I genitori dei “cattivi” Il Mattino di Padova, 28 novembre 2011 Ci piace sempre immaginare che in carcere ci finiscano “i cattivi”, e che i cattivi siano figli di nessuno, e invece no, i cattivi hanno dei genitori, spesso hanno delle famiglie che vengono travolte dal loro reato e sono del tutto innocenti, non hanno mai avuto a che fare con la Giustizia, e si ritrovano di colpo un figlio in galera e loro additati come “i genitori di…”. Ecco perché è un buon esercizio di umanità provare a mettersi sempre dalla parte dell’altro, quindi non immaginare solo di essere i famigliari della vittima, ma esercitarsi a pensare che potrebbe capitare a un nostro figlio di varcare la soglia del carcere. Come raccontare ai miei una verità così angosciante? Subito dopo aver commesso il reato per cui sto scontando una lunga pena, sono stato fermato e trasferito in carcere dove, dopo tre giorni, è stato confermato il mio arresto. Certo non avrei mai pensato di poter uccidere per dovermi difendere, assieme ad altri miei parenti, da quella che è stata l’ultima delle tante aggressioni subite da parte di connazionali residenti nei paesi vicini. E ora come raccontare ai miei che avrei dovuto rimanere rinchiuso in carcere per 22 anni? Come convivere con quel grandissimo dolore, la delusione, la valutazione della gravità che ricadeva si addosso a me, ma anche a tutto il mio nucleo famigliare? Era sabato 9 agosto del 2008 quando ho fatto il primo colloquio con mia mamma; lei, appena mi ha visto, è scoppiata a piangere e mi ha abbracciato dicendomi: “Che terremoto che è arrivato nella nostra vita!”, ed io pure ero abbattuto, ma non volendo far percepire la mia disperazione le ho risposto cercando di renderle meno pesante la realtà: “Mamma non piangere, non è che abbiamo cercato noi lo scontro, noi non volevamo arrivare a quello che è accaduto”. Lei ha cominciato a chiedermi come stavo in carcere e, prima di uscire dalla sala colloqui, per farmi capire che mi erano vicini e non mi avrebbero abbandonato, mi ha lasciato dicendomi che ci saremmo rivisti prestissimo, il lunedì successivo. Il lunedì è arrivato e assieme a mia mamma c’era, per la prima volta, anche mio papà. Lui si è subito interessato a come era andato il mio interrogatorio per capire se avevo detto la verità, se avevo risposto a tutte le domande, come stavano veramente le cose. Continuava a chiedermi: “Qual è la verità?”, “Come è successo il fatto?”. Non mi veniva nessuna risposta, e allora ho cercato di cambiare discorso, mia madre intanto non staccava mai i suoi occhi che penetravano i miei per leggere dentro di me e capire se i miei atteggiamenti potevano far pensare che non gliela raccontavo giusta. Quanto dolore ho seminato e con quanta disperazione i miei genitori e tutta la mia famiglia stavano vivendo questa tremenda situazione! Ora dovrò affrontare la mia lunga assenza da casa portando il peso di un atto terribile, un peso che viene condiviso anche dai miei cari. Chissà quante persone, vedendoli, li indicherà come i genitori di chi ha ucciso, anche se per difesa. Si sentiranno allontanati e loro stessi avranno timore a mostrarsi in un paese nel quale sono arrivati tanti anni fa e si erano inseriti bene, con una propria attività. La cosa forse sarebbe meno difficile se si trovassero in una grande città. Ma in un luogo così piccolo, tutto è compromesso. L’unica cosa buona è che loro cercheranno di starmi vicino e di aiutarmi in questa lunga detenzione. Qamar A. Tendiamo tutti a nascondere come stanno realmente le cose Quando si finisce in carcere non è facile mantenere i rapporti con i propri famigliari. Io sono un detenuto straniero e sto scontando una condanna di 10 anni. Fin da subito ho pensato di non poter mentire ai miei famigliari. Ho deciso dopo un mese dall’arresto di scriver loro una lettera spiegandogli come stavano le cose, anche se loro erano già stati messi al corrente da altri miei connazionali. Dopo circa quattro mesi ho potuto telefonare per la prima volta a casa. L’impatto non è stato facile, specialmente con mia madre che appena mi ha sentito ha reagito piangendo. Con mio padre invece è stato subito diverso, lui era convinto che anche in Italia io continuassi a lavorare onestamente così come ho sempre fatto in Tunisia, era convinto che i soldi che gli mandavo erano frutto del mio lavoro. Oggi è deluso dalle mie scelte, anche perché è molto religioso e inoltre ha paura che io possa essere di cattivo esempio per i miei fratelli più piccoli. Ancora oggi, dopo quasi quattro anni, a volte capita che preferisce non venire al telefono fingendo di dormire o al massimo si limita in pochi secondi a domandarmi come sto. Con mia madre il rapporto è migliore, lei vorrebbe addirittura venirmi a trovare, ma sono io a dirle di no perché conosco le difficoltà, anche quelle che ci sono per ottenere un visto. Nonostante tra noi ci sia ancora un rapporto, quello che ci diciamo per telefono non è mai la verità, se lei mi chiede come sto io rispondo bene e se io lo chiedo a lei, mi risponde lo stesso. Ma io sono consapevole che data l’età, e conoscendo il loro stato di salute, i miei genitori non possono stare sempre bene, e loro hanno la stessa consapevolezza che anch’io, visto il posto in cui mi trovo, non possa stare sempre bene. Tendiamo entrambi a nascondere come stanno realmente le cose per non far preoccupare l’altro, e quello che si è venuto a creare non è un rapporto del tutto sincero. Sono stato sempre consapevole che con i miei comportamenti avrei potuto causare delle conseguenze pesanti, ma nonostante ciò ho preferito continuare a vivere in un certo modo e mi rendo conto che oggi la mia famiglia sta pagando per delle mie scelte sbagliate. Prego Dio di avere almeno un’altra volta la possibilità di vedere i miei genitori fuori dal carcere e di poterli finalmente riabbracciare. Mohamed T. Mio padre mi sarà sempre vicino, caricandosi questo fardello che sono stato io a dargli È stato difficile dire il mio reato ai miei genitori, soprattutto a mio padre, che è una persona ligia e onestissima, sempre pronto a rimproverare chi non era rispettoso delle regole e delle persone. Fino a che non è venuto a trovarmi dall’Albania, nonostante mi chiedesse il motivo per cui ero finito in carcere, avevo sempre cercato, quando gli scrivevo, di essere vago, non riuscivo a dirgli quanto era realmente successo, e dirgli in una lettera quale è stato il motivo del mio reato non era per niente facile, mi sentivo come una persona che aveva tradito le sue aspettative, specialmente con il reato che avevo commesso, un reato di sangue, un omicidio. Però a mio padre dovevo spiegare come sono andate veramente le cose, glielo dovevo proprio. Quando è venuto a colloquio gli ho detto tutta la verità. Però non subito, la prima ora è stata tranquilla, ci siamo chiesti altre cose della vita, anche perché ogni volta che cercava di portarmi a parlare del mio reato, io cambiavo discorso, una volta, due, poi ho pensato dentro di me: lui è venuto dall’Albania per trovare me ed io perché non dovrei dirgli come sono andate le cose? Ho cominciato a raccontarglielo e lui mi ha fermato e mi ha detto “Guarda, se non te la senti di raccontarmelo questa volta, me lo dirai la prossima volta, però voglio sapere la verità”. Quelle parole mi hanno commosso e allora ho cominciato a raccontare, però non riuscivo a guardarlo in faccia, è stato molto difficile e mi vergognavo tantissimo. Alla fine, mio padre ha detto che ormai è successo, che non si può tornare indietro nel tempo, magari si potesse fare. Quando ho finito di raccontare ho pensato: “Adesso mi odierà”, e gli ho detto: “Questa è la verità, adesso tocca a te giudicarmi”. Lui non ha pronunciato neanche una parola, ha fatto solo un movimento con la testa per dire: “Che ti devo dire, mica hai fatto una cosa giusta?!”. Si è alzato e ci siamo abbracciati, commossi, senza dire una parola, ma nonostante tutto io ero certo che, anche se con una enorme tristezza, mio padre mi sarebbe stato vicino, caricandosi questo ulteriore fardello che ero stato io a dargli. Questa immagine e tutti gli attimi di quel colloquio mi sono impressi nella mente come macigni, e ogni volta sento la difficoltà e la sofferenza che può provare un padre come il mio, che sicuramente immaginava per me una vita totalmente diversa da quella che sto affrontando ora. Pjerin K. Giustizia: Severino; no a provvedimenti svuota-celle, l’amnistia è materia del Parlamento Dire, 28 novembre 2011 “È presto per sapere quali sono le priorità, domani ci saranno le audizioni in parlamento” davanti alla commissione Giustizia del Senato prima e mercoledì alla Camera e “non sarebbe corretto anticipare il programma”. È quanto dice Paola Severino incontrando i giornalisti al ministero della Giustizia. Ma tra i “parametri” che orienteranno l’azione del suo dicastero, promette, “vi saranno l’efficienza e il risparmio” che porterà innanzitutto a “un taglio degli sprechi”. Il guardasigilli spiega: “C’è molta aspettativa” sull’operato dei nuovi ministri, “è normale, ci sono materie su cui si può trovare il consenso di tutti. Ma sui provvedimenti che serviranno a coniugare efficienza e risparmio io chiederò una corsia preferenziale”. Per Severino “il binomio tra efficienza e risparmio” è la strada “su cui procedere” quanto ai nuovi provvedimenti in materia di giustizia. Sull’entità dei ‘taglì, spiega: “I numeri non sono il mio forte, quando parlo di risparmi ne parlo in termini concettuali. Toccherà agli esperti quantificarli”. Ovviamente, continua, “se ci sono degli sprechi vanno eliminati così come si sta facendo per tutto il resto”. La filosofia dell’austerity come metodo di governo, spiega che è una convinzione che gli deriva “da un’abitudine di vita, mi prendono anche in giro”. E ai cronisti racconta un aneddoto di stamattina: “Dovevo prenotare un ristorante e alcuni si sono stupiti perché ho fatto da sola pur avendo una segreteria e una segretaria. Io sono così...”