti, il senatore Salvo Fleres, che chiese pure un’indagine ministeriale. I nodi da sciogliere sono numerosi (ma se le indagini vanno avanti con questa lentezza chissà quando se ne parlerà); eccone alcuni: accertare a che ora fu distribuito il vitto al detenuto; acquisire i nomi dei detenuti-lavoranti che gli hanno portato il cibo e dell’agente che li sorvegliava; accertare a che ora furono ritirate le vettovaglie e i nomi degli addetti; acquisire le videoregistrazioni del 28 marzo 2009 del “reparto Nocito”, dei corridoi e dell’uscita delle automobili dell’istituto, con l’indicazione dell’orario; trattandosi di detenuto sottoposto grandissima sorveglianza, accertare chi abbia svolto la vigilanza dalle ore 9 alle 12,20 del 28 marzo 2009”. Si vuol anche sapere, tra le altre cose, come mai un soggetto in arresto cardiorespiratorio sia stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale con una normale auto, senza alcuna assistenza medica e/o ausilio respiratorio, e perché non fu richiesto subito l’intervento del 118. Firenze: Rifondazione; detenuto picchiato a Sollicciano, urge ripristinare la legalità Nove da Firenze, 7 novembre 2011 Un “nuovo episodio di intimidazione e violenza” sarebbe avvenuto nel carcere di Sollicciano. Lo segnalano i consiglieri provinciali di Rifondazione comunista Andrea Calò e Lorenzo Verdi: “Un detenuto viene picchiato, mentre le lettere delle detenute vengono strappate e buttate via. Da mesi mancano i beni primari dai bagnoschiuma agli assorbenti”. Si tratta di “episodi gravi e inquietanti di violazione sistematica delle leggi, della Costituzione e dell’ordinamento penitenziario”. Il trattamento penitenziario “deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Bisogna ora “accertare le responsabilità e ristabilire l’osservanza delle leggi”. Rifondazione Comunista chiede alla Provincia di Firenze di “contribuire a rimuovere inerzie, inosservanze e criticità. Va contrastata la latitanza dell’Amministrazione Penitenziaria e soprattutto va ripristinata la legalità”. Nuovo episodio di intimidazione e violenza nel carcere di Sollicciano: con un esposto all’Ufficio di Sorveglianza di Firenze un detenuto “racconta di essere stato picchiato da un agente penitenziario nel pomeriggio del 27 ottobre scorso. Il marocchino era in osservazione psichiatrica nel reparto assistiti di Sollicciano definito “un lager” quando l’agente, come racconta nell’esposto “mi chiudeva il blindato facendomi scaturire una rabbia e addirittura mi sputava”. Mezz’ora dopo lo stesso agente dopo aver fatto uscire il giovane dalla sua cella gli ha ordinato di seguirlo nel suo ufficio. “All’improvviso ha iniziato a tirare pugni fino a farmi sbattere contro sedie e scrivanie. Dopo di lui altre tre guardie mi si sono saltate addosso e come il primo tiravano pugni e calci fino a provocare la caduta di due denti” racconta ancora il marocchino pestato in carcere. Subito dopo è stato portato in ospedale dove è stato medicato…” Si tratta di un fatto grave e inquietante per il quale chiediamo che le autorità giudiziarie competenti (Magistratura di Sorveglianza e Procura della Repubblica) indaghino su questo grave episodio che contrasta nettamente con l’ art. 27 della Costituzione comma terzo (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e con l’Ordinamento Penitenziario legge 26 luglio 1975 n° 354 art. 1 comma uno (“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”). Sempre a Sollicciano viene segnalata un’altra vicenda “questa volta viene raccontata da una detenuta che ha trovato nel cestino del capoposto lettere strappate e buttate, tutte destinate a chi sta scontando la pena. “E questa è l’ultima situazione spiacevole, l’ultima di una lunga serie, utile a spiegare il clima che si è venuto a creare nel reparto femminile da alcuni mesi a questa parte” commenta nella sua denuncia”. Le detenute da tempo avevano chiesto l’istituzione di una commissione al femminile in modo da far piena luce su quanto sta avvenendo. Lungo è l’elenco delle disfunzioni e delle ingiustizie verso le quali vengono richieste la rimozione di ogni vessazione. Fare luce sul “tema delle lavoranti, dei giorni fissi per il ritiro dei pacchi postali, l’assenza di educatori, corsi al femminile come quello di parrucchiere, la lavatrice che è arrivata ma ancora non funziona, poi una fornitura di assorbenti e bagnoschiuma, da due mesi che non vengono consegnati….”