Giustizia: un viaggio con Radio Radicale, nell’inferno delle carceri italiane di Andrea Managò L’Espresso, 4 novembre 2011 Tre giornalisti sono stati per tre mesi in otto delle nostre prigioni, da Favignana a Brescia. Dove non ci sono le porte per i bagni, manca la carta igienica, i detenuti dormono per terra. Così è nata “Giustamente”, una gigantesca video denuncia, on line a capitoli sul sito Fai Notizia, lanciato da Radio Radicale. Che diventerà il primo archivio filmato dietro le sbarre. In alcune delle 206 carceri italiane la direzione non riesce a fornire più di un rotolo di carta igienica al mese per ciascun detenuto. Gli altri devono comprarli a proprie spese. A Messina invece i carcerati hanno provveduto a realizzare con delle lenzuola un divisorio di fortuna per isolare i sanitari dal resto della loro cella. Metterle sul materasso equivarrebbe a farle sporcare, almeno nel penitenziario di Brescia. visto che diverse celle da 10 posti dispongono solo di 9 brande. L’ultimo arrivato dorme su un letto poggiato in terra. La carenza di risorse e personale, unita all’inadeguatezza di molte strutture, è uno dei tratti distintivi che accomunano, da Nord a Sud, i 206 istituti di pena del Belpaese. Di questo e molto altro racconta “Giustamente - Se vuoi conoscere la civiltà del tuo paese devi visitare le sue carceri”. La video inchiesta, realizzata da Valentina Ascione e Simone Sapienza, con la regia di Pasquale Anselmi, propone un viaggio all’interno di 8 penitenziari italiani: Messina, Palermo Ucciardone, Giarre, Favignana, Sassari, Brescia, Perugia e Padova. Un lavoro frutto di tre mesi di riprese, tra agosto e ottobre. Immagini spesso rare, come quelle girate all’interno della fortezza di Favignana, già definita “una tomba” nell’800 da Alexander Dumas. Sull’isola siciliana le celle sono a livello seminterrato, si affacciano all’interno del vecchio fossato della struttura. Qui in molti internati scontano il cosiddetto “ergastolo bianco”, un vecchio retaggio della legislazione fascista che mantiene in cattività persone che hanno già scontato la loro pena ma sono ritenute socialmente pericolose. In teoria la loro condizione non dovrebbe equivalere a quella dei detenuti, nella pratica la distinzione rimane sulla carta. Il documentario fa da apripista al nuovo network di giornalismo partecipativo, fainotizia.it, lanciato la scorsa settimana da Radio Radicale. Giustamente sintetizza in 40 minuti la grande mole di materiale raccolto: 40 ore di girato. Nei prossimi mesi le immagini verranno divise per capitoli e caricate sul sito di Fai Notizia, a quel punto i video potranno essere scaricati gratuitamente da tutti coloro che vorranno utilizzarli. Costituiranno così il primo archivio di filmati delle carceri italiane, pensato anche come strumento di supporto per tutti i giornalisti che si occupano di questo tema. Nessuna voce fuori campo ad accompagnare le immagini, a parlare sono soprattutto i detenuti e gli agenti della Polizia Penitenziaria. Raccontano i mille disagi vissuti da una popolazione carceraria che al 31 agosto scorso era di oltre 67 mila persone, a fronte di una capienza di 45.647 posti. Più di mille discorsi parlano anche i rumori: su tutti quello delle chiavi delle celle, e le istantanee di pareti scrostate dall’umidità e spazi sempre troppo stretti. Tra le immagini forti spiccano quelle delle “celle lisce”, come a Sassari, prive di qualsiasi suppellettile ad eccezione di una branda senza materasso. Ogni carcere ha le sue regole. Il tema della discrezionalità dell’applicazione delle norme ritorna ciclicamente in tante interviste. I direttori delle strutture dispongono di poco potere nella gestione delle risorse, ma di grande arbitrio nel regolare la quotidianità all’interno dei singoli penitenziari. Emblematico il caso del numero massimo di caramelle da poter portare ad un colloquio. Nella casa circondariale di Padova invece, dopo alcuni casi di suicidio con le bombolette del gas, ai detenuti sono stati forniti sacchetti di plastica per l’immondizia bucati. Nel gennaio 2010, presentando il piano carceri del governo (capienza ampliata a 80 mila posti e 2.000 nuove guardie carcerarie), l’allora guardasigilli Angelino Alfano lo aveva definito “una missione che non ha precedenti nella storia della Repubblica”. A vedere queste immagini verrebbe da dire che è fallita. Giustizia: “Mostri dell’inerzia”… nello Stato di diritto di Roberto Silvestri Il Manifesto, 4 novembre 2011 Fu un cronista di nera dell’Unità ad avvertire telefonicamente la signora Licia Rognini il 16 dicembre 1969 che il cadavere Giuseppe Pinelli (sequestrato il 12 dicembre e trattenuto “per un tempo ben superiore a quello strettamente necessario per il suo interrogatorio”) giaceva nel cortile della questura di Milano. La stampa, perfino l’Unità di allora, era più sveglia, meno ossequiosa di oggi alle autorità. La società civile, e non solo i parenti delle vittime - così parziali, così indifesi - esigeva, e a volte otteneva, trasparenza e giustizia. Quando la signora Pinelli telefonò al commissariato per chiedere conferme e spiegazioni: “Ma con tutto quello che abbiamo da fare le pare che ho il tempo di avvertirla?!” fu l’elegante risposta di Luigi Calabresi (poi denunciato dalla vedova dell’anarchico e condannato per quello assai strano volo dal quarto piano e condannato nel 1975 dal giudice D’Ambrosio con altri sette complici. L’episodio della telefonata è raccontato a Pasolini da Licia Rognini in 12 dicembre, il documentario di Lotta Continua sulla strage di piazza Fontana. Nulla è cambiato da allora, anzi molto è peggiorato dopo la legge anti droga, ci conferma Amnesty International, non fosse che, dopo lo shock di “Mani pulite”, il poliziotto prima e il magistrato dopo hanno meno tempo per interrogatori robusti e ficcanti del fermato senza la presenza del difensore. Almeno se si tratta di un onorevole o di un cittadino altrettanto protetto, misteriosamente incappato in qualche guaio. Ma anarchici, drogati, ultras, extracomunitari, travestiti e “senza fissa dimora albanesi” saranno pestati ben benino, se necessario, senza che nessuno possa mai dire “fermatevi!”. Tanto, chi se ne accorge? Chi protesterà? Chi oserà denunciare la morte in cella di 200 persone all’anno con le stigmate del debosciato - sigle, né corpo né anima, nei brevi trafiletti delle pagine di cronaca - senza beccarsi una controdenuncia per diffamazione visto che una ferrea rete di omertà protegge polizia, carabinieri, guardie carcerarie, infermieri, medici e qualche politico che dimostra sempre che quelle morti furono tutte “burocraticamente corrette”? Fu il 148esimo morto del 2009 sotto custodia pubblica Stefano Cucchi, il giovane di Tor Pignattara di 31 anni massacrato di botte da ignoti durante gli interrogatori dei carabinieri e ritrovato cadavere - nelle foto che sembrano scattate a Auschwitz - all’ospedale “protetto” Sandro Pertini di Roma, il 22 ottobre 2009, dopo un arresto in flagranza di reato per spaccio di coca e hascisc avvenuto sei giorni prima. 