. Il problema delle carceri “è un’emergenza” che “non può essere affrontato con dei palliativi che abbassano solo momentaneamente” il numero di chi sta in cella. Quello del sovraffollamento delle carceri, spiega, “la considero un’emergenza. Non voglio essere troppo ottimista ma su un tema del genere penso che si possano trovare delle intese serie” tra le forze politiche. E continua: “Sto studiando molto il problema delle carceri, lo sto approfondendo e penso che non ci si possa limitare allo svuotamento con provvedimenti provvisori: sarebbe come svuotare il mare con un cucchiaino. Io vorrei proporre, se potessi, degli strumenti che stabilizzino la situazione, con provvedimenti che non siano provvisori ed emergenziali”. Ad esempio, una prospettiva “sarebbe quella di implementare le misure alternative al carcere, garantendo nel contempo la sicurezza dei cittadini e i diritti di giustizia delle vittime”. Per il Guardasigilli, occorre “stabilizzare i flussi tra chi entra e chi esce” dalla galera. “Se su questo- aggiunge- ci fosse il consenso delle forze politiche sarebbe un mio obiettivo”. A chi gli chiede quale sia la sua posizione sull’amnistia, chiesta ad esempio con forza dai Radicali, Severino risponde: “Si tratta di un provvedimento non di matrice governativa ma di matrice parlamentare. È il parlamento che su questo deve assumere una posizione, se la assumesse il governo sarebbe un’invasione di campo e non mi sembra corretto invadere le competenze altrui come inizio”. Un intervento contro “le carceri strapiene”, come le definisce il ministro della Giustizia, “è un problema condiviso da tutti che va affrontato con la massima efficacia e rapidità - dice Severino - cercheremo di mettere a punto dei provvedimenti che non siano solo dei palliativi per abbassare momentaneamente il numero dei carcerati”. Occorre arrivare, continua il guardasigilli “al raggiungimento di un numero standard” di persone in carcere senza arrivare a situazioni emergenziali per il sovraffollamento”. Le misure a cui lavorerà il governo, conclude Severino, serviranno “da un lato a diminuire la presenza” di detenuti in carcere quando di possono attuare misure alternative “dall’altro lato a garantire nel contempo i diritti di giustizia dei cittadini”. In materia di giustizia “credo che si debba iniziare dai temi che si possono condividere. Iniziare dai temi controversi è qualcosa che sarebbe tatticamente sbagliato”. Risponde così Paola Severino ai cronisti che gli chiedono che cosa succederà dei provvedimenti del governo Berlusconi che più hanno fatto discutere come la prescrizione breve, il processo lungo o il ddl intercettazioni. Partendo dalla sua esperienza di avvocato, il nuovo ministro della Giustizia, spiega: “Nell’arringa difensiva si parte sempre dai temi consolidati per poi passare ai temi più discussi”. Fuor di metafora aggiunge: “Se non si trova un modo per dialogare” in parlamento “per intendersi prima, poi non si arriva al giorno dopo. È questo il criterio che io certamente cercherò di portare avanti”. Dall’insediamento in via Arenula “mi sono informata sui provvedimenti delle ultime legislature, non solo di quella in corso - continua - e ne ho trovati tanti che non conoscevo. Mi sono dedicata allo studio di questi provvedimenti e ho cominciato a pensare alle linee guida”. Ma quando le si parla esplicitamente di prescrizione breve, intercettazioni e processo lungo, risponde: “Sono temi che conosco. Io i miei parametri ve li ho dati”, ossia quelli della condivisione ma anche dell’”efficienza e del risparmio” della macchina giustizia. “Sono i criteri - conclude - da cui si deve partire, gli approfondimenti si fanno successivamente”. Vitali (Pdl): condivisibile opinione ministro Severino “Non si può non essere d’accordo con il ministro della Giustizia Paola Severino che ritiene necessarie soluzioni durature per risolvere l’emergenza carceraria piuttosto che palliativi come potrebbe essere l’amnistia”. Lo dice Luigi Vitali, responsabile nazionale dell’Ordinamento Penitenziario del Pdl, commentando alcune dichiarazioni del neo Guardasigilli. “Allora si proceda tempestivamente con un processo di depenalizzazione, per altro già avviato dal ministro Palma- prosegue- l’esponente del Pdl- e si introduca l’istituto della messa alla prova, già operante nel diritto minorile, nonché la possibilità del giudice di affidare ai servizi sociali già con la sentenza di condanna. Basterebbero queste tre misure- conclude Vitali- per attuare o per realizzare un consistente deflazionamento delle presenze all’interno dei nostri istituti penitenziari”. Perduca (Radicali): amnistia prerogativa parlamentare ma anche tecnica “Va apprezzata la decisione della Ministro Severino di riservare all’audizione che avremo domani in Senato il merito delle misure che il governo intende proporre in materia di giustizia nonché la correttezza istituzionale nell’imputare al Parlamento un’eventuale decisione circa l’amnistia, ma per lo stato in cui versa l’amministrazione della giustizia in Italia non v’è tecnico che non concordi circa la flagranza della violazione della legalità costituzionale, contro la quale non si può che agire assumendosi tutte le responsabilità - anche di parola - per porre fine a questo che è il peggior spreco che la nostra Repubblica stia subendo da decenni. Le proposte di legge che abbiamo presentato alla Camera e al Senato sono tutte chiaramente a disposizione del Governo come del Parlamento, lo sono da anni, ma per marcare una vera e propria, diciamolo radicale!, discontinuità con molte delle politiche che ci hanno portato dove siamo oggi, occorre andare alla radice del problema e affrontare l’illegalità delle istituzioni italiane e farlo per ripartire con riforme strutturali a 360 gradi”. Lo afferma in una nota il Senatore radicale Marco Perduca, membro della Commissione Giustizia. Moroni (Fli): no palliativi, detenuti diventino risorsa “Ha ragione il ministro della Giustizia Paola Severino quando dice che non servono palliativi per risolvere il problema delle carceri. Da tempo sosteniamo che è necessario uno sforzo da parte di tutte le forze politiche per realizzare una serie di provvedimenti volti a riorganizzare gli istituti penitenziari e assicurare condizioni di detenzione normali”. Lo dichiara in una nota il deputato Fli, Chiara Moroni, che aggiunge: “Sia le misure alternative alla pena, sia l’utilizzo della forza lavoro dei detenuti, finalizzata a cumulare un fondo vincolato all’adeguamento degli istituti carcerari e a colmare le gravi carenze di organico della Polizia penitenzia, rappresentano un punto di partenza su cui il Parlamento può confrontarsi e arrivare a una sintesi nell’arco di questa legislatura”. Moretti (Ugl): bene guardasigilli su soluzioni strutturali “Le parole del Guardasigilli sulla necessità di non continuare a emettere provvedimenti i cui effetti nel tempo si annullano sono un segnale positivo che trova tutto il nostro sostegno”. Così il segretario nazionale Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, commenta le dichiarazioni del ministro della Giustizia in merito all’esigenza di adottare misure strutturali per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, sottolineando però che “lo studio per un maggior ricorso alle misure alternative e alla stabilizzazione dei flussi tra chi entra e chi esce dagli istituti di pena, seppur necessario, non deve determinare ulteriori ritardi che si riflettono inevitabilmente sul personale di Polizia Penitenziaria e sui detenuti”. “La competenza tecnica del ministro Severino è certamente una marcia in più nella ricerca di dinamiche risolutive per le problematiche delle carceri, perciò - conclude Moretti - auspichiamo venga inserita in agenda anche la riorganizzazione del sistema penitenziario, più volte chiesta dalla nostra Confederazione anche ai predecessori dell’attuale Guardasigilli”. Giustizia: il detenuto è wireless… un futuro senza carceri è possibile di Alessandro Longo L’Espresso, 28 novembre 2011 Strumenti Gps con allarme automatico per seguire il condannato. Ma anche controlli a distanza sull’uso di alcol e droghe. O abiti con localizzatore incorporato. Ecco le tecniche per ridurre il ricorso al carcere: “È in atto una transizione. Dall’era in cui i colpevoli rinunciavano alla libertà fisica a quella in cui devono fare a meno della propria privacy, rendendosi sempre monitorabili e controllabili a distanza” Un futuro senza carceri. Ma non è un’utopia di libertà o di pace sociale. Piuttosto, è l’avvento di forme più sofisticate per controllare i condannati. L’idea è semplice: invece di metterli dietro le sbarre, far sì che le sbarre siano sempre con loro, in forma di strumenti wireless e Gps che ne analizzano i movimenti. Controllano se bevono o assumono droghe. Li costringono ad abitudini regolari. Impediscono