Giustizia: analisi di uno Stato che non punisce i reati dei "carcerieri" di Paola Bisconti Il Campanile, 6 novembre 2011 Sovraffollamento, suicidi, violenze e carenze igienico-sanitarie affliggono le carceri italiane. Quando la pena deteriora l’animo del recluso anziché rinvigorirlo, vuol dire che il sistema giudiziario non funziona. Il sovraffollamento nelle carceri italiane è la conseguenza di una lunga serie di cause, non solo quelle direttamente legate ai tribunali e alle pene ma anche quelle attinenti ad una cattiva gestione dell’intero organismo penitenziario. I dati dichiarati il 28 ottobre nel rapporto “Prigioni malate” dall’Associazione Antigone illustrano una situazione difficile e drammatica: 67.428 detenuti in 45.817 posti. Sono numeri, ma in questo caso i detenuti sono persone. Una mala gestione di un apparato della società che produce effetti gravissimi su chi, avendo sbagliato, ha bisogno di scontare una pena utile: studiare, lavorare, stare vicino ai propri cari può essere una concreta alternativa ad un ozio forzato che non produce alcun risultato. La legge Gozzini del 1975 rivoluzionò il sistema penitenziario mettendo in atto una serie di provvedimenti a favore del detenuto garantendogli, dal primo giorno di esecuzione della pena, la possibilità di lavorare all’esterno. Grazie all’adempimento di tale legge, lo stato italiano fu pioniere di un’avanguardia penitenziaria che nel corso degli anni ha perso però validità e concretezza. Se il codice penale modernizzasse alcuni punti salienti come le leggi sulle droghe e sull’immigrazione, rivedesse il meccanismo classista della recidiva e riducesse lo spazio di applicazione della custodia cautelare, allora tutti i detenuti ne trarrebbero un notevole vantaggio: rispettare i loro diritti e aiutarli a comprendere gli errori commessi “lavorando” sulle loro coscienze gioverebbe al beneficio di un’intera società. Attualmente tutto ciò sembra un ideale con il retrogusto di un’utopia che non consola. La scarsità di misure detentive alternative al carcere ha provocato danni irrecuperabili: 154 morti nelle galere dall’inizio del 2011, di cui 53 per suicidio. Il gesto estremo è senza ombra di dubbio una sconfitta per l’intero paese, e d’altronde come possono 8 esseri umani vivere in una cella destinata a 4 persone? Si tratta di stanze collocate a livello seminterrato, come nella fortezza di Favignana, definite da Alexander Dumas delle vere e proprie tombe, prive di qualsiasi suppellettile ad eccezione di una branda senza materasso. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ribadito come la questione sia di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile. Tuttavia la risposta al problema è stata pressoché nulla. C’è stato silenzio persino dinanzi allo sciopero della fame, effettuato durante i mesi estivi, da numerosi detenuti, insieme alle proteste di alcuni direttori: nonostante la scelta di contestare con un atto non violento, i risultati ottenuti sono stati inesistenti. Si intravedono spiragli di luce se consideriamo la lodevole scelta della Puglia e della Toscana che nei consigli regionali hanno nominato dei garanti per monitorare le condizioni di vita nelle carceri. Si tratta di una soluzione regionale, sostitutiva a una legge nazionale, che garantisce innanzitutto la tutela al diritto alla salute, dato che la medicina penitenziaria spetta alle regioni e l’avvio di procedimenti di indagine nei confronti delle Asl comporta l’attuazione di misure preventive rispetto alle situazioni igienico-sanitarie, all’abilità di una cella, alla prevenzione ai suicidi. Duro lavoro spetta, quindi, all’avvocato Piero Rossi, il garante nominato dalla giunta Vendola, dato che la Puglia, stando ai dati Eurostat, risulta la regione più sovraffollata d’Italia. Per la Toscana il compito di vigilare è stato affidato a Sandro Margara, anche lui reduce di significativi incarichi come la presidenza della fondazione Michelucci, un’associazione fiorentina prodiga nelle ricerche nel campo dell’urbanistica e dell’architettura, con particolare riferimento ai problemi delle strutture sociali come quelle penitenziarie (uno dei problemi più immediati da risolvere). Non è regalando nuovi appalti alle imprese edilizie che si risolve la questione del sovraffollamento. Per evitare che le galere diventino nuovi “ghetti urbani”, come ha dichiarato Patrizio Gonnella, il presidente di Antigone, non occorre svuotare le Casse delle Ammende per creare carceri fantasma. Sottrarre denaro dal tesoretto messo da parte grazie ai soldi provenienti dalle ammende, dalle sanzioni pecuniarie, dai proventi dei manufatti realizzati dai detenuti, dai versamenti cauzionali, non è stata sicuramente la soluzione migliore: il risultato è stato quello di aver costruito, negli ultimi 20 anni, istituti arredati e inutilizzati. Fatto ancor più grave è la dichiarazione dell’amministrazione penitenziaria che sostiene di non avere i fondi per pagare i contributi alle imprese e cooperative che hanno prestato servizio presso i vari complessi carcerari. Ma come si spiega la spesa di 600 milioni di euro investiti nell’edilizia? Sorprende constatare come le ingiustizie più clamorose avvengono lì dove la giustizia dovrebbe essere meglio amministrata e difesa, nella carceri, nelle caserme, nei commissariati, dove invece si svolgono spesso quegli episodi di violenza compiuta da chi dovrebbe aver cura dei custoditi. Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Carlo Saturno sono alcune delle vittime di tortura, un crimine che ad oggi non è ancora sanzionato dallo stato italiano. Lo scandalo aumenta con la creazione di luoghi di internamento come i Cie, definiti da alcuni addirittura una sorta di Guantanamo all’italiana: uomini e donne vengono ammassati senza riconoscerne diritti e umanità in luoghi dove regna il degrado e dove è vietato l’ingresso a media e organizzazioni umanitarie. Sarebbe il caso di ricorrere all’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, che sembra invece dimenticato: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Giustizia: il Presidente Napolitano nel carcere di Turi, per ricordare Gramsci e Pertini Corriere del Mezzogiorno, 6 novembre 2011 Ho reso omaggio a Gramsci nella cella in cui fu ristretto per tanti anni. Ricordo bene che in questo carcere fu rinchiuso anche Sandro Pertini e rammento la sua vicinanza a Gramsci in quei momenti drammatici. È un luogo altamente simbolico al quale sono stato contento di poter rendere ancora una volta un tributo di gratitudine e di commozione”. Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al termine della sua visita nel carcere di Turi presso Bari. In compagnia della moglie Clio, il capo dello Stato ha visitato il carcere della città pugliese e ha reso omaggio alla cella dove l`esponente comunista rimase dal luglio del 1928 al novembre del 1933 e dove il socialista, poi settimo presidente della Repubblica italiana, fu detenuto dal 1930 al 1932. Pertini, in visita ufficiale in Puglia nel 1979, visitò da solo la cella di Gramsci e si sedette commosso sul letto che era stato del suo amico. Da allora la storica cella è rimasta sempre chiusa. La cella di Pertini ora abitata da sei spacciatori I martiri, gli eroi, non muoiono mai. A Turi, paese agricolo, avvezzo al lavoro sodo, la memoria è custodita nel carcere. Un palazzaccio severo di pietra conserva i tormenti e l’orgoglio di Antonio Gramsci, detenuto matricola 7047, che ebbe la sua cella nella prima sezione fino al 1933. Lo stesso palazzaccio di pietra tenne stretto l’ardore di Sandro Pertini, matricola 7365, dal 1930 al 1932. Gramsci comunista e Pertini socialista strinsero un legame profondo che superò le divisioni nette esistenti fra i due partiti. Gramsci non accettava i giudizi sommari che bollavano i socialisti come “socialfascisti”. Ma quale spalla del fascismo? Gramsci stimò Pertini e, in occasione della Pasqua del 1931, avendo ricevuto da casa un pacco di viveri, con un maialetto cotto allo spiedo, volle dividere il pranzo con l’ormai amico Sandro. Gli altri comunisti si scandalizzarono: quel “socialfascista” al tavolo con un comunista duro e puro era una bestemmia. Il carcere di Turi. Quel palazzaccio nacque destinato a essere convento delle Clarisse. Era il 1850. Le suore, però, non varcarono mai la soglia dell’edificio. Ci fu l’Unità d’Italia. Che, si scrive ora, “portò infiniti danni ai meridionali”. Il palazzo passò al demanio e, nel 1880, fu requisito per farne un carcere. Dalla meditazione possibile alla penitenza certa dei detenuti. Gli abitanti di Turi si sentirono castigati pure loro e guardarono quel luogo con lo sguardo grigio di chi comunque pensa alla gente dietro le sbarre. Antonio Gramsci, come oppositore del Regime, arrivò a Turi, condannato a vent’anni di prigione. In seguito, ebbe la sua cella e cominciò a scrivere “I quaderni dal carcere”. La sua cella è lì. È rimasta intatta per ricordare chi ha combattuto per una causa, nella quale credeva. Un’icona a cui attingere oggi, in tempi di voltagabbana disinvolti. Nel 1979, Sandro Pertini, settimo presidente della Repubblica italiana, a Turi, volle visitare la cella del suo Amico. Disse: “Ci vado da solo”. Il suo addetto-stampa, Antonio Ghirelli, non seppe resistere alla tentazione e osservò dal buco della serratura. “Ho visto la scena più bella della mia vita”, commentò. Pertini accarezzava il letto che era stato di Gramsci. Antonio Gramsci ebbe una cella sua. Sandro Pertini no. Unico socialista recluso, condivideva la “stanza” con Athos Lisa e Giovanni Lai. Nel 1979, in quella visita, il Presidente cercò di identificare il suo alloggio. E fu incerto: “Penso di essere stato qua”. E indicò una cella, nella prima sezione, accanto a quella di Gramsci. Agenti, in servizio da trent’anni, invece, avendo raccolto voci precedenti, sembrano certi: “La cella di Pertini era la numero 5, una delle ultime, sempre nella prima sezione”. Di certo, nella “5”, attualmente, ci sono sei reclusi per reati minori (rapine e traffico di droga). Resta vuota, a far mostra di sé, solo la “stanza” di Gramsci, con arredamento spartano. Il carcere di Turi, come altri istituti di pena italiani, vive il problema del sovraffollamento. Ora ospita 180 detenuti. Si parla di ampliarlo. O addirittura di costruire un carcere nuovo e destinare il vecchio a monumento nazionale. Il monumento con l’etichetta non ci sarà. Ma c’è quello emblematico di Antonio e Sandro. Per i pugliesi, è stato un onore custodire la libertà di due uomini liberi. Il presidente Napolitano troverà a Turi persone fiere. Giustizia: interrogazione Bernardini (Pd); detenuto 76enne ammalato e in regime di 41-bis Ristretti Orizzonti, 6 novembre 2011 Rita Bernardini: interrogazione a risposta scritta al Ministro della Giustizia e al Ministro della Salute. Per sapere - Premesso che: con lettera del 24 ottobre 2010, la Sig.ra Nunzia Fidanzati, sorella di Gaetano Fidanzati, 76enne, attualmente ristretto nel carcere di Parma e sottoposto al regime carcerario di cui all’articolo 41-bis dell’Ordinamento Penitenziario, si è rivolta alla redazione di Ristretti Orizzonti e alla prima firmataria del presente atto per denunciare le gravi condizioni di salute in cui versa il fratello e le difficoltà che lo stesso incontra nel sottoporsi alle necessarie terapie curative; in particolare, lo scorso 5 ottobre, il dott. Pietro Di Pasquale, specialista in cardiologia, e il dott. Giacomo Badalamenti, dirigente medico medicina legale, su incarico del Tribunale di Sorveglianza hanno sottoposto a perizia medico-legale il detenuto in questione al fine di “accertare le attuali condizioni di salute di Gaetano Fidanzati e se esse siano compatibili con il regime carcerario”; nell’elaborato peritale dell’8 ottobre 2011, i medici prima citati scrivono quanto segue: “Dall’esame della documentazione sanitaria, nonché dagli attuali accertamenti medico-legali, si perviene alla conclusione che Fidanzati Gaetano risulta affetto da Ipertensione arteriosa severa resistente a terapia; Diabete mellito in trattamento con ipoglicemizzanti orali in attuale fase di compenso metabolico; Adenocarcinoma prostatico G3 Score 6 Sec. Gleason; Broncopneumopatia cronica ostruttiva (…). È sorprendente come il paziente, pur presentando elevati valori tensivi, non manifesti alcun deficit cardiaco o segni clinici da insufficienza cardiaca. Alla luce dei dati presenti agli atti da cui si evince un regolare e appropriato controllo del paziente da parte dei sanitari della Casa Circondariale di Parma (che si avvalgono di consulenze anche dei sanitari dell’Osp. Malpighi) risulta che non vi sia controindicazione all’attuale carcerazione. (…). In atto non si registrano segni o sintomi di sofferenza degli organi bersaglio dell’ipertensione arteriosa (regolari appaiono la l’unzione renale e la cinetica cardiaca) (…) In ultimo con riferimento alla neoplasia prostatica in diagnosi, il periziando ha iniziato trattamento con ormonoterapia, ma si è riservato di eseguire terapia radiante come prescritto dai sanitari sin dell’Ospedale che della Casa Circondariale”; le conclusioni alle quali pervengono i dottori Di Pasquale e Badalamenti sono le seguenti: “Alla luce di quanto sopra esposto, le attuali condizioni