Giustizia: carceri, politica e amnistia; a proposito d’un intervento del direttore di Avvenire di Valter Vecellio Notizie Radicali, 3 novembre 2011 Marco Pannella, Rita Bernardini, Irene Testa, i radicali, non sono citati neppure di striscio e per errore. Neppure il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è citato e si capisce: avendo assunto una pubblica, solenne, posizione “radicale”, il trattamento del radicale subisce. A parte questo, il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio sviluppa un discorso interessante. Nella rubrica di cui è titolare, Tarquinio risponde a un lettore, che si dice poco o nulla convinto della bontà di un provvedimento di amnistia; a questo lettore non piace neppure un provvedimento “svuota-carceri o altre idee simili”. Che fare, dunque? Intanto rispedire a casa loro i detenuti stranieri: “non vedo perché si debba dare da bere, mangiare, dormire e guardare la televisione a 24mila stranieri che sono venuti qui in Italia per delinquere. Teniamoci quelli onesti e trattiamoli bene, ma rispediamo al mittente chi delinque. Inoltre, sempre guardando le cifre esposte, se solo 37mila carcerati su 67mila scontano una condanna definitiva, è l’ennesima riprova della scarsa efficienza della macchina della giustizia che produce sentenze di mille pagine e invece di essere efficiente, produttiva e tempestiva, è solo logorroica”. Magari al gentile lettore di “Avvenire”, suggestionato forse dalla propaganda leghista, occorrerà spiegare che c’è reato e reato, e che molti dei 24mila stranieri venuti “qui in Italia per delinquere”, sono solo vittime della clandestinità imposta loro dalla Bossi-Fini, e che in virtù di quella normativa assurda che punisce non quello che si fa, ma quel che si è, si trovano in carcere; si potrebbe poi aggiungere che proprio in virtù di quella clandestinità imposta e patita, parte di quegli stranieri sono facile preda di criminali. Poi certo, ha ragione questo lettore nel sottolineare che poco più dei detenuti sono condannati definitivamente; andrebbe aggiunto che l’altra metà, quella in attesa di giudizio, per buona parte verrà dichiarata innocente, e sta dunque scontando per nulla una carcerazione spesso lunga e dolorosa. Ma vediamo a questo punto come la mette il direttore. “Credo”, scrive tra l’altro, “che le amnistie siano strumenti possibili e utili se si è in grado di usarli, anche in situazioni tutt’altro che pacificate, con animo pacifico e con intenti generosi e trasparenti. Penso, in sostanza che l’amnistia (che mai è mero condono), non possa essere un “passo indietro” dell’idea di giustizia, ma deve poterne essere il grado più alto e civile, persino sacro. Non un “passo indietro”, ma anzi il risultato di valutazioni e decisioni che rappresentano un “passo in avanti” della giustizia e della politica. Una politica in grado di farsi carico di grandi difficoltà di sistema e di piccole ed essenziali vicende umane (traduco: del disumano affollamento delle patrie galere tanto quanto del teso esaurirsi di una stagione aspramente e lungamente conflittuale e dell’accalcarsi di sentimenti di sfiducia, rifiuto e disprezzo per le istituzioni e chi le abita). Una politica capace di leggere la realtà del Paese e di aiutare la comunità nazionale a girare pagina in un passaggio cruciale della sua storia, e decisa a farlo riformando nello stesso tempo radicalmente se stessa, le proprie forme e procedure, i meccanismi di selezione della rappresentanza, riequilibrando i rapporti tra i poteri dello Stato... In passato è accaduto. Potrebbe essere, questo che viviamo e pensiamo come il tramonto della cosiddetta Seconda Repubblica, un tempo buono per un gesto di tale forza, per un’amnistia che coroni onestamente una grande riforma? A essere sincero, non ne riesco a pensare uno migliore e, nello stesso tempo, mi rendo conto che è difficilissimo. Manca sempre tempo per avviare un simile tempo... E si ha troppa paura di fare un regalo all’avversario - che si chiami, faccio due esempi emblematici, Silvio Berlusconi o Antonio Di Pietro - e alle rinascenti correnti del qualunquismo contro politico. Tuttavia non perdo la speranza. E continuo a ripetere che chi siede nel Governo e in Parlamento è chiamato adesso, non domani o dopodomani, alla prova della responsabilità, del disinteresse e del coraggio”. Dunque, sostiene il direttore Tarquinio, “potrebbe essere, questo che viviamo e pensiamo come il tramonto della cosiddetta Seconda Repubblica, un tempo buono per un gesto di tale forza, per un’amnistia che coroni onestamente una grande riforma? A essere sincero, non ne riesco a pensare uno migliore e, nello stesso tempo, mi rendo conto che è difficilissimo…”. Ha ragione, il direttore di “Avvenire”: è difficilissimo. Occorre cioè creare le condizioni perché questo accada. Occorre informare, far sapere e conoscere. Fare insomma quello che finora non è stato fatto. Per esempio pubblicare il testo integrale il testo dell’intervento del presidente della Repubblica Napolitano al convegno di luglio al Senato sullo stato della Giustizia in Italia. Potrebbe essere uno scandalo benefico per “Avvenire” intervistare Marco Pannella: ci si renderebbe conto, forse, che ci sono cose, assai più di quanto si creda e si pensi, in comune con il “sentire” della variegata galassia dei credenti. E si potrebbe informare sullo stato della giustizia in Italia: quella penale e quella civile; i duecentomila processi che ogni anno vengono prescritti, e che rendono la giustizia una lotteria e una decimazione insieme, di cui finiscono per beneficiare solo coloro che si possono permettere di pagare onorari per avvocati capaci, esperti e con buone amicizie, cosicché si consuma ogni anno una vera e propria amnistia clandestina, di classe e di massa; raccontare storie come quella di Fabio Bonifacio, arrestato per sequestro e poi assolto, tre anni di carcere per scoprire che non c’entrava nulla…la storia di Luigi, agente della polizia penitenziaria che lavorava nel reparto colloqui del carcere di Avellino che si impicca nella sua casa di Battipaglia, il settimo dall’inizio dell’anno…quello che accade nel carcere di Regina Coeli, dove i detenuti dormono su materassi messi per terra, perché non c’è altro posto…o quello che accade a Caltanissetta, dove sono gli agenti di polizia a denunciare il sovraffollamento e le pessime condizioni strutturali…Parlarne, discuterne, confrontarsi renderebbe le cose meno difficoltose. Ci stanno Tarquinio e “Avvenire”? È difficilissimo, ma i lettori di “Avvenire” e il mondo dei credenti che va ben oltre i confini del giornale, molto probabilmente capirebbero, se già non hanno compreso. Fino a che punto corrispondenti alla realtà che oggi si smentisce quello che si è scritto ieri, e domani si smentirà quello che si è scritto oggi; bella scrittura quando accade, e pochi fatti; e poi il cosiddetto gossip. E viene davvero la tentazione di ripagarli di identica moneta: inventarci non so che storia, che maldicenza nei confronti di Pannella, Bonino, Staderini; o magari diffondere il contenuto di un’intercettazione telefonica, che di questi tempi vanno molto di moda…E vedere che succede. Ad ogni modo siamo passati forse a uno stadio ulteriore: dalla distorsione e caricaturizzazione della nostra immagine, alla completa cancellazione. Al congresso dei radicali la notizia per qualche giornale è stata che uno scervellato l’altro giorno ha dato fastidio a una troupe del Tg3, un episodio che gli stessi interessati minimizzavano divertiti. È facile profezia immaginare che il nostro percorso futuro prossimo sarà accidentato, ci diranno molte altre volte che siamo stronzi, e magari qualche altro sputo. Ne vedremo ancora delle belle, che siamo comprati e che siamo venduti. Un assaggio di quello che ci aspetta l’abbiamo visto in questi quattro giorni di congresso. Ma come in passato ancora una volta hanno sbagliato i loro conti. Se ne dovranno fare una ragione. Giustizia: le riforme di B… 10 righe per raccontarle all’Unione europea di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2011 Se si vuole una prova migliore del