Giustizia: carceri sempre più invivibili, si suicidano persino gli agenti di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2011 Quando hanno aperto la cella / era già tardi perché / con una corda al collo / freddo pendeva Miche”. Nel 1961 una ballata di Fabrizio De André raccontava in musica il suicidio in carcere di un detenuto, condannato a 20 anni per l’omicidio di chi “voleva rubargli Mari”. A cinquant’anni di distanza, sono rimasti in pochi a occuparsi di chi si ammazza dietro le sbarre. E quasi nessuno ricorda che a farla finita sono anche quelle persone che negli istituti lavorano. Luigi è l’ultimo dei sette poliziotti penitenziari che si sono suicidati nel 2011. Lavorava nel reparto colloqui del carcere di Avellino, si è impiccato ieri mattina nella sua casa dì Battipaglia. Aveva 46 anni, una moglie e un figlio piccolo. Immune da provvedimenti disciplinari, da qualche giorno era in congedo ordinario. Ne hanno dato notizia i sindacati della polizia penitenziaria. Altrimenti il nome di Luigi sarebbe rimasto sconosciuto anche alle agenzie di stampa. Il primo a togliersi la vita, il 9 aprile di quest’anno, è stato un assistente capo in servizio nel carcere di Mamone Lode, nel nuorese. Si è ucciso con la pistola d’ordinanza nella sua casa di campagna. Il 12 aprile un assistente del penitenziario di Caltagirone, 38 anni, si è impiccato in contrada Stizza. Il 15 maggio si è sparato nel suo alloggio in caserma un ispettore viterbese. Giuseppe, assistente capo in servizio a Parma, si è impiccato il primo luglio dopo aver fatto rientro nella sua Ciro Marina, in Calabria. Il 7 settembre è stata la volta di un assistente delle Vallette di Torino, che ha premuto il grilletto all’interno del cimitero di Foglizzo. Stessa modalità, ma in casa, per un ispettore romano, che si è suicidato il 18 ottobre. E poi Luigi-Nessuno può giudicare, entrare nel privato o additare questo o quel motivo per scelte così drammatiche. Ma forse sarebbe il caso di provare a capire se esiste un filo che lega questo alto numero di suicidi (si rischia di andare verso il pessimo record dei 10 nel 1997 e 1998). Ieri il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che si è detto “addolorato”, ha “immediatamente istituito una commissione che ha il mandato di studiare il fenomeno del suicidio tra il personale di Polizia Penitenziaria sia dal punto divista quantitativo, con un esame comparato del fenomeno presso le altre Forze di Polizia, sia dal punto di vista qua-% litativo, per l’individuazione delle possibili cause dell’atto di suicidarsi”. Un’ipotesi di aiuto, in realtà, era nata già qualche anno fa, nel 2008, quando l’allora capo del Dap Ettore Ferrara pensò, anche su richiesta dei sindacati, di creare degli sportelli di ascolto all’interno delle carceri. Buoni propositi mai messi in pratica (eppure, per esempio, basterebbe affidare il servizio alle Asl, che già si occupano della salute dei detenuti). “L’amministrazione ha fatto orecchie da mercante - denuncia il segretario del Sappe, Donato Capece. Non vorrei che anche le ultime affermazioni fossero di facciata. Invece è un allarme da non sottovalutare”. Secondo il sindacato, dal 2000 ad oggi i suicidi sono stati 100 (oltre a un direttore d’istituto e a un dirigente regionale). Cifra che l’amministrazione abbassa a 65, ma comunque un numero elevato. I poliziotti penitenziari vivono in condizioni molto difficili. Le 2.000 assunzioni previste dall’ex ministro Alfano nel Piano carceri non sono mai state fatte (le 1.400 che si stanno pianificando erano già previste dal turn over). Gli agenti sono costretti a turni pesanti e sono sempre a contatto con le libertà private (e con la disperazione) dei detenuti. “Non c’è un nesso diretto tra suicidio e lavoro -spiega il segretario della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno, molto più probabilmente la consapevolezza di non poter assolvere al proprio mandato indebolisce chi è sulla border line della depressione. C’è una manifestazione di disagio legata alla non qualità del proprio lavoro”. Giustizia: appello di Pannella a Napolitano; sulle carceri intervenga in Tv a reti unificate Ansa, 2 novembre 2011 Intervenendo nell’ultima giornata di lavori del X Congresso dei Radicali italiani Marco Pannella ha fatto un appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per chiedergli di intervenire in televisione a reti unificate “come difensore dei diritti e della democrazia per restituire le carceri allo Stato di diritto”. “Essendo lei un saggio - ha aggiunto Pannella - ed avendo constatato nell’ultima visita che ha fatto al carcere minorile di Napoli quanto vengano calpestati i diritti dei detenuti, intervenga al più presto per impedire lo scempio di nuovi suicidi”. Giustizia: Lisiapp; troppi suicidi nelle carceri, chi pensa gli agenti di polizia penitenziaria? Agenparl, 2 novembre 2011 “L’agitazione degli operatori di polizia penitenziaria di queste settimane davanti alle strutture penitenziarie di Prato, Perugia e Viterbo sembra non aver scosso le coscienze dormienti dell’Amministra zione Penitenziaria” “Senza personale di Polizia Penitenzia ria, gli unici ad avere un rapporto quotidiano e costante con il detenuto, non si potrà mai avere un vero trattamento ed una reale sicurezza per i nostri cittadini, quando questi finiranno di espiare la pena”. Il Libero sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria (Lisiapp) chiama in causa il Dap il Dipartimento delle Carceri e il ministero della Giustizia, reo di non aver preso in modo costante le agitazioni e i sit-in di protesta del personale di polizia penitenziaria, dove gli operatori sono stremati dalla mancanza di prospettive “presenti e non future”, ma ancor di più spendere le proprie risorse ed energie prioritariamente nella direzione delle condizioni e del trattamento dei detenuti, dimenticando invece il personale di polizia penitenziaria obbligato a convivere con turni lavorativi massacranti, straordinari pagati con eccessivo ritardo, condizioni di lavoro pessime e sicurezza nei luoghi di lavoro inesistente. “Il sindacato Lisiapp, - afferma il segretario generale dr. Mirko Manna - auspico finalmente un intervento concreto per affrontare seriamente la carenza di personale di Polizia Penitenziaria e delle carenze strutturali degli istituti penitenziari dell’intero territorio nazionale, in particolare quelli dove soffrono in modo quotidiano le problematiche di sovraffollamento e disagio. “Il miglioramento - aggiunge Manna - delle condizioni carcerarie, attività intrapresa da una recente direttiva del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con l’istituzione di un gruppo di lavoro, dovrebbe passare anche dal miglioramento delle condizioni lavorative degli agenti di polizia penitenziaria. Ancora oggi, gli operatori di polizia penitenziaria ma le stesse OO.SS. come il Lisiapp aspettano l’istituzione dei centri d’ascolto riservati agli agenti in difficoltà. Questi centri , con l’ausilio di psicologi e assistenti sociali, dovevano servire ad evitare il linea di massima quel disagio psicofisico “lavorativo e/o personale” degli agenti , ma soprattutto cercare di non lasciare soli gli operatori di polizia , nella loro solitudine che poi sfociano in atti di suicidio”. A questo è ancora fresco il ricordo dell’assistente che si è tolto la vita a meno di 48 ore fa ma, ancor di più, il ricordo del collega di Roma di una settimana fa e di tutti i sette colleghi che hanno scelto questo gesto estremo dall’inizio dell’anno. “Infine, se le condizioni rimarranno tali - conclude il leader del Lisiapp - non esiteremo, come del resto abbiamo fatto sempre in queste settimane, ad effettuare tutte quelle forme di protesta che la legge ci consente e di coinvolgere il più possibile anche le istituzioni esterne tanto da portare al di là del muro di cinta le nostre problematiche compreso le condizioni in cui operano oggi gli agenti di polizia penitenziaria”. Giustizia: la Corte di Strasburgo esamina ricorso su diritto di voto negato ai detenuti Ansa, 2 novembre 2011 Il diritto di voto dei detenuti italiani è stato al centro dell’udienza svoltasi questa mattina davanti alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ai 17 giudici che formano il tribunale di ultima istanza per il rispetto dei diritti umani nei 47 paesi membri del Consiglio d’Europa è stato chiesto di decidere se la legge italiana, come è attualmente formulata, viola l’articolo che richiede agli Stati di “assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo” stabilendo che tutti coloro che vengono condannati in via definitiva a più di 5 anni di reclusione perdono il diritto di voto. A far arrivare il caso davanti alla Corte di Strasburgo è stato il ricorso presentato il 16 dicembre 2004 da Franco Scoppola, un cittadino italiano condannato per aver ucciso la moglie, ferito uno dei figli, e aver sottoposto a maltrattamenti il resto della famiglia. Questo è il terzo ricorso presentato da Scoppola, che ha vinto i primi due. All’inizio di quest’anno la Corte aveva già emesso una sentenza sul caso, in cui condannava l’Italia per la violazione del diritto di voto dei detenuti. Ma il governo italiano ha fatto ricorso contro quella decisione chiedendo alla Grande Camera di riconsiderare di nuovo l’intera questione. La nuova sentenza, che questa volta sarà definitiva, non verrà resa nota prima di 4 mesi. Giustizia: progetto sul valore architettonico dello spazio della pena di Caterina Rinaldo www.barilive.it, 2 novembre 2011 Il nuovo Piano Carceri recentemente varato, riguarda da vicino gran parte degli istituti di pena pugliesi ed in particolare la città di Bari. Il testo appare chiaramente configurato come la risposta alla situazione di sovraffollamento, di mancanza di condizioni igienico-sanitarie e di assenza di occasioni di rilancio e lavoro, che hanno portato la condizione delle carceri a degenerare spesso in fatti di cronaca e violenza. In esso, non sono però trascurabili alcune carenze fondamentali inerenti soprattutto la qualità dello spazio architettonico penitenziario e le modalità con cui esso possa contribuire alla riabilitazione e al reinserimento del detenuto nella società. A partire da queste considerazioni, prende l’avvio, un progetto di ricerca ideato da Antonio Labalestra, già professore a contratto di Storia dell’Architettura presso la Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Bari e da Annarita Digiorgio, ponendo un’ampia riflessione sui diritti umani e sulla condizione dei detenuti negli istituti di pena italiani. Il progetto si intitola Carceri d’Invenzione e ha come finalità quella di promuovere indagini e studi sugli “spazi della detenzione” secondo un approccio democratico e civile. Dalla realtà dell’edilizia carceraria, l’intento è quello di passare al concetto di architettura, attraverso la costruzione di una letteratura di riferimento che contribuisca alla maturazione di una maggiore consapevolezza nella progettazione degli istituti di pena orientata nell’ottica del reinserimento del detenuto nella società. Diverse adesioni, raccolte in pochi giorni sulla pagina Facebook del progetto aperta sul popolare social network, per raccogliere idee e contributi. A cominciare da Carceri d’Autore, una raccolta di segnalazioni di pellicole cinematografiche dedicate al tema dello spazio carcerario, letto attraverso lo sguardo del cinema. Del resto l’assessore Silvia Godelli in occasione della mostra dei manifesti cinematografici d’epoca, tenutasi presso la Mediateca Regionale, aveva posto l’accento sull’importanza dell’argomento, e in quella stessa occasione, un docente torinese aveva avuto modo di presentare un lavoro di ricerca, inerente proprio la condizione carceraria in Italia da studiare attraverso il mezzo cinematografico. Un