di salute di Gaetano Fidanzati non appaiono incompatibili con l’attuale regime di detenzione ove il paziente è seguito con attenzione anche con l’ausilio dei sanitari del locale ospedale. Per quanto concerne il carcinoma prostatico il paziente già nell’agosto 2011 ha ricevuto prescrizione di terapia radiante. ma lo stesso finora non ha accettato in quanto si riserva dopo consulto con suo medico di fiducia. Qualora il paziente accettasse di eseguire la terapia radiante (sedute giornaliere per 37 applicazioni in struttura sanitaria attrezzata per eseguire tale trattamento), ciò potrebbe avvenire con trasferimento in Cdt o transitorio periodo di ospedalizzazione presso il locale centro clinico ove potrebbe contestualmente eseguire i controlli necessari durante radioterapia. Le altre esigenze terapeutiche delle quali necessita in atto il periziato (oltre a quelle per la terapia dell’adenoma prostatico) possono opportunamente essere soddisfatte in regime di detenzione”; le valutazioni dei periti nominati dal Tribunale sono state pesantemente contestate dal Consulente Tecnico di parte, dott. Paolo Luciano Danna, specialista in cardiologia, il quale nella sua perizia datata 27 ottobre 2011 scrive che: “Per quanto riguarda la terapia dell’adenocarcinoma prostatico del quale il Sig. Fidanzati è portatore, non mi risulta che sia stata iniziata terapia ormonale (la perizia dei Dottori Badalamenti e Di Pasquale nota .... “24/9/11 Inizia terapia ormonale...”). Naturalmente non avere a disposizione copie della cartella rende per me impossibile essere certo della mia affermazione, ma di sicuro ho discusso a lungo col Sig. Fidanzati della opportunità della terapia ormonale e ho avuto in risposta un suo diniego per timore di effetti collaterali. A me risulta che per la prostata il Sig. Fidanzati sia in terapia con Xatral 10 mg (alfuzosina cloridrato, alfa-bloccante). Noto che i Periti concordano nella loro relazione (pag. 6) che, in caso il Sig. Fidanzati accettasse di sottoporsi a terapia radiante, sarebbe “...utile che il detenuto ...(venga)...trasferito in un Cdt o in un Centro Clinico, dove potrebbe contestualmente eseguire i controlli necessari durante la terapia...” Questa affermazione pertanto è in disaccordo con la conclusione poco sotto espressa dai Periti, cioè che le condizioni di salute del detenuto non siano incompatibili con l’attuale regime di detenzione. In caso di inizio della terapia radiante infatti anche i Periti ritengono che le possibili complicanze della stessa sconsiglino la permanenza nell’attuale regime di detenzione, come confermato esplicitamente nel paragrafo “Conclusioni). Per quanto riguarda la gravissima ipertensione arteriosa della quale soffre il Sig. Fidanzati, assolutamente insensibile alla politerapia massiva che è già in atto e che richiede la frequente somministrazione per via parenterale di furosemide o di clonidina, il sottoscritto non è affatto d’accordo con l’affermazione dei Dottori Badalamenti e Di Pasquale secondo la quale (pag. 5) “...in atto non si registrano segni o sintomi di sofferenza degli organi bersaglio dell’ipertensione...”. La marcata ipertrofia ventricolare sinistra presente all’ecocardiogramma è infatti di per sé un danno d’organo, e come ben documentato in letteratura predispone a disfunzione diastolica del ventricolo sinistro, presumibilmente responsabile della importante dispnea da sforzo lieve e delle precordialgie oppressive di verosimile natura anginosa riferite dal Paziente, nonché ad eventi ischemici ed aritmici, infarto miocardico, edema polmonare, morte cardiaca improvvisa. Sempre citando la relazione dei Dottori Badalamenti e Di Pasquale, “...E: sorprendente come il paziente, pur presentando elevati valori tensivi, non manifesti alcun deficit cardiaco o segni clinici di insufficienza cardiaca...”. Non concordo con l’assenza di segni clinici (come ho appena notato il paziente lamenta dispnea per sforzi lievi e dolori toracici di verosimile natura anginosa); mi associo invece alla sorpresa per l’assenza, fino ad ora, delle complicanze maggiori dell’ipertensione. Mi auguro anche che la sorpresa non si tramuti in amaro disappunto per quando una delle suddette complicanze avesse a manifestarsi ed il paziente si trovasse, come da me notato in più di una relazione, in un ambiente (la Casa Circondariale) dove certamente è ben seguito e curato ma dove sarebbe impossibile far fronte all’emergenza di una delle suddette complicanze. Non posso che concludere ribadendo le mie precedenti determinazioni: ritengo che lo stato di salute del Paziente, ed in particolar modo lo stato ipertensivo assolutamente non controllato e la sintomatologia anginosa e dispnoica, siano incompatibili con la condizione attuale di detenzione. Esiste infatti una concreta possibilità di aggravamento repentino e non prevedibile della situazione clinica, con sviluppo di crisi ipertensive maggiori con serio rischio di emorragia intracranica, nonché di comparsa di sintomatologia anginosa instabile o di infarto del miocardi, arresto cardiaco, edema polmonare acuto, etc. In tali sfortunate circostanze il Paziente necessiterebbe di immediato accesso a cure intensive, non rapidamente disponibili nell’attuale regime di detenzione”; considerato inoltre che: l’art. 27, comma 3, della Costituzione, prevede che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato; il trattamento penitenziario deve essere realizzato secondo modalità tali da garantire a ciascun detenuto il diritto inviolabile al rispetto della propria dignità, sancito dagli artt. 2 e 3 della Costituzione; dagli artt. 1 e 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000; dagli artt. 7 e 10 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1977; dall’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali del 1950; dagli artt. 1 e 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948; nonché dagli artt. 1, 2 e 3 della Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 12 febbraio 1987, recante “Regole minime per il trattamento dei detenuti” e dall’art. 1 della Raccomandazione (2006)2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa dell’11 gennaio 2006, sulle norme penitenziarie in ambito europeo; il diritto alla salute, sancito dall’art. 32 della Costituzione, rappresenta un diritto inviolabile della persona umana, insuscettibile di limitazione alcuna ed idoneo a costituire un parametro di legittimità della stessa esecuzione della pena, che non può in alcuna misura svolgersi secondo modalità idonee a pregiudicare il diritto del detenuto alla salute ed alla salvaguardia della propria incolumità