fatto che il problema italiano è B e che, senza di lui, le cose andrebbero mediamente bene, basta leggersi le 10 righe in materia di giustizia contenute nella lettera di intenti spedita ai cari Hermann e José Manuel (Van Rompuy e Barroso avranno pensato: ma come si permette?). Sono enumerate 3 iniziative: il contrasto alla litigiosità e la prevenzione del contenzioso (giustizia civile); la banca dati centralizzata (giustizia civile); i meccanismi incentivanti per gli uffici virtuosi. Due su tre sono iniziative assennate, nella media per un governo che affronti un problema così difficile. Se poi si aggiunge l’altra iniziativa che, sempre nella giustizia civile, è in corso di attuazione (di cui, chissà perché, non si parla nella lettera), il processo civile telematico, la percentuale diventa 3 su 4: decisamente buona. Il che, naturalmente, è possibile perché B non ha problemi personali con il processo civile. Certo, gli sarebbe piaciuta una sentenza che gli avesse detto: non devi dare un sacco di soldi a De Benedetti. Ma lì non è questione di riforme ma di giudici: o li corrompi (eh, eh) o c’è poco da fare. Quindi, niente problemi di “B = riforme efficienti”. Con il processo penale le cose cambiano: tanti problemi di “B = riforme dissennate”. Per la stessa ragione: comprare sentenze di assoluzione si può anche ma non è detto che gli riesca; bloccare i processi è un sistema facile e sicuro. Dicevo, due su tre nel settore della giustizia civile. Il “meccanismo incentivante” riguarda entrambi i settori, quello civile e quello penale; ed è una stupidaggine. La cosa sta in questi termini: se i giudici diminuiscono l’arretrato del 10 % all’anno, il loro ufficio riceverà un finanziamento straordinario; se non ce la fanno, manco una lira in più di quel poco che gli tocca: e gli stanziamenti normali sono poco più di un’elemosina. Attenzione, non è che i soldi in più vanno ai giudici o al personale amministrativo; sempre lo stesso stipendio prenderanno. Più soldi vanno per computer, stampanti, carta, benzina etc. Detta così sembra una furbata; invece è una stupidaggine. Prima di tutto perché ci sono uffici virtuosi che arretrato non ne hanno; e, continuando a essere virtuosi, non ne avrebbero. Quindi niente compenso incentivante. Però, se si fanno un pò furbi e lavorano un po’ meno per un anno e un po’ di più in quello successivo, in questo secondo anno recupereranno quello che non hanno fatto nel primo e si beccheranno i soldi; poi si riposeranno un po’ e così via. Come ho detto: una stupidaggine. Ma poi: supponiamo che un tribunale sia bene organizzato, che i processi siano fatti in tempi brevi e che l’arretrato sia piccolo. Questo ufficio è in pole position per ricevere l’incentivo. Con questi soldi le risorse del tribunale miglioreranno e la produttività crescerà. C’è solo da fare un piccolo sforzo, ognuno deve lavorare un 10% più di prima; e che sarà mai! Ok, tutti pronti. Poi, a febbraio, la procura gli scarica un maxi processo con 300 imputati, 5 associazioni a delinquere di stampo mafioso e 500 reati tra omicidi, rapine, spaccio di droga, corruzioni, concussioni etc. Metà del tribunale comincia a lavorare a tempo pieno solo per questo processo. Ci sono imputati detenuti e se non si fa presto a emettere la sentenza, escono per decorrenza termini; è già successo. Politici e cittadini si sono indignati vigorosamente, il ministro ha mandato gli ispettori, il Csm ha aperto procedimenti disciplinari e qualche povero giudice ci ha lasciato le penne. E nessuno ha fatto notare che un processo del genere, se va bene, dura 3 anni; e poi bisogna scrivere la sentenza, diciamo 15.000 pagine. Altro che processo breve! Che i mafiosi escano per decorrenza termini sta nel sistema, nelle leggi demagogiche e in un codice di procedura demenziale. Comunque, quando capita una sciagura così, gran parte delle risorse dell’ufficio finisce nel maxi processo. Se l’ufficio è ben organizzato si stabiliscono criteri di priorità, si fanno alcuni processi, altri sono lasciati fermi. Insomma, fa quello che può. Però la progressiva diminuzione dell’arretrato andrà a farsi friggere; e probabilmente così succederà nei 3 anni successivi. Quindi niente incentivo. Ma questi poveretti hanno lavorato ancora più di prima! Un processo così è una cosa micidiale . E gli altri hanno fatto il possibile per tirare avanti la baracca: ognuno di loro ha fatto ancora più processi che negli anni precedenti! Non è giusto! Niente da fare, il compagno Stakanov insegna: niente prodotto, niente incentivo. Del penale non si parla. Ovviamente. A parte i delinquenti che vagano liberi per le strade perché sono assolti-prescritti, resta il fatto che l’Italia spende un sacco di soldi con prodotto finale zero. Attenzione, questo succede già da tempo, sempre per via del codice di procedura demenziale. Ma B, che ha commesso e commette reati gravi e che, come molti del suo stampo, rischia concretamente la prigione (pene elevate = prescrizione più lunga) ha aggravato la situazione. Prescrizione dimezzata, poi accorciata un altro po’; processo breve, processo lungo; intercettazioni abolite; falso in bilancio e frode fiscale depenalizzate di fatto. Se andava a raccontare ai cari Hermann e José Manuel come davvero stanno le cose, altro che le risate di Nicolas e Angela: finiva che l’Ue ci dichiarava guerra. Giustizia: il carcere degli emarginati…. Vittorio Zincone intervista Sebastiano Ardita Sette, 3 novembre 2011 “La povertà, il disagio mentale, la tossicodipendenza esistono. Quando gli interventi sociali falliscono, allora l’ultima ratio diventa la prigione, Dove invece dovrebbero finire solo i delinquenti veri”. Sebastiano Ardita ha 45 anni, da venti fa il magistrato e da nove è il direttore dell’Ufficio detenuti del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap). Lo incontro nel suo appartamento a pochi passi da un carcere romano. Quando gli chiedo in che condizioni si trovino i detenuti in Italia, cita il presidente Napolitano: “La questione del sovraffollamento nelle carceri un tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Chiedo: “L’ultimo indulto non ha prodotto alcun effetto?”. Replica: “Con l’ultimo indulto sono usciti dei criminali veri e sono rimasti dentro i ladri di merendine”. Ardita è un baluardo dei diritti dei detenuti. Vorrebbe fracassare il muro di indifferenza nei confronti delle sorti dei condannati che vivono dietro le sbarre. Srotola qualche dato: “Ogni anno transitano in carcere circa 90.000 persone, È un pezzo dì tessuto sociale. Rieducare un detenuto e trattarlo a norma di Costituzione è un investimento sociale non solo necessario, ma anche conveniente”. Qualche mese fa Ardita ha diffuso una circolare che ha fatto innervosire i sostenitori dello sceriffismo carcerario. Che cosa c’era scritto? Che i figli degli immigrati che vanno a trovare i genitori in carcere non possono essere acciuffati ed espulsi se sono clandestini. Perché il colloquio è un diritto individuale. Ardita è considerato uno dei massimi esperti di 41 bis, l’insieme delle durezze riservate ai terroristi e ai mafiosi dietro le sbarre. Nell’aprile del 2006 fu luì ad accogliere il boss mafioso Bernardo Provenzano nel carcere di Terni, Lo racconta nelle pagine del suo libro (Ricatto allo Stato, Sperling & Kupfer). La scena del faccia a feccia tra l’uomo dello Stato e “l’ultimo padrino” è western puro. Provenzano: “Adesso la mia vita è nelle mani di Dio e degli uomini che hanno il potere”. Ardita: “La sua vita è nelle mani della legge. E noi non conosciamo nessuno che abbia un potere che sta al di sopra della legge”. A proposito di rispetto della legge, Ardita ha seguito anche l’indagine amministrativa sul caso di Stefano Cucchi, il ragazzo morto due anni fa nel carcere di Regina Coeli, a Roma. Questa intervista si svolge nei giorni in cui si apre il processo agii agenti accusati di maltrattamenti e violenze sui detenuti nella prigione di Asti. Partiamo da qui. Violenze, maltrattamenti, per non parlare dei suicidi che sono circa cinquanta all’anno. Il carcere in Italia è un inferno? “No, Anche perché si è formata