. Solo alcune settimane fa e precisamente il 17 ottobre Rifondazione Comunista aveva portato all’attenzione del Consiglio Provinciale il drammatico appello del Garante dei Diritti dei Detenuti circa la situazione di insostenibilità nel Carcere di Sollicciano dovuta al sovraffollamento, alle carenze igienico sanitarie, sulla mancanza dei beni primari e sulle carenze di personale e soprattutto all’indifferenza sui diritti dei carcerati. Sul tema dell’indifferenza il Garante era stato più che esplicito rimarcando “il silenzio assordante dell’amministrazione penitenziaria alla quale era stato chiesto più volte di costituire una unità di crisi per far fronte a piccole riforme che sorreggano la dignità dei reclusi”. Una vera carenza strutturale che configge apertamente con le norme di tutela sanitaria previste dalla Costituzione e dalle leggi. Il Garante concludeva questo quadro allarmante ribadendo che “…che le carceri italiane sono diventate delle discariche sociali: la soluzione allora proposta da Corleone è capire chi merita davvero di stare in prigione e chi in comunità di recupero…”. Per protestare sulle condizioni disumane del Carcere di Sollicciano e contro la cortina di silenzio delle amministrazioni penitenziarie il garante allora decise di “trasferirsi in mezzo ai detenuti finché la questione della dignità di queste persone fosse realmente affrontata”. I Consiglieri provinciali di Rifondazione Comunista nell’esprimere il totale sdegno sugli episodi di intimidazione e violenza avvenuti nel Carcere di Sollicciano dove un detenuto è stato picchiato e dove le lettere delle detenute vengono strappate e buttate, nel ribadire la necessità che le Istituzioni e Organi intervengano con la massima celerità per accertare i fatti e le responsabilità ristabilendo senza alcun indugio ciò che prevede la Costituzione Italiana e le leggi sul tema delicato dei diritti e del rispetto della dignità umana nel constatare che l’insostenibilità nel carcere di Sollicciano dovuta al sovraffollamento, alle carenze igienico sanitarie, sulla mancanza dei beni primari e sulle carenze di personale e soprattutto all’indifferenza sui diritti dei carcerati ora è aggravata da questi episodi di violenza chiedono al Presidente della Provincia di Firenze e all’Assessore competente di riferire su quanto accaduto nel carcere e sui fatti: pestaggi, violenze, lettere delle detenute strappate, beni primari non consegnati tra cui bagnoschiuma e assorbenti. Altresì chiedono a fronte della latitanza dell’amministrazione penitenziaria nel dare delle risposte alle numerose criticità più volte denunciate e nel far rispettare nella gestione dell’istituto penitenziario l’osservanza delle leggi soprattutto sul versante dei diritti e della dignità sulle persone cosa intende fare l’Amministrazione Provinciale per rimuovere inerzie, inosservanze e criticità. Altresì sollecitano la Provincia di Firenze ad onorare la realizzazione degli impegni dichiarati e assunti nelle sedi istituzionali e pubbliche sui temi che riguardano la condizione degli istituti penitenziari della Provincia di Firenze a partire dal Carcere di Sollicciano”. Tempio Pausania: entro novembre il nuovo penitenziario sarà pronto, ma senza agenti La Nuova Sardegna, 7 novembre 2011 I nuovi assunti sono quasi tutti destinati ai penitenziari dell’Italia settentrionale. In Sardegna arriveranno soltanto 18 persone, per le carceri di Cagliari e Sassari. Hanno giurato il 27 ottobre, 754 nuovi agenti della polizia penitenziaria attendono di prendere servizio nelle destinazioni indicate dal Ministero. Nessuno dei neo assunti verrà in Gallura. Il carcere di Nuchis, costato 30 milioni di euro, sarà consegnato tra qualche giorno (si parla di metà novembre) ma senza agenti non potrà essere aperto. Sul punto non ci sono dubbi e, purtroppo, le notizie che arrivano da Roma sono pessime anche per quanto riguarda una possibile data di apertura. A meno di provvedimenti straordinari il discorso è rimandato alla fine del 2012. I numeri comunicati ai sindacati della polizia penitenziaria che da mesi insistono per l’apertura di Tempio, sono impietosi. Gli agenti del 163° corso, in tutto 754, sono già a disposizione dell’amministrazione penitenziaria. Per 267 di loro c’è una destinazione al Sud. La Sardegna (erano previste 47 assegnazioni, 44 uomini e tre donne) non avrà niente. Soltanto grazie alla mobilità 18 agenti saranno trasferiti nell’Isola (10 a Cagliari e 8 a Nuoro) e la Gallura resta all’asciutto. Le scelte del Ministero della Giustizia costeranno caro alla Sardegna. A Nuchis servono 150 agenti per altrettanti detenuti e soltanto dopo il 164° corso (1.145 assunzioni) si potrà parlare del taglio del nastro. Il discorso è rinviato all’autunno del prossimo anno. Luigi Arras, coordinatore del Sinappe (Sindacato autonomo della