140 persone lo hanno poi visto in quei 6 giorni (non i genitori, fermati alla porta da regolamenti che neppure Giovanardi riuscirebbe a congegnare se ce la mettesse tutta). Sarebbero stati in tutto 177 i morti dentro le celle quell’anno. A tutti loro, e anche a Marco Ciuffreda, 37 anni, il figlio della nostra giornalista Giuseppina Ciuffreda, morto in carcere nel 2000 dove era stato illegalmente trattenuto per oltre 52 ore, è dedicato il film documentario, presentato nella sezione Extra del Festival di Roma, 148 Stefano. “Mostri dell’inerzia” di Maurizio Cartolano, sceneggiato da Giancarlo Castelli, prodotto da Ambra Group e dal Fatto quotidiano che lo distribuirà in dvd il 30 novembre. Il film, emotivamente potente, spiega come sia intollerabile negare tutti i diritti a un cittadino in uno stato dì diritto, e restituisce a Cucchi un corpo e un’anima, attraverso una ricostruzione più dettagliata possibile dell’assurdo caso, comprese le dichiarazioni del ministro Alfano, l’infografica animata per rendere plausibile il non documentabile, home video, interviste con esperti (l’avvocato di famiglia, Manconi, presidente di “A Buon Diritto”...), giornalisti indocili (Fatto, Liberazione e Cinzia Gubbini del Manifesto), il padre di Stefano, la pugnace sorella Ilaria, documenti audio di Radio Radicale (il partito che più vuole abbattere le nostre leggi e carceri (non solo nell’edilizia) più medievali, compresa l’integralista legge anti-droga e il sistema di interessi commerciali che la metafisica antiabrogazionista ben protegge. Ma più che la riflessione umana, ferma ma pacata, più che porre domande, un documentario di denuncia dovrebbe anche prendersi la responsabilità di dare risposte, di anticipare o contestare la verità giudiziaria. Sul ruolo dei carabinieri, sotto pressione allora per il caso Marazzo, e del tutto scagionati dal processo in corso, si tace quasi, eppure erano e sono esplicitamente chiamati in causa dalla dichiarazione di Stefano al padre in aula (“sono stato incastrato”), forse allusione di un pesce piccolo terrorizzato dopo lo sgarro al cartello principale che (insegna Ciudad de Juarez) ha reti politiche e poliziesche insospettabili? Domande impertinenti? Ma il giovane non fu incastrato e poi protetto proprio dall’Arma? Giustizia: in Gazzetta Ufficiale l’accordo su salute in carcere e superamento Opg www.quotidianosanita.it, 4 novembre 2011 L’accordo, delineato all’allegato C del Dpcm 1° aprile 2008, prevede alcune integrazioni: l’implementazione della tutela della salute mentale nelle carceri ordinarie e la creazione di un coordinamento per il superamento degli Opg in ciascuno dei bacini macroregionali. Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 256 del 3-11-2011 l’Accordo, ai sensi dell’art. 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sul documento recante “Integrazione agli indirizzi di carattere prioritario sugli interventi negli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) e nelle Case di cura e custodia (Ccc) di cui all’Allegato C al Dpcm 1° aprile 2008”. Sono state previste alcune integrazioni al percorso per il superamento degli Opg delineato all’allegato C del Dpcm 1° aprile 2008: implementare la tutela della salute mentale nelle carceri ordinarie e creare un coordinamento per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari nei bacini macro regionali coperti dalle strutture. L’accordo prevede che, entro il 30 giugno 2012, ogni Regione, attraverso i propri Dsm e in accordo con l’amministrazione penitenziaria, deve programmare e attivare in almeno un istituto di pena una sezione dedicata alla tutela della salute mentale dei detenuti nel proprio territorio. Questa sezione dovrà concorrere operativamente al superamento degli Opg garantendo due funzioni: assicurando nelle carceri ordinarie l’espletamento delle osservazioni per l’accertamento delle infermità psichiche e prevenendo l’invio in Opg dei detenuti che si ammalano durante la pena; prendendo in carico le persone di competenza presenti in uno degli Opg per determinarne sia la dimissione sia il ritorno in un istituto ordinario della Regione. L’amministrazione penitenziaria, inoltre, non dovrà più inviare detenuti in Opg per osservazione psichiatrica. La seconda parte dell’accordo prevede l’istituzione in ogni bacino macro regionale di riferimento dei sei ospedali psichiatrici del “Gruppo di coordinamento per il superamento degli Opg” composto da un rappresentante di ogni Regione e coordinato dall’esponente dell’amministrazione locale in cui ha sede la struttura. Ciascuna Regione dovrà poi istituire il collegato “Sottogruppo tecnico regionale per il superamento degli Opg”, con una rappresentanza dei diversi servizi deputati alla presa in carico degli internati. Entro la fine dell’anno un accordo di programma dovrà, infine, contenere altri impegni: promuovere in ogni fase la gestione uniforme e omogenea dell’assistenza a detenuti e internati; assumere per i destinatari di una misura carceraria “il principio della iniziale costante competenza del Dsm” di residenza o di abituale dimora; impegnare le Asl a realizzare programmi di cura e riabilitazione condivisi tra tutti i servizi territoriali competenti e integrati con i servizi sociali comunali per il reinserimento nel contesto di appartenenza. Giustizia: “Punire non serve”… la critica al carcere di Gherardo Colombo, ex magistrato Corriere della Sera, 4 novembre 2011 Nel suo nuovo libro, Colombo analizza la possibilità di immaginare delle pene alternative, diverse dal carcere. La concezione filosofica secondo la quale chi trasgredisce deve essere sottoposto auna pena, e cioè deve soffrire, dipende, da una più generale convinzione sull’essenza della relazione tra esseri umani: se questa è basata sulla teoria del premio e del castigo, la conseguenza della violazione della regola non può essere che il castigo. D’altra parte l’idea retribuzionista della pena è fondata a sua volta sull’idea che sia giusta l’esclusione. Si può retribuire il male con il male solamente se si ritiene che l’espulsione dalla relazione con l’altro sia umanamente (e metafisicamente e teologicamente) non solo ammissibile, ma anche positiva al verificarsi di certe condizioni. Questa idea appartiene a una cultura più ampia, che ha le proprie applicazioni anche in altri campi, primo tra tutti quello educativo. Il modello funziona, al di là delle parole, pressappoco così: poiché hai rotto la relazione affettiva con me (con la comunità, Dio), meriti che io (la comunità, Dio) rompa la relazione affettiva con te. E quanto più grave è stata la rottura, tanto più grave deve essere la frattura da parte mia (della comunità, di Dio). Se la rottura della relazione è consistita, per esempio, nell’eliminazione della fisicità