una nuova generazione di dirigenti carcerari che hanno un alto senso costituzionale del loro ruolo”. Le violenze ci sono. “E vanno perseguite. Lo Stato non si può vendicare. Il carcere è già un luogo in cui lo Stato manifesta la sua forza. Il compito delle istituzioni dovrebbe essere quello di far rinnamorare della Legge i detenuti. Un risultato che non si può ottenere se non si è credibili”. Ci si può innamorare della Legge in un carcere sovraffollato, dormendo in spazi risicatissimi, dormendo su un letto a castello di quattro piani col naso a dieci centimetri dal soffitto? “Che ci siano difficoltà strutturali è evidente”. Chi si occupa di detenzioni sostiene che finire in carcere sia un terno al lotto; a Bollate quasi un paradiso, a Poggioreale un girone dantesco. “Sì però, se ci giriamo intorno e guardiamo gli altri Paesi, non siamo messi così male. Il ministro degli Esteri romeno ci ha detto che l’esportazione di criminalità romena in Italia è dovuta anche al nostro sistema carcerario garantista”. Ottimo. Ci sono circa 66.000 detenuti e 45.000 posti letto. Come si esce dall’emergenza? “Bisogna cambiare il processo, modificare il sistema di detenzione e costruire nuove carceri”. Il processo... “Eliminerei, uno dei gradi di giudizio. Per evitare storie come quella del detenuto Orazio”. Ce la racconti... “Arrestato per un furto d’auto, rilasciato in attesa di giudizio e riarrestato dieci anni dopo a fine processo, quando lui si era già costruito un’altra vita. Quando l’ho incontrato in carcere mi ha detto: “Ho perso tutto e mi avete rimesso in contatto con la malavita, non è facile resistere”. Capisce?”. Il sistema di detenzione... “Il carcere oggi rischia di essere una perversione istituzionale: il luogo di raccolta, degli emarginati e il terminale del fallimento degli interventi sociali”. Si spieghi meglio. “La povertà, il disagio mentale, la tossicodipendenza esistono... quando i sistemi di controllo ordinario, come i Sert o i dipartimenti di salute mentale, falliscono, l’ultima ratio diventa il carcere. Invece, in prigione ci dovrebbero finire solo i delinquenti veri!”. Delinquenti veri. Lei nel suo libro “Ricatto allo Stato” dice, che l’unico carcere che funziona è quello per i mafiosi con il 41-bis. “Funziona. È stato reso più efficace e intelligente di prima. Ma il 41 bis è comunque un regime davvero duro. La restrizione degli spazi del detenuto è molto forte”. Il 41 bis è stato o no, oggetto di trattativa tra Stato e mafia? “Questo lo sta verificando la procura di Palermo. Ma credo proprio dì sì. Facendo una premessa: non si può guardare il biennio 1992/1993 con gli occhiali del 2011”. Nel periodo delle stragi mafiose il 41 bis subì delle modifiche. Simili ai desiderata dei boss. “Bisogna capire se la scelta di chi ci governava fu indipendente o dipendente dalle richieste mafiose, È comunque un fatto grave. Giovanni Conso in Commissione antimafia, l’anno scorso, si è offerto come capro espiatorio: ha detto che nel 1993 decise di non prorogare il 41 bis per veder frenare la minaccia di altre stragi, ma non in un’ottica di pacificazione”. Lei ci crede? “C’è una domanda più importante a cui si deve ancora dare risposta: perché la mafia prese quella china stragista che poi ha portato inevitabilmente al rafforzamento dei meccanismi di prevenzione antimafia? È lì che bisogna indagare. E a Palermo lo stanno facendo”. Indagini. Lei è stato pubblico ministero. Dopo nove anni tra celle e questurini non le mancano le indagini? “A gennaio torno in magistratura”. Destinazione? “Mi piacerebbe la Sicilia. Sono catanese”. Lei quando è entrato in magistratura? “Ho fatto il concorso appena laureato, a 22 anni. L’ho vinto e nel 1991 ero magistrato”. Perché ha scelto di fare il pubblico ministero? “Mio padre era avvocato civilista. Un artigiano del mestiere. Finito il liceo sono entrato nei Carabinieri. Da tenente dì complemento venni mandato in Calabria. Ero in servizio nel tribunale dì Palmi. Assistendo a ore e ore di processi capii presto qual era il mestiere più interessante: il pm, appunto”. II primo incarico da pm? “A Catania. Presi servizio nel 1992. In un periodo terrificante. Dopo la morte di Borsellino, negli uffici giudiziari c’era la sensazione che potesse succedere qualsiasi cosa. Io ero il tredicesimo sostituto procuratore, il più giovane”. Ricorda i suo primo processo? “Tangenti sui cartelloni pubblicitari. Per molti anni mi sono occupato della Tangentopoli catanese. In quel periodo c’era un’ala del carcere Piazza Lanza a Catania che era dedicata solo ai tangentisti”. Ardita, un Di Pietro etneo? “Di Pietro lo andai a trovare nel corso di un’indagine. I miei modelli però erano Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Miti veri”. Lei ha fatto arrestare anche dei politici. A causa delle sue indagini finirono in carcere i democristiani Nino Drago e Rino Nicolosi, e il socialista Salvo Andò. “Il costruttore Francesco Finocchiaro ci rivelò un sistema tangentizio capillare... Ma per la lunghezza dei processi alcune accuse finirono in prescrizione”. In seguito durante un’inchiesta sulla sanità catanese venne arrestato anche l’attuale presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo. “Già. Alla fine non fu condannato perché l’ipotesi di reato venne derubricata in finanziamento ai partiti”. Se non sbaglio la sua ultima inchiesta sugli appalli toccò anche Stefano Cusumano, allora sottosegretario, e Giuseppe Firrarello, ora senatore del Pdl. Ha mai ricevuto attacchi politici per la sua azione di magistrato? “Mi hanno dato del giudice comunista e del giudice fascista, a seconda di chi finiva sotto inchiesta”. Lei è comunista? O fascista? “Sono di formazione cattolica. Un reazionario progressista”. Lei è favorevole alla separazione delle carriere? “No. Io sono come sono perché i magistrati italiani vengono formati così: difesa della legge e degli interessi dello Stato senza sconti a nessuno, ricerca della verità, tutela della libertà dei cittadini... Vale per giudici e pm. Un modello diverso avrebbe solo effetti peggiorativi, formerebbe un’accusa che ha come unico scopo quello di incastrare gli indagati”. Ogni tanto sembra che sia già così. “Perché nessuno è perfetto”. Le leggi ad personam... “La domanda successiva?”. A cena col nemico? “Luigi Manconi. È un garantista libertario che stimo molto”. Qual è l’errore più grande che ha fatto? “Potrei scrivere un libro sui sensi di colpa che ho nei confronti della mia famiglia”. Che cosa guarda in tv? “Tutto. Talk show, Tg... Tra i miei giornalisti preferiti c’è Antonello Piroso. Mi pare non fazioso”. Il film preferito? “Il Cacciatore con Robert De Niro”. I film e le serie tv sulla criminalità e sulla mafia creano sempre polemiche: La piovra, Il capo dei capi... “Per un giovane istruito sono semplici prodotti di fantasia. Ma per chi non va a scuola e magari vive in una cittadina meridionale, c’è il rischio di creare fenomeni di emulazione. Per molti ragazzini il boss è un mito, a Catania, fino a dieci anni fa, l’inafferrabilità di Nitto Santapaola purtroppo era leggendaria”. Il libro? “I fratelli Karainazov di Fèdor Dostoevskij. In ogni pagina c’è una domanda sulla vita, una risposta e il suo contrario. La dimensione religiosa dell’esistenza per me è un punto fermo”. La canzone? “Romeo and Julliet dei Dire Straits, perché tutte le cose proibite hanno sempre un certo fascino”. Conosce l’articolo 3 della Costituzione? “Ci mancherebbe altro, È il principio di uguaglianza”. Sa quanto costa un pacco di pasta? “Al discount lo trovi anche a 45 centesimi”. Conosce i confini della Libia? “II Ciad, l’Egitto, la Tunisia”. Che effetto le ha fatto vedere le immagini della cattura e dell’uccisione di Gheddafi? “Dopo tutto quello che ci siamo detti, secondo lei che effetto mi ha fatto vedere massacrata una persona sottratta a ogni forma di giudizio?”