importante progetto era stato ancor prima realizzato dalla fotografa Cristina Bari, che aveva lavorato con alcuni ragazzi del Fornelli. In ambito nazionale, la politica non aveva mancato di far sentire la propria voce, grazie ad una interrogazione parlamentare presentata dai Radicali da sempre impegnati sul fronte dei diritti umani. Quali sono le critiche mosse alla cosiddetta edilizia carceraria? Gran parte delle problematiche - dice Antonio Labalestra - originano dal erroneo presupposto di non riconoscere al detenuto lo status “individuo normale” e conseguentemente di permettere che il suo soggiorno possa avvenire in condizioni psicologiche e igienico-sanitarie barbare con il risultato di un incivile inasprimento della pena. In questo senso l’architettura può fare molto riscrivendo alle funzioni che si espletano in un istituto di detenzione le qualità minime di un normale spazio abitativo. Se come sono convinto - il livello di civiltà di un popolo si misura dal livello delle sue carceri - non si comprende per quali ragioni nel nostro Paese ci sia una vacatio culturale e manualistica rispetto questo tema progettuale. In questa direzione si offre l’apporto volontario del nostro progetto alla disciplina, con la speranza di trovare presto istituzioni e realtà disponibili a sostenerci. Giustizia: P4; Bisignani libero, Papa ai domiciliari. I pm: il deputato voleva creare tensioni di Conchita Sannino La Repubblica, 2 novembre 2011 Fuori dal tunnel, o quasi. Il “premier ombra” Luigi Bisignani è un uomo libero, anche se per andare a cena, dopo 4 mesi e 20 giorni di arresti domiciliari, ieri sera è costretto a infilarsi in un furgone per il trasporto dei cavalli pur di nascondersi alle telecamere appostate dinanzi alla sua villa. Il deputato Pdl Alfonso Papa va invece agli arresti domiciliari, a casa dei genitori, quartiere Vomero, Napoli. Pur nella distanza dei rispettivi percorsi penali, e “politici”, si consuma l’atteso snodo per i due protagonisti del caso P4, l’inchiesta condotta dalla Procura di Napoli. E intanto nuove ombre piovono sul deputato Papa. La Procura scopre che, durante i mesi trascorsi dietro le sbarre, il deputato inviava messaggi o chiedeva l’attivazione in suo favore e a fini diversi, non solo di politici, ma anche di detenuti appena usciti dalla comune cella, e di qualche amica della passata “dolce vita”. A carico di alcuni di questi sono state eseguite perquisizioni mercoledì scorso, all’alba del processo alla P4. Le due prospettive giudiziarie restano, dunque, agli antipodi. Bisignani ottiene la revoca della misura, si prepara a patteggiare la pena ad un anno e otto mesi, dinanzi al nuovo gip Maurizio Conte, per i gravi reati della P4 che ha, di fatto, contribuito a scrivere, anche accusando Papa. Il gip Luigi Giordano gli restituisce la libertà perché Bisignani “nonostante la negativa personalità”, e il precedente specifico della corruzione risalente alla maxitangente Enimont, “si è presentato più volte ai pm, ha risposto alle domande, tanto che una parte consistente del compendio indiziario a suo carico è stata desunta proprio dalle sue risposte”. Intanto a carico di Papa si dipana il nuovo giallo. Stando alla ricostruzione dei pm Henry John Woodcock e Francesco Curcio, avrebbe provato a inquinare le prove, coltivato rapporti con persone che aveva conosciuto in carcere, attivato iniziative tese ad incidere sul clima del processo. Come? Spingendo verso manifestazioni contro la Procura, sit-in dinanzi al carcere. Legittimo esercizio di protesta di conoscenti o una strategia eterodiretta da Papa? Su questi elementi, sorretti da decine di intercettazioni, i pm avevano fondato il loro parere negativo alla scarcerazione. Ma la prima sezione del Tribunale, presieduta dal giudice Francesco Pellecchia, ha valutato diversamente i fatti: “Trattasi di mere quanto improduttive iniziative”. “I “contatti” evidenziati dal pm - scrive il Tribunale - non palesano un’attivazione dell’imputato funzionale a modificare a suo favore la portata degli elementi probatori già raccolti”. Inoltre, il tenore delle dichiarazioni acquisite “appare indicativo della preoccupazione di Papa di acquisire notizie sul contenuto delle informazioni rese da tali soggetti agli inquirenti”. Emerge tuttavia uno squarcio inquietante, al di là del rilievo penale. Ci sono i rapporti di Papa con i fratelli Roberto e Alessandro Di Lorenzo. Il primo è un ex carabiniere con precedenti per rapina e fu identificato, il 27 ottobre scorso, come il giovane che tentò di fotografare in aula l’imputato Papa; Alessandro è appena uscito dal carcere e si trova ai domiciliari. Papa teneva anche una (legittima) corrispondenza con Giovanna Sperandio, la donna a cui Papa aveva intestato la famosa Jaguar e consegnato un tesserino per accedere a Montecitorio. Perquisita giorni fa, in casa le trovano 100 grammi di hashish: condannata già ad un anno e otto mesi. Elementi a cui i pm aggiungono altro. Come i tentativi fatti dalla moglie di Papa presso vertici di Ferrovie ed altre aziende di Stato per ottenere benefit evidentemente sospesi da tempo. Giustizia: lo liberano dopo tre anni di carcere… non c’entrava nulla di Valentina Marsella Secolo d’Italia, 2 novembre 2011 Fabio Bonifacio, arrestato per sequestro e poi assolto, ci racconta la sua odissea. Cosa resta della vita dietro le sbarre, dopo aver subito la detenzione da innocente? La frustrazione, la disperazione di non essere creduti, la lontananza dagli affetti. Ma anche una grande umanità, il conforto dei compagni di cella, lontano dalla cronaca e dai media che troppo spesso guardano con pregiudizio al mondo dei detenuti. A raccontare i mesi di carcere ingiusto subito, di cui resta oltre ai momenti tragici, la lezione di vita che tutte le esperienze traumatiche lasciano con un segno indelebile, è Fabio Bonifacio. Nove mesi di detenzione in cella, altri due anni ai domiciliari, per poi sentirsi dire, dai giudici d’Appello, che lui con la vicenda che l’aveva coinvolto non c’entrava nulla. Assoluzione con formula piena, per non aver commesso il fatto, ma nessun risarcimento riconosciuto in Cassazione. L’ultima carta, che Fabio giocherà, è il ricorso alla Corte europea dei Diritti umani. Ma per entrare nella storia, torniamo indietro nel tempo, alla sera del 26 novembre 2002, quando il giovane brindisino, che all’epoca aveva 22 anni, vede improvvisamente cambiare il corso della sua vita. Fabio sta tornando in auto verso casa, accompagnato dall’amico con cui ha passato la serata. L’unica sua colpa? Aver visto e riconosciuto, ferma sulla strada, a fari accesi, la macchina di un altro suo conoscente che, in quel momento, non è presente. L’auto infatti è misteriosamente vuota, abbandonata su una via del suo paese, San Pietro Vernotico. Fabio chiede all’amico di fermarsi, allarmato da quanto ha visto. Ed è quella scelta a originare quello che diventerà il suo calvario giudiziario. “Non ho toccato l’automobile - racconta Fabio, ricordando, come fosse ora, la dinamica del ritrovamento -ma nel frattempo sono arrivati dei ragazzi che qualche istante prima avevano sentito delle urla seguite dal rumore di un’auto che correva a tutta velocità. Mi hanno chiesto cosa fosse successo, ma ho risposto che non ne sapevo nulla”. Poco dopo, il giovane si reca dal padre del proprietario della macchina per chiedere se il figlio sia in casa, ma non c’è. Infatti, tornerà poco dopo, vittima di un sequestro lampo realizzato a scopo di estorsione. Il giorno dopo, quell’uomo va a casa di Fabio per ringraziarlo, e gli comunica che, dopo aver sporto denuncia ai carabinieri, gli stessi lo convocheranno per chiedergli come abbia trovato l’automobile. E infatti viene chiamato dai militari per essere sentito sulle modalità del ritrovamento dell’auto del sequestrato; il ragazzo racconta della casualità che lo ha fatto trovare faccia a faccia con la scena del crimine, e mette subito in chiaro la sua posizione: con quella storia lui non c’entra nulla. E in un primo momento gli investigatori fanno finta di crederci, ma nel frattempo cominciano a pedinarlo, e mettono sotto controllo il suo telefono. Non troveranno nessuna prova, ma nonostante ciò, il 23 gennaio 2003, lo riconvocano in caserma. L’interrogatorio è lo stesso della volta precedente, ma questa volta, senza alcun mandato d’arresto e senza un avvocato, Bonifacio a sorpresa viene ammanettato. “Avevo il cellulare che squillava - racconta ancora Fabio - e a quel punto qualcuno ha urlato “toglieteglielo!”; mi hanno puntato il mitra contro, in un clima concitato. Non avevo ancora capito di essere accusato di quel delitto, ma poi l’avvocato di un altro degli arrestati, mi ha informato di quello che sarebbe accaduto. Mi sono detto subito che era un equivoco, pensando di uscire l’indomani, ma così non è stato”. Il ragazzo viene portato nel carcere di Brindisi, dove passerà cinque mesi, per poi essere condotto, per altri quattro mesi, in quello di Foggia. Altri due anni li passerà ai domiciliari. “In più occasioni mi hanno chiesto di patteggiare - rileva il protagonista della vicenda - ma ho rifiutato, sarebbe stato come ammettere una colpa che non avevo mai avuto”. Il processo in primo grado, che passa nelle mani di cinque diversi pubblici ministeri, testimonianze incongruenti e accuse che crollano una dopo l’altra, si chiude con la condanna di Fabio a cinque anni e 600 euro di multa. E intanto, uno dei veri colpevoli è fuori. “Durante il processo -spiega Bonifacio - due carabinieri e il padre del sequestrato forniscono versioni diverse e discordanti. Un maresciallo dice di avermi arrestato in flagranza di reato, l’altro dopo un inseguimento. Il padre della vittima asserisce di aver avuto da me una richiesta di denaro”. Ma all’ultima udienza, quelle accuse cadono: i carabinieri dicono di non avere prove a suo carico, mentre il padre del sequestrato ritratta la sua prima versione: Fabio non ha chiesto soldi, né tanto meno era sul luogo della consegna. Il tribunale, però, emette una sentenza di condanna. Arriva l’Appello: in quella fase viene chiesto ancora una volta a Bonifacio di patteggiare, ma rifiuta. Lui è estraneo a quella vicenda. E infatti, i giudici di secondo grado gli danno ragione. Fabio viene assolto per non aver commesso il fatto. Scatta subito la richiesta di risarcimento danni per il calvario subito, ma secondo la giustizia, Bonifacio non ne ha diritto, perché in qualche modo ha colpa nella realizzazione dell’estorsione. Oltre il danno, la beffa. La vittima di quello che è l’ennesimo errore giudiziario italiano, non si arrende, continua la sua battaglia, ma anche la Cassazione gli negherà il risarcimento. Oggi Fabio ha ripreso la sua vita, ha una figlia di due anni, e un lavoro precario. Suo padre, 72 anni, lavora ancora per aiutarlo, perché in questi anni il figlio ha perso molte occasioni professionali. Ma Bonifacio è abituato a non arrendersi, e presto si rivolgerà alla Corte europea dei Diritti dell’uomo tramite i legali dell’associazione vittime errori giudiziari “Art. 643”, per raccontare ancora una volta i contorni di una storia di ordinaria ingiustizia, con la speranza, questa volta, di essere ascoltato. Dei giorni in cella ricorda le lacrime, la frustrazione, per quelle quattro ore d’aria, irrisorie rispetto alle altre venti passate dietro le sbarre. Ricorda la sua cella del carcere di Brindisi, dove erano in sei in uno spazio di 4 metri per 4, quella doccia due volte a settimana, e ricorda ancora l’umanità di un suo compagno di cella, che con lui era stato trasferito a Foggia, e dello “spesino” (addetto alla lista della spesa) Adriano, che hanno cercato di proteggerlo per mesi dalla notizia dell’incidente gravissimo che aveva coinvolto suo fratello. “Per qualche tempo - racconta - non mi hanno fatto vedere