loro di andare in certi posti. E poi, tanto per andare sul sicuro, le autorità mettono tutte queste informazioni su Internet, comodamente consultabili in una mappa: così chiunque può trasformarsi in un sorvegliante. Benvenuti nell’era del controllo individuale hi-tech e distribuito. Ci siamo già dentro: queste tecnologie sono largamente adottate nei Paesi anglosassoni e in futuro diventeranno non solo più diffuse, ma anche più sofisticate. In grado di analizzare e controllare ogni minima devianza del reo (o del sospetto) dalle regole. “È in atto una transizione. Dall’era in cui i colpevoli rinunciavano alla libertà fisica a quella in cui devono fare a meno della propria privacy, rendendosi sempre monitorabili e controllabili a distanza”, dice Euro Beinat, docente delle nuove tecnologie di localizzazione presso l’Università di Salisburgo. È stato a capo di progetti e aziende che hanno sviluppato tecnologie alternative alla detenzione classica. È considerato uno dei massimi esperti mondiali di questi temi. “La tecnologia più comune è quella del braccialetto o della cavigliera dotati di sistema di localizzazione”, dice Beinat. A fare avanguardia sono gli Stati Uniti, dove questi apparecchi di sorveglianza stanno diventando sempre più comuni: al momento sono imposti a circa 30 mila persone, al solito per 30-90 giorni. Dal 2009 hanno cominciato a diffondersi anche in Spagna e in Francia. In Italia no: risultano soltanto una decina di casi, tra l’altro con un ingente spreco di denaro pubblico. Giacciono inutilizzati 390 braccialetti, per una spesa di 110 milioni di euro, voluta nel 2003 dall’allora ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu. All’estero, braccialetti o cavigliere servono soprattutto come alternativa al carcere per i reati minori. Vengono imposti in realtà anche ai colpevoli di quelli più gravi, ma solo nell’ultimo periodo della pena e se il reo viene considerato non più tanto pericoloso. Lo localizzano fuori e dentro casa grazie a un mix di tecnologie Gps (satellitari) e basate sulle reti mobili. A seconda della pena, si è costretti quindi a restare all’interno delle mura domestiche oppure si può circolare in strada ma solo in certe zone della città. L’apparecchio crea insomma un carcere invisibile e individuale. Se l’utente prova a toglierselo o esce dal recinto permesso, parte un allarme alla polizia. Scatta quindi un mandato di cattura e il braccialetto viene sostituito con il carcere vero. Il sistema è molto flessibile. “Possiamo imporre all’utente per esempio di evitare certi luoghi collegati al suo reato: le scuole, il bar, la casa dell’ex moglie. Se entra nelle corrispondenti coordinate Gps, scatta un allarme”, dice Beinat. In Spagna si tengono lontani così dagli stadi i tifosi violenti. Un braccialetto Gps può costringere anche a rispettare i limiti di velocità, per chi è stato troppo scorretto alla guida. Ma il sistema può spingersi oltre, fino a imporre precisi percorsi di vita: andare a lavoro dalle 8 alle 17 e poi subito a casa. Ogni trasgressione di luogo e di tempo comporta il rischio del carcere. L’effetto è anche che le autorità conoscono gli spostamenti dell’utente: li vedono segnati su una mappa, che il braccialetto aggiorna via Internet in automatico. In California hanno già fatto il passo successivo: per i reati a sfondo sessuale, permettono a chiunque di localizzare la mappa, su un sito Web. È arrivata a imporre i braccialetti o le cavigliere Gps per molti anni dopo che la condanna è stata scontata. Così si può sapere, per esempio, se qualcuno con precedenti specifici circola vicino alla scuola del proprio figlio. “Il futuro? Sistemi di localizzazione che capiscono anche quando e che cosa mangi o bevi; se assumi droghe o bevi troppo. Oppure con un sistema di analizzatore vocale che percepisce se sei alterato”, dice Beinat. “Ci lavorano in tanti: ricercatori del Mit (Massachusetts institute of technology), di Harvard e di Stanford; e molte start up innovative”, aggiunge. Già qualcosa viene fatto, in realtà, dai soliti pionieri americani: in alcuni Stati la cavigliera ha un sistema che analizza la traspirazione corporea e riesce a capire se ci sono tracce di alcol. “È come fare la prova del palloncino alla tua caviglia: in automatico e di continuo”, dice Kathleen Brown, portavoce della Alcohol Monitoring Systems, azienda che produce questi sistemi, adottati per ora su 20 mila persone negli Usa. Giustizia: Leda Colombini; è allarme per bambini in carcere, la nuova legge non basta di Valentina Roncati Ansa, 28 novembre 2011 Leda Colombini oggi ha 82 anni. Bracciante della bassa Emilia, priva di mezzi e di istruzione, agli inizi degli anni Cinquanta arrivò ai vertici negli organismi direttivi del Partito comunista, un percorso scandito in seguito da altre tappe prestigiose, come l'elezione al Parlamento per tre legislature. Da 20 anni questa donna combattiva, fondatrice nel 1991 dell'Associazione "A Roma Insieme", che si occupa dei piccoli da 0 a 3 anni detenuti con le loro madri nel carcere romano di Rebibbia, lotta affinché i bambini non varchino mai più la soglia di un carcere. "Questo obiettivo doveva essere ottenuto con la legge entrata in vigore il 20 maggio scorso - spiega all'Ansa - ma purtroppo non è ancora così". Proprio per ragionare sulla nuova legge sulle detenute madri, le associazioni A Roma Insieme e Legale nel sociale hanno organizzato, per il 1 dicembre, una giornata di confronto alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università Roma Tre, presenti avvocati, magistrati di sorveglianza, associazioni, psicologi. "Abbiamo invitato anche il ministro della Giustizia Paola Severino, perchè vogliamo riuscire a fare qualche passo in avanti", spiega Colombini, che a chi le chiede cosa la spinge a lavorare ancora tanto intensamente per i minori in carcere risponde: "trovo intollerabile che un bambino entri in un penitenziario, non riesco a sopportarlo". In questi giorni sono 21 i bambini reclusi con le loro mamme nel carcere femminile di Rebibbia, 55 sono quelli presenti nelle carceri italiane. L'associazione A Roma Insieme lavora per limitare i danni della reclusione sui bambini: ogni fine settimana i volontari trascorrono un'intera giornata fuori dal carcere con i bambini in spazi aperti (al mare, in case di campagna, nei parchi cittadini) per offrire loro momenti di gioco e di scoperta. All'interno del carcere, poi, l'associazione organizza feste per i piccoli ospiti e iniziative di animazione per i bambini più grandi che vegnono a visitare le loro madri. Parallelamente, A Roma Insieme promuove incontri e dibattiti, mercatini per raccogliere fondi, mostre fotografiche, cicli di conversazione con le detenute e corsi di scrittura. Una attività intensa, insomma, tutta basata sul volontariato. "Su una popolazione carceraria di circa 67.500 soggetti - ragiona Colombini - le donne rappresentano il 4-5% e la gran parte non sono socialmente pericolose. Ciò che vogliamo è che - tranne per i reati in cui l'ordinamento non preveda misure alternative al carcere - vengano concesse le misure alternative, dagli arresti domiciliari all'obbligo della firma. Se si facesse in questo modo il 97% delle detenute non sarebbe in carcere e con loro non varcherebbero più la soglia di un carcere nemmeno i bambini". Giustizia: “Toto” Cuffaro nel carcere di Rebibbia studia giurisprudenza e sogna la sua politica di Fulvio Milone La Stampa, 28 novembre 2011 La strada verso l’oblio la imboccò in una sera d’inverno, il 22 gennaio scorso. Fu allora che quell’uomo con lo sguardo impaurito dietro le lenti con la montatura di metallo andò in chiesa a pregare la Madonna, e poi varcò la soglia di un carcere. Finiva in quel momento la brillante quanto discussa carriera politica dell’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro, detto “Totò vasa-vasa” per le continue effusioni con cui gratificava i suoi estimatori. I giudici in Cassazione l’avevano condannato a sette anni per favoreggiamento aggravato di Cosa Nostra e rivelazione di notizie riservate sulle indagini che coinvolgevano alcuni boss. “Ma io contro la mafia ci sono andato a sbattere, ho incontrato delle persone che solo in seguito si sono rivelate per quello che erano davvero. Certo, se proprio devo rimproverarmi qualcosa, è la superficialità”, sospira la persona dai modi cortesi e dall’aria dimessa che ci riceve in una sala per i colloqui del carcere. Indossa un maglioncino azzurro polvere, pantaloni grigi e scarpe da ginnastica. Gli occhiali e lo sguardo acuto sono gli stessi, ma il viso è molto più affilato. “Ho perso 26 chili, non tanto per lo stress ma perché qui dentro faccio tanto jogging e mangio sano e con regolarità”, spiega con un lampo di ironia nello sguardo. Quella sera del 22 gennaio, dunque, si concluse nel peggiore dei modi la vita “pubblica” dell’erede di una De spesso accusata di strizzare l’occhio alla parte peggiore della Sicilia, e cominciò l’esistenza grama di Salvatore Cuffaro, 53 anni, nato a Eaffadali, detenuto nel braccio “G8” del Nuovo Complesso di Rebibbia, catapultato dalle sale sfarzose di Palazzo d’Orleans, sede della presidenza della Regione, à una cella grigia con quattro brande. In tanti hanno sottolineato come abbia accettato la condanna definitiva senza clamore: un comportamento, questo, del tutto normale, non fosse questo un Paese in cui lo sport preferito dai