. Giustizia: l’appello del magistrato scrittore “Il carcere dialoghi con la società” La Repubblica, 3 novembre 2011 Sebastiano Ardita, dirigente del Dap, è oggi a Milano per presentare il suo libro “Ricatto allo Stato” sulle stragi mafiose del 1993. Il 41 bis? Non ha senso abolirlo perché la mafia è ancora forte e pericolosa ma anche i boss hanno diritto a un trattamento che rispetti la dignità. Bollate è un modello da imitare per l’intero sistema con i suoi laboratori e il lavoro che diventa un’occasione di riscatto per i detenuti. “Dobbiamo fare del carcere un luogo che sappia dare ai detenuti la possibilità di un impegno concreto, dove si possano aprire prospettive e occasioni che impediscano di cadere negli stessi errori”. Sebastiano Ardita, il magistrato catanese che guida l’Ufficio detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, arriva oggi al cinema Anteo (ore 17) per presentare il suo libro, Ricatto allo Stato, la storia dell’attacco stragista di Cosa Nostra, che dopo Capaci e via D’Amelio arriva a colpire la capitale, Firenze, e non risparmia Milano. Oggi Ardita, a capo di uno degli uffici più delicati del Dap, è nella regione che ha una popolazione penitenziaria di quasi diecimila detenuti, e che a Milano mostra il meglio e il peggio di quello che può essere la detenzione. Da una parte San Vittore, con l’altissima densità di detenuti per cella, le strutture vecchie e spesso fatiscenti, gli eterni problemi della dignità di ospiti senza possibilità di lavoro e reinserimento. Dall’altra il carcere modello di Bollate, con la sartoria e la falegnameria, i corsi di avviamento professionale e il lavoro esterno. “È l’esempio di come dev’essere l’intero sistema - dice Ardita - oggi chi è più debole può finire più facilmente dietro le sbarre, viene socialmente retrocesso. Chi viene da situazioni di povertà, gli stranieri irregolari, i tossicodipendenti rischiano di entrare in una spirale che porta davvero alla criminalità”. Stretto a doppio nodo ai fatti del ‘93, a quel primo e unico attentato terroristico di Cosa Nostra in città, quando un’auto imbottita di esplosivo fece cinque vittime e distrusse il Padiglione d’arte contemporanea di via Palestro, c’è anche il tema del 41 bis, il regime di carcere duro per i boss. In Lombardia sono circa ottanta, reclusi nel carcere di Opera. Anche intorno a quel provvedimento si giocò negli anni la trattativa tra Stato e mafia. E intorno alla scelta del governo e dell’amministrazione penitenziaria di sospenderlo per oltre 300 mafiosi, dopo gli attentati del 1993, si sofferma la ricostruzione di Ardita. “Oggi non ha senso discutere di abolirlo o attenuarlo, perché Cosa Nostra è ancora forte ed è impensabile eliminare quel regime”. Quello che serve per migliorare la vita dei detenuti, invece, anche per dare dignità a chi deve scontare il 41bis, è “aumentare l’interazione” col mondo esterno. Ardita cita con soddisfazione il caso di Lucia Castellano, l’ex direttrice della casa circondariale di Bollate, diventata assessore nella giunta del sindaco Pisapia. “È la prova che se il carcere sa creare progetti, se s’impegna a realizzare relazioni concreti, diventa ricchezza per tutta la comunità”. Giustizia: Uil-Pa; nelle carceri un dramma socio-sanitario, anche per chi vi lavora Agenparl, 3 novembre 2011 “Oggi all’interno del dramma penitenziario deve trovare attenzione anche la situazione lavorativa, il disagio lavorativo della polizia penitenziaria”. Eugenio Sarno, responsabile Uil della Polizia Penitenziaria, cerca di tracciare all’AgenParl il quadro della situazione sanitaria per il personale che lavora all’interno delle carceri italiane, a quanto pare sempre più sottoposto al rischio. “Dal punto di vista penitenziario i rischi sono molteplici e, soprattutto, sono ampliati dal non avere gli strumenti di prevenzione - sottolinea Sarno - Rispetto al momento sanitario, il rischio più alto è quello del contagio. Contagio di malattie infettive, come può essere l’epatite. Noi abbiamo il 65 per cento dei detenuti più o meno affetti da malattie virali. Basta anche pensare all’Aids, spesso si ha a che fare con soggetti positivi ad Hiv che ci minacciano con il sangue infetto che possono sputare e purtroppo il personale in servizio nelle sezioni non ha le dotazioni individuali, che per legge dovrebbe avere, come mascherine, guanti in lattice, etc. Il rischio sanitario è anche quello di dover affrontare traduzioni su mezzi assolutamente obsoleti, inadeguati e non manutenzionati. A testimonianza di ciò, gli incidenti di questo 2011 che si sono risolti senza incidenti ma solo per coincidenze fortuite e fortunate. Non bisogna dimenticare, poi, che nel 90 per cento degli istituti l’agente di sezione ha come ufficio il corridoio; oppure, come a Bolzano, l’agente preposto alla sorveglianza della cinta è collocato in un box di plexiglass. Poi c’è anche il rischio delle aggressioni, solo nel 2011 ci sono stati circa 850 episodi di aggressione da parte dei detenuti nei confronti della polizia penitenziaria, 480 sono i poliziotti penitenziari feriti, che hanno riportato prognosi superiori ai 5 cinque giorni. Esiste, dunque, un rischio sanitario per il personale impiegato nelle carceri italiane? Esiste, non a caso noi abbiamo sempre fotografato il dramma penitenziario come una questione sociale, umanitaria e sanitaria. Il rischio sanitario c’ è per chiunque entri in contatto con l’ambiente sanitario, a prescindere dalle motivazioni. Ho visitato recentemente il carcere Gazzi di Messina dove c’è un centro clinico al cui interno sono ospitati detenuti comuni e gli stessi ospedalizzati, e quindi parliamo di malati, sono collocati all’interno di celle che hanno letti a castello a tre piani. Non dimentichiamo, poi, che molti istituti sono a rischio crollo, con aree appositamente transennate perché accertato il pericolo. C’è un’attenzione, da parte delle istituzioni, al dramma socio-sanitario delle carceri e di chi vi opera? Io capisco che per la politica il problema carceri è sempre un argomento ostico, però noi cerchiamo anche di batterci contro quello che è evidentemente un figlio del costo della politica, ovvero un piano carceri che si prepara a spendere circa 650 milioni quando hanno la consapevolezza di costruire istituti che molto probabilmente non saranno mai funzionali per mancanza di personale, e Trento e Rieti ne sono una conferma. Il rischio vero è che mentre costruiscono le nuove strutture ci crollino addosso quelle in uso. Giustizia: parla Max Leitner, il “re delle evasioni”… meglio morto che tornare in cella! Il Gazzettino, 3 novembre 2011 La settimana scorsa quinta fuga da un penitenziario: “Non ho fatto male a nessuno, ho soltanto rapinato delle banche”. “Non mi prenderanno vivo, piuttosto la faccio finita, di certo non tornerò in carcere”. Max Leitner è detto il “re delle evasioni” e non per niente: è fuggito la settimana scorsa per la quinta volta dal carcere. Dopo un permesso ottenuto dal carcere di Asti dove sconta la sua pena è ormai uccel di bosco, probabilmente sui monti attorno al suo paesello natio, Elvas in quel di Bressanone. Da quelle parti ormai la sua figura rasenta la leggenda, tanto che sul web si contano già centinaia di supporter sulle pagine di Facebook. Gli affezionati gli dedicano interventi che vanno da “buona fortuna” a “non farti prendere”, a “non mollare”. Il latitante parla attraverso un intermediario: “Meglio morto che ritornare in cella. Le condizioni delle carceri italiane sono disumane”, afferma. “Non ho mai fatto male a nessuno - dice Leitner - ho soltanto rapinato delle banche. Nessuno mi ha mai dato una seconda chance, mentre c’è chi ha ucciso ed è già a piede libero”. “Nessuno si è mai occupato di me, nemmeno un politico”, aggiunge, con un riferimento forse involontario alle vicende che rimbalzano dal mondo politico. Mentre le battute alla ricerca del fuggiasco sono in pieno svolgimento, per la fuga del rapinatore è indagato il cappellano del carcere di Asti, don Giuseppe Bussolino. Sarebbe stato infatti il religioso ad accompagnare Leitner in auto a Bressanone per un omaggio alla tomba del padre, morto pochi mesi fa. Max Leitner, che oggi ha 52 anni, aveva cominciato a far parlare di sé per una serie di rapine in banca nel Nord Italia e in Alto Adige verso la fine degli anni 80. Poi si spinse anche in Austria dove, nell’agosto