il telegiornale e i giornali che arrivavano in carcere, perché sapevano che non avrei resistito alla notizia. Per fortuna nel frattempo mio fratello si era salvato”. E infine, non riesce a dimenticare la disperazione di sua madre, dal giorno in cui lo vide ammanettato, in cui gridava alla sua innocenza, e ha ancora impresso l’atteggiamento di coloro che giudicava amici, oltre ai conoscenti e ai colleghi di lavoro. Alcuni, dice, hanno “addirittura negato di conoscermi, ma la cosa che fa più male è che non hanno aspettato neanche che uscisse la verità, ma hanno giudicato solo leggendo i giornali”. Cosa racconterà Fabio a sua figlia, quando da grande potrà capire cosa gli è accaduto? “La mia bambina dovrà sapere quello che ho passato - risponde - e dovrà sapere che non si può fidare di tutti. La vera giustizia deve essere quella che indaga e poi arresta, e non il contrario, come è successo a me. Basta con il carcere preventivo”. Lettere: la giustizia è alla frutta… di Pietro Lignola Roma, 2 novembre 2011 La crisi della giustizia italiana è sempre più grave ed evidente e mi auguro, per il bene del Paese, che non siano arrivati a un punto di non ritorno. I sintomi sono molteplici e diversi ed io ho avuto innumerevoli occasioni per evidenziarli. Le cronache più recenti ne sono addirittura piene. Particolarmente scandaloso mi sembra il caso del processo per l’uccisione di Paolo Borsellino, conclusosi anni addietro con sentenza definitiva che irrogava una serie di ergastoli. Gli ergastolani ora sono tornati in libertà in attesa che si stabilisca se sia possibile la revisione del processo. Si sarebbe scoperto, in sostanza, che il collaboratore di giustizia le cui rivelazioni erano state accettate per oro colato dalla pubblica accusa e, poi, dai giudici, sarebbe del tutto inattendibile, anzi un bugiardo calunniatore. Esisterebbe una diversa verità ed altri responsabili, ancora sub judice, sulla scorta di quanto rivelato da altro collaboratore di giustizia, a sua volta rivelatosi, in più occasioni, assai poco attendibile. Prevedibili erano i crolli di altri due procedimenti inventati dalle Procure contro Silvio Berlusconi: dopo quello dei diritti televisivi, che ha visto il Gup milanese prosciogliere il premier perché il fatto non sussiste, si dissolve quello “Annozero”, montato dagli incompetentissimi inquirenti di Trani con grande fracasso mediatico. Il Tribunale dei ministri aveva già liquidato le accuse inconsistenti di concussione e minaccia a un corpo amministrativo dello Stato; la Procura romana ha, ora, chiesto l’archiviazione anche per l’imputazione di abuso d’ufficio. Esito prevedibilissimo, tanto che, il diciassette marzo dello scorso anno, io opinai su queste colonne (“Un golpe qua, una congiura là”) che si trattava di un’evidente montatura. È dovuto, tuttavia, trascorrere più di un anno e mezzo per averne la conferma ufficiale e anche questo non giova all’immagine della giustizia. Non era prevedibile, invece, che, il magistrato Alfonso Papa, parlamentare del Pdl, fosse rimesso in libertà soltanto dopo oltre tre mesi dall’incauta autorizzazione a procedere della Camera dei deputati. Io non conosco personalmente Papa e non lo apprezzo perché, in ogni modo, sembra si sia comportato da faccendiere. Egli proviene, del resto, dallo stesso ufficio giudiziario dei suoi accusatori e questa è già un’anomalia, ancorché la legge non preveda, nel caso particolare, una situazione di incompatibilità. Papa era un sostenitore di Agostino Cordova e per questo motivo ebbe clamorosi scontri con i suoi colleghi che oggi sostengono l’accusa: anche questa è un’anomalia, per la quale la legge non prevede incompatibilità. Io non conosco gli atti del processo, ma so per certo che Papa non è imputato di strage e nemmeno di omicidio volontario, non è coinvolto in associazioni mafiose o camorristiche, non è sospettato di traffico internazionale di droga, non ha nulla a che vedere con il terrorismo e nemmeno con la guerriglia urbana. Ho indicato una serie di reati gravissimi per i quali i cittadini onesti sono convinti della necessità del carcere e, anzi, vorrebbero che la magistratura gettasse via le chiavi. L’Italia, invece, è piena di assassini, terroristi, mafiosi e trafficanti in libertà per i motivi più diversi, fra i quali spiccano la lentezza dei processi e l’incapacità di raccogliere prove idonee. Alfonso Papa risponde di fatti di concussione e corruzione piuttosto vaghi e, in ogni caso, meno eclatanti di quelli per i quali esponenti del Partito democratico sono chiamati a rispondere a piede libero avanti alle magistrature di Bari e di Monza. Egli rispondo poi, di violazione del segreto di indagine, un delitto che indigna particolarmente gli inquirenti napoletani quando i responsabili della fuga di notizie siano estranei al loro ufficio. Ricordo a me stesso ed ai lettori (ricordarlo ad altri sarebbe del tutto inutile) che nella nostra Costituzione è previsto il principio di non colpevolezza dell’imputato e che, pertanto, la carcerazione preventiva dovrebbe essere una misura eccezionale, richiedente gravità dei fatti, sufficienza degli indizi ed esigenze cautelari. Ora è abbastanza difficile ipotizzare esigenze cautelari dopo il rinvio a giudizio (allorché improbabile diventa un inquinamento delle prove) e la demolizione del personaggio e della sua rete di relazioni (che rendono inverosimile la reiterazione dei reati). Io mi rifiuto di credere alla denunzia di Papa, secondo cui uno degli inquirenti gli avrebbe promesso che non sarebbe uscito dal carcere se non avesse reso le confessioni e le chiamate in correità che il magistrato avrebbe gradito. Il protrarsi della carcerazione preventiva, però, potrebbe ingenerare nel pubblico il sospetto che in quella denunzia ci sia almeno una parte di vero. Un sospetto del genere, ovviamente, distruggerebbe completamente la residua credibilità della giustizia italiana. Che mi sembra, ormai, già alla frutta. Lettere: quelli che… domiciliari è “liberazione” di Massimo Bordin Il Riformista, 2 novembre 2011 C’è sicuramente una linea di pensiero che pensa di risolvere i problemi politici dell’opposizione attraverso la decimazione per via giudiziaria della maggioranza, ma la critica verso gli sconclusionati ex-questurini e gli algidi aspiranti Robespierre che la incarnano non può far dimenticare la disinvoltura, diciamo così, con cui la stampa governativa tratta la questione. Ieri per esempio sul Giornale campeggiava, in una delle pagine interne, il titolo “Pm sbugiardati: fuori dal carcere Bisignani e Papa”. Il proverbiale lettore che si ferma ai titoli era autorizzato a pensare a un nuovo caso Tortora moltiplicato per due. In verità nell’articolo, correttamente, si spiegava che il Gip aveva respinto la richiesta di firma per Bisignani e la permanenza in carcere per Papa, proposte dalla Procura. E non si celava il fatto che Bisignani era libero perché aveva patteggiato e Alfonso Papa era pur sempre agli arresti domiciliari, nella casa al Vomero dei sicuramente incolpevoli genitori. Se il patteggiamento, a norma di codice, non è una ammissione di colpevolezza ma solo la scelta di non combattere per la propria innocenza facendo guadagnare tempo alla giustizia in cambio di uno sconto di pena, non resta che prendere atto che il Giornale finisce per avvalorare l’interpretazione, propria di Di Pietro, degli arresti domiciliari come una “liberazione” dell’imputato. La convergenza può non stupire, almeno spiega i paradossi dell’interpretazione politica della giustizia nel nostro paese. Lettere: una riflessione su carceri, politica e amnistia Avvenire, 2 novembre 2011 Caro direttore, ho letto con interesse l’ultimo articolo dedicato all’emergenza carceraria (Avvenire, 29 ottobre) e penso che non si possa risolvere il problema del sovraffollamento con le amnistie o con lo svuota-carceri o altre idee simili. Mi pare che solo se si parte dai numeri esposti si possa trovare una soluzione. Il problema, infatti, è drammatico perché nelle nostri carceri ci sono persone che non dovrebbero esserci. Ci siamo ormai convinti che dobbiamo accogliere con generosa apertura qualche milione di stranieri che sono buoni lavoratori e anche imprenditori, ma non vedo perché si debba dare da bere, mangiare, dormire e guardare la televisione a 24.000 stranieri che sono venuti qui in Italia per delinquere. Teniamoci quelli onesti e trattiamoli bene, ma rispediamo al mittente chi delinque. Inoltre, sempre guardando le cifre esposte, se solo 37.000 carcerati su 67.000 scontano una condanna definitiva, è l’ennesima riprova della scarsa efficienza della macchina della giustizia che produce sentenze di mille pagine e invece di essere efficiente, produttiva e tempestiva, è solo logorroica. Alberto Monachesi, Milano Risponde il direttore di Avvenire Di una cosa sono piuttosto sicuro, caro signor Monachesi: lei non è incline al pregiudizio e parla per puro buon senso. Lo stesso buon senso che dovrebbe farle intuire perché non si riesca quasi mai -usando le sue parole - a “rispedire al mittente” chi è venuto in Italia per delinquere ed è finito in gattabuia (ma il buon senso dovrebbe anche farla riflettere sulla categoria dei “poveri diavoli”, quelli che non sono venuti tra noi per compiere reati, ma - essendo approdati, o essendo stati spinti, ai margini della nostra società - finiscono nelle reti malavitose). Qui, però, mi vorrei concentrare soprattutto sulla testa e sulla coda del suo breve ragionamento. Le inefficienze della macchina giudiziaria sono un dato drammatico ed evidente. Mai se n’era parlato tanto come negli ultimi 18 anni, mai è stato fatto così poco per tentare seriamente di capovolgere una situazione semplicemente scandalosa. Uno scandalo da far finire non solo a motivato parere di cittadini (italiani e stranieri) stritolati da meccanismi d’inesorabile ed esasperante pesantezza e lentezza, ma anche per esplicita ammissione di tanti addetti ai lavori: magistrati, avvocati, funzionari, uomini e donne delle forze dell’ordine. Archiviata, si spera, la fase delle “leggine” (emotive o ad personam), siamo perciò tutti in impaziente attesa di quella delle riforme vere e incisive. E intanto? Ha senso il dibattito su amnistie e svuota-carceri? Lei pensa di no. Io credo che le amnistie siano strumenti possibili e utili se si è in grado di usarli, anche in situazioni tutt’altro che pacificate, con animo pacifico e con intenti generosi e trasparenti. Penso, in sostanza, che l’amnistia (che mai è mero “condono”) non possa essere un “passo indietro” dell’idea di giustizia, ma deve poterne essere il grado più alto e civile, persino sacro. Non un “passo indietro”, ripeto, ma anzi il risultato di valutazioni e decisioni che rappresentano un “passo avanti”, della giustizia e della politica. Una politica in grado di farsi carico di grandi difficoltà di sistema e di piccole ed essenziali vicende umane (traduco: del disumano affollamento delle patrie galere tanto quanto del teso esaurirsi di una stagione aspramente e lungamente conflittuale e dell’accalcarsi di sentimenti di sfiducia, rifiuto e disprezzo per le istituzioni e chi le abita). Una politica capace di leggere la realtà del Paese e di aiutare la comunità nazionale a girare pagina in un passaggio cruciale della sua storia, e decisa a farlo riformando nello stesso tempo radicalmente se stessa, le proprie forme e procedure, i meccanismi di selezione della rappresentanza, riequilibrando i rapporti tra i poteri dello Stato... In passato è accaduto. Potrebbe essere, questo che viviamo e pensiamo come il tramonto della cosiddetta Seconda Repubblica, un tempo buono per un gesto di tale forza, per un’amnistia che coroni onestamente una grande riforma? A essere sincero, non ne riesco a pensare uno migliore e, nello stesso tempo, mi