psico-fisica; ai sensi dell’art. 1, commi 1 e 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354, “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”, dovendo altresì essere attuato “secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”:- se i Ministri interrogati, negli ambiti di rispettiva competenza, anche alla luce delle considerazioni svolte dal dott. Paolo Luciano Danna nella Consulenza medico-legale sopra citata, non ritenga opportuno assumere ulteriori informazioni in merito alla questione in esame, se del caso anche adottando i provvedimenti che ritenga opportuni, al fine di garantire al sig. Fidanzati - come agli altri detenuti che versano in condizioni di analoga gravità - la tutela effettiva dei propri diritti alla salute, la quale rischia di essere irrimediabilmente pregiudicata da modalità di esecuzione della pena orientate unilateralmente a criteri retributivi, poco compatibili con il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali della persona, nonché con la funzione rieducativa della sanzione penale. Giustizia: Sappe; impiegare in zone alluvionate gli oltre 750 agenti in attesa di giuramento Il Velino, 6 novembre 2011 Impiegare a Genova e nelle zone alluvionate delle Cinque Terre i neo Agenti di Polizia Penitenziaria attualmente impiegati presso la Scuola di Formazione di Cairo Montenotte e di altre città. A chiederlo al ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Oggi abbiamo complessivamente più di 750 neo agenti di Polizia Penitenziaria fermi nelle Scuole in attesa di celebrare il giuramento che si terrà a Roma a metà novembre, e di questi 100 sono nella Scuola di Cairo Montenotte. Crediamo che potrebbe essere più utile, anziché stare nelle Scuole, destinarli a Genova per metterli a disposizione delle Autorità e della Protezione Civile. Per questo mi rivolgo al Ministro Guardasigilli, Francesco Nitto Palma, perché disponga l’invio di questi colleghi a Genova e nelle Cinque Terre”. È l’appello di Donato Capece e Roberto Martinelli, Segretario generale e Segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per quanto avvenuto a Genova. Il Sappe sottolinea anche “l’importante contributo che una trentina di poliziotti penitenziari ha dato, nell’immediatezza dell’esondazione dei torrenti, nella zona di Marassi - piazza Galileo Ferrari e via Fereggiano - per aiutare cittadini e commercianti del quartiere devastato. Ragazzi che hanno dato onore all’Istituzione tutta ed ai quali va il nostro riconoscimento e ringraziamento. Crediamo che il ministro Palma si possa davvero dire orgogliosi dei suoi poliziotti di Genova Marassi”. Dap: non ipotizzabile impiego allievi Polizia penitenziaria In relazione alla richiesta del segretario generale del Sappe, Donato Capece, che chiede al ministro della Giustizia l’invio nelle zone alluvionate della Liguria dei 760 allievi di Polizia penitenziaria, attualmente nelle scuole di Formazione in attesa di prestare il giuramento il prossimo 12 novembre, il vice capo del Dap, Simonetta Matone, dichiara: “Pur rendendoci contro della drammatica situazione di emergenza che sta investendo la Liguria, non è ipotizzabile l’impiego degli allievi agenti nelle operazioni di soccorso, in quanto gli allievi non sono in possesso di una specifica preparazione in materia di protezione civile. Il loro impiego, quindi - continua Matone - rappresenterebbe un intralcio e non già un aiuto alle operazioni di soccorso. La Polizia penitenziaria del carcere di Marassi sta dando un valido supporto alle operazioni di aiuto, come è stato evidenziato dal capo dell’Amministrazione Franco Ionta, mettendosi a diposizione della città di Genova”. Per quanto riguarda la situazione all’interno del carcere di Marassi, che non è stato coinvolto dalla piena del Rio Farraggiano, la direzione dell’Istituto ha interessato la Protezione civile e il Comune per il rifornimento di acqua minerale per le esigenze dei detenuti e del personale”. Giustizia: i cani… e i loro padroni detenuti http://animali.bloglive.it, 6 novembre 2011 Il legame che si viene a creare tra un cane e il suo padrone affonda le sue radici nella storia evolutiva stessa delle due specie, una coevoluzione che ha portato entrambi verso una vita insieme. Il cane rimane fedele al suo padrone anche nelle situazioni più complesse, anche se il suo padrone si macchia di crimini e cattiverie. Ed è per questo che non bisogna sottovalutare l’impatto che può avere su questi animali il distacco improvviso dal proprio padrone. Un problema piuttosto complesso da affrontare, soprattutto se l’allontanamento è necessario come nel caso degli uomini e delle donne che vengono arrestati e portati in carcere a causa dei reati commessi. Che cosa succede ai loro cani? Chi si prende cura di loro? Nella maggior parte dei casi i cani subiscono uno stress pari a quello dell’abbandono non vedendo più il proprio compagno di vita da un momento all’altro. Ed è per questo che in alcuni casi è stato permesso ai cani di varcare la soglia dei penitenziari per poter incontrare i propri padroni. È successo lo scorso agosto a Verona, dove il direttore del carcere Antonio Fullone ha permesso alla meticcia Briciola e al pastore tedesco Shony di incontrare i propri padroni in un giardino all’aperto nel perimetro dell’istituto penitenziario. Un incontro di pochi minuti, ma fortemente richiesto sia dai due detenuti che dai veterinari dei cani che ne avevano accertato l’evidente stato di disagio e depressione. Altro episodio simile è avvenuto nel carcere di Pontedecimo dove la direttrice Maria Milano ha permesso ad una detenuta di incontrare il suo pechinese Kim nel giardino del carcere. Secondo il direttore del carcere questi incontri sono importanti perché permettono di aumentare il senso di responsabilità e di migliorare il modo di relazionarsi con gli altri. Pochi giorni fa è stato presentato un disegno di legge dai senatori Marco Perduca e Donatella Poretti che permetterebbe l’incontro dei detenuti e dei propri cani in carcere, delegando ai direttori delle strutture la possibilità di decidere il numero e il tipo di incontri. La proposta prevede la modifica della legge 26 Luglio 1975, numero 354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”. Solo i detenuti che risulteranno i reali padroni dei cani, registrati adeguatamente all’anagrafe canina, potranno incontrare i propri amici a quattro zampe. Lettere: il magistrato di sorveglianza decide anche quante docce può fare un detenuto di Stefano Anastasia www.linkontro.info, 6 novembre 2011 Surreale l’ordinanza con cui il magistrato di sorveglianza di Palermo ha negato a