del ‘90, fu catturato dalla polizia austriaca durante un assalto ad un furgone portavalori. Rinchiuso in carcere in Austria, Leitner riuscì ad evadere da quello che definì un carcere “medievale”. Dopo qualche giorno si consegnò, al confine con l’Austria a Prato alla Drava, alla polizia italiana: “Meglio stare in un carcere italiano che in uno austriaco”, aveva detto. Rinchiuso poi a Bolzano, all’apparenza detenuto modello, fu protagonista della più classica delle evasioni, calandosi da una finestra usando lenzuola annodate. Resta poi latitante per sei mesi e ritorna quindi in carcere a Padova dove ci fu la terza evasione. L’ultima volta Leitner era stato arrestato il 29 dicembre 2004 a Rabat in Marocco, due mesi dopo l’evasione dal carcere di Bergamo, dove avrebbe dovuto restare fino al 2012 per rapina e fabbricazione di armi e materiale esplodente. Giustizia: le ultime lettere dal carcere di Marco Erittu prima di essere ucciso La Nuova Sardegna, 3 novembre 2011 “Galera ne ho fatta, ma come questa che mi stanno facendo fare ogni giorno che passa x me è 1 secolo”. “Al giorno del processo ho già 1 anno fatto + due semestri da fare e sono già a 17 mesi, con i giorni della liberazione anticipata. Poi davanti agli avvocati te lo metto x iscritto, se non è così mi costituisco in tutti i carceri meno che qua, che stanno facendo di tutto per rovinarmi, ma questa volta non ce la fanno, l’orgoglio lo metto da parte”. Così scriveva Marco Erittu il 13 settembre 2007, in una delle ultime lettere prima di morire. Due mesi dopo, il detenuto che voleva parlare ai giudici dei sequestri di Paolo Ruiu e Giuseppe Sechi, sarà trovato senza vita nella cella 3 del braccio “promiscui”, a San Sebastiano. Al collo i segni di una impiccagione. Un apparente suicidio che oggi gli inquirenti spiegano come l’eliminazione fisica di un testimone scomodo. Un testimone che forse voleva inguaiare Pino Vandi, marito di sua cognata, carcerato per vari crimini legati alla droga, temuto e rispettato nell’istituto di pena di via Roma. Di Vandi voleva raccontare retroscena forse legati ai rapimenti di metà anni Novanta. In cella dal 16 luglio per l’ipotesi di omicidio volontario ci sono appunto Vandi, presunto mandante, l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna, accusato di aver aperto la porta della cella di Erittu agli esecutori, e Giuseppe Bigella, reo confesso e supertestimone contro i coindagati, che avrebbe soffocato con una busta la vittima con l’allora detenuto Nicolino Pinna, mai arrestato. “Quel bastardo”. Quelli tratteggiati nella richiesta di custodia cautelare sono gli ultimi mesi di vita di Erittu, attraverso le sue parole, sfoghi anche confusi affidati a molte agende. Erano note fin dal ritrovamento del corpo, il 18 novembre 2007, e dall’archiviazione del caso come suicidio, ma solo col racconto di Bigella hanno assunto una luce nuova, rivelatrice secondo il pm della Dda di Cagliari Giancarlo Moi e il sostituto procuratore di Sassari Giovanni Porcheddu. Al di là dell’importanza investigativa, raccontano di un uomo tormentato dal rischio di finire ammazzato all’interno di un carcere, terrorizzato da quel P.V., per i pm Pino Vandi. Più di una cosa torna nella frase con la quale Erittu chiude la lettera alla madre, che comincia con “ciao mammina”, del 13 settembre 2007. “Scusate x oggi - scrive in riferimento a un colloquio mancato - ma la cella da sola non la lascio +; questo bastardo è impestato: ma non crepa mai. P.V. Capisci”. Gli investigatori la interpretano così: Erittu non vuole lasciare la cella per paura di subire un’altra “bicicletta”, lo scherzo di chi ha messo droga in una delle sue scarpe per poi avvisare gli agenti e far scattare, come punizione, il divieto di andare ai domiciliari. Lui lo imputa a Vandi, che chiama “impestato”. Il colloquio. Dopo la “bicicletta” Erittu chiede un colloquio con un militare della Finanza, organizzato nell’Ufficio Comando. Ma poi rinuncia: teme le fughe di notizie da quell’ufficio. Paure fondate - scrive il pm Moi - perché da quel momento viene apostrofato “mi lu finanzieri” da qualche detenuto”. La conseguenza della fuga di notizie da quell’ufficio - si legge negli atti - è il verificarsi di nuovi e ripetuti avvertimenti all’Erittu. Nei giorni successivi annotò, in data 29 agosto 2007, di aver “fatto presente al Comandante che mi avevano minacciato che tutto quello che gli sarebbe entrato me lo facevano trovare in cella, dopo 8 (mesi) come un agnello mi sono rotto i coglioni”. La lettera al pm. Pur di uscire, Erittu cerca di parlare con l’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Porqueddu di quanto conosce della relazione fra Pino Vandi e i sequestri Sechi e Ruiu. Il 14 settembre annota la decisione (contenuta in una lettera che ha depositato): “Oggi partita lettera molto importante - come passa la terapia la do all’appuntato così parte domani. Speriamo che sia così - certo dopo quasi 19 anni è un po’ difficile”, come se dovesse raccontare fatti risalenti nel tempo, commenta il pm. “È ancora più significativo che di tale missiva (mai giunta in procura) si siano perse completamente le tracce. Di tale fatto occorre tener conto poiché dimostra che questi aveva esplicitato in una lettera la sua volontà di collaborare in cambio di qualche beneficio”. E in poco tempo, molti ne verranno a conoscenza, anche Pino Vandi. Erittu sente, forse, che questo è l’inizio della fine. “Negli ultimi giorni di vita teme per l’attuazione delle trappole promesse - scrive il pm - rifiuta il cibo del carcere e si barrica all’interno per impedire che mentre dorme qualcuno possa entrare”. Si ferisce con una lametta se gli agenti provano ad entrare. Negli ultimi giorni di vita (16 e 17 novembre) scrive in sassarese stretto e poco chiaro, tradotto da un consulente: “Io però quando viene lunedì come ho detto gli faccio vedere che è così, poi se qualcuno dice che gli ho fatto male me lo faccia vedere, l’ho detto e lo ripeto che non ho cercato a nessuno, e lo faccio vedere lunedì così vediamo a chi ho fatto del male, perché non ho fatto del male a nessuno”. Se queste frasi sembrano non avere senso, il magistrato le legge in questo modo: “Queste annotazioni corrispondono esattamente (e quindi ne costituiscono un indubbio riscontro) alle dichiarazioni del Bigella quando sostiene: “Lui non è che si voleva ammazzare, lo faceva apposta per parlare con certe persone, siccome glielo impedivano, al lunedì come ho detto non ci doveva arrivare...”. Il 18 novembre, domenica, il ritrovamento del cadavere. Emilia Romagna: Sappe; mancano 650 agenti, sciopero bianco su assegnazioni Agi, 3 novembre 2011 Sciopero bianco - ovvero rigida applicazione delle regole per quanto riguarda i diritti del personale - per gli agenti del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria che conta in Emilia Romagna 750 iscritti (12.000 a livello nazionale). Lo stato di agitazione regionale è stato indetto dopo la convocazione in mattinata nella sede regionale del Provveditorato per discutere delle piante organiche. In regione dove - secondo i dati forniti dal sindacato - mancano 650 unità tra agenti, sovraintendenti ed ispettori, non si sa ancora se e quanti agenti verranno assegnati. Il Sappe lamenta da tempo le difficili condizioni di lavoro del personale: nel corso del 2010 in Emilia Romagna sarebbero stati circa 29.000 turni di servizio nel corso dei quali gli agenti hanno dovuto coprire due o tre posti contemporaneamente. Lazio: Tidei (Pd); nelle carceri carenza di personale, il ministro Palma ascolti i sindacati Il Velino, 3 novembre 2011 Interrogazione parlamentare di Pietro Tidei in merito alla situazione delle carceri. Il deputato del Pd si è rivolto al Ministro della Giustizia, Nitto Francesco Palma, suggerendogli di accettare le proposte delle organizzazioni sindacali almeno per tamponare un’emergenza legata alla carenza di agenti di Polizia Penitenziaria e, al tempo stesso, per prevenire situazioni tragiche. Tidei si riferisce alla richiesta avanzata dalle organizzazioni sindacali di Civitavecchia al Provveditorato del Lazio per l’invio di 30 