rendo conto che è difficilissimo. Manca sempre tempo per avviare un simile tempo... E si ha troppa paura di fare un regalo all’avversario - che si chiami, faccio due esempi emblematici, Silvio Berlusconi o Antonio Di Pietro - e alle rinascenti correnti del qualunquismo contro politico. Tuttavia non perdo la speranza. E continuo a ripetere che chi siede nel Governo e in Parlamento è chiamato adesso, non domani o dopodomani, alla prova della responsabilità, del disinteresse e del coraggio. Lettere: perplessità sul processo Uva di Luca Ghedini (Giudice corte d’appello di Bologna) www.linkontro.info, 2 novembre 2011 Ieri si è celebrata a Varese un’ulteriore udienza del processo relativo alla morte di Giuseppe Uva. Mi sia consentito un passo indietro nel tempo, sino all’anno 1969, per ricordare come nacque Magistratura Democratica. Cito, per chi non conservasse memoria della storia associativa, Livio Pepino, “Appunti per una Storia di Magistratura Democratica”: “La miccia fu l’approvazione da parte dell’assemblea nazionale di Md, il 30 novembre 1969 a Bologna, del cd “ordine del giorno Tolin”, cioè di un documento di critica degli orientamenti di polizia e magistratura nei confronti della stampa, che avevano indotto alcune tipografie milanesi e romane a rifiutare, per timore di processi penali, la stampa di documenti, tra gli altri, della Associazione giuristi democratici e dei Giovani liberali…” (pag. 13 ss. Alla nota 52 è possibile leggere il testo dell’o.d.g. Tolin, che è disponibile anche sul sito di Md: http://magistraturademocratica.it/platform/node/629). Nel “Dna” di Md, quindi, è ben presente il germe “dell’interferenza” sulle prassi giudiziarie e sui processi in corso (Pepino, op. cit., pag. 14 e nota 53). Posto che non pecco superbia o, come qualcuno ingiuriosamente ha detto, di supponenza tali da paragonare le mie osservazioni sul processo Uva all’intervento di Md sul caso “Tolin”, osservo che la ormai ventennale campagna di attacco e delegittimazione della magistratura un effetto lo ha ottenuto: siamo diventati tutti bravi, belli e buoni e non sbagliamo mai! Guai ad avanzare una critica: la deriva corporativa non ce lo consente. Veniamo, quindi, all’oggetto della spiacevole querelle sul processo di Varese. All’esito dell’udienza di ieri, il Giudice, sulla base delle conclusioni cui era giunta la perizia collegiale da lui disposta, ha ordinato la riesumazione della salma per gli ulteriori accertamenti medico legali. Chiedo alla “Collega coassegnataria del fascicolo Uva”: anche il giudice è uno dei tanti che, magari con supponenza, ha male interpretato la perizia preliminare che non ha letto con attenzione? Anche se a qualcuno spiace (e sembra quindi che la cultura della giurisdizione per qualche pm sia solo uno slogan), il processo penale è pubblico, e i suoi atti sono conosciuti e conoscibili. È lecito nutrire delle perplessità o il “manovratore” non deve essere disturbato? Sicilia: Garante regionale dei detenuti; i sindacati contro l’On. Fleres La Repubblica, 2 novembre 2011 L’esponente politico ha chiesto l’elenco dei dipendenti che hanno partecipato a un’assemblea. Ha chiesto all’amministrazione regionale di conoscere l’elenco dei dipendenti del suo ufficio che il 17 ottobre hanno partecipato a un’assemblea del personale. E i Cobas e la Uil sono subito insorti. È scontro tra i sindacati e il garante dell’ufficio per la tutela dei diritti dei detenuti, il senatore del Pdl Salvo Fleres. “Che certi metodi reazionari siano duri a morire non è una novità. Ma che arrivino da chi è pagato profumatamente (100 mila euro l’anno) per tutelare i diritti è inimmaginabile”, dicono i Cobas che ricordano a Fleres che la responsabilità dell’ufficio compete ai dirigenti e non alla parte politica. Anche la Uil Fpl, con il coordinatore Carmelo Ingrassia, contesta l’intervento del garante: “Rimaniamo basiti”. La Uil invita i dirigenti della Regione a vigilare in difesa delle loro prerogative. Fleres in una nota alle agenzie precisa di aver rinunciato all’indennità di garante. “Spiegherò i motivi del mio comportamento giovedì in audizione alla commissione finanze”, dichiara. E il dirigente dell’ufficio Lino Buscemi, che si è rifiutato di inviare a Fleres il foglio delle presenze, replica: “La sua è un’interferenza, l’attività di gestione dell’ufficio spetta ai dirigenti e questa autonomia va difesa”. Sardegna: Sdr, trasferito da Cagliari a Velletri giovane detenuto polacco autolesionista Comunicato stampa, 2 novembre 2011 “Ha lasciato il carcere cagliaritano di Buoncammino con destinazione la Casa Circondariale di Velletri Bartolomeo Gerboris, il trentenne polacco che nel mese di luglio, mentre era recluso a Oristano, aveva inghiottito una forchetta di metallo in un disperato gesto di autolesionismo. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con un atto di umanità lo ha destinato in una struttura penitenziaria vicina ai familiari per consentirgli di effettuare i colloqui”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che aveva segnalato il caso sottolineando la necessità di favorire il rapporto con i familiari e in particolare la madre e la sorella che vivono e lavorano a Roma. “Il ragazzo, che terminerà di scontare la pena tra poco più di due anni, nonostante i dolori e un pericoloso dimagrimento, aveva rifiutato - ricorda la presidente di Sdr - l’asportazione dell’oggetto metallico con un intervento chirurgico suscitando apprensione tra i Medici del Centro Clinico del carcere cagliaritano dov’era ricoverato. Rischiava infatti la perforazione dello stomaco e dell’intestino. La forchetta era stata poi miracolosamente espulsa naturalmente e il giovane, dopo un periodo di grande sofferenza psicologica, grazie alla sensibilità dei Medici, degli Agenti di Polizia Penitenziaria e dell’Educatrice di Buoncammino era riuscito a ritrovare un equilibrio. La sua unica esasperante richiesta era quella di poter riabbracciare la madre”. “Il caso di Bartolomeo Gerboris è emblematico. Il ragazzo, dal carattere difficile e con problematiche caratteriali e psichiche particolarmente sensibili, prima di giungere a Oristano, aveva migrato attraverso cinque Istituti. Da Pisa, dove nel 2008 aveva commesso il reato di furto, a San Gimignano, Rebibbia, Benevento e Avellino. In un’altra circostanza aveva tentato un gesto estremo. Punirlo per le intemperanze con continui trasferimenti che lo allontanavano sempre più dalla famiglia ne avevano alterato talmente l’equilibrio da renderlo un soggetto fragilissimo incapace di relazionarsi perfino con gli psichiatri”. “L’auspicio è che il Dipartimento - conclude Caligaris - ponga sempre maggiore attenzione all’umanizzazione della pena. Il recupero dei cittadini privati della libertà non può avvenire escludendoli dagli affetti familiari. La detenzione non può essere cancellazione o drastica riduzione della vicinanza dai propri cari. C’è il rischio che i gesti di autolesionismo si moltiplichino e che diventi impossibile il reinserimento sociale di chi ha sbagliato”. Lazio: sovraffollamento estremo a Regina Coeli, detenuti costretti a dormire a terra Dire, 2 novembre 2011 Questa mattina Luigi Nieri, capogruppo di Sinistra Ecologia Libertà nel Consiglio regionale del Lazio e Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, si sono recati in visita presso il carcere di Regina Coeli. “Nell’istituto esiste una condizione di tragico sovraffollamento - sostengono Nieri e Gonnella - i detenuti sono 1.210 a fronte di una capienza regolamentare di 907 presenze. Solitamente, come hanno sostenuto gli stessi operatori, le presenze non superavano mai le 1.000 unità. Abbiamo potuto verificare anche l’esistenza di situazioni molto critiche: nell’istituto vi sono detenuti costretti a dormire a terra senza coperte e senza materassi; altri dormono in letti a tre piani. Vi sono, inoltre, stanze di 12 metri quadri con 6 persone ed altre di 15 metri quadri con 8 detenuti. Sono stati eliminati molti spazi di socialità e cancellate numerose attività formative. La direzione del carcere ha dovuto chiedere aiuto persino alle associazioni di volontariato per ottenere coperte, materassi e vestiti. Condizioni di difficoltà aggravate dal fatto che, in molte sezioni, i detenuti restano in cella per 20 ore al giorno”. “Per noi, come per le organizzazioni internazionali - aggiungono Nieri e Gonnella - una condizione di questo genere rappresenta un trattamento inumano e degradante, che richiede una sanzione e un risarcimento. Ovviamente le nostre osservazioni non riguardano gli operatori del carcere di Regina Coeli, ma sono rivolte al Governo che ha lasciato il sistema penitenziario in queste drammatiche condizioni”. Rimini: Sappe; mancano soldi per la ristrutturazione, ma reparto tossicodipendenti ok Dire, 2 novembre 2011 “C’è un intero reparto che andrebbe ristrutturato e per il quale era stato già approvato il relativo progetto, con uno stanziamento di circa 900mila euro. Al momento, ci ha riferito la direttrice del carcere Maria Benassi, di quei soldi non abbiamo visto un euro. Probabilmente sono finiti nel calderone del piano carceri”. Così il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante, riporta oggi dopo aver visitato con una delegazione del Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria il carcere di Rimini. Durante informa in una nota di aver visto “una struttura caratterizzata da luci ed ombre, dove sono ristretti 205 detenuti (la capienza massima è pari a 208, ndr) i quali, d’estate, arrivano anche a 300, a causa dell’aumento della popolazione esterna e, quindi, dei maggiori arresti”. Dei 205 detenuti presenti a Rimini, aggiorna il quadro il Sappe in una nota, 79 sono italiani e 126 stranieri. I tossicodipendenti sono 95. Il recupero dei tossicodipendenti “costituisce il fiore all’occhiello della struttura riminese. Infatti - riporta Durante - dal 2003 ad oggi sono circa 400 i soggetti tossicodipendenti recuperati, grazie ad uno specifico percorso di reinserimento”. I tossicodipendenti che giungono nel carcere di Rimini vengono assegnati tutti in una sezione detentiva, dopo di che, se ritenuti idonei, sottoscrivono un contratto con l’amministrazione, attraverso il quale si impegnano a non fare più uso di terapie alternative ed a rispettare le regole imposte dal carcere che prevede il lavoro obbligatorio, corsi di formazione e scolastici. A questo punto i tossicodipendenti dei Casetti, spiega il segretario del Sappe, “vengono assegnati in una sezione a custodia attenuata, dove ci sono 16 posti, non incrementabili”. A Rimini il percorso viene valutato ogni 15 giorni dall’equipe formata da appartenenti all’amministrazione penitenziaria e da personale del Sert. Il tutto deve concludersi entro 8/9 mesi. Chi supera il percorso riabilitativo viene affidato ad una comunità esterna oppure, se è ancora imputato, può ottenere gli arresti domiciliari o altre misure meno rigide della custodia in carcere. Chi non supera il percorso torna nelle sezioni detentive ordinarie. “Durante il periodo di permanenza nella sezione a custodia attenuata i detenuti devono assumere anche incarichi di responsabilità, come responsabile cucina, responsabile attività ricreative e sportive, responsabile lavorazioni, proprio al fine di stimolarne il senso di responsabilità. Si tratta di un progetto ormai consolidato e all’avanguardia - sottolinea Durante - che andrebbe incrementato ed esportato in tutta Italia, al fine di consentire il pieno e totale recupero di tutti i tossicodipendenti. Ciò consentirebbe anche di deflazionare le carceri”. Reggio Emilia: paziente Opg ne manda un altro all’ospedale, aggrediti anche due agenti Dire, 2 novembre 2011 Un internato dell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia ha aggredito un altro internato, il quale, al