Francesco la possibilità di farsi quotidianamente la doccia nel carcere di Pagliarelli. Nel merito, forse, aveva pure ragione il giudice; o meglio, i sanitari dell’Istituto, che sconsigliavano l’uso della doccia a un paziente sofferente di artrosi cervicale e di discopatie. Da discopatico di lungo corso posso testimoniare che mi è sempre stato consigliato il sole e il calore, piuttosto che l’acqua e l’umido. Ma il punto è se un giudice, debba occuparsi di queste cose: di quante volte sia consentito a un detenuto di farsi la doccia. Sarà per una bislacca terapia, per speciale attenzione alla igiene personale o per il conforto dello scroscio dell’acqua tiepida sul corpo, ma perché Francesco deve fare un reclamo al magistrato di sorveglianza (e attendere per sei mesi una risposta) per potersi fare la doccia una volta al giorno? Banalmente, perché le docce sono quelle che sono e pure l’acqua è quella che è: e non ce ne sono (docce e acqua) per tutti, tutti i giorni. E tra le esigenze dell’istituzione e quelle dei detenuti l’ordine di priorità è fissato e incontrovertibile: prima l’una, poi gli altri. E pensare che il Regolamento penitenziario stabilisce che le “camere” detentive abbiano annessi dei vani “dotati di lavabo, di doccia e, …, anche di bidet, per le esigenze igieniche dei detenuti” (art. 7, co. 2). È vero che ai regolamenti d’istituto è affidata la determinazione degli “orari di utilizzazione dell’acqua calda”, ma da nessuna parte è prevista una qualche forma di divieto nell’uso delle docce. Anzi, al contrario, il regolamento prevede solo la possibilità di un obbligo di farsi la doccia “per motivi igienico-sanitari” (art. 8, co. 5). Ma, si sa, una cosa sono le norme, altra le prassi, e le docce non ci sono. Addirittura il Regolamento penitenziario fissava un termine per l’adeguamento delle celle e dei servizi: entro il 2005 avrebbero dovuto essere fatti, ma così non è stato, nonostante un censimento compiuto nel 2007 abbia valutato in 400 milioni la spesa necessaria all’adeguamento di tutti gli istituti alle norme del regolamento del 2000: 261 in meno di quelli che verranno spesi in questi anni per aumentare inutilmente la capienza detentiva. Nel frattempo, con buona pace dell’amministrazione e del magistrato palermitano, fino alla realizzazione dei nuovi servizi il regolamento prescrive che “è consentita l’effettuazione della doccia con acqua calda ogni giorno” (art. 134, co. 3). Ascoli: detenuti-giardinieri… un trampolino verso la libertà Il Resto del Carlino, 6 novembre 2011 Una giornata da giardinieri in mezzo a tante giornate da reclusi. Uno spiraglio di libertà per chi è abituato a vedere il proverbiale sole a scacchi. Tre detenuti del carcere di Marino del Tronto hanno passato la giornata di ieri a pulire la scalinata dell’Annunziata, facendo piazza pulita di erbacce, sterpaglie e rifiuti di ogni genere. È il sesto appuntamento delle “Giornate Ecologiche” nate grazie all’impegno del consigliere comunale Francesco Ciabattoni. Un’idea che ha trovato la sponda del Comune e della dirigenza della casa circondariale. “Si tratta di un’iniziativa importante - dichiara la direttrice del carcere, Lucia Di Feliciantonio, si colloca nell’ottica di un graduale reinserimento dei detenuti che lavoreranno a favore della collettività in un’ottica di giustizia riparativa rispetto al reato commesso”. Così, in due turni divisi tra mattina e pomeriggio, tre detenuti sono usciti dalla cella in cui vivono reclusi e hanno assaporato un po’ della libertà che li aspetta quando avranno finito di scontare la loro pena. Storie forse marginali di persone che occupano un pezzetto in cronaca e poi scompaiono, ma è facile parlare quando si è dalla parte giusta della barricata, cioè quella che non prevede delle sbarre tra dove si dorme e il resto del mondo. Gianluca è dentro per rapina e uscirà tra un anno e mezzo. Ha accettato di parlarci mentre, secchio e scopa alla mano, sistemava il primo tratto della scalinata, quello che parte dalla sede dell’Università. Il siparietto che si crea con l’agente di polizia penitenziaria è spiazzante. Il clima è disteso e, tra i fiumi di parole, si instaura un clima quasi scherzoso tra il prigioniero e il suo secondino, tra frasi completate a vicenda e un’atmosfera che si distacca di molto dagli stereotipi del genere. “Senza dubbio è una bella esperienza - dice Gianluca -, ogni detenuto dovrebbe farla. Prima di venire qui ci avevano già portato al Lambro, a Civitella e a Sant’Egidio. Non è la prima volta che esco, ma è sempre una sensazione bellissima. Ormai, con gli agenti siamo diventati una sorta di famiglia, questa storia delle giornate ecologiche era partita quasi per gioco, ma adesso mi sento di dire che, almeno per me, è una rampa di lancio verso la libertà”. “Già - fa eco la guardia penitenziaria -, bisogna considerare che a queste giornate partecipano soltanto detenuti definitivi che hanno già scontato metà della pena e che si sono distinti nel comportamento. Quelli che l’anno scorso hanno fatto questa esperienza sono usciti tutti, tra domiciliari e fine della pena”. Mentre Gianluca sorride e raccatta le foglie dal vialetto, il poliziotto continua: “Guarda, sono ventisette anni che faccio questo lavoro e posso dire al Marino le condizioni sono molto sopra la media degli altri carceri. Ultimamente tutte le celle sono state dotate di docce, rispettando la normativa europea in materia, ti assicuro che è un accorgimento che molti istituti non hanno ancora. Questo particolare che ha aiutato molto a stemperare le tensioni che si accumulano. Adesso le condizioni sono più che buone, sia dal punto di vista igienico sia da quello dello stress”. La chiosa è tutta per Gianluca, che conferma quanto detto dall’agente incaricato di sorvegliarlo: “È vero. Tra i carceri che ho girato, questo è sicuramente il migliore”. Rovigo: Cgil; agente picchiato da un detenuto, grave situazione della Casa circondariale Il Gazzettino, 6 novembre 2011 Un detenuto prende a calci e pugni un agente della polizia penitenziaria di Rovigo nel piazzale del carcere. “Manca la sicurezza all’interno del penitenziario”, afferma Gianpietro Pegoraro coordinatore di categoria Fp Cgil. Voleva andare a prendere del materiale, forse delle magliette, nel magazzino in un orario non consentito e il mancato permesso da parte dell’agente di turno lo ha mandato su tutte le furie. Così l’altro ieri un recluso marocchino di 40 anni, finito dietro le sbarre per reati di droga, ha spedito al pronto soccorso un poliziotto della penitenziaria. Dieci i giorni di prognosi per l’agente che è stato accompagnato al pronto soccorso