unità di Polizia Penitenziaria per il nuovo carcere e di 10 per quello vecchio. “Nel Lazio - ricorda Tidei - nei 14 istituti carcerari erano presenti al 31 maggio 6.598 detenuti in celle dove ce ne dovrebbero stare un massimo di 4.856. Le ragioni di tale situazione, così come nel resto delle carceri italiane, sono dovute principalmente al sovraffollamento detentivo, all’inadeguatezza delle strutture e alla carenza di personale, polizia penitenziaria nonché psicologi ed educatori. Anche a Civitavecchia, come già noto, gli istituti penitenziari sono ormai prossimi al collasso e non rimane difficile immaginare l’emergenza umanitaria-sociale che scaturisce da questa situazione. Il sovraffollamento, nel Lazio come altrove, uccide trattamento e rieducazione e il paradosso è che si devono registrare situazioni come quella del carcere di Rieti con 110 - 120 detenuti in una struttura che teoricamente è in grado di ospitarne 300 - 400 perché manca il personale di Polizia Penitenziaria e non ci sono educatori e psicologi. Analogamente, è chiuso per mancanza di personale anche il padiglione del carcere di Velletri tra l’altro fresco di completamento. I primi a soffrire di tale emergenza - continua il deputato del Pd - sono i pochi addetti impiegati nelle carceri e parliamo di agenti di Polizia Penitenziaria, educatori e psicologi continuamente sotto pressione e spesso a rischio per la propria incolumità personale. Una delle cause che ha contribuito al crescente sovraffollamento è sicuramente riconducibile ad una politica del “tutti dentro” intrapresa dal Governo senza fare però prima i conti con lo stato di degrado e inadeguatezza dei nostri istituti penitenziari. I sindacati inoltre denunciano da tempo responsabilità anche da parte dell’Amministrazione Penitenziaria che mal gestisce il poco personale di Polizia impiegato continuando a mantenere distaccato presso strutture esterne agli istituti penitenziari personale che in questo momento critico dovrebbe stare in prima linea nel fronteggiare “l’emergenza carceri”. Nelle carceri Civitavecchiese così come in quelle laziali - conclude Tidei - si può delineare quindi un quadro davvero desolante in materia di sicurezza e del personale addetto: la sicurezza interna diminuisce a vista d’occhio, i pochi poliziotti impiegati sono sottoposti a doppi turni, lavoro straordinario e movimenti di scorta per garantire gli spostamenti dei detenuti”. Parma: i sindacati denunciano “allarme tubercolosi”, la direzione replica: “standard adeguati” Parma Sera, 3 novembre 2011 “Manca tutto: dal sapone alla carta igienica, dal detersivo per i pavimenti alla candeggina. Per non parlare poi del pericolo tubercolosi”. La Cisl lancia l’allarme sulle condizioni igienico-sanitaria all’interno del carcere di Parma. Un grido che non riguarda solamente il sovraffollamento di via Burla ma anche decine di altri problemi che rendono “la situazione insostenibile”. Ma non solo i sindacalisti sottolineano che all’interno del carcere si sta sviluppando un pericolo tubercolosi. La direzione del carcere - in una nota - replica alla presa di posizione dei sindacati: “Garantiamo standard igienico-sanitari adeguati” “All’inizio dell’anno in corso - scrivono i sindacati in una nota - un agente di polizia ha contratto la Tbc. Si pensi che a conferma di quanto la tubercolosi in carcere rappresenti una rischio concreto per lavoratori e detenuti, recenti studi, affermano che una persona in carcere rischia di ammalarsi di Tbc 23 volte di più di un qualunque cittadino libero e ha un rischio 26 volte maggiore di avere la Tbc latente (la forma asintomatica in cui il batterio che causa la malattia non si manifesta se non dopo molti anni). Si arriva alla preoccupante asserzione che un caso su 11 di tubercolosi diagnosticato nella popolazione generale è attribuibile a un qualche contatto intervenuto con la popolazione carceraria”. Il problema è che questa situazione è difficilmente affrontabile visti i continui tagli al budget che fanno mancare anche le cose indispensabili a chi vive e lavora dietro le sbarre. “Nonostante gli sforzi della direzione - dà atto il sindacato - i tagli oramai rendono impossibile anche il rifornimento dei prodotti di base”. Una situazione che non è più tollerabile per un paese civile. “L’attuale drammatica situazione igienica - conclude il sindacato - non sia più tollerabile. La politica dei tagli lineari operata dall’attuale governo sta rischiando di provocare danni irreparabili per la salute e la sicurezza dell’intera comunità”. Riceviamo e pubblichiamo la replica della direzione del carcere riguardo alla presa di posizione dei sindacati. “Con riferimento all’articolo comparso ieri sul sito www.parmasera.it questa Direzione ritiene che i paventati pericoli di tubercolosi siano frutto di un eccessivo allarme, ingenerato da una situazione - peraltro riferita a un anno fa - riguardante un operatore penitenziario, senza che vi sia un particolare nesso con le attività di servizio interne. Pur nelle difficolta rappresentate dal particolare momento congiunturale, questa Direzione riesce a garantire standard igienico-sanitari adeguati e tali da scongiurare quanto rappresentato nell’articolo in questione”. Parma: la Cisl chiede aiuto alla Caritas; mancano i soldi per il sapone e la carta igienica… Gazzetta di Parma, 3 novembre 2011 Il carcere e il suo personale vivono una situazione di cronica difficoltà: la Cisl chiede aiuto alla Caritas. In carcere mancano le risorse per l’attività ordinaria, persino per comprare la carta igienica, il sapone e i detersivi per lavare i pavimenti. Il tutto in un contesto già gravato dal problema del sovraffollamento. La lettera della Fns-Cisl è stata inviata ai media. “La scrivente O.S. (organizzazione sindacale, ndr) è con la presente a chiedere a codesta spettabile organizzazione pastorale di voler trovare il modo nell’ambito delle proprie prerogative umanitarie e di promozione della “testimonianza della carità nella comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni” di rifornire gli II. PP. di Parma di materiale igienico, che malgrado gli encomiabili sforzi del Direttore dell’Istituto, si è nell’oggettiva impossibilità di acquistare dati i costanti e massicci tagli operati sul relativo capitolo di spesa (per intenderci, lo stesso utilizzato per l’acquisto di carta, toner e cancelleria varia). Si pensi che da circa due mesi manca il prodotto per lavare i pavimenti, la candeggina, la carta igienica e persino il sapone per le mani. Tutto ciò avviene, è bene ricordarlo, in un contesto già di per se assai problematico a causa del sovraffollamento di cui soffrono tutti gli Istituti di Pena del territorio nazionale (in Emilia Romagna circa 4.400 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 2.394 detenuti), nei quali, leggendo lo studio elaborato dall’Eurispes, su dati del Ministero della Giustizia, sono diffuse diverse malattie fonte di rischio per il personale operante e per la popolazione detenuta (es. tossicodipendenza 21%, malattie epatobiliari 10,9%, malattie infettive 6,6%, malattie respiratorie 5,5%). Si ricorderà, per di più, che proprio presso gli II.PP. di Parma, all’inizio dell’anno in corso, un agente di polizia ha contratto la Tbc. Si pensi che, a conferma di quanto la tubercolosi in carcere rappresenti una rischio concreto per lavoratori e detenuti, recenti studi, affermano che una persona in carcere rischia di ammalarsi di Tbc 23 volte di più di un qualunque cittadino libero e ha un rischio 26 volte maggiore di avere la Tbc latente (la forma asintomatica in cui il batterio che causa la malattia non si manifesta se non dopo molti anni). Si arriva alla preoccupante asserzione che un caso su 11 di tubercolosi diagnosticato nella popolazione generale è attribuibile a un qualche contatto intervenuto con la popolazione carceraria. Capirete bene come l’attuale drammatica situazione igienica all’interno degli II.PP. di Parma non sia più tollerabile e come la politica dei tagli lineari operata dall’attuale Governo stia rischiando di provocare danni irreparabili per la salute e la sicurezza