momento, si trova ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Lo stesso internato ha ferito due agenti della polizia penitenziaria, che hanno avuto una prognosi di cinque giorni. La notizia è fornita dal segretario generale aggiunto del sindacato autonomo di polizia penitenziaria “Sappe”, Giovanni Battista Durante. L’aggressore, secondo il sindacalista sarebbe “un soggetto molto pericoloso, già allontanato da altre strutture psichiatriche, dove si era reso responsabile di fatti analoghi” sfociati in un caso in un omicidio. Per Durante è “giunto il momento di rivedere la gestione dei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani (Barcellona Pozzo di Gotto a Messina, Aversa, Napoli, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino e Castiglione delle Stiviere a Mantova), che dovrebbero essere dismessi e affidati alla gestione territoriale delle Asl, tranne per i soggetti pericolosi che dovrebbero continuare ad essere gestiti con la presenza della polizia penitenziaria”. Frosinone: gli agenti penitenziari protestano per la mancanza di personale Il Tempo, 2 novembre 2011 Una manifestazione che ha visto tutte le sigle sindacali unite. “A un anno dalla nostra ultima protesta - si legge in una nota congiunta dei sindacati rappresentati nel penitenziario - siamo costretti a dichiarare che nulla è cambiato. Il carcere di Frosinone sta per scoppiare e la carenza di personale ormai è cronica. Sappiamo con certezza solo l’orario di inizio del nostro turno di lavoro, ma non la fine. Mancano oltre 60 unità, rispetto all’organico previsto di 260. Da tempo c’è una presenza media di 525 detenuti, rispetto alla capienza dell’istituto fissata in 325. Qualcosa bisognava pur fare”. Augusta (Sr): detenuto colpito da infarto, salvato da un assistente di polizia penitenziaria www.giornaledisiracusa.it, 2 novembre 2011 Il pronto intervento di un assistente della polizia penitenziaria durante il normale controllo in carcere, salva la vita ad un detenuto colto da malore. È successo domenica sera nel Carcere di Brucoli, dove tra l’altro i problemi strutturali e la carenza di personale è da tempo denunciata dalle organizzazioni sindacali di categoria. Una storia a lieto fine che si registra in un momento storico in cui le notizie dell’attuale sistema penitenziario sono piuttosto sconfortevoli, sia per chi quotidianamente vi opera come in totale affanno, come gli agenti, sia per chi si ritrova ospite perché colpito da un provvedimento restrittivo della libertà. Il fatto è dunque avvenuto domenica sera, quando un assistente della polizia penitenziaria, tra l’altro noto sindacalista dell’Ugl, durante l’espletamento dei propri compiti istituzionali soffermava l’attenzione su di un detenuto che mostrava difficoltà respiratorie ed eccessiva sudorazione, senza che questi ne avesse richiesto l’intervento. Immediatamente l’agente si consultava con un suo superiore e, soprattutto, con il medico di guardia, il quale ricevuta la notizia sulla base della propria esperienza professionale e grazie alla dettagliata segnalazione dell’assistente, inteveniva sul posto per prestare i primi soccorsi. Preso atto della situazione, il medico, che nel frattempo si rendeva conto che lo stato di salute del detenuto rischiava di peggiorare, in quanto colto da problemi di natura cardiaca, chiedeva l’intervento del 118 per le misure più idonee alle cure del caso. Nell’attesa dell’ambulanza, purtroppo, subentravano una serie di complicazioni che inducevano il medico e i suoi collaboratori a fare più volte uso del defibrillatore, per tenere in vita il detenuto. All’arrivo dell’ambulanza, comunque, l’infartuato veniva trasferito presso la struttura ospedaliera del Muscatello di Augusta dove sono stati attuati tutti gli interventi sanitari del caso per rianimare l’uomo che adesso, stando alle notizie diffuse dall’Ugl, sarebbe fuori pericolo. E lo stesso sindacato, così come già le autorità, manifesta il proprio apprezzamento nei confronti dell’impeccabile e prudente assistente di Polizia Penitenziaria, nonché del medico del penitenziario, il quale, stando a quanto riferito dal personale che lo ha accompagnato in questo delicato episodio, ha mostrato grande senso di responsabilità professionale e determinatezza negli interminabili minuti in cui si temeva al peggio. Caltanissetta: Osapp; nelle carceri sovraffollamento e pessime condizioni strutturali La Sicilia, 2 novembre 2011 “A fronte dei quotidiani proclami che giungono da tutte le parti per fornire soluzioni al fine di risolvere il sovraffollamento delle carceri e le carenze di organico nei reparti di polizia penitenziaria, sentiamo il dovere di denunciare le pessime condizioni strutturali in cui versano gli Istituti Penitenziari di Caltanissetta e di San Cataldo”. Lo dice il vicesegretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, Mimmo Nicotra, che prosegue: “A parere di chi scrive, non dimenticando l’Istituto Penale per i Minorenni di Caltanissetta, non ha senso mantenere tre carceri nello spazio di pochi chilometri, non solo per evitare la frammentazione delle risorse, ma perché le condizioni strutturali dei predetti Istituti sono assolutamente al di fuori dai tempi. Noi crediamo che la realizzazione di un nuovo Istituto Penitenziario nell’area di Caltanissetta, dotato delle moderne tecnologie, non solo concentrerebbe le risorse economiche e di personale, ma garantirebbe a tutti, compresi i detenuti, condizioni di vivibilità migliori. Per questo - conclude Nicotra - le chiediamo di prendere in considerazione l’ipotesi che Le abbiamo segnalato invitandola, tra l’altro, a venire personalmente sul territorio per rendersi conto di persona che non ha senso tenere aperte tre strutture poco funzionali dove ne basterebbe una al passo con i tempi”. E intanto si attendono notizie circa l’apertura del carcere di Gela che, secondo le rassicurazioni di rappresentanti istituzionali e del capo del Dap, Franco Ionta, del garante per i detenuti Salvo Fleres, del vicepresidente nazionale dell’Osapp Mimmo Nicotra, della componente della commissione giustizia on Marilena Sampieri avrebbe dovuto aprire i battenti nei primi giorni di novembre. Questo infatti era emerso dopo la visita di Nicotra al carcere di Gela lo scorso 12 settembre. Alghero: la storia del carcere verrà digitalizzata dai detenuti La Nuova Sardegna, 2 novembre 2011 Ritmi di vita nella Tramariglio carceraria, numeri dei detenuti, storia delle evasioni, attività lavorative, vita sociale dei secondini. Questo e molto altro, racchiuso nell’archivio dello Stato e in quello del penitenziario,, verrà digitalizzato grazie a un importante progetto regionale inserito nei canali di finanziamento Por, dall’assessorato regionale agli Affari generali. Un imponente lavoro di ricerca di documenti, fascicoli e articoli delle cronache del tempo che verrà svolto dai detenuti di alcuni istituti di pena dell’isola con l’aiuto e consulenza di tecnici. Ben due milioni di euro le risorse messe in campo dalla Regione. Il progetto (biennale) punta ad accrescere le competenze informatiche dei detenuti, favorendo processi di inserimento sociale e consentirà così anche ai detenuti di accedere a Internet sfruttando le potenzialità dell’informatica nell’ottica di un reinserimento lavorativo. Il protocollo d’intesa è stato siglato nei giorni scorsi a Cagliari dal presidente del Parco di Porto Conte Francesco Sasso dall’assessore agli Affari generali Mario Floris, ma anche dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, dagli Archivi di Stato di Cagliari e Sassari, la Conservatoria delle Coste, il Parco nazionale dell’Asinara e dal comune di Castiadas. All’interno del centro di educazione ambientale marino e terrestre di Casa Gioiosa esiste già un percorso lungo le vecchie celle carcerarie all’interno del quale è possibile ammirare alcune foto storiche e in particolare copie di articoli di giornali relativi alle evasioni dal carcere e a episodi di cronaca di vita carceraria. Nella fase iniziale, nella quale saranno coinvolti una trentina di detenuti, si procederà alla dematerializzazione dei documenti. Poi i detenuti, affiancati da esperti, dovranno realizzare anche ricostruzioni virtuali tridimensionali delle ex-colonie, e elaborazioni di visite guidate. Bolzano: evasione di Max Leitner; per il Cappellano nessun obbligo di vigilanza o custodia Alto Adige, 2 novembre 2011 Nessuna responsabilità di carattere penale. Se il sistema carcerario ha fatto cilecca (a seguito della concessione un po’ troppo affrettata di permessi premio) la responsabilità non può certo essere del cappellano del carcere che si è semplicemente offerto ad ospitare per qualche giorno in canonica il detenuto Max Leitner. È questa, in rapida sintesi, la tesi difensiva degli avvocati difensori di don Giuseppe Bussolino, il sacerdote del carcere di Asti indagato dalla Procura della Repubblica con l’ipotesi di accusa di procurata evasione. Gli avvocati Davide Arri e Giovanni Valente di Asti non hanno dubbi: “La condotta del nostro assistito - hanno scritto in un comunicato stampa diffuso ai media - è stata tenuta in assoluta buona fede e, a nostro avviso, non riveste alcun rilievo penale”. I due legali hanno anche fatto sapere che la posizione del sacerdote, in occasione degli interrogatori cui è stato sottoposto dai carabinieri e dalla Procura, sarebbe stata sempre lineare. Nessun tentennamento, dunque, nessuna doppia versione dei fatti. Anzi. Don Giuseppe Bussolino - si legge ancora nel comunicato - ha collaborato con gli investigatori, fornendo tutte le informazioni in suo possesso su tutta la vicenda “e resta ovviamente ancora disponibile nei confronti dell’autorità giudiziaria”. Il comunicato dei due legali chiarisce però, in termini anche velatamente critici, alcuni aspetti deficitari dell’organizzazione carceraria: don Bussolino non avrebbe mai avuto notizie su chi fosse realmente Max Leitner (e sulle sue potenzialità criminali) e non avrebbe mai avuto indicazioni su come comportarsi in caso di problemi per propositi di fuga del detenuto. “Appare evidente - si legge nel comunicato - che se qualcosa non ha funzionato nel sistema, questo non possa essere addossato al nostro cliente che è un sacerdote, ruolo non assimilabile di certo a quello di un appartenente alle Forze dell’ordine”. Il giallo dei soldi cambiati dal prete Qualche giorno prima della fuga di Max Leitner il cappellano del carcere, don Giuseppe Bussolino - indagato per procurata evasione - si sarebbe recato presso un istituto bancario di Asti per cambiare dollari e franchi svizzeri in euro. Una somma ingente, secondo gli agenti della polizia penitenziaria della città piemontese. Il sacerdote, sentito più volte negli ultimi giorni, non avrebbe dato spiegazioni della provenienza del denaro. Gli investigatori, dunque, non escludono che i soldi siano stati dati al noto rapinatore di Elvas prima della, oramai, quinta fuga. Si aggrava perciò la posizione di don Giuseppe Bussolino, che - sempre secondo i verbali della polizia penitenziaria di Asti - avrebbe cambiato più volte dichiarazioni su come e quando Max Leitner si sia allontanato dal Piemonte. In un primo momento, infatti, il cappellano del carcere avrebbe segnalato che il detenuto non si era presentato in canonica, dove aveva obbligo di tornare ogni sera per le 21.30. Poi, dopo diverse ore di interrogatorio, don Giuseppe Bussolino avrebbe spiegato di avere accompagnato Max Leitner fino in Trentino, per poi ricambiare la sua versione, dicendo di averlo portato fino a Naz Sciaves, vicino ad Elvas, dove vive la famiglia del noto rapinatore. Per questo motivo, alla fine, gli investigatori hanno deciso di verificare gli ultimi spostamenti del sacerdote, scoprendo che si era rivolto ad uno sportello bancario per