polizia penitenziaria) commenta: “Siamo delusi, non solo per la situazione di Tempio, ma anche per il trattamento riservato alla Sardegna”. Eppure le nuove carceri sono fondamentali, in Italia 77mila detenuti occupano penitenziari costruiti per 44mila persone. Mantova: Camera Penale; sciopero della fame per denunciare le condizioni delle carceri La Gazzetta di Mantova, 7 novembre 2011 Continua fino a sabato lo sciopero della fame per denunciare le condizioni delle carceri italiane da parte degli avvocati mantovani. La protesta organizzata dalle Camere penali è iniziata lo scorso 28 ottobre sull’onda dello sciopero della fame iniziato da Marco Pannella. Nel gesto di testimonianza, utile a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema, si sono alternati gli avvocati Giuseppe Angiolillo, Fabio Piccinelli, Sergio Genovesi, Francesca Accorsi, Karin Malaspina, Simona Zerbini, Gloria Trombini, Sebastiano Tosoni, Marco Messora, Alessandra Tellini, Viviana Torreggiani, Gaetano Alaia, Luigi Medola, Marina Alberti, Andrea Pongiluppi e Cristian Pasolini. La Camera penale della Lombardia Orientale, affiancando le altre dell’Unione camere penali italiane, ha intrapreso da tempo concrete iniziative che hanno portato alla costituzione di un tavolo comune di lavoro con tutti gli operatori del settore alla Procura generale della corte d’appello di Brescia. Fra i problemi più scottanti da denunciare, assieme al sovraffollamento e alle condizione di rischio sanitario, c’è quello del numero spropositato di detenuti in attesa di giudizio. Milano: nel carcere di Opera aggressione ad agente penitenziario, 21 giorni di prognosi www.informazione.it, 7 novembre 2011 È la 252esima vittima di aggressione dall’inizio dell’anno ai danni degli agenti della polizia penitenziaria per colpa delle violenze dei detenuti reclusi nelle patrie galere. Il fatto spiega una nota del Lisiapp - Libero Sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria sindacato di categoria è che il detenuto ha colpito con un pugno, l’agente mentre stava aspettando di fare una telefonata a casa. La motivazione continua la nota del sindacato Lisiapp secondo cui il recluso si è scagliato contro il poliziotto e perché, a suo dire, la fila non si muoveva con celerità. Così l’assistente Capo della Polizia Penitenziaria, in servizio presso la Casa di Reclusione di Milano Opera, è stato trasportato in ospedale uscendone con una prognosi di 21 giorni. “Non vogliamo continuare a dare i numeri del sovraffollamento e della carenza di personale e soprattutto fare la conta delle continue e quotidiane aggressioni”, spiega il segretario generale aggiunto del Lisiapp dr. Luca Frongia, “ma appare evidente che la situazione che si profila è tutt’altro che rosea. Purtroppo nonostante le reiterate aggressioni che accadono di continuo ai poliziotti in prima linea nelle strutture del paese, non vi è uno strumento atto a scongiurare tali episodi e che vada nel senso sperato di provvedimenti a carico di chi si macchia di infamante e vile aggressioni gratuite conclude il segretario Frongia. Roma: un laboratorio teatrale per detenuti Rebibbia con problemi psichici Adnkronos, 7 novembre 2011 Per i detenuti minorati psichici del carcere di Rebibbia Penale (unica sezione del genere in tutta Italia) arriva la possibilità di realizzare in laboratorio teatrale. L’iniziativa è stata promossa dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. La sezione per minorati psichici è stata creata nel 1996. Attualmente vi sono presenti 16 detenuti (capienza massima). Si tratta di persone assegnate alla struttura dall’Autorità Giudiziaria perché affette da patologie psichiatriche (insufficienza mentale, disturbi della personalità borderline e psicosi) e sottoposte a terapia farmacologica. Nel passato nella sezione sono state realizzate diverse attività ma è dal 2007/2008 che non viene realizzato più nulla. L’idea di fare un laboratorio teatrale è nata alcuni mesi fa, quando l’Associazione Capsa - un pool di professionisti che opera nel campo dello spettacolo, dell’insegnamento e dell’integrazione tra portatori di svantaggio socio-culturale e soggetti psichiatrici - ha contattato l’Ufficio del Garante perché interessata a realizzare un laboratorio teatrale in carcere. Data l’esperienza dell’associazione, il Garante ha pensato di realizzare attività teatrali a favore dei minorati psichici. La proposta è stata successivamente accolta sia dalla Direzione del carcere che dall’Assessorato regionale ai Servizi Sociali, che l’ha finanziata con una durata annuale. Il laboratorio è stato avviato nei giorni scorsi