altrui, anche la tua fisicità deve essere eliminata (e quindi la pena deve essere la morte, sia essa effettiva oppure figurata, come nella prigione a vita). Se la rottura non è esaustiva, devi subire un allontanamento, un’esclusione proporzionata all’esclusione dal rapporto affettivo che avevi causato tu. (...) Ora, questa concezione può essere in sintonia con una visione strumentale dell’essere umano il quale, proprio perché “strumento” può essere escluso, allontanato, eliminato quando non serve o infastidisce. Non vale perché è umano, ma per quello che fa: se fa bene viene premiato, se fa male viene punito. Sicuramente è invece distonica con il principio proclamato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, e stabilito dalla Costituzione italiana, secondo il quale l’essere umano non è strumento ma ha (è) dignità. L’essere umano è degno perché è tale, non per quello che fa (...). Quando, da magistrato, svolgevo le funzioni di giudice istruttore, succedeva che dovessi emettere mandati di cattura, provvedimenti con i quali disponevo che una persona, prevedendolo la legge, venisse rinchiusa in carcere in custodia cautelare (la prigione prima della condanna). Poniamo che avessi disposto l’arresto di una persona accusata di aver compiuto una rapina in banca minacciando un cassiere con un temperino: succedeva che qualche giorno dopo si presentasse nel mio ufficio a chiedere un permesso di colloquio la moglie, accompagnata da un bambino di pochi anni. La situazione mi poneva interrogativi insolubili, perché non ero in grado di trovare la giustificazione all’aver sottratto al bambino il papà. Quale responsabilità aveva, il bambino, perché subisse la sofferenza della privazione del padre? Se in una logica retributiva si potrebbe concepire che al (fino a quel punto presunto) trasgressore possano essere sottratti diritti fondamentali come quello alla relazione con i suoi cari, nemmeno in quella logica può essere compresa la compressione dei diritti fondamentali di terzi, come appunto il figlio. Non si può rispondere dicendo che il padre avrebbe dovuto pensarci prima, perché si tratta di un argomento che non riguarda il figlio, ma il padre (e credo sia ormai pacifico che non dovrebbe esser ammissibile che le colpe dei padri possano essere fatte ricadere sui figli). Né si può rispondere che è giusto sottrarre il padre al figlio perché gli sarebbe di cattivo esempio: l’osservazione prova troppo, perché non tiene conto, da una parte, che se così fosse dovrebbe essere escluso definitivamente dai contatti con il padre, e non dovrebbero esser consentite nemmeno le sei ore di colloquio mensili; dall’altra, che succede non raramente che persone commettano reati per necessità di altre persone che stanno loro intorno (per esempio per sopperire alle necessità della famiglia in caso di povertà). Il carcere, quindi, non solo non rispetta la dignità di chi lo subisce, ma non rispetta dignità e diritti di terzi estranei alla trasgressione (...). Lo sviluppo del concetto di dignità, peraltro, porta a riconoscere come suo seguito quello di libertà: se le persone sono apprezzabili in quanto tali non possono essere sottomesse ma deve esser loro riconosciutala libertà (perché la sottomissione ha senso soltanto se le persone sono incapaci, e devono perciò essere dirette da altri, e pertanto non libere). Ma se la libertà è attributo della dignità, non può essere limitata salvo che in un unico caso: quando ciò serve a consentire la libertà altrui. La libertà inoltre può essere limitata solo entro un determinato confine: che la limitazione serva esclusivamente allo scopo di consentire agli altri di esercitare la propria libertà. Con queste osservazioni è coerente che le regole pongano obblighi o divieti indirizzati a tutelare la libertà dei membri della comunità e a garantirne l’esercizio, ma è incoerente la conseguenza retributiva della violazione. È conforme al modello imporre “non uccidere”, ma non è conforme far seguire “altrimenti ti uccido”, perché è proprio questa seconda parte, la sanzione, a non essere in linea con dignità e tutela della libertà. Anche sotto il profilo educativo, perché fare male (pur nell’esercizio della funzione autoritativa della risposta alla trasgressione) non può che insegnare, irrimediabilmente, a fare male: non si può insegnare a non uccidere uccidendo; non si può insegnare a non privare gli altri della libertà togliendola. La sofferenza imposta non può, non è in grado di convincere, e semmai insegna a obbedire. Ma chi obbedisce non è psicologicamente, se non giuridicamente, responsabile delle proprie azioni (ne è responsabile chi dà l’ordine). La pena, quindi, anziché creare responsabilità la distrugge. Distruggendo la responsabilità incanala la società verso la compressione della libertà, perché questa è inscindibile dalla responsabilità. Giustizia: Antonio Cassano… e Carlo Saturno di Patrizio Gonnella MicroMega, 4 novembre 2011 Antonio Cassano è stato un miracolato nella vita. Lui è nato con un fardello sociale pesante da sopportare. Nel 1982, anno della sua nascita, Bari vecchia era un luogo difficile, affascinante ma molto difficile. I destini dei ragazzini erano abbastanza segnati. C’era però il lavoro sociale di associazioni splendide e di figure mitiche che cercavano di sottrarli a percorsi predestinati di violenza e di crimine. Bari vecchia non aveva le luci al neon di oggi che ne circondano il nucleo storico rimasto fortunatamente quello di una volta, autentico ma duro, vero ma greve. A Bari vecchia in quegli anni si girava, con gli occhi aperti, tra un vespino che viaggiava su una ruota e venditrici urlanti di sgagliozze. Mi ha sempre sorpreso che la polenta fritta fosse un cibo barese, ossia di una città di mare. Alla fine degli anni novanta ho visto varie volte il giovane, ma oramai già noto, Cassano sfrecciare su una ruota tra i vicoli di Bari vecchia. Antonio Cassano è stato cresciuto dalla sola mamma, che per giunta era nella condizione complicata di donna affidata ai servizi sociali. Da adolescente la sua vita poteva virare verso l’una o l’altra direzione: criminale o calciatore. Grazie alla madre e ai suoi piedi talentuosi in carcere ci è andato a finire non per aver commesso uno scippo ma per aver segnato, diciassettenne, un goal eccezionale all’Inter. Qualche giorno dopo quella partita andò a trovare infatti i suoi amici che erano in galera. Era il dicembre del 1999. Lui che aveva esordito da giovanissimo proprio nella Pro - Inter grazie a quella rete iniziò una carriera da miliardario. Si è detto di tutto nei suoi confronti: Cassano strano, Cassano esuberante, Cassano litigioso, Cassano pericoloso. Cassano non è mai stato amato perché era di una altra classe. Cassano ha rotto una predestinazione sociale, è uscito da un blocco di potenziali sfigati e criminali ed è entrato in un altro mondo, non suo. La sua Puglia è oggi la regione italiana