politici inquisiti è gridare al complotto della magistratura. “Sono stato per trent’anni un uomo delle istituzioni, ci mancherebbe che non le rispettassi anche ora - dice. Secondo i giudici ho commesso un reato grave. Io non lo penso, e ricordo che molti anni fa sono stato uno dei primi a dire che la mafia fa schifo: non è facile per chi, come me, viveva in Sicilia. Nonostante ciò, doverosamente mi inchino davanti alle toghe”. Divide la cella con tre detenuti: uno condannato per truffa, gli altri per droga. “Ho raggiunto una certa serenità, mi sorreggono l’affetto della famiglia, la solidarietà dei compagni di carcere e la fede che alimenta il mio desiderio di speranza”, assicura. Ma aggiunge che non è stato sempre così. Ricorda la sera in cui entrò in carcere. “Ero a Roma. Quando l’avvocato mi telefonò per dirmi che la sentenza era stata emessa mi sentii sprofondare”. Il 22 gennaio era sabato. “Sapevo che probabilmente l’ordine di custodia non sarebbe stato notificato prima di lunedì. Avrei potuto avere altre 48 ore di libertà, ma decisi di presentarmi subito alla caserma dei carabinieri”. L’ordine di arresto fu notificato quella stessa sera. “Fui preso in consegna da tre uomini del Ros di Palermo - continua Cuffaro. Chissà come mai mi aspettavano a Roma da due giorni, cioè da prima che fosse pronunciata la mia condanna. Uno di loro, nell’auto che mi stava portando a Rebibbia, mi ammanettò. Forse avrebbe potuto farne a meno. Era come se quei ferri mi avessero serrato il cuore oltre che i polsi”. La sua nuova e dura vita gli faceva paura: “Credevo che il carcere fosse come nei film, un concentrato di violenza bruta. Niente di più falso: qui ci sono solidarietà e comprensione, questo è un mondo con regole giuste e che in quanto tali vanno rispettate”. Ora è più sereno, per quanto si possa esserlo in un carcere. “Gli altri detenuti mi apprezzano come arbitro nelle partite di calcio. Ho introdotto una nuova regola: chi bestemmia viene espulso dal campo per cinque minuti”. Gran parte della giornata la trascorre in cella, a scrivere: “Ricevo una quantità incredibile di lettere: 4 mila 500 fino a oggi. Cerco di rispondere a tutti”. Lui, che è medico, si è iscritto alla facoltà di giurisprudenza: “Ho sostenuto tre esami, uno con il professore Diliberto (Oliviero Diliberto, leader dei Comunisti italiani, ndr) che mi ha dato un bel 30”. Il momento più duro è la notte: “Dormo poco, con il buio arrivano pensieri angosciosi”. Non pochi politici vanno a trovarlo, “da Cesa a Casini, da Castagnetti a Quagliariello e D’Antoni; i più assidui sono Follini e Mannino”. E poi c’è da studiare le strategie difensive per le inchieste giudiziarie che ancora lo coinvolgono. Se da alcune accuse è stato prosciolto, Cuffaro è tutt’ora indagato assieme al ministro Saverio Romano e al senatore del Pdl Carlo Vizzini per corruzione aggravata dall’aver favorito Cosa Nostra. La politica, dice Cuffaro, gli manca da matti. Ricorda quando un milione di voti lo consacravano governatore della Sicilia e poi senatore. “C’era gente che aspettava per ore davanti alla mia porta - ricorda -. Li ricevevo tutti, dall’imprenditore al contadino. Molti non mi chiedevano niente. Quando glielo facevo notare mi rispondevano così: “Totò, mi vuoi privare del piacere di raccontare che ti ho incontrato?”. La politica, per me, era puro spirito di servizio”. Dice che alla sua rovina molto hanno contribuito i media: “Ero potente e votatissimo in Sicilia, quindi il bersaglio ideale”. E ricorda la storia delle foto che fecero il giro del mondo di lui che reggeva una guantiera di cannoli dopo la condanna in primo grado a “soli” cinque anni per favoreggiamento “semplice”: una sentenza che sarebbe stata poi resa più pesante in appello e confermata in Cassazione. Il fatto che i giudici non gli avessero affibbiato l’aggravante “mafiosa”, scrissero i giornali, era per lui motivo di festeggiamenti. “In realtà - spiega l’ex Governatore -, quei cannoli li aveva portati un impiegato della Regione e io li stavo togliendo”. Al mondo della politica Cuffaro non potrà tornare, per lui c’è l’interdizione dall’elettorato attivo e passivo “Non potrò essere eletto né eleggere Pensi quale formidabile legge del contrappasso mi ha colpito: io, che ricevevo voti a valanga non ne darò uno”. Ma quale sarà, allora, il suo futuro? “Coltiverò fichi d’india, uva e olive”. Agricoltore ma anche scrittore. In cella ha già finito il suo primo libro. Titolo: “Il candore delle cornacchie”, quelle “che si radunano sotto le finestre delle celle e sono nostre compagne”. È la storia in 450 pagine di Salvatore Cuffaro, detenuto nel carcere di Rebibbia. Giustizia: torture, “pentimenti” e falsità; recensione del libro “Colpo al cuore”, di Nicola Rao di Sandro Padula Liberazione, 28 novembre 2011 Il “professor de tormentis” e il “pentito” Antonio Savasta ricordano e rivendicano rispettivamente le torture e le delazioni per combattere le Brigate Rosse nell’Italia degli ultimi anni ‘70 e dei primi anni 80. Questo, in sintesi, è il contenuto del saggio-inchiesta di Nicola Rao “Colpo al cuore: dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata” (casa editrice Sperling & Kupfer, ottobre 2011), un libro utile per conoscere meglio il clima da Santa Inquisizione determinatosi in quel periodo storico della società italiana. Il “professor de tormentis”, poliziotto “anonimo” esperto in torture con acqua e sale, a dire il vero non inventò proprio nulla. La tortura chiamata “algerina”, meglio nota nel XXI secolo con il termine waterboarding perché praticata dagli Usa a Guantanamo, in Italia venne usata diverse volte dai carabinieri e dalla polizia. Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo “anti-terrorismo” di Napoli, che in provincia di Trapani partecipò alle prime indagini sulla “strage di Alcamo Marina” del 27 gennaio 1976, quando furono uccisi due carabinieri all’interno di una casermetta, ha raccontato di aver visto usare questo tipo di tortura per estorcere delle confessioni. Sia Giuseppe Vesco - ragazzo dalle idee anarchiche e principale imputato poi “suicidatosi” in carcere il 26 ottobre 1976 - che altri giovani accusati furono costretti ad ingoiare numerosi quantitativi di acqua e sale tramite degli imbuti inseriti in bocca. Senza dubbio l’uso più sistematico della tortura a suon di acqua e sale, magari condita da scosse elettriche e sigarette spente sui corpi, avvenne dopo il decreto legge del 21 marzo 1978 n. 59 che autorizzava gli interrogatori delle persone arrestate senza la presenza dell’avvocato e del magistrato. Grazie a quella misura legislativa i governanti, i partiti di supporto alla maggioranza parlamentare denominata “solidarietà nazionale” e il Consiglio Superiore della Magistratura, agente come consigliere delle leggi speciali da introdurre, si assunsero la responsabilità politica di tutte le successive torture usate dalle forze dell’ordine contro le Br e le altre organizzazioni sovversive. Neppure l’ex br Antonio Savasta, con le confessioni estorte durante “l’algerina” a cui fu sottoposto dopo il suo arresto del 28 gennaio 1982, inventò qualcosa di nuovo. Da quando mondo è mondo si sa che le persone torturate spesso dicono cose vere e cose false insieme. Il fatto curioso è che oggi, spinto dalle sole domande di Nicola Rao, Savasta da un lato racconti qualcosa di autentico e indiscutibile del proprio percorso politico degli anni 70, ad esempio ricordando le lotte per la casa nella borgata romana di San Basilio, e dall’altro senta il bisogno di sparare giudizi su fatti di cui non conosce letteralmente nulla e, fra una congettura e l’altra, di attribuire alle Br romane, e in particolare alla brigata di Torre Spaccata, una sorta di probabile responsabilità politica dell’azione sanguinaria avvenuta il 7 gennaio 1978 contro i neofascisti del Msi di via Acca Larentia. Nicola Rao, giornalista esperto dei fenomeni di destra e di destra radicale, cercava forse di fare uno scoop e quindi non si è per niente preoccupato di verificare l’attendibilità sul piano storico di tale ipotesi prodotta dal “pentito” in questione. Facciamo allora un salto all’indietro nel tempo per capire come stanno davvero le cose. Il 7 dicembre del 1976 le Br romane rivendicarono gli attentati contro le autovetture di uomini politici come Vittorio Ferrari, consigliere democristiano alla quinta circoscrizione, e Umberto Gioia, segretario della Dc di Torre Spaccata. Pensavano che attaccando il regime democristiano sarebbe stato possibile mettere in crisi il sistema politico, leggi liberticide comprese, ed aprire nuovi spazi politici ai movimenti di lotta del proletariato. In maniera opposta ragionavano i neofascisti che nella Roma del 1977 ferirono Guido Bellachioma e uccisero Walter Rossi. E in maniera diversa operavano i militanti dei Nuclei Armati di Contropotere territoriale che il 7 gennaio 1978 realizzarono un assalto contro la sede del Movimento Sociale Italiano (Msi) a via Acca Larentia, nella zona romana dell’Appio-Tuscolano, che provocò la morte di Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta. Dopo quest’ultima tragedia nella capitale si intensificarono le azioni armate dei neofascisti contro i giovani di sinistra ma in quel periodo, com’è riconosciuto da tutti gli storici degni di questo nome, le Br cercarono sempre di canalizzare il sovversivismo rosso nella lotta contro il regime democristiano. Per