dopo l’aggressione. Erano circa le 12.15, quando il detenuto, arrivato da Trieste, ha dato in escandescenze. Prima sono volate offese, parole pesanti, minacce e poi calci e pugni. Per fermare l’uomo in preda alla furia sono dovuti intervenire altri due agenti che lo hanno bloccato portandolo, poi, nella sua cella. Lì il marocchino, ancora fortemente alterato, avrebbe ingoiato due lamette protette dal contenitore in plastica. La corsa inevitabile al nosocomio di Rovigo ha creato altro scompiglio. Il detenuto, sottoposto a radiografia, non è rimasto calmo nemmeno davanti ai sanitari continuando a dimenarsi e a minacciare. Per calmarlo sono dovuti intervenire altri agenti chiamati in auto a quelli che lo avevano scortato al pronto soccorso. Per il magrebino nessun pericolo, le lamette saranno espulse senza problemi in modo naturale, ma per lui è scattata automaticamente l’accusa di violenza a pubblico ufficiale. Oltre a dover scontare tre anni di reclusione per la condanna inflitta, dovrà rispondere davanti al giudice anche di questo reato. Ora si trova sotto stretta sorveglianza. “Speriamo venga trasferito - ha dichiarato Pegoraro. Questa vicenda ha creato malumore e sfiducia negli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Rovigo. La situazione è già molto difficile a causa del sovraffollamento e della mancanza di personale. Questi episodi creano solo ulteriori difficoltà”. Il carcere ospita 84 detenuti uomini e 14 donne, quando dovrebbe contenerne 60 per la sezione maschile e 30 per quella femminile. “Il problema è relativo anche al fatto che mancano donne all’interno del corpo di guardia. Al lavoro ci sono 66 agenti, ma molti sono cinquantenni e non possono fare turni di notte. Di questi 13 sono donne delle quali due in distacco e una nel gruppo sportivo. Abbiamo più volte posto il problema ma non abbiamo mai ricevuto risposte dal dipartimento e ciò denota un abbandono per Rovigo”. Grave situazione della Casa circondariale I consiglieri del Pd Piero Ruzzante, Graziano Azzalin, Franco Bonfante e Roberto Fasoli hanno portato all’attenzione dell’assemblea regionale, con un’interrogazione, il tema delle carceri venete e delle condizioni in cui vivono i detenuti. “La Regione intervenga presso il ministero della Giustizia per risolvere la grave situazione della casa circondariale di Rovigo e adempia alle proprie funzioni e competenze in materia sociale, sanitaria e di interventi per la sicurezza”. I consiglieri si dicono soddisfatti dell’annuncio di una prossima visita al carcere rodigino fatto dall’assessore alle politiche sociali Remo Sernagiotto rispondendo all’interrogazione. I consiglieri del Pd sottolineano che non si deve marginalizzare un problema come quello della condizione dei detenuti che troppo spesso si finge di non vedere. “Anche con poche risorse - affermano - possono essere messe in piedi iniziative importanti che possono realmente alleviare le condizioni disumane in cui si trovano i reclusi anche nel nostro civilissimo Veneto. Il lavoro in carcere è, in questo senso, di fondamentale importanza. La priorità, infatti, deve sempre essere il reinserimento dei detenuti”. Sulmona (Aq): internati e detenuti con problemi psichici, tre tentativi di suicidio Il Centro, 6 novembre 2011 Tentato suicidio ieri mattina nel carcere di via Lamaccio. Un internato di 44 anni ha cercato di togliersi la vita impiccandosi dalla grata della finestra del bagno dell’infermeria con dei lembi di un lenzuolo. L’uomo è stato salvato da due agenti della polizia penitenziaria accorsi prontamente sul posto. Altri due casi analoghi si sono verificati qualche giorno fa e hanno visto un extracomunitario, anche lui recluso nella sezione internati, tentare il suicidio. Mentre un detenuto di origine campane, affetto da gravi problemi psichici e in procinto di essere trasferito in un ospedale psichiatrico, ha cercato di togliersi la vita impiccandosi con i lacci delle scarpe. Anche in questi casi sono stati gli agenti penitenziari a evitare il peggio. Una situazione quindi molto delicata, anche se i vertici del supercarcere peligno sono convinti che si sia trattato di episodi dimostrativi, almeno per quanto riguarda i due internati, tesi a ottenere qualche giorno di licenza in più. Alla luce di questi fatti, e del tentato suicidio di un poliziotto nel carcere di Avellino, Mauro Nardella della Uil Penitenziari torna sulle criticità delle carceri italiani e in particolare di quello di Sulmona. “Ben venga la decisione del capo del Dap di istituire una commissione ad hoc per approfondire l’aspetto dei suicidi nelle carceri italiane” spiega il segretario provinciale Nardella, “purché si definiscano percorsi e strumenti di tutela sia a favore dei detenuti che della polizia penitenziaria”. Nel frattempo la Uil continua a chiedere la revisione delle piante organiche e di altri provvedimenti, anche in funzione dell’apertura dei prossimi padiglioni che porteranno il carcere di Sulmona a ospitare circa 1.000 detenuti. “Chiediamo nuovi mezzi per le traduzioni e i trasferimenti in sostituzione di vecchie carcasse pericolose e inaffidabili”, prosegue Nardella, “bisogna trovare le risorse per pagare le missioni e gli straordinari degli agenti; bisogna applicare corrette relazioni sindacali sul territorio”. “E se sarà necessario”, conclude il sindacalista della Uil, “scenderemo in piazza insieme alle nostre mogli e ai nostri figli, anche loro colpiti da un sistema che vede i loro mariti e i loro padri costretti ad essere carcerati per almeno 35 anni”. Porto Azzurro (Li): detenuto manda in ospedale due agenti Il Tirreno, 6 novembre 2011 Due aggressioni in due giorni da parte dello stesso detenuto che hanno fatto finire all’ospedale altrettanti agenti della polizia penitenziaria. Fortunatamente guaribili in pochi giorni le lesioni riportate. Ma l’episodio, reiterato, resta preoccupante. Protagonista dell’accaduto, reso noto dai rappresentanti sindacali degli agenti della penitenziaria, è stato un detenuto quarantenne di origini campane, in carcere per reati contro la persona. Mercoledì l’uomo ha dato in escandescenze strattonando un agente della penitenziata ferito con un violento colpo al collo. Due giorni fa la scena si è ripetuta e a farne le spese è stato un secondo agente, colpito da un calcio al basso ventre. Per riportare la calma sono intervenuti altri due poliziotti della penitenziaria contro i quali l’uomo ha scagliato un televisore barricandosi poi in cella e tendando di dare fuoco alla stanza. Non sono purtroppo gli unici episodi di questo tipo avvenuti in carcere negli ultimi mesi. Aggressioni preoccupanti