cambiare soldi stranieri in euro. Ieri gli agenti della polizia penitenziaria avrebbe richiesto all’istituto di credito le registrazioni delle telecamere. Don Giuseppe Bussolino, invece, continua a sostenere la propria innocenza, spiegando di essersi fidato di Max Leitner, pensando che una volta vista la famiglia sarebbe rientrato ad Asti. E intanto proseguono le ricerche da parte delle forze dell’ordine tra l’Alto Adige, il Trentino e il Piemonte. Leitner era stato arrestato la prima volta nel 1990 dalla polizia austriaca, poco prima di mettere a segno un colpo su un mezzo blindato pieno di soldi. Sin da subito, l’altoatesino ha dimostrato “insofferenza” nei confronti del carcere, tentando diverse volte la fuga e riuscendoci cinque volte in 21 anni. Per “sponsorizzare” le proprie fughe Leitner non ha mai esitato a ricorrere a furti e rapine, pur di garantirsi ingenti somme di denaro e la speranza di non essere fermato dagli investigatori. Il rapinatore, infatti, fu arrestato dopo la terza fuga, dopo avere svaligiato una banca vicino a Brunico. Milano: i detenuti di Bollate raccontano il Risorgimento in un dvd Dire, 2 novembre 2011 Sarà presentato il 3 dicembre alle 16, all’Abbazia di Chiaravalle, il dvd multimediale “Il Risorgimento italiano” creato dai detenuti del carcere di Bollate. Il progetto è stato gestito dall’associazione Gruppo Volontari, in collaborazione con Cisco System Networking Academy e laboratorio multimediale Sisifo. L’associazione, presieduta da Angelo Iacona, è una onlus nata nel 1997 per rispondere alle richieste di aiuto da parte di persone disagiate. Vi collaborano infermieri dell’ospedale Gaetano Pini, insegnanti, psicologi e persone che operano nelle carceri. Dal 2003 ha sede in via San Bernardo 2, dove ospita anziani, ragazze madri, extracomunitari senza alloggio, nonché detenuti agli arresti domiciliari o in libertà vigilata, ed ex detenuti. Negli anni ha ricevuto apprezzamenti dal direttore del carcere di San Vittore Gloria Manzelli, dal procuratore aggiunto Alberto Nobili, dal presidente dell’Ordine degli avvocati, Paolo Giuggioli. In particolare Nobili, in una lettera alla Regione e all’Asl, ha espresso “il più sincero e lusinghiero apprezzamento per l’attività svolta, per lo spirito di sacrificio, lo zelo e al tempo stesso il grande entusiasmo che anima chi partecipa a questa utilissima esperienza finalizzata al reinserimento sociale”. L’associazione, infatti, crea occasioni di lavoro per i detenuti che ora hanno creato un dvd sugli anni che fecero l’unità d’Italia, composto da 15 capitoli di testo corredati da immagini, 45 dossier fotografici, 18 brani musicali di Verdi, Donizetti, Rossini e Bellini, oltre che animazioni. Torino: ecco il “Drola Rugby”, ovvero l’ovale recluso di Andrea Spinelli Barrile Agenzia Radicale, 2 novembre 2011 Drola è il nome di una squadra di rugby piemontese che milita nel campionato di serie C; Drola, in piemontese, significa “strano”, curioso: nessun nome potrebbe essere più adeguato per questa squadra che nella palla ovale trova motivo di crescita, di riscatto sociale nel senso più stretto del termine. Drola è una squadra di rugby multietnica formata da alcuni detenuti del carcere Le Vallette di Torino, allenati dall’ex azzurro Stefano Rista e facenti capo alla Onlus Ovale dietro le sbarre nata dall’incontro di appassionati di rugby decisi a “diffonderne gli insegnamenti e i valori all’interno della società, a partire dagli strati più disagiati”; nel perfetto spirito rugbystico, nella totalità dei valori che caratterizzano questo sport, nel quale il singolo conta solo se sostenuto dai propri compagni, pronti a dare e ricevere botte per 80 minuti ritmati dalla bellezza del rugby e dall’aggregazione che solo questo sport può infondere negli spiriti degli appassionati. Dopo mesi di preparazione “dietro le sbarre” il 22 ottobre Drola ha esordito contro un Vercelli che si è imposto sui detenuti rugbysti; mai sconfitta fu tuttavia più dolce per i giocatori del Drola, che hanno visto pian piano prendere corpo ad “un progetto unico in Italia e, probabilmente, in Europa. Siamo grati ai club e alla Federugby che ha assecondato le nostre esigenze “ gioisce Pietro Buffa, direttore del carcere Le Vallette. Durezza, contatto, sostegno dei compagni, il rispetto delle regole come filosofia portante dell’intero concetto di rugby come sport e come stile di vita; da qui è partita l’idea del progetto “Ovale dietro le sbarre”, per aiutare e sostenere il bisogno e la voglia di riscatto di moldavi, tunisini, marocchini, venezuelani ed italiani agli ordini di coach Rista. Detenuti che, sparpagliati nelle disagiate e disastrose carceri italiane, sono stati trasferiti tutti in Piemonte, regalando loro il dono più prezioso per chi vive dietro le sbarre: la possibilità di recuperarsi grazie allo sport. Uno sport, il rugby, dove “sostegno” e “avanzare insieme” sono dogmi imprescindibili nella loro simbolica sintesi della vita di ognuno. “Torri, guardie armate, mura di cemento liscio alte oltre 10 metri e telecamere di sorveglianza, container adibiti a spogliatoio, terreno morbido con una bella erba. Il rettangolo di gioco è stretto e corto, su tre lati muri grigi sul quarto gli spalti, sempre di cemento, vuoti” afferma chi ha avuto l’onere di ingaggiare con la mischia del Drola, ottanta minuti di battaglia nel rispetto dell’avversario, delle regole, dell’arbitro, del rugby stesso. Forse un po’ grezzi nella qualità del gioco, inesperti e rudimentali, ma è impossibile non chiamare “squadra” questo XV: lo spirito aggregativo e solidaristico di questo sport è stato perfettamente assimilato dai giocatori del Drola, che fanno della disciplina la loro bandiera di Libertà, consci che l’errore si paga sul campo (lo stanno imparando) come nella vita (l’hanno già imparato). È incredibile quanto questo sport, che potrebbe apparire agli occhi di un profano un vero guazzabuglio di botte e violenza, riesca ad offrire nuovi ponti di collegamento alla dignità umana: quanto l’onore di appartenere ad un gruppo che suda, soffre e gioisce insieme, unito dai valori dello sport più bello del mondo, possa donare la speranza anche a chi vive il dramma delle carceri tutti i giorni. Se lo Stato dimentica chi vive nelle sue carceri, il rugby non è disposto a lasciare marcire uomini che, lo stanno dimostrando, hanno solo bisogno di un’altra opportunità per dimostrare quanto forte è la loro voglia di riscatto sociale. Se ha unito un paese come il Sudafrica, traghettandolo fuori dall’Apartheid, si immagini cosa potrebbe fare questo sport per la dignità dei detenuti in Italia. Volterra (Si): tornano dal 18 novembre le cene aperte al pubblico nella Casa di reclusione Il Tirreno, 2 novembre 2011 Tornano dal 18 novembre le cene aperte al pubblico nella casa di reclusione in collaborazione con i grandi chef toscani, tra cui Ingles Corelli, Daniele Pescatore, Stefano Pinciaroli e Debora Corsi. Il carcere di Volterra è pronto ad aprire le porte al pubblico, fino a giugno. Nell’ultima edizione sono state circa novecento le persone che hanno potuto vivere un’esperienza unica e formativa come quella di entrare in un carcere a contatto con i detenuti. Un evento dall’anima benefica visto che il ricavato anche quest’anno sarà integralmente devoluto alla campagna internazionale “Il Cuore si scioglie” (www.ilcuoresiscioglie.it), che dal 2000 vede impegnata Unicoop Firenze, insieme al mondo del volontariato laico e cattolico nella realizzazione di progetti umanitari. Non mancheranno rappresentanti della città gigliata, come Barbara Zattoni, chef dello storico ristorante “Pane e Vino” o ancora come il noto cioccolatiere Andrea Bianchini de “La Bottega del Cioccolato”. Nelle cucine della casa di reclusione anche un volto tv, lo chef Sergio Maria Teutonico, noto per la sua partecipazione alla serie “Chef per un giorno” su La7. L’iniziativa è realizzata grazie ad Unicoop Firenze. Un ruolo fondamentale della Fisar di Volterra. Apertura al pubblico alle 19,30, inizio cena alle 20; costo 35 euro (info 055.2345040). Primo appuntamento il 18 novembre: Igles Corelli, ristorante “Atman”, Pescia. Cinema: biglietti esauriti per proiezione documentario “148 Stefano. Mostri dell’inerzia” Tm News, 2 novembre 2011 La vicenda di Stefano Cucchi, il ragazzo romano che morì il 22 ottobre 2009 durante la custodia cautelare, 6 giorni dopo il suo arresto, approda al Festival di Roma. Domani sera alle 20.30 verrà proiettato il documentario “148 Stefano. Mostri dell’inerzia”, di Maurizio Cartolano, e poi il pubblico incontrerà la sorella di Cucchi, Ilaria, che da due anni si batte perché venga fatta chiarezza sulla morte del fratello. “Dopo aver mostrato le foto di Stefano morto abbiamo capito quanto sia stato importante il ruolo dell’informazione in questa vicenda: se non avessimo fatto quel gesto, per noi doloroso, per Stefano oggi si parlerebbe ancora di morte naturale. Vogliamo che più persone possibile vedano questo documentario, perché altrimenti la sua storia, come quella di molti altri, finirà nel silenzio” ha affermato Ilaria Cucchi. Dopo la proiezione al Festival, per cui sono già esauriti tutti i biglietti, il Dvd di “148 Stefano. Mostri dell’inerzia”, verrà venduto il 30 novembre con “Il Fatto Quotidiano”. Il documentario ricostruisce i 6 giorni che vanno dell’arresto di Cucchi fino alla notizia della morte, attraverso la voce dei familiari, le interviste al loro avvocato, a giornalisti e medici, a Luigi Manconi e al senatore Umberto Marino, che hanno seguito la vicenda. Oggi nel processo sul caso Cucchi ci sono 12 imputati: tre agenti penitenziari per lesioni lievi, sei medici e tre infermieri dell’ospedale Pertini per abbandono di incapace. “Basta ricordare le foto del cadavere di mio fratello per rabbrividire di fronte all’imputazione di lesioni lievi: fino al momento in cui Stefano uscì di casa, prima di essere arrestato, stava bene, sei giorni dopo è morto” ha sottolineato la sorella, che considera il processo “irrispettoso e lontano dalla realtà”, perché che secondo lei si è trasformato in “un linciaggio a Stefano e un insulto alla sua famiglia”. Nel documentario sono assenti le voci delle istituzioni coinvolte: il regista ha riferito che si sono rifiutati di parlare il direttore e il direttore sanitario del carcere di Regina Coeli e il direttore Sanitario dell’ospedale Sandro Pertini, dove il ragazzo è morto. Cartolano ha poi spiegato che il numero 148 contenuto nel titolo indica che Stefano Cucchi nel 2009 fu il 148esimo morto in carcere: “Stefano è stato nascosto, occultato, in quei giorni non hanno permesso neanche ai genitori di sapere come stava. Alla fine del 2009 sono stati 177 i morti in carcere, per 26 di questi i casi sono ancora irrisolti. Oggi ci chiediamo: Stefano è veramente l’unico ad aver subito l’effetto nefasto di questo sistema?” si domanda il regista. Cinema: “Il volto della Medusa”… dietro le sbarre di Porto Azzurro Il Giornale di Vicenza, 2 novembre 2011 Il 27 ottobre s’è iniziato a Roma il Festival internazionale del Film, manifestazione con cui sembra cordialmente antipatizzare qualche ministro veneto ma all’interno della quale, nella sezione “Off-Doc documentari indipendenti e di ricerca” è ospitata anche una regista vicentina, Donata Gallo, che da tempo si è trasferita nella città eterna senza recidere i legami con i luoghi d’origine. Come potrebbe: in città è ben vivo il ricordo del padre - Ettore Gallo: giurista, fondatore del Cln vicentino, presidente della Corte Costituzionale - cui è intitolata la sezione vicentina dell’Istituto storico della Resistenza che, per volontà dei discendenti, ospita ogni anno il Premio Gallo per giovani studiosi in discipline storiche e giuridiche. Il documentario, prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti e in passerella festivaliera nella giornata di oggi, s’intitola Il volto della Medusa. In un certo senso protagonista è l’ambiente in cui si svolge: l’Istituto penitenziario di Porto Azzurro (un tempo Porto Longone) bellissima località dell’Isola d’Elba. La seicentesca fortezza spagnola, diventata prigione nell’800, in cui hanno sostato personaggi ben noti (Graziano Mesina, Mario Tuti?), è un carcere in cui si scontano condanne definitive. A Donata Gallo abbiamo chiesto quale intendimento l’abbia spinta a portare la macchina da presa nel Forte S. Giacomo. “Un luogo di pena a picco sul mare esercita una fascinazione, suscita curiosità. In questo carcere al carattere ultimativo della condanna corrisponde una condizione di non affollamento, la disponibilità di celle singole ancorché anguste. Una serie di circostanze mi ha fatto scoprire che oltre alla condizione dei detenuti, che dovrebbe toccare ogni coscienza civile, è altrettanto interessante quella del personale di custodia”. È quasi un luogo comune che guardie e detenuti siano prigionieri delle stesse mura. “Credo che dirlo sia quasi una battuta, vederlo, toccarlo con mano nella quotidianità sia ben diverso. La cordiale disponibilità dell’istituzione mi ha permesso un contatto diretto e prolungato con le guardie carcerarie, con lo staff che organizza la vita della casa di pena e segue i singoli detenuti”. Alle prime battute del film un educatore sintetizza: questo carcere è un’isola nell’isola. Le sequenze successive ci fanno capire cosa significhi la vita del personale “accasermato”, il jogging caracollato tra un muraglione e un contrafforte, le frequenti chiamate notturne per casi d’autolesionismo... “Tra le guardie - non manca l’appassionato collezionista, sullo scaffale ma soprattutto nella memoria, dei capolavori del filone cinematografico carcerario - ho potuto cogliere una grande sensibilità. Per i detenuti che possono rivelarsi pericolosi ma che soprattutto infliggono su quanto gli è rimasto, il proprio corpo, gesti di protesta, di negazione. Ed anche per la loro vita di relazione: cercano di tutelare i congiunti nascondendo gli aspetti più duri del lavoro ma sanno bene che il mestiere lascia in loro segni indelebili rendendoli sospettosi di tutto, disponendoli a forme di pregiudizio”. Il più antipatico dei quesiti: che fare? “Il titolo del film è tratto dal libro Il ritorno del principe del giudice antimafia Roberto Scarpinato (“È come guardare il volto della Medusa, sei fortunato se il cuore non ti si impietrisce per sempre, questo è un luogo che ti fa serio”) e sembra molto adatto alla situazione attuale. Chi opera nell’istituto non dimentica il compito di creare buoni cittadini piuttosto che buoni carcerati. Ma è essenziale che i tagli delle risorse e la mancanza di lavoro non facciano diventare una vuota giaculatoria da manuale la missione del carcere di dare concretezza, pagato il danno sociale, alla speranza di un ritorno nella società”. Sono argomenti su cui sembrerebbe opportuno confrontarsi. “In contemporanea alla presentazione del documentario le Biblioteche di Roma hanno organizzato un incontro con l’autore e da alcune case di pena italiane giungono richieste per proiezioni e dibattiti. È il modo migliore per utilizzare questo lavoro che, con le immaginabili limitazioni finanziarie d’attualità, ho dedicato a persone e problemi reali”. Scene di ordinaria vita carceraria la convivenza malgrado tutto (La Repubblica) “Il volto della Medusa” di Donata Gallo è stato girato nel carcere di Porto Azzurro. La realtà di un penitenziario vista attraverso gli occhi di chi ci lavora. Il titolo preso in prestito da un libro del magistrato antimafia Roberto Scarpinato. La sala della Casa del Cinema è strapiena - c’è anche il magistrato Roberto Scarpinato - ma non si proietta un film. Il volto della Medusa, il documentario di Donata Gallo, presentato nella sezione Off-doc del Festival di Roma, racconta la vita nel carcere di Porto Azzurro. Una giornata tipo delle persone che ci lavorano: agenti di polizia penitenziaria, educatori, psicologi, il direttore che spiega come “un carcere non debba creare buoni detenuti ma buoni cittadini”. E la vita dei detenuti, la realtà nuda e cruda. “Viviamo reclusi, come loro”, dicono le guardie che si confrontano con la loro vita, fuori dalla fortezza. “Io cerco di non portarmi il lavoro a casa”, sottolinea una di loro. Un collega: “Facendo questo mestiere diventi diffidente, sei pieno di preconcetti sulle persone, ti guardi in giro e pensi: quello sarà un pregiudicato? Devi toglierti la divisa e tornare alla vita”. Un altro vede solo film che parlano della prigione: Fuga da Alcatraz, Le ali della libertà, lo prendono in giro, li conosce a memoria. La regista filma le riunioni degli operatori che cercano di valutare i comportamenti, per restituire - parzialmente - i detenuti alla vita, “fuori”, per dargli la possibilità di accorciare il tempo “dentro”. Fuori c’è il mare, la bellezza degli scorci dell’isola dell’Elba, il sole che tramonta; il contrasto è stridente Ogni detenuto ha esigenze diverse, c’è chi vuole un lavoro, chi si preoccupa del “dopo”, “perché se non vedi tuo figlio per quindici anni poi sei un estraneo per lui”. E c’è chi preferisce non incontrare il figlio piccolo in carcere, gli ha detto che è in viaggio. Le guardie si confrontano con situazioni estreme, tentativi di suicidio: c’è chi ha ingoiato una lametta, chi si continua a tagiuzzare lo stomaco, chi si è cosparso d’olio per provare a darsi fuoco. “A volte è questione di minuti, io sono corso che un ragazzo si voleva impiccare, aveva già legato le lenzuola. Hanno tutti l’epatite, bisogna stare attenti, devi portarti sempre i guanti, io ne tengo tre-quattro paia in tasca”. Ma spesso mancano i soldi, e mancano anche i guanti. Prodotto da Carlo degli Esposti, il documentario fotografa una realtà difficile, dolorosa, che apre una serie di interrogativi sul carcere. L’emergenza è quotidiana, ma la vita a Porto Azzurro scorre. Rodriguez può tornare a casa, gli hanno concesso i domiciliari e sarà libero dalle 9 alle 12 di mattina, gli spiegano che deve rigare dritto, che non può incontrare pregiudicati, deve firmare alcune carte e può andare. Annuisce. “Quando?”. “Oggi esci, basta che sbrighi le pratiche, ritiri la tua roba in magazzino”. La gioia è incontenibile. Chi fa la fila per telefonare protesta, non ha risposto nessuno, dovrà aspettare un altro turno. Trecento quarantatré detenuti, 119 guardie, quattro educatori, i tagli colpiscono ovunque. “Frequentando l’isola d’Elba mi sono resa conto che tutti avevano un padre o un fratello che ha lavorato lì”, racconta Donata Gallo “così ho deciso di fare un film sul personale del carcere. L’impatto è stato molto forte, uno shock, per questo mi è venuto in mente il mito della Gorgone Medusa. Il titolo è preso in prestito dalle pagine di un libro molto amato scritto dal magistrato antimafia Roberto Scarpinato, Il ritorno del principe: “È come guardare il volto della Medusa, sei fortunato se il cuore non ti si impietrisce per sempre, questo è un luogo che ti fa seriò e mi sembra molto adatto alla situazione. In carcere c’è disperazione, solitudine, miseria, ma ho posto un accento molto forte sulla convivenza tra il personale carcerario, persone splendide, e i reclusi. Non ho avuto difficoltà a girare, ma chi lavora in un carcere è abituato al silenzio e alla discrezione, quindi abbiamo deciso qualche argomento da affrontare davanti alla macchina da presa, eravamo solo io e un operatore. Non c’è stato nessun protagonismo da parte dei detenuti, anzi”. I detenuti non hanno visto il film, gli operatori sì. Una di loro commenta: “Prima avevamo qualche perplessità che potesse venire fuori un ritratto stereotipato, ma il film racconta la nostra realtà”. Stati Uniti: il caso Parlanti e il caso Knox… le riflessioni di Katia Anedda www.cadoinpiedi.it, 2 novembre 2011 Un parallelismo tra il caso Knox e quello di Carlo Parlanti, detenuto ingiustamente negli Usa per una falsa accusa di stupro. In queste ultime settimane si è parlato molto del caso di Perugia; prima di continuare l’odissea di Carlo Parlanti di cui vogliamo analizzare la storia con occhi “profani”, propongo di fare un parallelo con il caso suddetto, che è conosciuto come il caso “Knox”. Se si parla dei tanti detenuti italiani all’estero, spesso ingiustamente condannati, o se si vuole parlare del caso Parlanti (su cui sono stati scritti libri da criminologi di tutto rispetto vedesi “Stupro processi perversi - il caso Parlanti”, relazioni professionali come quella della dottoressa Agnesina Pozzi, analisi come quella del prof. Marco Strano, o ancora, rapporti come quelli del dott. Marc Snyder, quindi parliamo di rapporti internazionali non solo italiani) si vuole parlare di detenuti italiani in genere. In questi casi si accenna all’ingiustizia o alle difficoltà di una detenzione oltre confine e non si puntualizza, come in questo caso particolare (Parlanti), che ci siano prove, certezze, di crimini commessi da medici che pur di fare ottenere un cospicuo risarcimento alla presunta vittima hanno violato la legge. Se si vuole parlare invece della barbara uccisione di una giovane ragazza inglese “Meredith Kercher” si parla di “Amanda Knox”, la giovane coinquilina “condannata ingiustamente”, facendoci sparare addosso fango dalla stampa americana, si sciorinano supposizioni a libera interpretazione, si parla di un sistema legale senza conoscerlo, ci si convince e si dice, che la “povera Amanda Knox” sia stata presa di mira dai magistrati italiani, e ci si divide tra innocentisti e colpevolisti, pur non rendendo ufficiali e visibili i fatti, come invece succede nel caso Parlanti, per il quale ci sono a disposizione atti del processo, perizie mediche, documenti tenuti nascosti alla stessa giuria. Io non sono nè una colpevolista, né un innocentista, ma penso: se Chicco Forti viene tenuto in prigione in Florida basandosi sulle stesse supposizioni del caso “Knox” e se Carlo Parlanti viene giornalmente umiliato, tenuto recluso e azzittito dall’indifferenza in un carcere californiano, basandosi su un verdetto della giuria popolare (ricordiamo, molto diversa dai nostri giudici popolari), nel cui caso sono evidenti e certificati documenti prodotti ad hoc, senza andare ad indagare chi ha violato la legge e nel benestare tacito del nostro governo, sono convinta che la legge non stia funzionando, né da una parte ne dall’altra. Sono convinta che i mezzi mediatici nazionali, a differenza di quelli americani che “puliscono” le nefandezze del loro sistema altrimenti visibili al mondo, stiano rovinando ancora di più l’immagine del mio paese divenendo inattendibili. Questo mi preoccupa. Dopo questa lunga premessa ritorniamo al nostro connazionale che nello spirito di ricerca di giustizia ci continua a raccontare uno stalking subito dalla sua terapista che lo ha portato oggi ad avere meno mezzi per difendersi a causa dei pregiudizi che accecano spesso i fatti. La persecuzione continua e ci avviciniamo all’udienza. Ridiamo, come è spirito di “Prigionieri del Silenzio”, la parola al nostro connazionale Carlo Parlanti, al fine di raccontarci cosa succede ad un uomo non americano accusato da un’ opportunista del posto, ben intesso che non ho detto “l’opportunista” ma “un’opportunista”. Il giorno dopo San Valentino lei scrisse una lettera dichiarando che io ero un pazzo e pericoloso criminale e dovevo essere deportato o arrestato se le autorità non lo avessero fatto, prima o poi avrei ucciso qualcuno. Lei mandò la lettera alla polizia, al pm, al giudice, all’immigrazione e al mio psichiatra Johnson. Ebbi un crollo nervoso. Il 14 aprile 2001, andai in motocicletta per il pranzo a Big Sur con la mia amica Daniela. Prendemmo