tutte queste ragioni è priva di fondamento l’idea di Antonio Savasta, riportata nel saggio-inchiesta di Nicola Rao, secondo cui dietro l’agguato di Acca Larentia forse ci sarebbe stata la colonna romana delle Br e in particolare la brigata di Torre Spaccata. Antonio Savasta entrò nelle Br nei primi mesi del 1977, quando la colonna romana delle Br e la brigata di Torre Spaccata già esistevano in termini logistici e operativi. Non sapeva nulla, se non qualcosa di vago e solo per sentito dire da altri sentito dire, a proposito della strutturazione della colonna romana avvenuta nel biennio 1975-1976 e in riferimento alla composizione assunta nel corso degli anni dalla brigata di Torre Spaccata. Pensava di essere entrato nella colonna romana prima della nascita della brigata di Torre Spaccata ma questa convinzione è sbagliata. Riteneva inoltre che ci sarebbe stata equivalenza fra un gruppo di 7 presunti ex militanti di Viva il comunismo confluiti nelle Br, fra cui inserisce addirittura un ex militante di base del Partito Socialista Italiano, e la brigata di Torre Spaccata. Anche questa idea risulta però priva di fondamento. La brigata di Torre Spaccata, oltre a non svolgere le proprie attività nell’area dell’Appio-Tuscolano, non effettuò mai delle riunioni interne con i 7 presunti ex militanti di Viva il comunismo elencati da Savasta, anche perché una brigata poteva essere composta dai 3 ai 5 aderenti, nelle Br non si entrava in gruppo ma singolarmente e i brigatisti rossi abitanti nel quartiere non avevano mai fatto parte di Viva il comunismo. Nel 1978 le brigate romane seguirono sempre la linea ufficiale e nazionale delle Br. Già dall’estate del 1977 avevano discusso i documenti preparatori della Risoluzione Strategica del febbraio 1978. Sapevano in termini politici che l’organizzazione stava preparando un fortissimo attacco alla Democrazia Cristiana. Condivisero quella linea politica e se ne assunsero la responsabilità. Tutto questo significa che il saggio-inchiesta di Nicola Rao merita di essere letto sapendo ben distinguere, fra le sue righe, il vero dal falso! Lettere: la tortura dei polli e le patrie galere di Evelina Cataldo Il Riformista, 28 novembre 2011 L’associazione animalista americana Mercy for animals si è infiltrata in un allevamento di polli destinati alla catena di fast food Mcdonald’s scoprendo che per questi volatili la tortura è all’ordine del giorno. Stipati in gabbie l’uno sull’altro senza avere alcuna possibilità di movimento, (con la conseguenza di un mancato sviluppo dell’apparato muscolare e quindi di una carne poco genuina), becchi recisi, allevati insieme a polli privi di vita e addirittura, lasciati roteare in aria attraverso un filo legato sulle loro zampe. In alcuni libri di narrativa come in “After dark” di Haruki Murakami, la protagonista afferma di non mangiare polli nelle catene di ristoranti a causa delle incivili tecniche di allevamento. Il parallelismo è immediato per chi nutre un vivo interesse per la situazione carceraria italiana: se dei polli stipati nelle gabbie sono soggetti a tortura, diventa più semplice immaginare le condizioni di coloro che, invece di una gabbia, occupano una cella, per di più sovraffollata. Nel caso dei volatili manca una precisa legislazione in materia e, alle torture, l’azienda di allevamento ha reagito con il licenziamento coattivo di quattro operai. Nel caso delle vite umane che occupano le patrie galere si pone un problema similare e che pochi rievocano con il corretto appellativo di “tortura”. Quando le condizioni detentive assumono fattezze degradanti e disumane perché contrarie alle statuizioni normative nazionali e internazionali, allora significa che è sfuggito di mano il significato ontologico del concetto di dignità umana. Tuttavia, se la normativa può essere applicata in maniera non propriamente testuale, permane il problema che riveste il lato etico della faccenda nonché del relativo rapporto che si instaura tra addetti nei vari comparti dell’universo penitenziario e soggetti reclusi. Se la sindrome di bum out dei primi è direttamente proporzionale ai suicidi dei secondi, se la carenza del personale addetto alla rieducazione, alla gestione degli istituti, all’assistenza sanitaria, prima di tutto psicologica, desta apprensione continua, il Ministero della Giustizia ha un dovere contestualmente morale e giuridico: da un lato, l’impegno per rendere concreta e fattibile su “campo” l’applicazione delle normative già in essere, dall’altro, avviare un ripensamento dell’esecuzione penale che sia al passo con quei sistemi penitenziali più innovativi, anche di tipo sperimentale, ponendo finalmente l’accento sul binomio rieducazione - deterrenza. Partecipare con le proprie specifiche mansioni al funzionamento del sistema carcere è un lavoro delicato e complesso ma un recluso, gestito secondo normativa e trattato nel rispetto degli standard qualitativi che ne riconoscano a pieno la dignità insita nella sua stessa essenza di cittadino dell’umanità, potrebbe ridimensionare e pian piano scalfire lo stereotipo, generalmente diffuso, riguardante il rapporto impari intercorrente tea prigionieri e aguzzini. Lettere: in carcere entrano i “codici”, ma non sono quelli delle norme di Riccardo Polidoro (Presidente “Carcere Possibile” Onlus) Ristretti Orizzonti, 28 novembre 2011 La notizia purtroppo non fa riferimento al rispetto della legge anche nelle carceri, ma ai colori con i quali saranno identificati i detenuti rispetto alla loro pericolosità. Gli Istituti di pena come i “Pronto Soccorso”, dove s’identifica il paziente con un colore per stabilire l’urgenza dell’intervento. Codice bianco, verde, giallo e rosso anche nelle carceri. Lo stabilisce il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in una circolare sul nuovo trattamento penitenziario. Porte delle celle aperte per i codici bianchi, da valutare per i codici verde e giallo, chiuse per i rossi. L’atto, che per il Dipartimento mira ad innovare la gestione dei detenuti, in realtà non fa altro che ripetere le raccomandazioni che prima di ogni estate vengono date alle direzioni degli Istituti per evitare che il caldo possa essere un ulteriore elemento per spingere al suicidio o per aggravare patologie in corso. Ora come allora i Direttori delle carceri non potranno aderire alla circolare, perché il sovraffollamento, la tipologia delle strutture e la mancanza di personale e di risorse non consente, allo stato, una disciplina diversa della detenzione. Le disposizioni del Dap. prevedono, inoltre, modalità di accertamento nell’attribuzione dei codici e di conferma degli stessi alquanto complesse, del tutto irrealizzabili, come altre norme dell’Ordinamento Penitenziario che da oltre trent’anni non trovano attuazione. Va altresì precisato che quanto stabilito dalla circolare rappresenta già un vero e proprio diritto del detenuto. La pena da scontare, infatti, non prevede affatto la detenzione in cella per 24 ore, ma esclusivamente la permanenza obbligata all’interno dell’Istituto, dove devono essere attuati programmi di rieducazione. La cella dovrebbe essere una stanza di pernottamento. L’ “innovativa (!)” circolare allora appare esclusivamente un invito e una censura a quelle Direzioni d’Istituto che, pur avendo le possibilità, non applicano la Legge. Abruzzo: due milioni e mezzo di euro per l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti Agenparl, 28 novembre 2011 È disponibile, sul sito web della Regione, l’avviso per la presentazione di progetti finalizzati all’inserimento socio-lavorativo dei detenuti e degli ex-detenuti. L’avviso, che sarà pubblicato sul Bur Speciale n. 76 del 2 dicembre, rientra nell’ambito del Progetto speciale multi asse Fse a sostegno e rafforzamento delle misure di inclusione sociale per le categorie svantaggiate e a rischio di emarginazione. “Con circa due milioni e mezzo di euro - spiega l’Assessore al Lavoro e Politiche Sociali Paolo Gatti - finanzieremo interventi volti alla realizzazione di percorsi integrati di formazione per il reinserimento socio-lavorativo di detenuti, ex-detenuti, di giovani adulti e di minori, che si trovano sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria”. Le candidature, da parte delle Associazioni Temporanee di Scopo, potranno riguardare due tipologie d’intervento: la prima, a favore dei detenuti sul territorio regionale, è dedicata a iniziative utili all’acquisizione di qualifiche professionali, mediante una certificazione delle competenze, da registrarsi sul c.d. Libretto Formativo del Cittadino o, per coloro che sono in regime di esecuzione penale esterna come anche si trovano sul finire del periodo di reclusione, a servizi di orientamento al lavoro e inserimento in contesti lavorativi mediante work experience. La seconda tipologia, contenuta nell’avviso, è invece pensata per i minori e per i giovani adulti sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria e richiede una progettazione di percorsi integrati finalizzati al (re)inserimento socio-lavorativo degli stessi attraverso una partecipazione diretta ad attività formative ed occupazionali. “L’attivazione di percorsi di transizione pena-lavoro insieme con il superamento di quei processi di esclusione sociale permettono - conclude Gatti - di trasformare la condizione detentiva in un’occasione preziosa di maturazione e (ri)progettazione della propria esistenza, nel