sulle quali prende posizione il delegato regionale del sindacato Sinappe Paolo D’Ascenzo. “Da qualche tempo - scrive il sindacalista che si rivolge anche al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria - all’interno dell’istituto isolano alcuni detenuti di non facile gestione stanno imperversando, oltraggiando e minacciando in maniera sistematica il personale. La direzione sta adottando tutte le contromisure previste dalla legge, ma questi detenuti paiono non avere il minimo timore per qualsiasi azione penale intrapresa”. Una situazione che sta portando il personale del carcere - 110 agenti per il controllo di circa 350 detenuti - all’esasperazione e rispetto alla quale il Sinappe da tempo chiede l’attuazione di interventi impediscano il verificarsi di episodi gravi come purtroppo quelli degli ultimi giorni. Alghero (Ss): martedì incontro sul sistema carcerario, organizzato dal Cantiere Sociale http://alguer.it, 6 novembre 2011 Martedì 8 novembre alle ore 18. Incontro durante il quale analizzare ed illustrare quel complesso e multiforme sistema che, andando oltre il solo sistema carcerario, possiamo sinteticamente chiamare “del sorvegliare e del punire”. Il Cantiere Sociale de l’Alguer organizza per martedì 8 novembre alle ore 18 presso l’auditorium del Liceo Scientifico “E. Fermi” in via XX Settembre 229 ad Alghero l’iniziativa culturale dal titolo “Dei delitti e delle pene, oltre il carcere”. Si tratta di un incontro durante il quale analizzare ed illustrare quel complesso e multiforme sistema che, andando oltre il solo sistema carcerario, possiamo sinteticamente chiamare “del sorvegliare e del punire”. Da questo punto di vista è necessario, quindi, prendere in considerazione tutte le sue articolate ramificazioni sulla società: istituzioni mediche, di controllo, repressive, ecc. L’occasione per discutere di questo tema sarà la presentazione dell’ultimo libro di Luigi Manconi “Quando hanno aperto la cella, Stefano Cucchi e gli altri”, edito da Il Saggiatore nel 2011. All’iniziativa parteciperanno l’autore, la coautrice Valentina Calderone, Grazia Serra (nipote di Francesco Mastrogiovanni) e Natascia Casu (figlia di Giuseppe, morto dopo 7 giorni passati legato nel reparto di psichiatria di Cagliari). A coordinare e moderare gli interventi sarà Costantino Cossu, giornalista de La Nuova Sardegna, dopo i saluti del prof. Antonello Colledanchise e l’introduzione del Consigliere Comunale Valdo di Nolfo. Vi saranno, inoltre, letture di brani tratti dal libro stesso a cura di Ignazio Chessa. Quelle foto di Stefano Cucchi. Quel corpo prosciugato, quella maschera di ematomi sul viso, un occhio aperto, quasi fuori dall’orbita. Quella morte di Federico Aldrovandi, quel giovane riverso a terra, le mani ammanettate dietro la schiena, esanime. Quelle urla di Giuseppe Uva, dentro la caserma dei carabinieri di Varese. Quelle sue foto col pannolone da adulto incontinente, imbrattato di sangue. Quelle facce gonfie, viola, i rivoli di sangue. E tutte le altre storie, rimaste ignote, oppure richiamate da un trafiletto di giornale, e già dimenticate. Giovanni Lorusso, Marcello Lonzi, Eyasu Habteab, Mija Djordjevic, Francesco Mastrogiovanni. E molti altri. In Italia in carcere si muore. Alcuni sono suicidi, alcuni no. E si muore durante un arresto, una manifestazione in piazza, un trattamento sanitario obbligatorio. Dietro le informazioni istituzionali spesso c’è un’altra storia. Un uomo che muore in carcere è il massimo scandalo dello Stato di diritto. “Quando hanno aperto la cella” ce lo racconta. Luigi Manconi e Valentina Calderone ascoltano, raccolgono e portano alla luce storie di persone - spesso giovani - che entrano nelle carceri, nelle caserme e nei reparti psichiatrici e ne escono morte. In ognuna di queste morti, la morte dello Stato di diritto. Napoli: lo scrittore Paul Auster in visita a Secondigliano Adnkronos, 6 novembre 2011 “Questa esperienza di oggi avrà un grande impatto sulla mia vita, ci rifletterò per molto tempo. A pensarci bene tutto il mio lavoro è concentrato su personaggi che vivono in spazi ristretti. Non voglio essere sentimentale e se voi siete qui c’è un motivo, è la vostra vita che vi ha portato qui ma è proprio in questo luogo che potete riacquistare una maggiore consapevolezza della vostra esistenza”. Si è rivolto così ai detenuti del carcere di Secondigliano lo scrittore newyorkese Paul Auster, in visita al penitenziario napoletano insieme al filosofo e storico dell’arte Georges Didi-Huberman e alla famosa anglista Nadia Fusini, tre degli scrittori vincitori del Premio Napoli 2011. Una prima volta in assoluto per Paul Auster, che non era mai entrato in un penitenziario in vita sua. Un incontro introdotto da Silvio Perrella presidente della fondazione Premio Napoli e realizzato grazie alla disponibilità del direttore del penitenziario Liberato Guerriero, con l’aiuto dell’associazione “Carcere possibile” e dei tanti docenti che lavorano con i detenuti come Antonella Capasso, Antonio Berardi, Antonella Ferri. L’attore Mimmo Borrelli ha letto un testo su Napoli e uno tratto dal suo ultimo spettacolo ‘Madrè introducendo un fitto dialogo tra i detenuti e gli scrittori, visibilmente sorpresi dalla profondità delle domande e dall’attenzione verso le pagine lette. “I suoi libri nascono dalla sofferenza degli uomini?”, ha chiesto un detenuto ad Auster che ha risposto: “Tutti abbiamo delle ferite, alcune persone sono più forti e riescono a superare le difficoltà, altre sono più deboli. Anche il protagonista del mio libro Sunset Park ha sofferto per la morte del fratello, che lui stesso ha procurato e per questo si sente in colpa, si autopunisce ma poi in lui rinasce la speranza nel futuro”. A un altro detenuto che gli chiedeva quale fosse il ruolo di uno scrittore, Auster ha risposto: “Il nostro compito sta nel rallentare il passo, guardare con attenzione quello che influenza la nostra vita. Noi scrittori dobbiamo raccontare le vite dei singoli e non delle persone in generale”. Poi Auster ha raccontato di aver fotografato, proprio come fa il protagonista del suo libro, la casa di Sunset Park che dà il nome al romanzo e di non averla più ritrovata l’anno successivo alla pubblicazione del libro perché era stata rasa al suolo. E il tema della casa ritorna anche nelle successive domande dei detenuti. “In lingua inglese ci sono due modi per dire casa: house e home - precisa Auster -. Ebbene i giovani protagonisti del mio libro occupano una house, un edificio fatto di mattoni, ma pian piano ricostruiscono lì la loro home, la loro famiglia”. Il filosofo francese Georges Didi-Huberman