con il più alto tasso di affollamento penitenziario. Nel carcere di Bari non c’è spazio per stare in piedi. Le condizioni igienico - sanitarie sono durissime. Pochi mesi fa in quel carcere si è ucciso un giovane ragazzo, Carlo Saturno. Pochi giorni dopo la sua morte avrebbe dovuto raccontare la sua versione in un processo dove era parte civile per i maltrattamenti brutali che aveva subito nel carcere minorile di Lecce, quando aveva quindici anni. La storia sociale di Carlo e quella di Antonio per lunghi tratti non sono state così diverse. Cassano ce l’ha fatta grazie al terno al lotto del suo talento calcistico, che in quelle circostanze sociali è come un gratta e vinci. Carlo non aveva invece talento calcistico e quindi è morto in prigione. A nessuno dei due lo Stato sociale ha dato, però, una mano. Ora che Cassano sta male l’ipocrisia impera, quella ipocrisia che lui non ha mai avuto. Giustizia: Osapp; nel maxi-emendamento misure insufficienti e contradditorie per carceri Comunicato stampa, 4 novembre 2011 “Le misure per le carceri che il Parlamento si accinge a valutare, all’interno del maxiemendamento del Governo al disegno di legge sulla stabilità economica, oltre che del tutto insufficienti e contraddittorie tra di loro, sono la conferma dei gravi errori di valutazione commessi negli ultimi tre anni nel settore penitenziario.” ad affermarlo è Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) in una missiva odierna indirizzata al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. “Immaginare e proporre nuovamente le c.d. carceri in permuta con immobili da acquisire al posto di vecchi istituti di pena, come già in auge e mai realizzato diversi anni or sono - prosegue il sindacato - in quanto sostanzialmente opposto del c.d. ‘piano - carceri’ ne sancisce l’implicito fallimento dopo tre ani di promesse e di proclami nell’ambito del Ministero della Giustizia e non solo e altrettanto implicita dichiarazione di fallimento del piano straordinario di edilizia penitenziaria è contenuta nella norma che prescrive la distinzione tra l’incarico di capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e quello di commissario delegato per le carceri, nonostante che l’attuale capo del Dap e commissario delegato Franco Ionta di detto piano sia stato il principale ispiratore.”. “In tale contesto, mentre i detenuti non aumentano (67.214 è presenze per 45.572 posti ieri 3 novembre 2011) ma neanche diminuiscono, probabilmente in concomitanza con i permessi concessi nelle ricorrenze dei santi e dei defunti - prosegue il leader dell’Osapp - ci viene spontaneo chiederci che fine faranno i 670 milioni di euro stanziati proprio per quel piano - carceri, che a destra a quanto a sinistra, era stato indicato come la soluzione ultima e definitiva al sovraffollamento, invece degli interventi di più ampia portata di urgente necessità quale e non ultimo quello riguardante l’amnistia e quanto si sappia in Parlamento dei 150 milioni di debiti già accumulati dall’Amministrazione penitenziaria, che ne ha richiesti 250 in più per il 2012 che nessuno concederà e che oggi sopravvive solo grazie ai continui prelievi dalla cassa delle ammende a cui si vorrebbero imputare anche gli stipendi degli ‘ausiliari’ del nuovo commissario delegato e che presto sarà anch’essa completamente prosciugata”. “Quali rappresentanti di un Personale penitenziario il cui organico difetta di non meno del 27% delle carenze, le cui malattie professionali e il disagio cui si presentano in progressivo aumento, persino attraverso episodi di drammatica attualità, quali gli ultimi suicidi di poliziotti penitenziari - conclude Beneduci - ci rendiamo conto che l’attuale e contingente crisi economica costituisca il principale polo di interesse della politica, ma non condividiamo che si faccia di tutto per negare in che misura le condizioni della Giustizia e delle Carceri in Italia contribuiscano a rendere ancora più povero il Paese, aumentandone l’insicurezza sociale interna e la scarsa credibilità internazionale.” Lettere: il diritto dei detenuti all’assistenza sanitaria Messaggero Veneto, 4 novembre 2011 Come persone detenute le informazioni che possiamo ricevere e raccogliere possono essere non del tutto complete ed esaurienti, comunque all’interno della redazione del periodico “La voce nel silenzio” cerchiamo di affrontare, nel limite delle nostre risorse informative, diverse tematiche inerenti alla condizione penitenziaria. Un aspetto che recentemente abbiamo affrontato riguarda la tutela della salute delle persone detenute. Il primo pensiero è andato all’articolo 32 della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” e alla legge del 1978 n. 833 che ha istituito il servizio sanitario nazionale e che all’articolo 1 sancisce che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale”. Non possiamo poi di certo dimenticare l’articolo 11 dell’Ordinamento penitenziario che prevede tutta una serie di adempimenti per la tutela della salute delle persone ristrette e la legge n. 230 del 1999, ibernata per ben 12i anni, che definiva il “Riordino della medicina penitenziaria” e dichiarava che “i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali”. Arriviamo al più recente Decreto del 1 aprile 2008 che definisce con specifiche linee di indirizzo le modalità e i criteri di trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e dei beni strumentali in materia di sanità penitenziaria. In altri termini si viene a stabilire con detto decreto il passaggio definitivo alle Regioni e quindi alle Asl di riferimento delle competenze nell’ambito delle strutture carcerarie andando così a chiudere il settore specifico e autonomo della medicina penitenziaria. L’applicazione nell’ambito delle regioni è stata a macchia di leopardo e ancora molte regioni devono rendere operativo il decreto. Nella nostra la normativa di trasferimento delle competenze è stata recepita nel dicembre 2010 con apposito decreto. Nel decreto si definisce chiaramente che tutte le funzioni sanitarie svolte nell’ambito del territorio regionale dal Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria vengono trasferite al Servizio sanitario. Certamente il trasferimento non è cosa semplice anche se questo era previsto già nel 1999, e possiamo intuire le difficoltà per rendere operativo tale trasferimento: l’ assenza di risorse, l’incertezza dei nuovi inquadramenti del personale sanitario, il censimento delle strutture e delle strumentazioni ma vorremmo porre una semplice domanda all’Assessore alla Salute, integrazione sociosanitaria e politiche sociali o ai referenti delle istituzioni competenti: a che punto è l’applicazione di tale trasferimento dato che non abbiamo particolari notizie in merito, e più precisamente le Asl sede di carcere stanno assumendo le responsabilità di quanto prevede il decreto? Come sempre siamo consapevoli della complessità delle