Giustizia: la professoressa Paola Severino è il nuovo ministro Guardasigilli Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2011 Con la nomina della professoressa Paola Severino al ministero di Via Arenula, per la prima volta il Guardasigilli della Repubblica è una donna. Nata a Napoli il 22 ottobre del 1948, si è laureata in giurisprudenza alla Sapienza di Roma si è poi specializzata in Diritto Penale e Criminologia ed è uno dei più noti avvocati penalisti italiani. Nel suo lungo curriculum appaiono anche la difesa di nomi eccellenti come Romano Prodi, Giovanni Acampora, ma anche Eni, Francesco Gaetano Caltagirone e Cesare Geronzi nel processo del crac Cirio. Severino ha anche difeso l'Unione delle comunità ebraiche nella causa contro l'ex ufficiale delle SS Erich Priebke. La sua carriera accademica si è svolta principalmente alla Luiss di Roma, facoltà di giurisprudenza, dove ha iniziato a insegnare nel 1987, della quale è stata preside fra il 2003 al 2006. Attualmente è vicerettore dell'ateneo. Un'altra cattedra che la vede impegnata da anni è quella di diritto penale alla Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma. Dal 30 luglio 1997 al 30 luglio 2001 la professoressa Severino ha rivestito anche la carica di Vice Presidente del Consiglio della Magistratura Militare, e sempre nel 2001 è risultata essere fra i manager pubblici più pagati. Vicina all'Udc, il suo nome in politica era stato fatto di recente, quando Angelino Alfano aveva lasciato il ministero della Giustizia per diventare segretario del Pdl. Precedentemente ha lavorato nello staff di Giovanni Maria Flick, ministro della Giustizia nel governo Prodi. è sposata con Paolo Di Benedetto, nominato nel 2003 da Silvio Berlusconi commissario della Consob. Un curiosità: nel 2003, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, è stata l'avvocatore difensore del processo a Charlotte Corday, assassina di Marat, contro la pubblica accusa rappresentata da Antonio Di Pietro. Moderatore era Severino Santiapichi, presidente del processo Moro. Giustizia: Sidipe; ora vogliamo cose concrete, serie, misurabili, immediatamente visibili Comunicato stampa, 16 novembre 2011 “Non intendiamo prendere parte al gioco del toto ministri, siamo convinti che il Prof. Sen. Monti saprà individuare la migliore squadra possibile di ministri, però non possiamo rimanere insensibili alle affermazioni di quanti mostrano di scandalizzarsi di fronte all’autocandidatura di Marco Pannella a Ministro della Giustizia, piuttosto che allo scenario di sprechi penitenziari, di disfunzioni cronicizzate, di malasanità penitenziaria, di fortissima demotivazione del personale penitenziario, abbandonato nelle realtà periferiche, di strutture carcerarie capaci d’ispirare istinti suicidari sia tra le persone detenute, stritolate da un sistema dell’esecuzione penale che non guarda le persone ma le annulla nei diritti umani, sia tra gli stessi operatori penitenziari, condannati ad un lavoro ove mancano istituti di protezione sociale che tengano conto della gravosità dello stesso, di come l’operare in carcere incida profondamente nelle coscienze e si rifletta nel quotidiano, con il pericolo di rischi devastanti sui luoghi di lavoro, in famiglia e nel contesto extra-penitenziario. Non sappiamo se Pannella la spunterà, noi comunque non saremo contrari perché, almeno lui, l’abbiamo visto e sentito tra di Noi, l’abbiamo visto offrire testa, corpo, cuore perché il sistema carcerario rientri in un contesto di reale legalità e non come il suo perfetto contrario: moderna icona della vittima sacrificale, siamo convinti che sia lui che quanti sostengono la sua battaglia morale non fingano: nobile è il tentativo di svegliare l’attenzione della Dea della Giustizia, sempre di più ricalco di quella della Fortuna, con gli occhi bendati e la stadera capovolta. Non ci interessano gli aspetti politici della questione, siamo stanchi e nauseati dai tatticismi, equilibrismi, trasformismi: vogliamo cose concrete, serie, misurabili, immediatamente visibili. Vogliamo carceri pulite, locali e ambienti dignitosi sia per i detenuti che per il personale, vogliamo il conforto ed il confronto quotidiano con gli educatori, gli psicologi, gli assistenti sociali. Vogliamo che ogni carcere abbia il suo direttore ed il suo comandante della polizia penitenziaria, e se il carcere è di grosse dimensioni un numero maggiore di dirigenti penitenziari: cose ovvie, ma non per quanti hanno operato fino ad oggi presso il Dap. Non vogliamo macchine di rappresentanza, vogliamo mezzi efficienti per le traduzioni dei detenuti. Non vogliamo nuove carceri dentro le carceri, non vogliamo che luoghi cupi lo diventino ancora di più, e poi non abbiamo il tempo di aspettare mentre tutto crolla e rovina, vogliamo invece che si avviino subito, e sarebbe già troppo tardi, le manutenzioni ordinarie e straordinarie degli istituti esistenti, prima che siano ceduti per essere trasformati in alberghi o luoghi residenziali. Vi sono carceri che da anni non sono in grado di ricevere una mano di pittura, oppure la modesta risistemazione dei bagni, dei sistemi di aerazione delle docce, degli impianti antincendio, di quelli elettrici, la bocciardatura delle scale, il rifacimento degli intonaci interni ed esterni, e questo riguarda sia le celle che i locali delle caserme. Non vogliamo vedere magistrati occupare sistematicamente i posti di funzione dirigenziale nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, non capiamo come possa giustificarsi questo grave dispendio di togati lì dove dovrebbero, ai sensi della legge 154/2005, di riforma della dirigenza penitenziaria, esservi dei funzionari del ruolo dei direttori d’istituto e di Uepe. Che senso ha bandire annualmente i concorsi per magistrati e poi riempire gli uffici del Dap con i loro colleghi sottratti dalle aule di giustizia e dalle procure, quali competenze amministrative hanno, perché non vengono utilizzati i tanti dirigenti penitenziari molti dei quali ancora senza incarico? Quando finirà questo scandalo italiano di magistrati collocati fuori ruolo per fare amministrazione invece che giustizia? Pannella e quanti altri lo sostengono politicamente, in caso di nomina a ministro, accelereranno le procedure contrattuali con il Ministero della Pubblica Amministrazione, già Funzione Pubblica e costringeranno il Ministero dell’Economia a rispettare la dignità dei dirigenti penitenziari, unici dirigenti dello stato senza uno straccio di contratto, restituendo il maltolto, posto che sono 6 anni che stanno aspettando quanto dovuto? Verranno banditi nuovi impellenti concorsi per dirigenti penitenziari, per gli appartenenti alla polizia penitenziaria, per gli educatori, per gli psicologi, per gli assistenti sociali al fine di arginare non a chiacchiere, ma con fatti concreti, l’emergenza carceraria? Se questi impegni saranno fatti propri dal nuovo ministro della giustizia, se su questi impegni il nuovo guardasigilli confermerà il suo solenne impegno, per noi Direttori è influente sapere chi lo potrà per davvero essere ma, certamente, con Pannella non ci sentiremo a disagio perché Lui ha dimostrato, esponendosi per davvero, che crede nel Diritto e non nel suo contrario. Un Diritto fatto di uomini e donne senza colore e senza distinzioni, un Diritto fatto di azioni e gesti e non di finte liturgie, un Diritto che non conosce confini se non quelli della coscienza. Certo, comprendiamo che si tratta di un personaggio scomodo, ma per la sua coerenza ed il coraggio, ed anche per la sua cultura giuridica, nazionale ed internazionale, per avere sempre preso le difese dei perdenti: ma non è questa la vera essenza del diritto? Il Segretario Nazionale, Dr. Enrico Sbriglia Giustizia: Sappe; nuovo Guardasigilli occasione importante per ricostruire sistema carceri Comunicato stampa, 16 novembre 2011 “Salutiamo con favore la nomina di Paola Severino a Ministro della Giustizia: è una