dell’intera comunità. Nella certezza che, data la gravità di quanto segnalato, riusciate a trovare il modo per soddisfare la richiesta formulata in premessa, si porgono cordiali saluti”. Milano: al via lavori Sottocommissione Carceri, eletto presidente Lamberto Bertolè Adnkronos, 3 novembre 2011 Al via a Palazzo Marino a Milano i lavori della nuova sottocommissione Carceri che si è riunita oggi e ha eletto presidente il consigliere Lamberto Bertolè e vicepresidente il consigliere Mirko Mazzali. “Nel corso della seduta - fanno sapere Bertolè, Marco Cormio e Mazzali - abbiamo cominciato ad individuare le nostre priorità di lavoro. Per prima cosa lavoreremo perché la nostra città si doti di un Garante dei diritti dei detenuti, come ormai moltissime città italiane hanno fatto. Sarà uno dei primi impegni della commissione”. “Si tratta inoltre - aggiungono i consiglieri - di riprendere i rapporti con l’Osservatorio Carcere e Territorio, perché il Comune ha il dovere di riprendere un dialogo con le molte realtà che da anni lavorano e si impegnano a favore del reinserimento sociale dei detenuti, di fare regia tra le molte risorse presenti sul territorio per rendere più efficace e capillare l’azione di molti”. Infine, annunciano “dovremo anche confrontarci con gli operatori e occuparci delle loro condizioni di vita, pensiamo agli alloggi e di lavoro. Crediamo che le condizioni del carcere di San Vittore, fra tutte, meritino una particolare attenzione, perché da troppo tempo insostenibili”. Saluzzo (Cn): Sappe; poliziotto penitenziario aggredito da un detenuto ergastolano Agi, 3 novembre 2011 “L’aggressione di un detenuto ergastolano appartenente alla criminalità ‘ndranghetista ad un collega del Corpo di Polizia penitenziaria, avvenuta ieri nella sezione Alta Sicurezza del carcere di Saluzzo, è l’ennesimo segnale inquietante della tensione che si registra nelle sovraffollate carceri italiane. Il collega, al quale va la nostra piena ed affettuosa solidarietà, è stato aggredito con violenza dal detenuto che già nel passato aveva avuto modo di riprendere per un atteggiamento non conforme all’Ordinamento e gli sono stati prescritti 15 giorni di prognosi. Certo sarebbe grave l’indiscrezione secondo la quale l’agente aggredito aveva chiesto di essere messo temporaneamente in servizio in altra sezione detentiva proprio per i rapporti tesi del passato con quel detenuto ma il Comandante di Reparto non avrebbe autorizzato il cambio di posto di servizio. Si tratterebbe di una cosa davvero grave ed auspico che i vertici regionali piemontesi dell’Amministrazione Penitenziaria vorranno chiarire anche questa situazione”. È il commento di Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - il primo e più rappresentativo della Categoria -, al grave episodio accaduto ieri pomeriggio nel carcere di Saluzzo. “L’aggressione, proditoria e particolarmente violenta, di Saluzzo mette drammaticamente in evidenza le gravi condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari negli Istituti di pena italiani. Questi nostri Agenti lavorano nelle oltre 200 carceri italiane sistematicamente a livelli minimi di sicurezza per le gravissime carenze di Personale di Polizia, oltre 7.500 agenti in meno rispetto agli organici previsti, e devono quindi fare fronte a carichi di lavoro particolarmente delicati e stressanti, aggravati da una popolazione detenuta ogni giorno sempre più in crescita esponenziale. Ma così non si può più andare avanti”. “Il carcere di Saluzzo” aggiunge Capece “vede presenti quasi 420 detenuti (il 45% circa dei quali stranieri) a fronte di 262 posti letto regolamentari. Mancano ben 114 Agenti di Polizia Penitenziaria! Ve ne sono infatti 169 in forza e dovrebbero essere 283. E le problematiche sono evidenti, come confermano anche i dati relativi agli eventi critici accaduti a Saluzzo nel 2010. Si sono infatti verificati 3 episodi di autolesionismo, 1 decesso per cause naturali e 42 detenuti hanno manifestato con sciopero della fame. Da questi dati emerge una volta di più quali e quanti sacrifici affrontano ogni giorno le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di Saluzzo per garantire vigilanza e sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti di pena partecipando nel contempo alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti”. Trieste: detenuto tunisino ha aggredito un agente con pugni e calci Il Piccolo, 3 novembre 2011 Un detenuto ha aggredito con pugni e calci un agente che lo stava accompagnando in infermeria per effettuare un’iniezione. L’episodio è avvenuto l’altra notte attorno alle 22.40 all’interno del Coroneo. L’agente fortunatamente non ha subito gravi lesioni, ma qualche ecchimosi e contusioni al volto, al torace e alle braccia. Ma quanto è accaduto rappresenta l’ennesimo campanello d’allarme di una situazione ormai difficilissima in cui vivono dietro alle sbarre 266 detenuti quando la capienza massima è di 150. Il recluso di origine tunisina era stato “ristretto” in una cella di isolamento perché colpito da una sanzione disciplinare all’interno del carcere di Padova da dove proveniva. Da quella casa circondariale era stato trasferito a quella di Treviso e quindi a Trieste, dove appunto è stato messo in isolamento. Per lui era prevista una certa assistenza medica per alcune patologie. Assistenza che prevedeva un’iniezione attorno alle 22.30. Ed è stato proprio quell’ora che il tunisino ha chiesto e ottenuto di farsi accompagnare in infermeria. Ma lungo il tragitto è accaduto qualcosa. All’improvviso il recluso si è scagliato come una furia contro l’agente che lo stava accompagnando. L’uomo in divisa non è praticamente nemmeno riuscito a reagire. Fortunatamente, però, dopo pochi istanti sono arrivati altri poliziotti, riusciti a bloccare il tunisino e a soccorrere il collega. Pochi mesi fa c’era stata una serie di episodi violenti. Due risse in poche ore sedate dagli stessi agenti con non poche difficoltà. Coinvolti due nigeriani, un serbo e un rumeno. Nella zuffa avevano utilizzato la parte bassa delle caffettiere di alluminio, usate come “armi” con le quali avevano colpito in testa gli avversari. Due i detenuti erano rimasti feriti. Pochi mesi prima c’era stato un altro episodio violento. Un detenuto rumeno aveva aggredito un’infermiera che stava distribuendo i medicinali. Le aveva dato un colpo al fianco. “Una situazione difficile”, è stato il recente commento del direttore Enrico Sbriglia. “È sotto gli occhi di tutti da qualche tempo nella provincia di Trieste è aumentata la percezione dell’insicurezza”. Ancona: “Giustizia relativa e pena assoluta”; Antigone Marche presenta il libro di Silvia Cecchi Comunicato stampa, 3 novembre 2011 Venerdì 4 novembre, alle 18, alla Feltrinelli di Ancona, l’incontro con l’autrice e magistrato pesarese. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Così scriveva il filosofo Voltaire. E oggi come allora, siamo nel XVIII secolo, nei decenni che precedono la Rivoluzione francese, queste sue parole interrogano la società sulla attuale situazione di vita delle persone detenute e sulla validità del sistema penitenziario. Per affrontare questi temi, l’associazione Antigone Marche, insieme al Movimento delle Agende rosse di Pesaro e Urbino e all’associazione Libera contro le Mafie, ha organizzato la sua prima iniziativa pubblica da quando è nata, lo scorso 21 maggio. Si tratta dell’incontro con il magistrato pesarese Silvia Cecchi per la presentazione del suo libro “Giustizia relativa e pena assoluta”, con postfazione di Vittorio Mathieu, edito quest’anno da Liberi Libri (pp.184, euro 16,00). L’evento si terrà venerdì prossimo, 4 novembre, alle ore 18, presso la libreria Feltrinelli di Ancona (corso Garibaldi 35). Oltre all’autrice, all’appuntamento interverranno l’avvocato Samuele Animali, presidente di Antigone Marche, e il prof. Paolo Bonetti della casa editrice Liberi Libri. Sarà, quindi, la presentazione di questo libro, a cui tutta la cittadinanza è invitata a partecipare, a offrire lo spunto di riflessione sull’efficacia e sulla giustizia della pena carceraria. In questo