decisioni che in questo caso coinvolgono la macchina sanitaria, i costi che essa rappresenta all’interno del bilancio regionale, ma riteniamo urgente conoscere lo stato dell’arte rispetto ad una normativa che andrebbe applicata. Non riteniamo opportuno nemmeno richiamare le condizioni critiche che vivono le strutture penitenziarie della regione dovute al sovraffollamento, o situazioni personali, o le diverse esigenze sanitarie e terapeutiche, ma di certo vorremmo capire se molti dei farmaci di cui dobbiamo fare uso devono essere a pagamento, se determinati presidi sanitari possono essere incrementati... Non vogliamo aggiungere i dati allarmanti a livello nazionale sul sovraffollamento, sui suicidi e sugli atti di autolesionismo, ma desideriamo capire se la politica, locale, può essere ancora un interlocutore anche per chi si ritrova detenuto e che chiaramente ha un ruolo di scarsa o nulla rappresentanza. Comunque ci attendiamo una risposta. La Redazione de “La voce nel silenzio” Lazio: 250 mila euro per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti Ansa, 4 novembre 2011 Prosegue l’impegno della Regione Lazio per il sostegno dei diritti dei detenuti nelle carceri laziali. La Giunta regionale ha dato il via libera all’avviso pubblico da 250 mila euro attraverso cui saranno attuati interventi, anche in ambito di formazione professionale, per migliorare la vita detentiva e il reinserimento sociale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. “Con questo provvedimento - spiega la presidente della Regione Lazio, Renata Polverini - confermiamo la nostra attenzione alla popolazione carceraria. Un intervento attraverso il quale sosteniamo l’integrazione socio - lavorativa, anche attraverso la formazione, e il contrasto a forme di marginalità sociale”. L’avviso pubblico riguarda progetti, della durata di dodici mesi, finalizzati alla formazione professionale delle persone detenute nelle strutture carcerarie del Lazio. In particolare, anche attraverso l’attivazione di corsi sulla ristorazione, falegnameria, serigrafia, informatica, agricoltura, edilizia, florovivaistica. “Il nostro obiettivo - aggiunge l’assessore alla Sicurezza, Giuseppe Cangemi - è realizzare un sistema integrato di formazione professionale che possa consentire alle persone detenute di migliorare le proprie competenze e di conseguire titoli che ne possano così favorire l’inserimento lavorativo”. Toscana: Margara (Garante detenuti); in carceri non escludibile tortura, specie negli Opg Ansa, 4 novembre 2011 “Secondo il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, possono essere considerati tortura anche i trattamenti contrari al senso di umanità e quelli degradanti. In quest’ottica non può essere escluso che nelle carceri italiane, specie negli Opg, ci siano trattamenti che configurano tortura”. Lo ha detto il garante dei detenuti della Toscana Alessandro Margara, a margine di un convegno organizzato a Firenze sul tema “La tortura nelle carceri italiane”. “Gli Opg in particolare - ha aggiunto - sono un punto delicato del sistema penitenziario e si puo’ temere condotte che possono configurare la tortura”. Quanto ai suicidi tra i detenuti, Margara ha sottolineato che sono sempre numerosi ma forse quest’anno non arriveremo al livello di due anni fa quando ne contammo 72. La scorsa settimana a Livorno, ha ricordato, si è suicidato un detenuto che avrebbe terminato la pena il giorno dopo. Non è un fatto raro, perché non viene curato l’accompagnamento alla fine della detenzione. Quello dei suicidi riguarda inoltre anche gli agenti penitenziari e secondo il garante toscano è un aspetto che si pone già da vario tempo. C’era il progetto di offrire, a chi aveva problemi, la possibilità parlare o curarsi con uno psicologo. Non so se questa idea sia stata abbandonata o meno ma il problema resta. Per Margara il carcere si presta a cadute e degrado della persona che può rifugiarsi ad esempio nell’alcol. Sarebbe importante far seguire gli agenti che hanno aspetti personali critici. Sardegna: Sdr; aumentano i detenuti in attesa di giudizio Comunicato stampa, 4 novembre 2011 Nei 12 Penitenziari della Sardegna sono in aumento i detenuti in attesa di giudizio. Dal 31 di luglio al 31 di ottobre 2011 sono passati da 494 a 540 (1.445 i definitivi). Cresciute in particolare quelle persone private della libertà senza avere ancora subito un primo processo. Erano 222 al primo agosto attualmente sono 241. Incrementato di una sola unità invece il numero complessivo di detenuti. Erano 2.011 (63 donne), ora 2.012 (vi è solo una donna in più). La capienza regolamentare è però di 1891 posti. Gli stranieri sono 834 (erano 838). A fotografare la realtà detentiva isolana sono i dati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Lo evidenzia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” sottolineando che “dall’inizio dell’anno hanno lasciato le strutture isolane 159 detenuti (39 stranieri), avendo usufruito della cosiddetta ‘svuota carceri’”. “Lascia perplessi e preoccupa - evidenzia la presidente di Sdr - l’aumento del numero di detenuti in attesa di primo giudizio dentro il sistema penitenziario isolano. È noto infatti che l’iniziale periodo di detenzione risulta particolarmente destabilizzante per la persona privata della libertà e condiziona fortemente la convivenza dentro le celle. Sono infatti i soggetti più fragili e maggiormente esposti ad atti di autolesionismo estremo. In realtà sovraffollate come il carcere di Buoncammino che ospita anche un Centro Clinico la situazione è ancora più delicata e richiede un impegno maggiore da parte degli Agenti di Polizia Penitenziaria peraltro sottodimensionati di almeno 60/70 unità. Risultano quindi fondamentali la riduzione dei tempi per il giudizio, l’utilizzo di sistemi detentivi alternativi al carcere e la creazione di condizioni di vivibilità in grado di contenere il malessere dei ristretti”. “Ciò che rende invivibile la permanenza dentro le carceri dell’isola - conclude Caligaris - sono la distribuzione nei singoli Istituti e l’architettura delle case di reclusione. Solo nel carcere di Buoncammino di Cagliari convivono costantemente circa 530 detenuti (380 è invece la capienza regolamentare). Un sovraffollamento reso ancora più difficile trattandosi di una struttura risalente alla fine dell’Ottocento”. Sicilia: i sindacati di Polizia penitenziaria incontrano il provveditore Veneziano Il Velino, 4 novembre 2011 Le sigle sindacali della polizia penitenziaria della Sicilia hanno incontrato il provveditore dell’Isola Maurizio Veneziano per discutere degli organici nelle carceri a seguito dell’apertura della struttura di Gela. Il cartello formato da Osapp, Sinappe e Cnpp ha avanzato la richiesta di una commissione tecnica per la valutazione degli organici dei singoli istituti, ma anche degli organici dei nuclei traduzione e piantonamento e la valutazione delle