con uno spettacolo teatrale in carcere realizzato da pazienti psichiatrici seguiti dal Policlinico di Tor Vergata e dalle allieve del corso di laurea in tecniche della riabilitazione psichiatrica. “Questa nostra iniziativa non ha solo una valenza culturale - ha detto il Garante dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Uno dei grandi problemi del carcere è come far passare il tempo, che si aggiunge alla consapevolezza di non voler abbandonare reclusi con gravi problematiche. Abbiamo pensato di affrontare questi problemi con una proposta culturale. Vogliamo lasciare un segno che vada oltre la detenzione, dar vita ad un percorso che porterà solo benefici ai detenuti. Lo scopo di questo laboratorio è quello di garantire il recupero e la riabilitazione di queste persone. Dobbiamo investire su di loro favorendone l’integrazione a partire proprio dalla cultura”. Milano: progetto “Celle aperte”, per le detenute del carcere di San Vittore Redattore Sociale, 7 novembre 2011 Quindici detenute, un giorno alla settimana, possono girare liberamente nella sezione femminile. Partecipano al laboratorio teatrale e il loro spettacolo andrà in scena all’interno del carcere. A San Vittore con il progetto “Celle aperte” 15 detenute, un giorno alla settimana, possono girare liberamente nella sezione femminile. Partecipano al laboratorio teatrale e a giugno 2012 il loro spettacolo andrà in scena all’interno del carcere milanese: tra gli spettatori un posto riservato sarà per i figli. Di solito le detenute passano la maggior parte del loro tempo chiuse in cella. “La reclusione impone ritmi e spostamenti rigidi - spiega Carla Santandrea, vicedirettrice della casa di reclusione. Celle aperte consente un arricchimento personale delle detenute”. Lo spettacolo s’intitola “Meterinkon: Voci e silenzi delle madri del deserto”, regia di Donatella Missimilla, con la partecipazione di artiste professioniste. Sarà possibile assistere a un’anteprima il 18 novembre, al Teatro Verdi di Milano, nell’ambito dell’Edge festival (vedi lancio successivo): sul palco gli attori professionisti e un contributo video delle donne di San Vittore. Nella giornata in cui le celle sono aperte, le detenute collaborano con il Cetec (Centro europeo teatro e carcere onlus) alla realizzazione dello spettacolo: dalle prove al disegno delle coreografie. Un clima creativo che “sta dando grandi benefici alle detenute”, sottolinea la vicedirettrice di San Vittore. Nella sezione femminile sono recluse circa 100 donne. “Molte di loro vivono il trauma della separazione dai figli - aggiunge. Per questo lo spettacolo di giugno sarà dedicato proprio a questi bambini, perché possano vedere le madri da un’ottica diversa”. Sul palco anche alcuni detenuti: “Anche qui abbiamo rotto uno degli schemi rigidi del carcere, che vede sempre separati gli uomini dalle donne”, sottolinea Carla Santandrea. Libri: “Quando hanno aperto la cella…”, di Manconi e Calderone, presentato ad Alghero La Nuova Sardegna, 7 novembre 2011 Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Giovanni Lorusso, Marcello Lonzi, Eyasu Habteab, Mija Djordjevic, Francesco Mastrogiovanni. Sono solo alcune delle persone morte nelle carceri italiane. Sì, perché di carcere, in Italia, si muore. E a volte si muore anche durante un arresto, una manifestazione in piazza, un trattamento sanitario obbligatorio. Di questo si discuterà martedì 8 novembre alle 18 nell’auditorium del liceo scientifico “Enrico Fermi” di Alghero, in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone “Quando hanno aperto la cella, Stefano Cucchi e gli altri”. All’incontro, organizzato dal “Cantiere Sociale de l’Alguer”, oltre agli autori Luigi Manconi e Valentina Calderone, parteciperanno Grazia Serra (nipote di Francesco Mastrogiovanni) e Natascia Casu (figlia di Giuseppe Casu, il commerciante di Quartu Sant’Elena morto il 22 giugno 2006 nel servizio di psichiatria dell’ospedale Santissima Trinità dopo sei giorni di contenzione fisica e di trattamento farmacologico). L’obiettivo dell’iniziativa è riflettere su un sistema che va al di là degli apparati di polizia e penitenziari, fino a coinvolgere altri settori, come quello medico: il sistema “del sorvegliare e del punire”. Come afferma Gustavo Zagebrelsky nella prefazione del libro, “il massimo scandalo dello Stato di diritto è quando qualcuno che ha il potere assoluto su una persona, la fa morire”. Vale a dire che, nel momento in cui lo Stato priva della libertà un cittadino, si fa garante della sua sicurezza e incolumità: la privazione della libertà non può e non deve diventare privazione della