un caffè al Nepenthe bar in Big Sur, quando seppi che Sandra stava sulle scale guardando come se volesse trovare qualcuno sul patio. Chiesi alla mia amica di andarcene, spiegai brevemente il perché, avevo un ordine di restrizione, e guidai verso il mio appartamento in Monterey. Sandra non ci vide. Venni a conoscenza in un secondo momento dalle sue dichiarazioni, che quando io la sorpassai sulla strada per andare a Big Sur lei mi seguì verso Nepenthe perché considerava questa, una violazione dell’ordine di restrizione nei miei confronti. Venni a conoscenza, dalle dichiarazioni che la mia domestica rilasciò a Richard (detective della difesa) , la ragione per la quale Sandra fosse al corrente che io avessi una nuova Ducati nera (ai tempi in cui ci frequentavamo avevo una Suzuki rossa): lei veniva spesso verso il mio appartamento per controllarmi, in completa violazione dell’ordinanza restrittiva. Il 28 Aprile 2001, incontrai al centro di Monterey la mia amica Cindy, passammo insieme tutto il pomeriggio sino alle sette della sera e andammo nel mio ristorante preferito a Monterey “Tutto Buono”. Appena entrai nel ristorante mi accorsi che Sandra era lì a cena con sua figlia e il ragazzo della figlia, così chiesi alla mia amica di andarcene. Spiegai brevemente del mio ordine di restrizione e andammo in un altro ristorante per cena. Dopo cena, ci recammo nel mio appartamento. Stavamo per andare a letto erano circa le 12.30 e la polizia bussò alla mia porta. Erano l’ufficiale Reyes e l’ufficiale Norogreen. Mi dissero cha Sandra aveva lasciato un libro da me e voleva entrare per riprenderselo. Quando spiegai loro che lei era la mia terapista e stava cercando di opprimermi, che io non avevo nulla di suo e lei non poteva entrare nel mio appartamento, anche perché avevo un ordine di restrizione, loro sorrisero e mi chiesero di lasciare entrare sua madre, mentre Sandra aspettava all’esterno per assicurarsi che non fosse rimasto nulla di suo nel mio appartamento. Offeso dall’episodio, chiesi il loro biglietto da visita annunciando che avrei chiamato il mio avvocato se non se ne fossero andati immediatamente. L’ufficiale Reyes mi dette il suo biglietto da visita e l’ufficiale Norogreen mi fece leggere il suo nome scritto sul biglietto senza darmelo. Imparai molto presto che non avrei dovuto impedire il tormento: l’ufficiale Reyes era lo stesso che avrebbe contribuito al mio ridicolo arresto del 25 maggio. Il 25 maggio stavo tornando, come ero solito fare, dalla piscina al centro di Monterey e tornavo a piedi dalla palestra verso il ristorante Tutto Buono per cenare. Quando arrivai vidi seduta di fronte Sandra che ancora cenava lì (quello era il mio ristorante preferito e ora lei ci andava tutte le settimane). Abbandonai l’idea e andai a cenare al ristorante Cibo, all’opposto di Alvarado Street. Dopo cena, tornavo indietro sulla Alvarado Street, quando vidi la mia amica Cindy nel ristorante Lollapalooza. Bevvi un’acqua tonica e stavo parlando con Cindy quando, l’ufficiale Reyes e un altro ufficiale entrarono nel ristorante e mi chiesero di uscire con loro. Un altro ufficiale con vestiti civili era fuori. Loro mi chiesero perché avevo guardato Sandra in modo aggressivo qualche ora prima. Uno degli ufficiali tornò nel ristorante per vedere cosa stessi bevendo (mi era proibito bere alcolici). Accertatosi che non era un alcolico quanto stessi bevendo misurarono la distanza tra il ristorante in cui ero e il ristorante in cui era Sandra per vedere se fossero meno di 100 metri e io avessi violato l’ordine restrittivo. Cominciarono a tormentarmi e a dirmi che sentivano odore d’alcool e che avrebbero chiamato un ufficiale che avrebbe detto di sentire l’odore di alcool. Loro sentirono il mio alito dicendo di aver trovato una quantità d’alcool e mi arrestarono schiaffeggiandomi e sbattendomi sul cofano della macchina, di fronte al ristorante “Tutto Buono”, dove c’era Sandra e il personale del ristorante potrebbe testimoniare il tipo di test eseguito su di me. Alla prigione di Monterey un ufficiale mi disse che Sandra aveva chiamato l’Ins (Immigration & Naturalization Service), loro avrebbero emesso un fermo su di me e qualcuno sarebbe venuto per deportarmi il lunedì seguente. Durante il viaggio verso la prigione di Salinas mi tormentarono dicendo che sarei dovuto starmene a casa quella sera così ora non avrei pagato per la mia stupidità. Passai 17 giorni in prigione. Ins non venne a prendermi. Fui portato davanti al giudice 4 volte. La prima volta Arlene, il mio avvocato, non era presente. La seconda volta non c’era il giudice. La terza volta un giudice sostitutivo (Philips forse), sentito quanto successo ha voluto ascoltare l’ufficiale che mi aveva arrestato, Sandra e sapere I miei dati. L’ultima volta fui rilasciato e il giudice disse che i 17 giorni erano per pagare la mia infrazione (per l’alcool) e disse all’ufficiale e Sandra che era assurdo pretendere che io non andassi fuori a cena. Durante questo periodo Arlen scoprì che Sandra aveva chiamato e pressato Ins per chiedere di deportarmi. Lei alla fine fece escalation verso il capo dell’ufficio immigrazione che le parlò per calmare le acque. Il 3 agosto, ci fu l’udienza per l’episodio di dicembre 2000. Io tornai dall’Italia; erano presenti mio fratello, la sua ragazza e la mia domestica, Ricahrd, Bud e Arlene. Arlene concordò con il PM di non contestare l’istanza di maltrattamenti promettendomi che non avrei dovuto pagare nulla, né tempo né soldi. Loro cercarono di insistere per farmi partecipare a delle riunioni di persone che erano state violente, ma quello che potevo promettere era di continuare le sedute con il mio psicanalista e il pm accettò. Quando capii che l’ordine di restrizione non veniva tolto, dissi ad Arlene che volevo il processo, perché questo danneggiava i miei viaggi e volevo contattare l’assicurazione di lei. L’avvocato mi convinse di dichiarare che io avessi preso Sandra e l’avessi strattonata fuori dal mio appartamento, se fossi andato in processo avrei avuto problemi con l’immigrazione, quindi non avevo altra alternativa. Accettai la sentenza e solo ora sto scoprendo, che in realtà ho accettato di essere dichiarato come un violento che ha violato diverse volte l’ordinanza restrittiva invece che una persona che ha buttato fuori di casa la sua terapista viziosa che ha abusato della sua professione per circuirmi. Quindi stavo anche scoprendo che le mie premonizioni circa Sandra erano corrette. Queste dichiarazioni tratte da un documento confidenziale depositato alla procura americana non vengono prese in considerazione, nonostante le conferme da parte degli attori a contorno, nemmeno in minima parte di quanto oggi vengano prese in considerazione le diffamazioni di Amanda Knox nei confronti delle guardie della prigione di Perugia e delle compagne di dipartimento carcerario (le altre detenute) che secondo i racconti alla Cnn, Cbs, al programma 48 hours facilmente consultabile, avrebbero cercato di abusare sessualmente la povera Amanda, che in realtà da quanto possono invece giurare frequentatori della prigione e guardie, nonché polizia era l’unica a non essere ammanettata nemmeno lungo le trasferte all’esterno della prigione. Medio Oriente: sciopero della fame dei detenuti contro protrarsi di restrizioni e punizioni Infopal, 2 novembre 2011 I prigionieri palestinesi detenuti nel carcere israeliano di Nafha e quelli che sono ricoverati in modo permanente nella clinica della prigione di Ramla hanno indetto una giornata di sciopero della fame oggi in protesta alla protrarsi dell’imposizione di restrizioni e punizioni da parte dell’amministrazione carceraria israeliana. Da due mesi, Israele vieta ai detenuti palestinesi di ricevere le visite dall’esterno e quelle interne, quindi vieta ai detenuti che si trovano in diverse celle di potersi incontrare all’interno del penitenziario. Sono stati confiscati loro gli apparecchi elettronici, non hanno più diritto a frequentare la cosiddetta cantina, una sorta di baretto nel carcere, ed è stata ridotta di un’ora la pausa all’aria aperta. Il centro per la difesa dei prigionieri palestinesi con Riyad al-Ashqar denuncia questa situazione insieme al recente trasferimento di un detenuto palestinese malato verso un’altra sezione, composta da 4 celle e priva di cucina. I prigionieri fanno sapere che respingeranno i tre pasti giornalieri fino a che non verranno ascoltate e accolte le proprie richieste. “Fare epressioni per il rispetto dei loro diritti, per fare in modo che i responsabili israeliani migliorino le condizioni umane dei detenuti e pongano fine alle detenzioni in isolamento”, ha concluso al-Ashar nel proprio comunicato rivolto al pubblico. Arabia Saudita: scarcerati 17 sciiti detenuti in seguito alle manifestazioni primavera Agi, 2 novembre 2011 Le autorità saudite hanno scarcerato 17 sciiti detenuti in seguito alle manifestazioni scoppiate in primavera nell’est del Paese: a renderlo noto sono stati alcuni attivisti i quali, tuttavia, hanno sottolineato che nelle carceri del regno si trovano rinchiusi ancora decine di sciiti. “Alcuni dei prigionieri sono già tornati alle loro case”, ha affermato un attivista. Le persone rilasciate sono tutte originarie della regione di Al Qatif; erano state arrestate nel corso di una manifestazione in sostegno della rivolta della maggioranza sciita nel vicino Bahrein, governato da una dinastia sunnita che Riad ha aiutato inviando proprie truppe per sedare le piazze. Ucraina: l’ex premier Tymoshenko dalla cella chiede a Ue firma accordo con Kiev Tm News, 2 novembre 2011 L’ex premier ucraino Yulia Tymoshenko, dal carcere, chiede all’Unione europea di firmare l’accordo di associazione con l’Ucraina, nonostante il “sabotaggio” da parte del potere di Kiev, pensando “alle aspirazioni europee del popolo ucraino”. Dopo la condanna di Tymoshenko per abuso d’ufficio l’11 ottobre scorso, l’Ue ha rinviato a data da destinarsi la visita del presidente ucraino Viktor Yanukovich a Bruxelles, prevista per il 20 ottobre, e vari governi europei hanno condizionato la firma dell’accordo di associazione, ormai praticamente pronto, alla liberazione del leader d’opposizione. Yanukovich “rifiuta deliberatamente” di cessare la repressione dell’opposizione, scrive Tymoshenko in una lettera in inglese diffusa dal suo servizio stampa. “Vi chiedo di firmare l’accordo di associazione qualunque sia la mia sorte”, prosegue. “Vi chiedo di non tener conto del sabotaggio deliberato da parte del governo ucraino” insiste Tymoshenko, condannata per la firma nel 2009, quando era premier, dei contratti di fornitura del gas con la Russia, ritenuti oggi svantaggiosi dal nuovo governo di Kiev. “Prendendo questa decisione cruciale, pensate soprattutto alle aspirazioni europee del popolo ucraino “ conclude. L’Unione europea e l’Ucraina hanno annunciato a ottobre la chiusura del negoziato tecnico sull’accordo di associazione, ma la firma è diventata più incerta con la condanna di Tymoshenko, al termine di una processo che gli europei denunciano come politico. Egitto: consiglio militare grazia 334 detenuti, dopo polemiche per arresto noto blogger Ansa, 2 novembre 2011 Il consiglio militare egiziano ha graziato 334 persone condannate in via definitiva dai tribunali militari. Lo rende noto un comunicato del consiglio militare, spiegando che la decisione è stata presa dal capo della giunta militare Hussein Tantawi, “nella convinzione di essere sempre vicino al popolo egiziano”. I nomi dei detenuti graziati verranno resi pubblici, sottolinea il comunicato che arriva dopo giorni di roventi polemiche per l’arresto del noto blogger Alaa el Fattah. Secondo attivisti e Ong sono 12.000 le persone giudicate dai tribunali militari egiziani dalla fine del regime di Hosni Mubarak a febbraio.