condizioni delle reali presenze nei vari istituti. Il provveditore ha acconsentito alla richieste dei sindacati, che si sono ritenuti soddisfatti. Viterbo: in arrivo a Mammagialla il nuovo direttore e 22 agenti di polizia penitenziaria Il Tempo, 4 novembre 2011 Inoltre, dal 21 novembre, il carcere di Mammagialla potrà disporre di 22 agenti in più. A comunicare queste importanti novità è il sindacalista del Sappe Luca Floris: “Proprio sabato scorso sono arrivati in segreteria i fascicoli riguardanti i nuovi agenti assegnati al nostro carcere. Sono in tutto 22, anche se effettivamente l’incremento sarà di 18 unità, perché uno è già distaccato qui da un anno dal carcere di Milano mentre altri tre dei nostri sono trasferiti a Regina Coeli ed a Rebibbia. Da 22 si arriva così a 18 effettivi, ma si tratta sempre di un bel numero. Spesso, infatti, succede che molti agenti risultano presenti nel carcere, ma solo sulla carta, in quanto distaccati altrove. Nel nostro caso possiamo ritenerci soddisfatti. Questi sono i risultati che grazie al contributo di tutti, a partire dall’interessamento del sindaco e con la manifestazione di qualche giorno fa, siamo riusciti ad ottenere, alla faccia di chi diceva che fossimo strumentalizzati dalla politica. Siamo pienamente soddisfatti - afferma Floris. Nel Lazio si parla di 89 nuovi agenti da assegnare e noi ne abbiamo ricevute 22. È, quindi, un buon risultato”. Floris fa sapere anche che secondo il dato regionale, dopo il carcere di Rebibbia che ha ottenuto 37 agenti, segue Mammagialla con 22, per proseguire con Civitavecchia (14), Regina Coeli (3), Latina (1) e non figurano realtà carcerarie come quelle di Rieti, Cassino e Velletri. “Questo dimostra - continua il sindacalista del Sappe - che quando ci si mette tutti insieme a tirare dalla stessa parte i risultati si ottengono. Sicuramente i disagi ora diminuiranno. Gli stessi detenuti poi sono scesi di numero: dall’ultima conta fatta lo scorso sabato si è passati da 750 reclusi a 701 ed anche questo sicuramente aiuta”. Soddisfazione per le novità riguardanti il carcere viterbese è stata espressa anche dal sindacalista della Cisl Andrea Fiorini: “Sicuramente avere 22 agenti in più è una boccata d’ossigeno, anche se continuano a rimanere i problemi legati a quei detenuti la cui gestione risulta difficile, in particolare quelli psichiatrici ad alto rischio di suicidio e coloro la cui condizione non è affatto idonea ad un regime carcerario. La nostra protesta ha avuto comunque un seguito. Ci hanno ascoltato e sicuramente l’assegnazione della nuova direttrice ha contribuito a tutto ciò, visto che la carenza di organico del carcere viterbese era all’attenzione del Dipartimento da tempo”. Anche Fiorini parla della riduzione registrata sul numero dei detenuti di Mammagialla. “Abbiamo una leggera riduzione del numero dei detenuti di Alta Sicurezza - precisa il sindacalista della Cisl - ma si tratta di un decremento ce potremmo definire fisiologico perché sono iniziati i processi e alcuni detenuti sono stati trasferiti. In ogni caso la situazione è sicuramente migliore rispetto all’inizio della nostra protesta”. Il trasferimento di 22 agenti alla casa circondariale viterbese fa ben sperare per il futuro il segretario generale Osapp Leo Beneduci, che afferma: “La carenza d’organico rimane, visto che con i 22 trasferimenti si va a coprire il 9% circa della carenza di agenti. Potrà aiutare sicuramente nei turni, anche se non risolve il problema. Il fatto che comunque l’amministrazione abbia assegnato al carcere di Viterbo queste unità fa ben sperare. A limitare i danni - prosegue Beneduci - ha contribuito poi la recente assegnazione di un direttore titolare”. Il segretario generale Osapp, infine, ricorda che sono previste nuove assunzioni di agenti di polizia penitenziaria in tutta Italia per giugno 2012 ed in quest’ambito il carcere di Mammagialla dovrebbe vedersi assegnare una cinquantina di nuovi agenti. Bologna: detenuti “nullatenenti” e senza lavoro alla Dozza Redattore Sociale, 4 novembre 2011 La metà dei 1.100 detenuti della Dozza non ha denaro sul conto corrente e quasi tutti chiedono di lavorare, ma solo pochi ci riescono. Massimo Ziccone (Ufficio trattamento Dozza): “Ormai il carcere è abitato da nullatenenti che vivono di carità”. “La metà dei detenuti del carcere della Dozza ha zero euro sul proprio conto corrente, non riceve denaro dall’esterno e per tutto ciò che non viene fornito dalla casa circondariale deve ricorrere al volontariato”. Lo dice Massimo Ziccone, responsabile educativo della casa circondariale di Bologna. “Ormai, il carcere è diventato un luogo in cui vivono i poveri o, per meglio dire, i nullatenenti che vivono di carità”. Di fronte alla proposta della neo - eletta garante dei diritti delle persone private di libertà personale Elisabetta Laganà, intenzionata a ripristinare il “comitato carcere - città” per favorire le misure alternative alla detenzione e in primis il lavoro, Ziccone non esita a sottolineare che un reddito per chi è detenuto è davvero prezioso. “Alla Dozza ci sono circa 1.100 persone, e praticamente tutti chiedono di lavorare” dice Ziccone. Il lavoro, però non si trova: dentro il carcere, “le risorse dell’amministrazione si riducono di anno in anno. Se 10 anni fa, per i lavori cosiddetti ‘domestici’, ovvero legati al funzionamento della casa circondariale, erano impiegati 270 detenuti al mese, ora le risorse a disposizione permettono di impiegarne solo 80”. Il lavoro, unica opportunità. Se l’amministrazione carceraria può provvedere al vitto e poco altro, la maggior parte dei detenuti non riceve denaro neppure dalla propria famiglia. “Anzi - continua Ziccone - alcuni hanno fuori dal carcere una famiglia che sono loro a dover mantenere”. Cosa fare? “La creazione di sussidi è impensabile, perché nessuna amministrazione avrebbe a disposizione i fondi per risolvere un problema di tali dimensioni” taglia corto Ziccone. Dal carcere “stiamo cercando di provvedere in qualche modo, procacciando dei lavori per i detenuti: ad esempio, 4 di essi hanno seguito un corso di formazione per la ripulitura dei muri e di recente hanno ripulito dai murales le pareti del liceo Copernico. Ora, abbiamo in programma un appuntamento con Hera per cercare loro delle commesse di lavoro”. La situazione: il lavoro dentro e fuori il carcere. Oltre agli 80 detenuti impiegati nelle mansioni “domestiche”, ci sono quelli che sempre all’interno del carcere compiono delle “lavorazioni”, come vengono definite le mansioni svolte in convenzione con le imprese (per lo più cooperative sociali). Si tratta, ad esempio, dei laboratori di sartoria e di riciclaggio dei rifiuti elettrici (Raee), che impiegano ciascuno 4 detenuti. “Tuttavia, anche queste realtà sono sempre più a rischio, perché faticano a reggere la concorrenza con il mercato”. Partirà invece a gennaio l’officina meccanica in cui