godimento dei diritti e nell’osservanza dei doveri: elementi essenziali e indispensabili per il compimento di una piena cittadinanza”. I progetti potranno essere presentati alla Direzione Politiche Attive del Lavoro, Formazione ed Istruzione, Politiche Sociali della Regione Abruzzo entro il 45° giorno successivo alla data di pubblicazione dell’avviso sul Bur da parte di Ats formate da organismi di formazione, agenzie per il lavoro, associazioni datoriali o gruppi di imprese, cooperative sociali e/o onlus e/o enti pubblici. Campania: Lisiapp; crescono i detenuti e le insofferenze degli agenti di polizia Comunicato stampa, 28 novembre 2011 La realtà quotidiana degli Istituti Penitenziari Campani è allarmante come lo è per tutti gli Istituti presenti sul territorio Nazionale, anche se le problematiche in esame rivestono caratteristiche diverse. È quanto afferma in una nota sindacale il segretario nazionale del Lisiapp Daniele Giacomaniello, sottolineando che se al nord grava principalmente la forte carenza di personale di Polizia Penitenziaria creando conseguentemente la scarsa applicabilità di quanto previsto dal Regolamento Penitenziario perché il tutto è realizzabile solo con uno specifico numero di risorse umane, al sud la situazione cambia perché oltre ad esserci la carenza di personale di Polizia, c’è anche l’aggravante delle strutture detentive che non sono in linea con le normative vigenti. Abbiamo Istituti in Regione come la C.C. di Salerno per citarne una, che ad oggi non è ancora in grado di assicurare ai ristretti l’utilizzo dei servizi igienici come disciplinato dall’art 7 del dpr 30 giugno 2000 n. 230 (regolamento di esecuzione della l. 354/75). Oppure, l’utilizzazione degli spazi all’aperto anch’esso disciplinato dall’art. 16 della stessa legge. Infatti, la parte finale dello stesso articolo cita che (gli spazi destinati alla permanenza all’aperto, devono offrire possibilità di protezione dagli agenti atmosferici) ma non sempre è così perché dette strutture non hanno le caratteristiche strutturali richieste dalla legge. Naturalmente tutto questo diventa difficile garantirlo, se il problema più grande che dobbiamo fronteggiare è proprio il sovraffollamento dei detenuti, basti pensare che la popolazione detentiva è nettamente superiore a quella prevista dalle strutture esistenti sul territorio nazionale. Anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, afferma Giacomaniello, ha lanciato un allarme molto forte sul sovraffollamento delle carceri Italiane, segnalando che non c’è più tempo da perdere, perché le condizioni dei detenuti “appaiono distanti dal dettato Costituzionale” che prevede una funzione rieducativa della pena e il rispetto dei diritti e della dignità delle persone. L’organizzazione sindacale, conclude il sindacalista Lisiapp, auspica nell’operato del nuovo Ministro della Giustizia e del Governo che rappresenta, nella speranza che questa piaga di carattere nazionale, che da anni ci trasciniamo dietro, giunga ad una conclusione quantomeno accettabile”. Ancona: i detenuti dormono per terra; il carcere di Montacuto diventa un caso nazionale Notizie Radicali, 28 novembre 2011 La denuncia che arriva dalle Marche è del sindacato della Polizia Penitenziaria (Sappe) delle Marche, il quale tramite un comunicato stampa del suo segretario Aldo Di Giacomo, il 22 Novembre scorso ha denunciato che, nell’ormai famoso carcere di Montacuto di Ancona i detenuti “dormono anche per terra, su materassi di fortuna, stipati in quattro in celle da una persona”. Lo stesso Aldo Di Giacomo inoltre ha reso noto che l’igiene non è più assicurato e che le docce non si fanno più quotidianamente. Oggi Montacuto è una realtà nota e il caso di questo carcere fu reso noto per la prima volta dai Radicali Marche che, nella giornata nazionale del “ferragosto in carcere”, visitarono la struttura il 15 Agosto 2010. In quell’occasione vennero denunciate le condizioni fatiscenti e il gravoso sovraffollamento della struttura. Ancora ad oggi il numero dei detenuti è di 440 persone su una capienza di 178. L’ultima denuncia delle condizioni del carcere in questione è venuta proprio da Marco Pannella, Rita Bernardini (deputata del Pd della delegazione radicale) e Sergio Rovasio (segretario dell’associazione Certi Diritti), i quali in una visita a sorpresa nel Giugno 2011, hanno parlato di una condizione di illegalità conclamata in cui versa la struttura detentiva di Montacuto. In particolare la Bernardini ha denunciato quattro morti negli ultimi tempi, l’ultimo dei quali aveva solo trent’anni ed era arrivato in ospedale in condizioni gravi. Mentre i Radicali Italiani chiedono oramai da mesi l’amnistia per la Repubblica Italiana, il segretario del Sappe (sindacato autonomo Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo, in un colloquio telefonico specifica: “L’indulto e l’amnistia se utilizzati solo come escamotage del momento d’emergenza non hanno senso. Allo stesso modo non ha senso parlare di misure alternative al carcere se il giorno dopo non ci si mette intorno ad un tavolo per la riqualifica dell’intero sistema carcerario italiano”. I punti cruciali su cui si deve lavorare - prosegue Di Giacomo - sono due: la depenalizzazione dei reati e l’abuso della carcerazione preventiva. In particolare riferimento a quest’ultimo, si rifletta sul fatto che su 90 mila detenuti nell’anno 2010, 7 mila sono usciti dopo tre giorni e 5 mila dopo una settimana. Se a questo si aggiunge che 17 mila detenuti hanno gravi problemi di dipendenze, per i quali si dovrebbero trovare delle alternative al carcere, ci rendiamo conto di come il problema sia complesso e parta dalla giustizia del paese Italia”. Dopo la denuncia di Di Giacomo, Rita Bernardini e Marco Perduca (deputati radicali) hanno presentato nella mattinata di mercoledì due interrogazioni a risposta scritta alla Camera del Senato, dirette al Ministro della Giustizia e a quello della Sanità. Nello stesso giorno si è espresso anche il consigliere regionale delle Marche Massimo Binci (Sinistra ecologia e libertà)esprimendo preoccupazione per la situazione delle carceri della regione, sottolineando la necessità di applicare l’ormai dimenticato articolo 27 della Costituzione e, rivolgendosi al Governo, chiede che si affrontino i problemi che sono a monte della questione a partire dalle Leggi Bossi-Fini, Fini-Giovanardi e Cirielli. Visto che qualche mese fa un provvedimento dei Nas ha liberato più di un milione di galline da gabbie troppo strette, la speranza è che almeno dopo le galline vengano gli esseri umani. Gela (Ct): dopo mezzo secolo di lavori e due inaugurazioni… i primi 5 detenuti nel nuovo carcere Agi, 28 novembre 2011 Dopo due inaugurazioni andate a vuoto questa pare sia la volta buona. Ad oltre 50 anni dalla progettazione apre finalmente il carcere di Gela che ha avuto una gestazione a dir poco travagliata. L’inaugurazione di questa mattina è stata volutamente in sordina. Niente parata di big e ministri come per le due precedenti inaugurazione nel 2007 e nel 2010. In compenso sono già arrivate le prime guardie carcerarie, segno che questa volta si fa sul serio. E da martedì ci saranno anche i primi cinque detenuti che entro Natale dovrebbero essere oltre 40. A regime il carcere, che dispone di 48 celle, dovrebbe ospitare un centinaio di reclusi per reati non particolarmente gravi. È stata una lotta lunga e dura - ha commentato Mimmo Nicotra, vicesegretario nazionale dell’Osapp, il sindacato delle guardie carcerarie - ma questa volta, col contributo di tutti, si può veramente dire che ci siamo buttati alle spalle la tormentata storia di questa struttura”. Il carcere, che sorge nel quartiere “Balate” a circa due chilometri dal centro di Gela, fu progettato nel lontano 1959 anche se i lavori iniziarono solo nel 1982. Dopo anni di ritardi e rinvii venne inaugurato una prima volta nel 2007 con una cerimonia in pompa magna alla presenza dell’allora ministro alla Giustizia Clemente Mastella. Ma fu una falsa partenza: nella struttura mancavano ancora molte parti essenziali come le cucine. Quindi il secondo tentativo nel 2010, ancora una volta con tanto di inaugurazione solenne. Anche questa volta nulla di fatto. Motivo? Il mancato collegamento alla rete idrica. Accusa sempre respinta dagli amministratori comunali di Gela che puntarono invece il dito contro il Dap, il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, che non avrebbe provveduto a mettere a disposizione il personale. Intanto la struttura ha rischiato di andare in malora ed ha avuto bisogno di nuovi interventi di restauro e manutenzione. Ma almeno non è rimasta una delle tante incompiute siciliane. Pagano (Pdl): apertura struttura importante per detenuti e operatori “L’apertura, dopo ben mezzo secolo, del carcere di Gela rappresenta un primo ma significativo passo in avanti per porre rimedio al terribile problema del sovraffollamento carcerario, giunto ad un livello tale di iniquità e ingiustizia da considerarsi una grave e intollerabile violazione dei diritti fondamentali della persona”. Lo afferma in una nota Alessandro Pagano del Pdl, componente della Commissione finanze della Camera. “L’obiettivo raggiunto, - prosegue - accolto con grande soddisfazione bipartisan, non è che il risultato di una personale battaglia di civiltà e di un convinto impegno corale dei rappresentanti delle istituzioni locali, tra