scelta positiva. Le sue competenze tecniche, di avvocato penalista e di docente di diritto penale, saranno certamente utili a rimodulare e riformare il sistema dell’esecuzione penale italiana. È importante che il nuovo Guardasigilli ed il nuovo Governo mettano concretamente mano alla situazione penitenziaria del Paese, ormai giunta ad un livello emergenziale. La situazione di tensione che si sta determinando in molti istituti penitenziari del Paese rischia di degenerare e non si può perdere ulteriore tempo per interventi urgenti e non più procrastinabili, considerato anche che il Corpo di Polizia penitenziaria è carente di più di 7mila unita. Il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, vuole salutare e ringraziare contestualmente il Guardasigilli uscente, Francesco Nitto Palma, che si è dimostrato persona attenta e disponibile alle nostre problematiche: peccato non abbia avuto il tempo necessario per esercitare compiutamente le sue funzioni”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione alla nomina di Paola Severino a Ministro della Giustizia. “Oggi ci sono in carcere ben 67.510 detenuti a fronte di una circa 45mila posti letto. Bisogna dunque proporre soluzioni concrete. Noi, come primo Sindacato della Polizia penitenziaria, da tempo sosteniamo la necessità che i circa 25mila detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane debbano scontare la pena nelle carceri del proprio Paese d’origine. Non solo. Diciamo al Presidente del Consiglio Monti ed al Ministro della Giustizia Paola Severino di percorrere nella strada di una riforma del sistema penale - sostanziale e processuale - che renda stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale, prevedendo che i compiti di controllo sull’esecuzione penale e sulle misure alternative alla detenzione siano affidati alla Polizia Penitenziaria. Oggi circa 20mila degli attuali detenuti sono condannati a pene inferiori a 3 anni. Esclusi gli stranieri, da espellere per far loro scontare la pena nel Paese d’origine, gli italiani detenuti con pena inferiore ai tre anni potrebbero essere affidati ai servizi sociali e impiegati in lavori socialmente utili, quindi fuori dal carcere.” Giustizia: per De Cataldo sistema giudiziario nel caos, ma nessuno vuol parlare di amnistia di Valter Vecellio Notizie Radicali, 16 novembre 2011 “La giustizia italiana funziona malissimo. La giustizia civile è lenta in modo esasperante. Il processo penale, invece, è stato ingarbugliato da una serie di leggi fatte male, contraddittorie fra loro. Contemporaneamente, il governo uscente portava avanti il processo lungo al Senato e il processo breve alla Camera”. Lo dice un magistrato piuttosto noto, il giudice di Corte d’Assise a Roma Giancarlo De Cataldo, che è anche scrittore di un discreto successo, autore di quel “Romanzo criminale” ispirato alle imprese della Banda della Magliana portato anche al cinema e in televisione, e di un’altra ventina di libri. L’ultimo si chiama “In Giustizia”, e De Cataldo dice che lo ha cullato per una trentina d’anni, è la storia di un magistrato che crede ancora nella giustizia, il libro della sua vita di magistrato, uno spaccato della storia d’Italia vissuta da dentro i tribunali. Non un libro sulla giustizia, ma di giustizia, per capirla e cercare di salvarla raccontando come stanno le cose al di là delle isterie della politica e della cronaca. Libro interessante e di piacevole lettura, al di là della condivisione o meno delle opinioni che contiene. Ma la questione che De Cataldo, i colleghi di De Cataldo, le varie correnti di destra, centro e sinistra in cui è strutturata l’associazione dei magistrati di cui credo De Cataldo faccia parte, ma anche il Consiglio Superiore della Magistratura e tutti i partiti di destra, sinistra, centro radicali esclusi, eludono, è questa: sono d’accordo sul fatto che le carceri sono al collasso: nelle prigioni italiane sono rinchiusi qualcosa come 67mila detenuti, a fronte