saranno prodotti pezzi per Ima, Gd e Bonfiglioli riduttori: la struttura, che è in via di messa a punto, impiegherà 12 persone che al momento stanno seguendo un percorso di formazione. Ci sono poi coloro che riescono a lavorare fuori dalle mura del carcere, perché in stato di semilibertà o per “lavoro esterno”, una misura che richiede l’approvazione del magistrato di fronte a una richiesta formulata da un datore di lavoro. Ora, entrambe le condizioni per poter lavorare fuori dal carcere vengono a mancare: da un lato, “c’è un irrigidimento nella concessione delle misure alternative al carcere” e dall’altro “i datori di lavoro scarseggiano, anche perché le condizioni economiche sono cambiate”. Di fronte a questa situazione, ben venga la proposta (avanzata prima dall’assessore ai Servizi sociali del Comune Amelia Frascaroli e poi dalla neo - garante dei diritti dei detenuti Elisabetta Laganà) per la ricostituzione del “Comitato carcere - città”, una compagine partecipata da istituzioni, sindacati, associazioni di volontariato per dare un’opportunità ai detenuti. “Il comitato era attivo degli anni 90 ma con il tempo si è dissolto e il patrimonio di opportunità che aveva creato si è disperso”. Ziccone si riferisce ad esempio alle borse - lavoro, 26 mila euro stanziati in tutto nel 2011, “per l’organizzazione delle quali ci siamo dovuti arrangiare”. Colpa, secondo il responsabile educativo della Dozza, “anche del decentramento, che ha portato in parte allo smantellamento dei servizi sociali: ad esempio, presso l’assessorato alle Politiche sociali del Comune c’era una banca dati per le opportunità di lavoro socialmente utile, che è andata persa”. A oggi, “è necessario trovare dei datori di lavoro e stimolarli, e quest’attività spetta a un ente locale, che sia il Comune o la Provincia attraverso i Centri per l’impiego”. Bologna: la neo garante Laganà; “Favorire il lavoro dei detenuti” Redattore Sociale, 4 novembre 2011 La neo-garante dei detenuti ha visitato la Dozza. Sovraffollamento, povertà e disagio sociale sono i problemi della struttura, dove lavora solo il 10% degli oltre 1.000 detenuti. Sarà ricostituito il comitato carcere-città. Sovraffollamento (in leggero calo), povertà, disagio sociale: problemi che un lavoro potrebbe contribuire a risolvere, specie se si è ospiti di un carcere. In particolare, nel mirino c’è la casa circondariale della Dozza a Bologna, dove ieri la neo-garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Elisabetta Laganà, ha fatto la sua prima visita ufficiale incontrando la direttrice del carcere Ione Toccafondi. “Abbiamo fatto un’analisi sullo stato delle cose e su ciò che sarebbe necessario fare e costruire insieme” spiega Laganà. Al primo posto c’è sempre il sovraffollamento, che si è leggermente ridotto ma rimane alto, “nella media italiana”. I detenuti, che erano arrivati a quota 1.200, sono diminuiti di un centinaio di unità. “Nessuno dorme più per terra” spiega la garante, anche se il carcere non dovrebbe ospitare più di 490 persone. Al di là dei problemi risolvibili solo a livello governativo (con una legislazione che, dice la garante, “vedesse la carcerazione solo come ultima ratio, mentre invece si è andati nella direzione contraria”), anche a livello locale si può contribuire a dare sollievo alla struttura e ai suoi abitanti. “In totale, solo il 10% dei detenuti lavora, e solo 7 o 8 di essi hanno un impiego all’esterno -spiega Laganà - In questi anni si sono ridotte le misure alternative alla carcerazione, che hanno anche a che fare anche con le opportunità offerte dal territorio”. Si tratta di alloggi e lavoro, “possibilità che, con questa contingenza economica, si prospettano sempre più difficili”. Insomma, la crisi è arrivata anche dentro le mura del carcere, e soprattutto influisce sulla possibilità di dare un lavoro a chi lo chiede. Un’opportunità per cui è necessario potenziare le esperienze di lavoro presenti all’interno del carcere - come il laboratorio di sartoria, che rischia di affondare per la mancanza di una rete di vendita - o favorire le misure alternative “alle quali la direzione carceraria si è detta favorevole - spiega Laganà - Perché il sistema funzioni, però, bisogna che ciascuno faccia la sua parte”, dice la garante, che rilancia l’idea già avanzata dall’assessore al Welfare del Comune, Amelia Frascaroli: “Ricostituire il “Comitato carcere – città”, coinvolgendo istituzioni del territorio, sindacati, associazioni di volontariato e, di volta in volta, le associazioni di categoria”. Il comitato, costituito negli anni 90, si è infatti dissolto con i cambi al vertice di Palazzo d’Accursio fino al recente commissariamento. Martedì prossimo, Laganà incontrerà proprio Frascaroli per discutere delle prossime mosse da fare. La neo - garante chiederà anche uno stanziamento di fondi per le attività da realizzare fuori e dentro il carcere? “Tutto ciò che può essere destinato al potenziamento del ricorso alle misure alternative e al lavoro ci sarà utile” risponde laconica Laganà. Genova: pestarono il compagno di cella, 3 detenuti condannati a 10 mesi Agi, 4 novembre 2011 Dieci mesi di reclusione. Questa la pena inflitta ai tre detenuti del carcere di Genova Marassi che il 21 marzo dello scorso massacrarono di botte un loro compagno di cella credendo che avesse usato violenza sessuale alla moglie. Il pestaggio avvenne dopo la notifica di un avviso di garanzia recapitato per errore alla vittima. Un refuso nella battitura del nome del destinatario dell’atto era stato all’origine dell’errore. L’uomo fu picchiato così selvaggiamente che, tra le altre lesioni, registrò la frattura della mandibola, che gli costò oltre un mese d’ospedale. I tre autori del pestaggio non ascoltarono ragioni, rifiutarono di credere al compagno di cella e lo pestarono. Solo dopo la verità venne a galla. Tutti erano già detenuti per reati legati allo spaccio di stupefacenti. La sentenza è stata pronunciata dal giudice monocratico Deplano. Vasto (Ch): il bar nel carcere gestito da una cooperativa e dai detenuti Il Centro, 4 novembre 2011 È in programma alla 10 il taglio del nastro del bar realizzato all’interno del carcere di Torre Sinello a Punta Penna. La struttura, grazie ad una convenzione firmata dalla direzione della casa circondariale con la cooperativa Saima, offrirà lavoro ad alcuni detenuti dell’istituto di pena. “L’affidamento della gestione del bar a una società”, sottolinea il direttore del carcere, Carlo Brunetti, “rappresenta la possibilità di avviare un nuovo valido percorso formativo con la creazione di posti di lavoro per i detenuti”. L’apertura del locale è doppiamente positiva perché offre a tutti gli operatori, agli agenti della polizia penitenziaria, agli avvocati e a quanti frequentano per motivi di lavoro la struttura, un valido servizio. All’inaugurazione saranno presenti le autorità locali civili, religiose e militari. Non è la