libro, Silvia Cecchi denuncia innanzitutto l’antigiuridicità della pena carceraria. Scrive infatti che mentre in passato “l’entità della pena era commisurata alla gravità del reato. Oggi invece a chi ruba una mela e a chi uccide dieci persone tocca la stessa pena: il carcere. Senza considerare quanti vengono imprigionati in attesa di giudizio, quanti fra loro risulteranno innocenti, e quanti, pur innocenti, verranno condannati”. Il carcere indifferenziato, quindi. Che diventa barbarie giuridica, lesiva della personalità. “I nessi fra responsabilità penale e reato da un lato e sanzione carceraria dall’altro ci indicano orizzonti culturali e giuridici fra loro incommensurabili. I profili di irriducibilità sono molti: la relatività della nozione di responsabilità penale a fronte della assolutezza della pena carceraria; i rispettivi presupposti e le diverse finalità dei due istituti e il loro diverso atteggiarsi con il problema etico del male”, si legge nella recensione del volume. Divergenze, queste, che hanno una matrice comune secondo l’autrice nell’ “irrisolto problema del rapporto tra la persona del reo nella sua interezza e un suo atto: l’atto criminoso è sempre espressivo della personalità del reo? E in quale misura? L’atto esaurisce la personalità del reo?”. Non solo. Dal momento che, “la sanzione detentiva comminata mostra la sua abnormità anche in una prospettiva retribuzionistica della pena - secondo Silvia Cecchi - essa va ripensata anche alla luce dell’indirizzo assunto da diversi ordinamenti stranieri che hanno sperimentato sanzioni alternative alla detenzione”. Un ragionamento, quello di Silvia Cecchi nel suo libro, portato avanti con la lucidità della ricercatrice e l’esperienza del magistrato. E non a caso Antigone Marche, l’associazione che da 20 anni a livello nazionale, e da maggio anche nella nostra regione, lavora sia per sensibilizzare l’opinione pubblica e avviare una riflessione allargata sulla condizione di vita delle persone private della libertà personale sia per monitorare la situazione degli istituti penitenziari del Paese, abbia organizzato come sua prima iniziativa pubblica la presentazione di questo libro. Perché quello che Silvia Cecchi tratta è il punto nodale della questione, prima ancora del sovraffollamento e delle altre problematiche che emergono sulla stampa: qual è la prospettiva della pena, quale dovrebbe essere e come va ripensata. Nota biografica dell’autrice Silvia Cecchi vive a Pesaro, dove esercita la professione di magistrato. È diplomata in pianoforte e autrice di saggi giuridici, di raccolte poetiche e di testi narrativi. In collaborazione con il compositore Adriano Guarnieri ha scritto il testo dell’azione lirica Solo di donna (2004) e il testo dell’opera All’alba dell’umano, Processo a Costanza (2009), per voci, nastro magnetico ed ensemble strumentale editi entrambi da ricordi. Brucoli (Sr): corso per istruttori di calcio, premiati 40 detenuti La Sicilia, 3 novembre 2011 Si terrà lunedì alle 10,30, nel carcere di Brucoli, la cerimonia finale del corso di istruttori di primo livello di calcio, organizzato dal Coni regionale, in collaborazione con la Scuola dello Sport Sicilia e del Coni Siracusa. Il corso organizzato per i detenuti di Brucoli, è stato condiviso dall’amministrazione penitenziaria con il direttore Antonio Gelardi in testa, oltre che dal comandante di polizia penitenziaria Marzia Calcaterra e ha visto impegnati circa 40 corsisti-detenuti impegnati in 16 lezioni della durata complessiva di 50 ore. Tutti alla fine del corso, hanno dovuto superare un esame per il rilascio del relativo attestato di partecipazione e il brevetto di primo livello per chi ha superato l’esame finale. “Il grande impegno dimostrato dagli organizzatori e tecnici, Pino Maiori e Paola Cortese - ha dichiarato il presidente del Coni Siracusa, Pino Corso - ha consentito di affrontare con gli allievi, tutte le tematiche per consentire loro di apprendere nel modo migliore e di assimilare i contenuti sia didattici che tecnici, base importante sia per il conseguimento del brevetto che per spenderlo nel modo migliore, una volta scontata la pena. La finalità del corso oltre che sportiva e didattica è stata naturalmente sociale”. La cerimonia di chiusura e consegna dei diplomi vedrà come padrino della manifestazione il re dell’apnea Enzo Maiorca. Lecce: “Io Ci Provo”… il teatro entra in carcere Asca, 3 novembre 2011 Oggi a Palazzo Adorno sarà presentato il progetto di teatro sociale “Io ci provo”, laboratorio/percorso teatrale rivolto ai detenuti della sezione maschile della “Casa circondariale Borgo S. Nicola” di Lecce. Interverranno Filomena D’Antini Solero, assessore provinciale alle Politiche sociali e Pari Opportunità, Roberto Martella, consigliere comunale e Paola Leone, pedagoga teatrale di Factory compagnia transadriatica, ideatrice e curatrice del progetto. Il progetto, sostenuto dalla direzione della Casa Circondariale di Lecce, patrocinato dalla Provincia di Lecce, dal Comune di Lecce e dal Teatro Pubblico Pugliese, nasce dalla volontà della giovane compagnia Factory di operare nel territorio impiegando l’arte nel campo sociale. “Io Ci Provo” si propone un vero e proprio percorso teatrale caratterizzato da più fasi, previste da novembre 2011 a maggio 2012, condotto da tre operatori, una guida (Paola Leone) tecnico esperto di teatro sociale e due assistenti attori/scrittori (Fabio Tinella e Antonio Miccoli), dove protagonisti saranno gli attori/detenuti che avranno così l’opportunità di costruire uno spettacolo teatrale attraverso un laboratorio che prevede al suo interno non solo la formazione attoriale, ma anche il confronto con alcuni professionisti del settore e la visione di uno spettacolo teatrale, sia all’interno che all’esterno del carcere. Israele: i medici che chiudono gli occhi sulle torture, ne parlano gli attivisti per i diritti umani Infopal, 3 novembre 2011 I medici israeliani non denunciano le torture di cui sono vittima i detenuti palestinesi. A denunciarlo sono due organizzazioni umanitarie, il Public Committee Against Torture (Pcat) e il Physicians for Human Rights (Phr). Stando a quanto riportato in un rapporto degli attivisti che sarà pubblicato ufficialmente a fine mese, i professionisti israeliani violano il loro codice etico restando in silenzio sulla violenza commessa nei penitenziari dal personale di sicurezza. Pcat e Phr hanno raccolto 100 casi di abusi ai danni di carcerati commessi dal 2007 ad oggi. “Questo rapporto - fanno sapere le due organizzazioni - suscita il sospetto che molti medici ignorano le lamentele dei loro pazienti, permettendo alla Security Agency di utilizzare la tortura, approvando l’uso di metodi di interrogatorio vietati, il maltrattamento di detenuti inermi, nascondendo informazioni, e proteggendo, quindi, i torturatori”. Il documento di 61 pagine redatto da Pcat e Phr parla anche di percosse continuate e sottomissione a lunghi periodi di stress. Israele, dal canto suo, nega ogni forma di tortura o maltrattamento. I medici accusati di favoreggiamento nei confronti di metodi brutali utilizzati dalle forze di sicurezza israeliane avrebbero omesso di riportare nelle cartelle cliniche dei pazienti le cure ai quali sono stati sottoposti dopo le violenze. Il rapporto cita “innumerevoli casi in cui i torturati hanno parlato di ferite subite durante la detenzione di cui non c’è traccia nei documenti ufficiali”. Tra i tanti casi ci sono quelli di detenuti costretti alla privazione del sonno, di persone costrette per ore a restare inginocchiate, o legate, di teste sbattute su panche ripetutamente, di lesioni e dolori in ogni parte del corpo, dagli occhi alle gambe. Gli scritti dei medici, al momento del ricovero delle vittime negherebbero ogni problema fisico dei molestati. “Condizione generale soddisfacente, battito cardiaco regolare”, si legge sulle cartelle cliniche. Il governo, intanto, glissa. “In Israele è illegale ogni abuso, compresi quelli ai danni dei prigionieri”, dice il portavoce Mark Regev. Mentre il ministro della Salute respinge ogni richiesta di commento.