di una disponibilità reale di circa 44mila posti. Un surplus di circa 23mila detenuti in più rispetto alla massima capienza, che determina un affollamento in termini di percentuale di oltre il 52 per cento. Sono consapevoli che al collasso sono anche i tribunali e gli uffici giudiziari, sommersi da migliaia di procedimenti di ogni tipo e natura. E come rimedio? Niente. Non vogliono l’amnistia, ma non battono ciglio sulla quotidiana amnistia di classe costituita dalle prescrizioni: perché ne beneficia solo chi si può permettere un buon avvocato e ha buone amicizie; e clandestina perché è tenuta nascosta, non se ne parla e non se ne deve parlare: sono circa 150mila i processi che ogni anno vengono chiusi per scadenza dei termini. Per reati come la corruzione o la truffa, c’è ormai la certezza dell’impunità. Nel 2008, oltre 154mila procedimenti sono stati archiviati per prescrizione; nel 2009 oltre 143mila. Nel 2010 circa 170mila. Quest’anno si calcola che si possa arrivare a circa 200mila prescrizioni. Ogni giorno almeno 410 processi vanno in fumo, ogni mese 12.500 casi finiscono in nulla. I tempi del processo sono surreali: in Cassazione si è passati dai 239 giorni del 2006 ai 266 del 2008; in tribunale da 261 giorni a 288; in procura da 458 a 475 giorni. Spesso ci vogliono nove mesi perché un fascicolo passi dal tribunale alla corte d’appello. A Roma e nel Lazio, per esempio, quasi tutti i casi di abusivismo edilizio si spegneranno senza condanna, gli autori sono destinati a farla franca. A Milano, nel 2010 l’accumulo è cresciuto del 45 per cento, significa più di 800 processi l’anno che vanno a farsi benedire. Nel solo Veneto si contano 83mila pratiche abbandonate in una discarica dove marciscono tremila processi l’anno. Questa è la situazione, questi sono i fatti. È per questa situazione, per questi fatti che il 28 luglio 2011, in occasione del convegno “Giustizia! In nome della Legge e del Popolo sovrano”, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha tenuto quel discorso che possiamo chiamare “della prepotente urgenza”, quando ha parlato di “realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo”. Ha denunciato “l’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona”. Nel frattempo, per restare sulla “notizia”, l’altro giorno si sono registrati due nuovi suicidi in cella. Il primo nel carcere napoletano di Poggioreale; l’altro nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia. Sale quindi a 58 il totale dei suicidi in cella in questo 2011. Per tornare a De Cataldo: “I sistemi processuali che costituiscono la garanzia, non dei magistrati ma dei cittadini avrebbero bisogno di essere profondamente riformati mettendosi intorno a un tavolo, abbandonando tutte le pregiudiziali ideologiche che hanno caratterizzato questi anni di scontro acuto, in vista del soddisfacimento di un interesse comune, non solo dell’interesse di qualcuno”. E ci si può stare: a patto che si voglia affrontare il nodo ineludibile dello sfacelo della giustizia di cui le carceri sono l’appendice più dolorosa e urgente. Se non con l’amnistia, giudice De Castaldo, di cosa si discuterà, su cosa ci si confronterà intorno all’evocato tavolo? Giustizia: la mutazione del processo penale di Sergio Moccia Il Manifesto, 16 novembre 2011 Uno sguardo comparativo tra i paesi dell’Europa e dell’America avvalora l’ipotesi che la mutazione strutturale del sistema punitivo sia in realtà una crisi di adattamento ai processi di trasformazione, legati alla globalizzazione, in atto nelle società capitaliste. Il diritto penale moderno, così come è stato forgiato attraverso il pensiero giuridico degli ultimi due secoli, è il frutto tardivo della modernità; ne trasmette le promesse (di libertà, umanità, giustizia ed eguaglianza) soprattutto sul piano ideologico. Tuttavia, il modello liberale classico elaborato dagli Illuministi ed i principi di funzionamento che da esso discendono, consacrati nella Costituzione degli stati