prima volta che il direttore Brunetti avvia iniziative di recupero lavorativo per i detenuti. Il lavoro all’interno dello spaccio arriva dopo diversi progetti lavorativi concordati dalla direzione del carcere con il Comune di Vasto. Da anni i detenuti si occupano della pulizia della riserva di Punta Aderci e più di recente sono stati impiegati anche per la cura di altri parchi cittadini. Pisa: “orti etici” per aiutare ex tossicodipendenti ed ex detenuti Ansa, 4 novembre 2011 A San Piero a Grado si sperimenta l’agricoltura sociale, grazie al progetto degli Orti etici, nato dalla collaborazione dell’Università di Pisa con un’azienda agricola biologica della zona e con una cooperativa sociale. Nei 3 ettari messi a disposizione dall’ateneo lavorano sei persone selezionate per il reinserimento sociale, ex detenuti ed ex tossicodipendenti, seguite da un tutor della cooperativa. Qui si producono ortaggi per 40 mila euro l’anno. Le persone che lavorano a ‘Orti etici’ sono selezionate dai servizi sociali e seguono percorsi che durano 6 mesi. Parma: padre Celso, l’angelo dei detenuti, compie 80 anni Gazzetta di Parma, 4 novembre 2011 Col suo sorriso illumina le celle, allarga le sbarre. Lo fa ogni mattina, da più di dieci anni, Padre Celso Centis, cappellano del carcere. Il celebrare messa è una goccia nell’oceano del suo operato. Non c’è giorno di riposo o festività che lo trattenga a casa: il frate francescano non abbandona mai i suoi figli, quei carcerati che quotidianamente ricevono una parola di conforto. E non solo. Qualcuno, infatti, dice che il frate entra che pesa cento chili ed esce che ne pesa sessanta. Tonaca e cordone, infatti, nascondono pensieri per i detenuti: “Diciamo solo quello che si può dire - scherza il frate - . Una tasca è piena di caramelle, l’altra di sigarette. Poi ci sono dei taschini dove metto i francobolli. Ecco, basta così”. Oggi, Padre Celso, originario di San Vito al Tagliamento, in Provincia di Pordenone, dove è nato nel 1931, compie 80 anni. E i tanti carcerati che assiste, nonché i volontari con cui è impegnato, gli hanno fatto un regalo, tanto semplice quanto sentito: una raccolta di ringraziamenti, di pensieri, di poesie. Sono quasi centocinquanta i detenuti che hanno voluto scrivere gli auguri a Padre Celso che, durante le visite di questi giorni, qualcosa ha captato: “Tutti mi fanno gli auguri - racconta. Non riesco a capacitarmi di come tutti sappiano che compio gli anni, soprattutto in un luogo di segreti e silenzi come il carcere”. Oggi gli verrà consegnata la raccolta, dove si leggono solo pensieri di riconoscenza. C’è chi ha fatto fatica a trovare le parole: “Cosa scrivere a te che sei sorgente che disseta ansie e paure? A te che scruti l’anima e passi da vita in vita senza far rumore?”. Altri hanno trovato in Padre Celso un’ancora di salvezza: “Il freddo di queste mura gelava il cuore, mi sentii catapultato in mezzo all’oceano con il mare in tempesta, poi sei giunto tu, con il tuo lento andare e come un faro hai tracciato la via della salvezza”. Il cappellano del carcere è benvoluto da tutti: tra le dediche dei detenuti non manca mai un riferimento alla persona buona, umile, altruista. C’è anche chi si sente in dovere di ricambiare tanta disponibilità con una promessa importante: “A te rivolgo i miei più sinceri ed affettuosi ringraziamenti per tutte le attenzioni che mi hai amorevolmente dedicato e che potrò contraccambiare unicamente offrendoti il segno tangibile del mio ravvedimento”. Per molti carcerati, Padre Celso è la famiglia che non c’è più, l’amico che ha voltato le spalle: “Al vostro arrivo davanti alla mia camera avete riportato in me il calore di una famiglia, l’affetto di un amico e fatto sentire di nuovo viva questa vita”. Sono persone che soffrono, i detenuti. A questo pensa il cappellano del carcere, non al giudizio: “Se uno va in ospedale dopo un incidente, non si parla di automobili, ma di guarigione - spiega il frate - . La stessa cosa deve valere per i ragazzi che sono in cella che, prima di tutto, sono persone che soffrono, che stanno male. Il mio compito è quello di rompere l’isolamento col mondo esterno, per riportare una finestra aperta, una speranza per ricominciare”. E il rapporto tra il religioso e i detenuti prosegue anche dopo la libertà: “Quando escono - racconta - la prima telefonata che fanno è per me. Sono diventati la mia famiglia”. Come Padre Celso non può fare a meno di loro, chi lo conosce non può fare a meno di lui, come spiega Don Umberto Cocconi, presidente di San Cristoforo, associazione che, insieme ad altre, svolge attività volontaria all’interno del carcere: “Come sarebbe più povera la nostra città senza la presenza di Padre Celso. È lui ancora una volta che ci sorprende facendoci lui il regalo di compleanno: ci rende importanti ed unici”. Venezuela: rissa in carcere tra bande rivali, otto detenuti morti Ansa, 4 novembre 2011 Otto morti e vari feriti è il bilancio di una rissa scoppiata oggi tra bande rivali in un penitenziario situato nello Stato di Tachira, nella zona ovest del Paese. Lo ha reso noto il comandante della polizia locale, generale Hector Coronado, precisando che i reclusi mantengono ancora in ostaggio tre guardie carcerarie. Gli scontri e le rivolte nei penitenziari venezuelani si protraggono ormai da anni, soprattutto per il sovraffollamento (oltre 50.000 detenuti, mentre la loro capacità è solo per 14.000), tanto che, lo scorso luglio, il governo ha avviato un piano per tentare di migliorare tale situazione. Egitto: giunta militare grazia 952 detenuti, per Festa del sacrificio Adnkronos, 4 novembre 2011 Il Dipartimento per la gestione degli Affari dei detenuti del ministero degli Interni egiziano ha deciso oggi di concedere la grazia a 952 detenuti in occasione della Festa del Sacrificio, l’Eid al-Adha. È stato il Consiglio supremo delle Forze Armate, che ha preso il potere dalla caduta di Hosni Mubarak a febbraio, a decidere di perdonare i prigionieri. Appello perché blogger Abdel Fatah sia liberato In un appello rivolto direttamente alla giunta militare al potere in Egitto l’Organizzazione egiziana per i diritti umani (Oedu) ha chiesto l’immediata scarcerazione del blogger Alaa Abdel Fatah, arrestato nei giorni scorsi con l’accusa di aver fomentato le violenze settarie nel Paese. “Il continuo ricorso ai tribunali militari per giudicare i civili costituisce una lampante violazione delle regole internazionali e del diritto a un processo equo”, ha sottolineato l’ong in un comunicato. Ieri il tribunale militare del Cairo ha respinto la richiesta di scarcerazione presentata dai legali del blogger egiziano, finito in carcere dopo le violenze al Cairo tra esercito e copti dello scorso 9 ottobre, quando hanno perso la vita 26 persone. Abdel Fattah si trova ancora in custodia cautelare perché è stato accusato anche di “aver rubato armi da fuoco e distrutto dei beni pubblici”.