dignità e dei diritti umani. Da questo assunto di base si dipanerà il dibattito, che sarà coordinato dal giornalista de La Nuova Sardegna Costantino Cossu e introdotto dal consigliere comunale Valdo di Nolfo. Nel corso della serata, inoltre, l’attore, autore e regista Ignazio Chessa leggerà alcuni brani tratti dal libro. Libri: “Una scia di sangue”; nel carcere di Ferrara presentato il libro di Giuseppe Calabrò www.estense.com, 7 novembre 2011 Questa mattina, lunedì 7 novembre, alle ore 11.30 all’interno della casa circondariale di Ferrara, in Via Arginone, davanti ad una platea formata dai detenuti di quella struttura, si terrà la presentazione del libro “Una scia di sangue” di Giuseppe Calabrò, ivi recluso per due distinte condanne all’ergastolo per gravissimi reati, tra cui 4 omicidi volontari. Si tratta di un giovane criminale che il carcere ha responsabilizzato e condotto sulla via del riscatto. La solitudine, la cella, l’isolamento, la memoria delle vittime hanno indubbiamente scavato nel suo animo. Dinanzi alla pena che egli deve scontare ed al rimorso che non lo potrà mai abbandonare, Calabrò si propone con questo suo libro di sensibilizzare i giovani perché non ascoltino, come purtroppo accadde a lui, le sirene dei facili guadagni e le suggestioni delle armi che fanno sentire onnipotenti coloro che le impugnano. Saranno presenti il senatore Filippo Berselli, il direttore del carcere Francesco Cacciola, il vice provveditore regionale vicario del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Rosanna Buscemi e Giuseppe Tuccio, garante dei diritti dei detenuti, che ha curato la presentazione del libro. Nove omicidi diventano un romanzo “Quando l’ndrangheta ha fatto fuori i due ragazzi che continuamente mi minacciavano per ottenere dei soldi mi sono sentito contento”. La storia che porterà Giuseppe Calabrò dall’atmosfera serena di un’onesta famiglia calabrese all’ergastolo per nove omicidi compiuti e sei tentati inizia così: un giovane di estrazione proletaria, che lavora col padre in cantiere, per difendersi dalle vessazioni si avvicina alla cosca. “L’isolamento che ho vissuto all’inizio della detenzione mi ha aiutato a farmi riflettere. Ora sono pentito e ho scritto questo libro per ammonire i più giovani. La storia che racconto è controversa, aberrante, ed è la mia vita”. Con semplicità e franchezza il quarantenne Calabrò - recluso da 17 anni - ha presentato oggi, dal carcere di Ferrara, il romanzo autobiografico “La scia di sangue”, davanti a una platea quanto mai variegata, composta di autorità militari, detenuti e rappresentanti dell’amministrazione locale. Il senatore Filippo Berselli, intervenuto all’iniziativa, ha voluto interrogare l’ergastolano in merito agli episodi più cruenti del racconto, per cercare di capire la “fascinazione del male” che costantemente emerge dalle sue pagine. La prima vittima di Calabrò è stata un vigile urbano, un delitto commesso per ordine del clan. Ne sono seguite molte altre. E non sempre il movente è stato il comando impartito dall’alto. Quando l’ndrangheta gli chiese indirettamente di porre fine alla vita del proprio fratello, Antonio - anch’egli presente in sala, Calabrò decise di allontanarsi dal mondo della malavita e divenne collaboratore di giustizia. Fu durante questo periodo che, nascosto a Bologna, sparò e uccise due uomini poiché credeva che uno di loro avesse violentato la ragazza che all’epoca frequentava. La sua ipotesi si rivelò errata, nessuno dei due aveva colpe a riguardo. La scia di sangue intanto continuava ad allungarsi. “L’incipit del romanzo è all’insegna della fragilità, della vulnerabilità - spiega alla sala l’avvocato Agostino Siviglia, che ha curato la presentazione del volume. L’io narrante vuole vendicarsi dei torti subiti, ma come un Malavoglia contemporaneo sa che lo Stato non lo potrà aiutare. Da questo desiderio cresce una spirale di eventi contrassegnati da una fortissimo senso di ineluttabilità. Il delitto è un fato inevitabile, e questo pensiero funziona in qualche modo come autogiustificazione. Il protagonista è stato abbacinato dal sistema criminale, ma l’esperienza del carcere l’ha portato al pentimento”. Il ricavato delle vendite del libro andrà infatti devoluto ad associazioni che aiutano le famiglie disagiate. Berselli ha anticipato che proverà a sottoporre il romanzo a registi e case di produzione, se eventualmente si riuscirà a realizzare un adattamento cinematografico o televisivo, ha già annunciato che i proventi andranno invece ai parenti delle vittime. “La narrazione autobiografica aiuta tantissimo la crescita e la consapevolezza