cui occorre annoverare il sindaco di Gela Angelo Fasulo, ma che non sarebbe stato possibile senza il sostegno determinante dell’ex ministro della Giustizia Angelino Alfano”. “Sebbene l’apertura della nuova struttura penitenziaria debba considerarsi importante, anzitutto, per consentire ai detenuti di scontare la pena detentiva in condizioni degne di un Paese civile, - conclude - tuttavia essa deve inquadrarsi anche come risposta alle istanze e agli appelli provenienti dagli operatori penitenzia ri, i quali, a causa dei mali che da decenni affliggono il sistema carcerario nel suo complesso, sono costretti a lavorare in un contesto altrettanto difficile e alienante”. Perugia: approvato Odg sulla critica situazione delle Case di reclusione di Capanne e Maiano www.spoletocity.com, 28 novembre 2011 È stato approvato all’unanimità dalla terza commissione consiliare, presieduta da Luca Baldelli, un odg sulla situazione critica delle Case di reclusione di Capanne e di Maiano di Spoleto. Il documento prende origine da due odg presentati da del capogruppo IdV Franco Granocchia e dai Consiglieri Provinciali gruppo PD Laura Zampa e Massimiliano Capitani che hanno portato la terza commissione a recarsi in visita alla suddetta struttura carceraria. L’incontro con direttore, agenti e detenuti ha portato alla luce diverse questioni: il continuo trasferimento di detenuti nella struttura già sovraffollata che ha portato sino a sfiorare il raddoppio del numero previsto dall’iniziale piano di capienza regolamentare fissato al momento della progettazione e realizzazione delle strutture carcerarie; la carenza di organico che tende ad alterare quel delicato equilibrio costruito con grande professionalità, che “garantisce la massima sicurezza nel rispetto della dignità delle singole persone” e permette un positivo rapporto tra Istituzioni Carcerarie e Territorio. Nel documento la terza commissione chiede alla Giunta Provinciale di “porre la massima attenzione al problema per costruire con i soggetti interessati rapporti di collaborazione volti anche alla soluzione delle problematiche emerse nelle audizioni e per le quali si è richiesto l’intervento. Servono inoltre processi tesi alla richiesta presso le Autorità competenti di procedere ad atti volti al miglioramento delle infrastrutture ed alla integrazione degli organici del personale. In ultimo sarebbe importante investire sulla ricerca di percorsi paralleli che favoriscano la costruzione di misure alternative di prevenzione e recupero”. La casa di reclusione di Maiano di Spoleto ospita circa 70 detenuti 41bis, soggetti per la loro pericolosità sociale a carcere duro, e 160 detenuti di alta sicurezza, numeri che andranno aumentando in modo proporzionale e progressivo, con l’aumento del numero complessivo fino a 750 unità. “Al di là del discorso degli organici si è evidenziata una mancanza di fondi sia per le manutenzioni ordinarie ed il mantenimento dell’igiene (per garantire il quale spesso si deve ricorrere ad enti benefici come per l’acquisto di sapone, carta igienica e beni di prima necessità), sia per l’acquisto di sussidi ai corsi scolastici e di formazione volti ai detenuti, sia per i percorsi di avviamento al lavoro, fondamentale elementi per un reale recupero che non possono essere garantiti per problemi nei trasferimenti causati dalla carenza di organico. Tante sono le risorse che rimangono così inespresse, la biblioteca, il laboratorio di legatoria, la sartoria, la moderna ed attrezzata falegnameria, vanto della casa di reclusione che tanti progetti, anche di integrazione hanno permesso. A questo proposito il Direttore auspica che i corsi di formazione attivati grazie ai finanziamenti di Provincia e Regione, si possano poi tradurre, magari con accordi con aziende locali, in occasioni di reinserimento lavorativo, vera garanzia per un autentico recupero. Il Comune di Spoleto ha già deliberato in merito esprimendo ripetutamente “la propria preoccupazione per la situazione che si sta creando in Umbria e a Spoleto, dove le scelte che il Ministero sta compiendo rischiano di mettere in discussione un modello di integrazione tra la realtà carceraria e il territorio che è stata di esempio per importanti innovazioni, in quanto il rapporto fin qui costruito con il contributo delle Istituzioni tra la Struttura e la Città ha garantito un importante clima di coesione sociale”. Non sono garantiti infatti gli spazi vitali con la trasformazione delle sale di ricreazione in celle per 10 detenuti o con l’aggiunta di un terzo materasso posto a terra nelle celle costruite per ospitare 1 o massimo 2 detenuti. C’è l’esigenza di risolvere il problema del trasporto verso le scuole per l’infanzia pubbliche dei bambini presenti con le madri detenute al fine di garantire loro la relazione con i coetanei ed il diritto al gioco ed all’inclusione sociale; l’esigenza di creare presso l’ospedale di San Sisto “Santa Maria della Misericordia” un minireparto per i detenuti, come già accade presso il nosocomio della Città di Spoleto, a garanzia della privacy dei detenuti e soprattutto della tutela della sicurezza per gli agenti di custodia. I Consiglieri concludono il documento comune “condividendo le parole di Fedor Dostoevskij: “la civiltà di un popolo si misura da come tratta i suoi prigionieri” e quindi pensiamo che sia preciso dovere delle Istituzioni operare al meglio nel tentativo di offrire una dignitosa qualità della vita ad ogni cittadino e di conseguenza a ciascun detenuto e ricordando l’appello del Presidente della Repubblica a creare i presupposti e le migliori condizioni per una vita dignitosa all’interno delle carceri. Inoltre è una questione assolutamente non rinviabile per le Istituzioni la riforma della Giustizia ed in particolare la velocizzazione dei tempi dei processi, condizione fondamentale per avere situazioni più umane e sostenibili all’interno delle carceri”. Udine: il Comune intende istituire il Garante dei diritti dei detenuti Messaggero Veneto, 28 novembre 2011 Il Comune di Udine intende istituire il garante dei diritti dei detenuti. Se ne parlerà mercoledì sera, nella prossima seduta delle commissioni per Politiche sociali e diritti di cittadinanza e per Statuto. “Sarà una sorta di difensore civico - spiega l’assessore comunale Kristian Franzil - per i detenuti. Avrà funzioni di mediazione fra le istituzioni locali e il carcere, ma anche fra gli stessi detenuti e le strutture penitenziarie. Quando si sta in cella, sono tanti i piccoli problemi quotidiani la cui risoluzione migliora notevolmente la qualità di vita in carcere. Il garante si occuperà proprio di questo. Penso alle problematiche legate alla salute, al lavoro, al reinserimento nella società”. Franzil precisa inoltre che il servizio sarà offerto a costo zero. Il garante sarà alle dipendenze del Comune ma non riceverà alcun compenso, tranne probabilmente un rimborso delle spese vive. “Indiremo un bando e poi effettueremo una selezione dei candidati, che dovranno, ovviamente avere una certa esperienza nel campo e preparazione giuridica - prosegue l’assessore. Le prestazioni saranno a titolo di volontariato. Dovrà avere la possibilità di confrontarsi con gli ospiti del carcere e concordare con la direzione di via Spalato azioni per migliorare la condizione dei detenuti”. Franzil esprime poi parole di apprezzamento per il lavoro e l’impegno di operatori e direzione del penitenziario di Udine: “Fanno molto di più del loro dovere, con grande dedizione”. L’iter prevede ora il passaggio in commissione, quindi in consiglio e poi il bando e la selezione. L’esecutivo comunale ha già votato a favore. I tempi? “Conto che si arrivi all’istituzione del garante velocemente - auspica Franzil. Credo che sia un passo in avanti molto importante per la vita in carcere”. Varese: “Mi si è ristretto l’affetto…”, i sentimenti tra le sbarre diventano storie e dipinti Varese News, 28 novembre 2011 Giovedì 1 dicembre verranno premiati i tre vincitori del concorso artistico-letterario indetto dal carcere di Varese, Sol.Co. e Auser. Carcere e affettività. Due mondi per forza di cose separati o no? È questo il tema che, nella sua seconda edizione, è stato affrontato da persone detenute in istituti lombardi per il concorso letterario artistico “Mi si è ristretto l’affetto… storie di sentimenti tra le sbarre”. Indetto nel mese di maggio, il concorso è rivolto a tutti i detenuti degli Istituti Penitenziari della Lombardia e prevede due sezioni, ovvero il racconto breve e/o l’elaborato artistico di pittura/disegno, aventi entrambi come tema l’affettività dietro le sbarre. La premiazione si svolgerà giovedì 1 dicembre alle ore 17,00 nella sede della Provincia di Varese (Villa Recalcati in piazza Libertà 1). L’iniziativa è indetta, promossa ed organizzata dalla Direzione della Casa Circondariale di Varese, il Consorzio Sol.Co. Varese e AUSER - Associazione per l’autogestione dei servizi e la solidarietà - di Varese. Un argomento delicato, quello degli affetti, che accomuna tutti i detenuti fin dal primo giorno di detenzione: chi è condannato a scontare pene lunghe - l’italiano, ma anche lo straniero - spesso con affetti lontani e raggiungibili solo attraverso le lettere, ma senza quel contatto umano che renda la pena più vivibile. E allora, attraverso l’esperienza della scrittura e dell’espressione artistica, si è voluto dare voce e tentare di