ha risposto invece a una domanda di un detenuto sulla cultura napoletana che può generare devianza. “Si può essere milanesi e delinquenti oppure napoletani e molto onesti - ha risposto Didi-Huberman - la cultura di strada a Napoli è molto importante ma in questi anni, come aveva già descritto bene Pier Paolo Pasolini, si è verificato un mutamento antropologico. Oggi ognuno è chiuso nella propria casa davanti alla propria tv. Noi dobbiamo ricreare una memoria collettiva”. E alla domanda su chi fossero le lucciole, Didi-Huberman ha detto che vanno cercate in tutti noi, in ogni singolo individuo che fa qualcosa per la società, anche in carcere ci sono molte lucciole”. Nadia Fusini ha risposto, invece, a domande sul valore liberatorio delle parole e sul ruolo della follia così come è vissuto nei personaggi descritti da Shakespeare. “Il nostro obiettivo ultimo è far crescere la voglia di leggere e, per questo, abbiamo anche una biblioteca - ha detto il direttore del penitenziario Liberato Guerriero alla fine dell’incontro - mi piacerebbe sentire che i detenuti protestano perché mancano i libri in biblioteca”. Lecce: presso Casa Circondariale avviato laboratorio teatrale “La bottega degli specchi” Ristretti Orizzonti, 6 novembre 2011 Prende avvio il laboratorio teatrale “La bottega degli specchi”, presso la Casa Circondariale di Lecce, organizzato dalla Scuola Media Statale - Ctp “Dante Alighieri” di Lecce, nelle vesti della Dirigente Addolorata Mazzotta. Il corso è ormai giunto alla terza annualità ed è condotto dall’attrice, autrice e regista Alessandra Cocciolo Minuz del Teatro dei Veleni e coordinato dal Prof. Giovanni Caputo. L’intento del laboratorio è quello di favorire la presa di coscienza della propria identità e del sé psicosociale, in un’ottica di promozione del benessere sociale, attraverso un’azione specifica di espressione dell’Io e dei suoi bisogni, nonché quello di fornire uno “spazio” privilegiato per sperimentare la comunicazione intrapsichica ed inter-relazionale. Il teatro, quindi, diviene un valido strumento per esternare disagi, comunicare bisogni e gestire conflittualità, permettendo la serena e pacifica convivenza con la diversità. Il corso ha una durata pari a 120 ore ed offre ai corsisti, di numerose e diverse etnie, gli strumenti idonei per vivere la scena e nello specifico le tecniche attoriali mirate a favorire la comunicazione verbale e non. Si concluderà nel mese di dicembre con un allestimento inedito, scritto per l’occasione dall’autrice e regista Cocciolo Minuz. Nel 2009 il laboratorio ha prodotto lo spettacolo “Ris-Cos: che fine ha fatto il mio corpo?”, che ha registrato numerose repliche nel teatro della Casa Circondariale e nel 2010 la realizzazione del lungometraggio “La solita storia”, circuitato anche all’esterno. I lavori, entrambi inediti, hanno portato in scena tematiche e problematiche quotidiane, invitando ad una riflessione collettiva e alternativa. Cuba: omicidio e corruzione di minore; tre italiani condannati a 25 anni di carcere di Viviana Bruschi Il Resto del Carlino, 6 novembre 2011 Angelo Malavasi, originario di Mirandola (Modena) ma da anni con residenza a Casalgrande, arrestato a Cuba con l’accusa di omicidio corruzione di minorenne, è stato condannato a 25 anni di carcere. Il verdetto è rimbalzato veloce dalle fredde aule del tribunale cubano a Mirandola, dove vivono i parenti, e nel Reggiano, dove abitano la madre e la sorella. La giustizia cubana non ha fatto sconti, e ha inflitto pene severissime ai tre italiani, e ai sei cubani colpevoli, secondo i giudici, di aver provocato la morte, il 10 maggio 2010, di Lillian Ramirez Espinosa, la dodicenne con gravi problemi asmatici indotta a un festino a luci rosse, caricata su una vettura, poi abbandonata e ritrovata ormai senza vita in un campo. La ragazzina, secondo l’accusa, era stata prima in compagnia degli italiani e dei cubani in un locale della città di Bayamo, a nord dell’isola. Angelo Malavasi si è sempre proclamato innocente. “In quel locale - disse mesi fa in una intervista rilasciata al Carlino - mi trovavo in compagnia di amici e non c’entro assolutamente nulla con la morte di quella povera ragazzina. Ma quando è arrivata la polizia, e ha fatto la retata, purtroppo ci sono finito in mezzo e con me gli altri due italiani. Per me è un incubo. Spero che il governo italiano mi aiuti a uscire da questo inferno”. Malavasi sperava nella giustizia e i suoi legali erano riusciti a portare in giudizio elementi probatori a suo favore, ma purtroppo la sentenza che tutti speravano di non dover mai sentire è arrivata. Assieme a Malavasi è stato condannato a venticinque anni anche l’altro italiano Simone Pini, mentre il terzo connazionale, Luigi Sartorio, è stato condannato a venti anni per corruzione di minori. I giornali cubani riportano la notizia specificando che “tanto Pini come Sartorio hanno enfatizzato la loro innocenza e dichiarato la loro estraneità ai fatti” ma i giudici del Tribunale provinciale di Granma, nella città di Bayamo, non hanno creduto alle loro parole. Pene esemplari anche ai cubani. Il principale accusato, Vicel Ramos Cedeño, è stato condannato a trenta anni di carcere, gli altri scontano tra i venti e i venticinque anni. Subito dopo il processo a porte chiuse e la sentenza Malavasi e Sartorio sono finiti nelle carceri di Este y La Condesa. Pini nel carcere provinciale di Las Mangas, in Bayamo. Intanto su Facebook sono già esplose le note di protesta e la richiesta di liberare “Angelo, innocente”. Il senatore Pietro Marcazzan ha dichiarato che provvederà nella giornata di domani a presentare una interrogazione al ministro degli Estri per sapere se l’Italia ha fatto tutto quel si poteva fare per i nostri concittadini. Giordania: ministro informazione; presto liberi altri detenuti politici Aki, 6 novembre 2011 La Giordania intende rilasciare altri detenuti politici “il prima possibile”. Lo ha annunciato oggi il ministro dell’Informazione Rakan Majali, riaffermando la volontà del governo di Amman di attuare le riforme chieste dal popolo. Ieri il re Abdullah II aveva concesso la grazia a 12 cittadini giordani arrestati per aver pianificato attentati contro la monarchia e aveva rilasciato 15 islamici arrestati ad aprile dopo scontri con la polizia durante una manifestazione che si era svolta vicino ad Amman. Fonti giudiziarie hanno anticipato che il governo sta considerando il rilascio di altri 88 islamici arrestati durante simili manifestazioni di protesta. Il re ha nominato un governo guidato dal giurista Awn Khasawneh come premier proprio per avviare riforme politiche.