dei detenuti - sottolinea il direttore della casa circondariale Francesco Cacciola. Qui all’Arginone inizierà a breve un corso dedicato appositamente alla scrittura introspettiva, organizzato dalle insegnanti della sezione pedagogica. L’obiettivo del corso sarà quello di promuovere la riabilitazione dei detenuti attraverso la comprensione e l’accettazione delle proprie debolezze”. Libri: ad Ancona presentato il libro “Giustizia relativa e pena assoluta”, di Silvia Cecchi di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 7 novembre 2011 Venerdì 4 novembre è stato presentato alla Feltrinelli di Ancona il libro “Giustizia relativa pena assoluta” con postfazione di Vittorio Mathieu, edito quest’anno da Liberilibri (pp.184, euro 16,00) alla presenza dell’autrice, il magistrato pesarese Silvia Cecchi. La scelta di questo libro per la prima uscita di Antigone Marche è motivata dal forte legame fra il sovraffollamento delle carceri italiane e la necessità di aprire a pene alternative che viene evidenziata in questo libro e da molte scuole di pensiero. L’associazione Antigone Marche, rappresentata dal presidente Samuele Animali e da Marcello Pesarini, assieme al Movimento delle Agende rosse di Pesaro e Urbino con Ettore Marini e all’associazione Libera contro le Mafie con Francesco Coltorti, ha organizzato la sua prima iniziativa pubblica da quando è nata, lo scorso 21 maggio, per focalizzare l’attenzione sul sovraffollamento carcerario: in Italia vivono in 205 istituti penitenziari oltre 67.0000 persone al posto di 42.000 posti-letto ritenuti regolamentari, mentre nelle Marche 1163 detenuti, di cui 35 donne, si “stringono” all’interno di 750 posti in 8 istituti. La discussione, nel confortevole cenacolo offerto dalla libreria Feltrinelli, si apre con una citazione offerta da Samuele Animali “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Così scriveva il filosofo Voltaire. A seguito delle sollecitazioni delle associazioni organizzatrici la prima parte della serata ha evidenziato la natura di classe della Giustizia, con la differenza macroscopica fra alcuni reati e la pena comminata, che non risponde ad esigenze di rieducazione ma di sicurezza per rassicurare la popolazione. Le prigioni italiane scoppiano per un buon 40% di immigrati, di cui molti per reati amministrativi dovuti alle leggi Bossi-Fini, un 35 % di detenuti per reati alla proprietà privata legati anche alla tossicodipendenza a causa dell’inasprimento delle pene della Fini-Giovanardi e per la mancanza di strutture per applicare le misure alternative. Il passaggio dell’attenzione dalle misure alternative alle pene alternative è avvenuto con gli interventi del professor Paolo Bonetti e di Silvia Cecchi . Di grande dirittura etica e professionale l’intenzione della magistrato pesarese di riaffrontare il proprio lavoro alla luce della inutilità e negatività dell’accanimento della pena retributiva che, lungi da riparare la ferita della vittima e dei suoi parenti, nel caso di reati legati alla violenza, legano per tutta la vita il colpevole alla propria colpa. L’immagine della “fotografia” di se stesso a 35 anni, usata dal professore universitario, confrontata con l’”oggi”, è efficacissima per ricordare che l’azione commessa in un determinato momento, ed in determinate situazioni, non si perpetua all’infinito. Silvia propone, come molti suoi colleghi, di spostare l’attenzione dal colpevole alla vittima, scoprendo che non sempre in quest’ultima aleggiano solo sentimenti di vendetta, ma anche di spaesamento. Chi è incolpato non è l’unico attore di una vicenda criminosa. Appare evidente come la relatività contenuta in queste affermazioni possa mettere in bilico certezze sulle quali si basa la nostra vita, ma seguendo le parole dell’autrice perché non mettere in discussione procedimenti, abitudini, consuetudini che non hanno pagato nelle tanto invocate sicurezza e giustizia? La pena di morte è un deterrente che ha scoraggiato dal delinquere? Sicuramente no. La variegata platea, che gli organizzatori sperano di riconvocare a breve, è anch’essa confortante per la scelta del tema. Libri: “Lo Sguardo corto - Storia di vita negli istituti di pena”, di Teresa Lombardo www.irpinianews.it, 7 novembre 2011 Un libro per far riflettere, ma soprattutto per far capire la sofferenza dietro le sbarre. Le fatiche di Teresa Lombardo, giornalista di origine irpine apprezzata cronista politica a “Il Sannio Quotidiano”, sono raccolte nel libro inchiesta “Lo Sguardo corto - Storia di vita negli istituti di pena”, edito dal Formez e dalla Regione Campania. Un progetto editoriale condiviso