trovare un luogo al vuoto e alla mancanza: gli affetti si esprimono attraverso il disegno di una famiglia, attraverso la luce tra le sbarre e le storie che ricostruiscono la nascita di un amore ancora esistente. Si intuiscono i nomi tra le righe, si ritrovano i gesti e le parole abituali dell’amore e anche parole nuove che possono essere riportate nella ricchezza di un pezzo di carta. “Mi si è ristretto l’affetto” è la seconda edizione del concorso artistico per detenuti: nel 2010 aveva esordito con “Verso l’Italia Esperienze... Emozioni... Episodi...”, che poneva l’attenzione sui detenuti stranieri, parlando di emigrazione e immigrazione. Quest’anno si è deciso di ampliare l’esperienza a tutti i detenuti, italiani e stranieri, e di “replicare” sulla scia dell’interesse suscitato dall’iniziativa precedente, evidenziando l’importanza della continuità e del far sedimentare le abitudini positive. Allo stesso modo è stato significativo il lavoro in “rete”: il gruppo storico degli organizzatori si è consolidato e si è ampliata la rete delle istituzioni, delle cooperative e del terzo settore che hanno dato il loro contributo e sostegno all’iniziativa. Oltre agli organizzatori, la Provincia di Varese ha dato un forte incentivo e supporto patrocinando l’evento e mettendo a disposizione la sua prestigiosa sede di piazza Libertà. Sono patrocinatori anche il Comune di Varese, Confcooperative Varese e Cesvov. Inoltre, il concorso è promosso e sostenuto dalla Regione Lombardia Famiglia e Solidarietà Sociale e Asl Varese, in qualità di finanziatori del progetto “Fuori di Cella”: il consorzio Sol.Co. Varese è capofila del progetto. E ancora hanno partecipato mettendo a disposizione le risorse economiche per i premi diverse cooperative ed associazioni del terzo settore: l’associazione Ywca - Ucdg, la cooperativa sociale Valle Olona, la cooperativa sociale Biumo Inferiore e Belforte e Coop Lombardia. Giovedì 1° dicembre saranno premiati i primi tre classificati di ciascuna sezione, ai quali sarà riconosciuto un premio in denaro; sono inoltre previste menzioni particolari per alcuni lavori presentati. La Giuria del Concorso è composta dalla Presidente Margherita Giromini, membro di Auser e, come giurati, dalla Responsabile dell’Area Educativa della Casa Circondariale di Varese Maria Mongiello e da altri tre membri Auser Gisella Incerti, Elvira Nidoli, Claudio Benzoni e da Anna Bonomi. Per la serata è prevista la presenza, oltre ai padroni di casa della Provincia di Varese, del direttore del Carcere Gianfranco Mongelli, il Comune di Varese e ASL, operatori del settore e anche detenuti che, per l’occasione, fruiranno di permessi premio. La serata di premiazione è aperta alla cittadinanza e vuole essere un momento riflessione e un’occasione di incontro. Il carcere avrà l’occasione di “occupare” per qualche ora un altro luogo della città, molto diverso da quello delle celle e degli spazi angusti, e lì potrà a sua volta proporsi in modo inedito. Napoli: giovedì 1 dicembre a Secondigliano un concerto della Band di Marco Zuzolo di Fabrizio Valletti Il Mattino, 28 novembre 2011 Ogni iniziativa che riguarda la vita dei detenuti nelle carceri è degna di attenzione, non solo per un miglioramento delle interne condizioni di detenzione, ma anche per quanto la società civile che dall’esterno può collaborare. È anche merito del volontariato se possono essere attuate molte misure previste dalla legge e dall’ordinamento penitenziario, in vista di percorsi alternativi. Così pure, oltre alle numerose esperienze scolastiche curate dalla scuola dello Stato, vanno segnalate quelle promosse dal privato sociale o da associazioni, come la promozione alla lettura che vede ogni anno il Premio Napoli varcare il portone di Poggioreale. Per il Centro Penitenziario di Secondigliano c’è una novità: la musica per i reclusi. Si comincia il prossimo giovedì, 1 dicembre, con un concerto della Band di Marco Zuzolo, fantastico jazzista partenopeo, una originalissima iniziativa che prevede una serie di concerti di jazz. La manifestazione è stata resa possibile dalla collaborazione del Jazz Club Campi Flegrei, una associazione di appassionati di questo genere musicale, che ha sede nell’Osteria “Da Caliendo” di Bacoli. Marco Zuzolo, sassofonista e compositore, è l’artista che, con la sua banda, dà inizio l’1 dicembre prossimo alla serie di concerti già programmati. Il musicista, noto, tra l’altro per la sua attenzione al sociale, che lo porta regolarmente ad essere in prima fila in occasioni del genere, ha dato la sua adesione con assoluto entusiasmo. Si tratta di un artista presente da anni sulla scena del jazz internazionale, con meritata fama di essere uno dei rappresentanti della nuova musica di Napoli. Ha dato un’impronta personale ed innovativa alla tradizione che risale alla musica partenopea classica, portando una Napoli nuova e moderna in tutto il mondo. Come suggerisce l’amico Turi, “ha saputo cogliere in pieno l’essenza del rinascimenti di questa musica sin da quando, negli anni ‘80, prendeva vita la contaminazione della melodia napoletana con il blues ed il jazz, ed ha sviluppato una nuova visione di sintesi. La sua ricerca si rifa al simbolismo dei colori forti che contraddistingue le manifestazioni religiose e popolari, immergendosi nella tradizione e nel folklore lo cali, e descrivendone con intensità le radici culturali e le peculiari suggestioni”. C’è da chiedersi come sarà accolta fra le mura del centro penitenziario tale musica, in parte diversa da quella che in genere viene considerata la preferita dalla tradizione popolare napoletana, come i neomelodici. È una scommessa che Zuzolo vuole giocare all’interno della sua produzione artistica che vede, oltre all’ultimo Cd “Migranti”, varie altre prove come “Ex voto”, “Napoli ventre del Sud”, “Zuzolo suona Viviani”, “Back to smile” e “Sette e mezzo”. Chissà che una simile offerta musicale possa invogliare i prossimi ascoltatori dentro al carcere ad appassionarsi non solo nell’ascolto, ma anche a tentare di studiare musica e di fare una band! Dopo l’esperienza di “Coloriamo il carcere”, che ha lasciato una piacevole serie di pitture lungo i corridoi, è una speranza che a Secondigliano possa sorgere la novità di “Una musica oltre le sbarre”! Sarebbe uno dei tanti segnali di umanità che la nostra città potrebbe incidere nella sua storia travagliata ma sempre viva. Televisione: stasera a Linea Notte (Rai Tre) l’inchiesta di Radio Radicale sulle carceri Notizie Radicali, 28 novembre 2011 Lunedì alle 23.30 su Rai Tre, uno spazio di “Linea notte” l’approfondimento del Tg3, sarà dedicato al tema delle carceri e della giustizia. In studio anche Rita Bernardini, deputata Radicale in Commissione Giustizia. Da tempo i Radicali chiedono che si apra un grande dibattito per informare l’opinione pubblica sul dramma della giustizia e della sua appendice carceraria, strozzata dal sovraffollamento e dalla carenza cronica di risorse. Per questo motivo durante i mesi di agosto, settembre e ottobre, Valentina Ascione, Simone Sapienza e Pasquale Anselmi, per Radio Radicale, sono entrati in otto diversi istituti di pena raccogliendo testimonianze e dando voce a detenuti, direttori, agenti, educatori, psicologi, cappellani e altri operatori. Radio Radicale ha poi scelto di mettere il proprio materiale a disposizione di telegiornali e reti televisive pubbliche e private, per favorirne la maggior diffusione possibile e riparare, almeno in parte, al grave deficit di informazione su un tema rimosso dall’agenda politica del nostro Paese. Gli ascolti hanno sempre premiato i telegiornali e i programmi di approfondimento che nell’ultime settimane hanno scelto di occuparsi della grave situazione delle carceri italiane, mandando in onda le immagini di Radio Radicale. Iraq: sale a 20 morti il bilancio dell’attentato ad un carcere a nord di Baghdad Ansa, 28 novembre 2011 Sale a 20 uccisi e 26 feriti il bilancio dell’attentato suicida compiuto stamani a nord di Baghdad nei pressi di un carcere governativo. Lo riferisce il ministero degli interni iracheno. In un comunicato, il portavoce del dicastero, il generale Qassem Atta, afferma che tra i 20 uccisi e i 26 feriti figurano numerosi agenti addetti alla sicurezza del penitenziario di Taji, 20 km a nord della capitale, che ospita numerosi accusati di appartenere ad al Qaida e membri della milizia del leader sciita filo-iraniano Moqtada Sadr. Secondo Atta, il bilancio è destinato a salire a causa della gravità delle ferite riportate da decine di persone. Si tratta del terzo attentato mortale compiuto negli ultimi cinque giorni, ad appena due settimane dall’annunciato ritiro definitivo delle truppe americane dell’Iraq dopo quasi nove anni dalla caduta del regime di Saddam Hussein e della conseguente occupazione. Emirati Arabi: concessa amnistia ai detenuti in occasione della festa nazionale del paese Apcom, 28 novembre 2011 Amnistia e rilascio immediato di 554 detenuti e il pagamento dei debiti contratti dagli stessi da parte dello stato. Lo ha ordinato ieri il sovrano degli Emirati arabi uniti, lo sceicco Khalifa bin Zaid al Nahian, in occasione delle celebrazioni per il 40esimo anniversario della festa nazionale. Ai detenuti, l’emiro “vuole dare un’ulteriore opportunità per iniziare una nuova vita e ridurre le sofferenze dei loro familiari”, riporta oggi il quotidiano di Abu Dhabi “al Bayan”.