con l’avvocato Leandro Limoccia capace di riscuotere interesse anche a Roma durante il concorso nazionale “L’Ecole Instrument De Paix Italia” - che ha riunito circa 600 scuole d’Italia - evento patrocinato dal Parlamento Europeo Ufficio per l’Italia, Ministero Affari Esteri, Ministero Istruzione Università Ricerca, Ministero per i Beni e le Attività culturali, Regione Campania, Regione Lazio, Provincia di Roma, Comune di Roma. Al tavolo dei lavori: il ministro degli Esteri Franco Frattini, Anna Paola Tantucci presidente nazionale Eip Italia, la principessa Maria Elettra Marconi, Osvaldo Avallone direttore della Biblioteca nazionale, Pino Colizzi attore nonché presidente della giuria premio Poesia, l’ispettrice Sandra Perugini Cinni del Ministero dell’Istruzione, Edouard Mancini presidente d’Onore Eip Italia e il consigliere regionale Luca Colasanto. Al libro-inchiesta della nostra conterranea è stato assegnato il Premio Eip Italia per i diritti umani. Anna Paola Tantucci presidente nazionale Eip Italia nel premiare la giornalista Lombardo ha annunciato: “il volume non rappresenta solo un lungo viaggio dietro le sbarre di diversi istituti di pena della Campania, per comprendere le condizioni di vita delle persone detenute, ma si sofferma e approfondisce le relazioni tra carcere e territorio, le politiche di mediazione penale e di reinserimento nella vita sociale e lavorativa e l’organizzazione attuata, con l’obiettivo di ripensare il sistema carcere come luogo di “opportunità”, inclusione sociale e cammino di speranza. Pertanto le testimonianze di vita raccolte, l’anelito ad uscire dalla prospettiva di “Uno sguardo corto” per intrecciare relazioni d’amicizia rappresentano il cuore dell’opera, insieme all’attenzione alla persona, alla sua promozione umana e al ruolo che in questa costruzione di identità svolge la scuola, la comunità carceraria, tutta la società civile. Come può, come dovrebbe cambiare il carcere, alla luce di queste riflessioni? È un lungo elenco di meno: meno luogo di segregazione, meno condanna e più restituzione di nuovo cammino, meno luogo di contenimento di problemi sociali irrisolti, meno disattenzione, meno solitudine. È gioco-forza però chiedersi quanta parte di questo obiettivo di rieducazione sia realizzabile nel contesto reale della istituzione penitenziaria. Il libro dimostra come tra teoria e prassi ci sia uno scarto troppo profondo, come non sia sufficiente accontentarsi di risposte consolatorie. Le condizioni dell’organizzazione penitenziaria sono davvero molto difficili e richiedono l’impegno in primo luogo delle istituzioni preposte, ma anche di tutti gli uomini e le donne di buona volontà, ciascuno per la sua parte come hanno fatto Teresa Lombardo e Leandro Limoccia in quest’opera”. Televisione: domani sera “Sbarre” (Rai2), racconta la storia di David Acampora Il Velino, 7 novembre 2011 Cocaina e debiti nella storia di David Acampora, raccontata nella sesta puntata di “Sbarre”, in onda domani martedì 8 novembre, alle ore 24.40 circa su Rai 2. Si apprende da una nota stampa. Nonostante una famiglia solida alle spalle e gli studi d’arte, Acampora è sfuggito alla serenità di una vita normale per abbracciare il crimine. David Acampora per anni ha condotto una doppia vita fatta di consumo di cocaina e debiti accumulati per acquistarla sotto gli occhi ignari di una famiglia inconsapevole. Il conto dei debitori si è trasformato in un ricatto camuffato dalla promessa di un’impresa semplice e poco rischiosa: trasportare in auto della droga dalla Germania all’Italia. Ma non tutto è andato secondo i piani e David si è ritrovato detenuto prima in un penitenziario tedesco e successivamente nel carcere di Rebibbia. Nella puntata David Acampora incontrerà il giovane Gabriele che, in questi anni, ha cercato in tutti i modi di potersi smarcare da una vita fatta di emozioni viziate dal richiamo di modelli pericolosi e di vivere una vita serena. Mondo: quasi tremila i detenuti italiani all’estero, l’80 per cento nelle carceri europee Agenparl, 7 novembre 2011 Sono 2.934, di cui 2.223 in attesa di giudizio, i detenuti italiani all’estero. Poco più dell’80 per cento dei connazionali è detenuto in Europa, il 15,6 per cento nei Paesi delle Americhe, il 2 per cento in Asia ed Oceania, il 2 per cento nei Paesi del Mediterraneo e Medio oriente e il restante 0,4 per cento in Africa sub sahariana. Ad illustrare i dati è Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri, in risposta ad un’interrogazione del senatore Salvo Fleres del gruppo Coesione Nazionale - Io Sud. Per i connazionali detenuti all’estero, spiega Mantica, l’autorità consolare “svolge essenzialmente un’attività di supporto finalizzata a fornire, da un lato, il rispetto dei diritti del connazionale in sede di giudizio e, dall’altro, l’assistenza necessaria in carcere”. Tuttavia, precisa il sottosegretario, essa non può: intervenire se il detenuto si oppone; costituirsi parte civile; intervenire in giudizio per conto di cittadini italiani; ottenere un migliore trattamento, rispetto a quello previsto dalle norme locali, della condizione carceraria. La Farnesina, per meglio gestire queste situazioni, ha messo in rete un programma protetto, accessibile dagli uffici consolari e dal personale addetto, che permette di condividere in tempo reale le notizie sulle condizioni di detenzione dei connazionali, lo stato dei procedimenti giudiziari, il numero di visite consolari e altre informazioni. Nel 2008, inoltre, passò un ordine del giorno alla Camera che prevedeva l’istituzione di un numero verde di emergenza per le situazioni giudiziarie. “Tuttavia - spiega Mantica - le pressanti ed inderogabili esigenze di risanamento dei conti pubblici ne hanno finora impedito la costituzione”. “Per quanto concerne la possibilità per gli indagati o gli imputati di poter accedere ad un istituto di patrocinio a spese dello Stato - conclude il sottosegretario - allo stato attuale questo non è previsto dall’ordinamento nazionale. Tuttavia, anche alla luce dell’oggettiva difficoltà in cui i connazionali detenuti all’estero possono incorrere nel far valere i propri diritti in un Paese terzo, si assicura che la loro tutela e assistenza continua a essere considerata una priorità di questo Governo”. Iran: Amnesty chiede di non procedere all’imminente esecuzione di 15 prigionieri Tm News, 7 novembre 2011 Amnesty International ha chiesto alle autorità irachene di non procedere all’imminente esecuzione di 15 prigionieri le cui condanne a morte sono state ratificate dal presidente dell’Iraq il 2 novembre. Secondo quanto riportato dagli organi di stampa, l’ufficio di presidenza iracheno ha reso noto che i 15 sarebbero stati messi a morte dopo la celebrazione musulmana di Eid al-Adha del 6 novembre. I 15 uomini, per l’accusa, appartengono a gruppi armati e sono stati condannati per aver ucciso decine di persone e stuprato donne e ragazze durante un matrimonio in un villaggio vicino al-Taji, a nord di Baghdad, nel giugno 2006. Le condanne a morte sono state emesse il 16 giugno 2011 dal Tribunale penale centrale dell’Iraq, dopo che le “confessioni” di molti di loro erano state mostrate in tv, sul canale iracheno Al Iraqiya. Amnesty International teme che i 15 uomini non abbiano ricevuto un processo equo, in linea con gli standard internazionali, e che le confessioni televisive siano state ottenute con le minacce. Inoltre, 15 sarebbero stati detenuti in isolamento per diverse settimane, senza poter incontrare avvocati e familiari. In Iraq, molti imputati vengono condannati a morte sulla base di “confessioni” ottenute con la tortura, durante la fase che precede il processo, quando sono tenuti in isolamento senza poter accedere ad avvocati di loro scelta. Alcuni sono stati messi a morte sulla base di queste “confessioni”. Egitto: blogger in carcere per scontri copti, madre in sciopero della fame Adnkronos, 7 novembre 2011 Lila Soueif, madre dell’attivista egiziano Alaa Abdel-Fatah in carcere con l’accusa di aver incitato alle violenze tra cristiani copti e forze armate avvenuti lo scorso 9 ottobre al Cairo, ha iniziato lo sciopero della fame in protesta con la detenzione del figlio. Fatah è un blogger e fa parte della Rivoluzione giovanile del 25 gennaio, quella che ha costretto l’ex presidente Hosni Mubarak a dimettersi dopo 18 giorni di proteste. Sono quattro i capi d’imputazione contro Fatah: furto di una pistola appartenente ai militari, sabotaggio deliberato delle proprietà dell’esercito, assalto a soldati e protesta con l’uso della violenza contro le forze armate. La madre del blogger, Soueif, è a sua volta un’attivista politica ed è docente di scienze all’Università del Cairo, oltre che membro fondatore del Gruppo di lavoro per l’indipendenza dell’Università e membro dell’Associazione egiziana contro le Torture. Per oggi, alle 13 ora locale, gli attivisti egiziani hanno convocato tramite Twitter una manifestazione di piazza per chiedere il rilascio di Fatah, per sostenere lo sciopero della fame indetto da sua madre e per contestare i processi militari nei confronti dei civili. La manifestazione partirà da Talaat Harb Street al Cairo e ha come obiettivo quello di raggiungere la sede della Suprema Corte.