di diritto, non hanno affatto regolato l’apparato punitivo in modo costante e sistematico. Sistematica e costante è stata invece, finora, la distanza tra il reale funzionamento della giustizia criminale e i propri programmi legislativi, tra la stessa produzione legislativa e i principi costituzionali. Il modello liberale classico è rimasto valido, non senza gravi, prolungate soluzioni di continuità (il fascismo in Europa), nella cultura accademica, nel discorso ufficiale del sistema, come l’espressione contrafattica di un dover essere, che non è mai riuscito a determinare in modo significativo la realtà di quel sistema. La logica dell’emergenza e quella che può essere anche descritta come amministrativizzazione o banalizzazione del diritto penale, non sono una caratteristica esclusiva dell’attuale fase di sviluppo del sistema punitivo; non lo sono l’uso inflazionistico e simbolico della legislazione penale ed il sacrificio delle garanzie costituzionali a vantaggio di pretese ragioni di efficienza. Si tratta di elementi che, nella loro generalità descrittiva, sono costitutivi e ricorrenti nella storia del diritto penale moderno. La guerra alla criminalità: ecco un ulteriore elemento di realtà su cui bisogna riflettere. Nello stato sociale di diritto il sistema penale non ha solamente la funzione di contenere la violenza delle aggressioni a diritti fondamentali, ma anche quella di contenere le limitazioni degli stessi, provocate dall’esercizio della penalità pubblica. Ma, se nemmeno programmaticamente il legislatore prende in considerazione la seconda funzione, l’esercizio della prima entra in una logica di guerra. Il diritto penale del cittadino si trasforma così in diritto penale del nemico e la tendenza autoritaria endemica nella funzione punitiva esce allo scoperto. Un segno emblematico di questa trasformazione è l’uso dominante della terminologia bellica per definire i compiti della giustizia penale. Un ulteriore elemento di riflessione si riferisce alla consistenza sistematica ed alla stabilità rituale della legislazione penalistica. L’ideale della legislazione in questo settore del diritto è quello stesso che ha ispirato i codici moderni: edifici dall’architettura chiara ed armonica, costruiti attraverso una lunga elaborazione scientifica e politica, solennemente inaugurati dall’assemblea legislativa, atti a stabilizzare per un lungo periodo le aspettative reciproche di cittadini ed organi dello Stato, in modo riconoscibile da chiunque. La codificazione moderna ha segnato anche il passaggio definitivo dal metodo casistico a quello sistematico nella produzione normativa. E invece, ad un attento esame della legislazione penale italiana, ci si può rendere conto di quanto essa si sia allontanata da quel modello ideale e si svolga, al contrario, sulla falsariga delle “leggine” e degli atti amministrativi, preferendo la via degli interventi immediati di risposta alle situazioni contingenti, spesso sull’onda dei flussi dell’opinione pubblica, assecondando in tal guisa i deludenti moduli della postmodernità. Il risultato è una esuberante produzione di nuove disposizioni, spesso a mero contenuto sanzionatorio (appendici penali della legiferazione in altri settori dell’ordinamento) accompagnata da continue modificazioni delle norme esistenti che divengono in tal modo sempre più difettose tecnicamente e di difficile lettura anche per gli addetti al lavoro. Tra le conseguenze più gravi di questo stile legislativo vanno annoverate le frequenti deviazioni delle tecniche di imputazione da canoni ai quali il legislatore è vincolato in virtù dei principi costituzionali - legalità, personalità della responsabilità penale, dignità umana, materialità, offensività, risocializzazione, sussidiarietà e così via - o la commistione tra metodo sistematico e metodo casistico con pregiudizio della certezza del diritto. I processi sinora illustrati non appaiono, tuttavia, esclusivi della sola realtà italiana. Uno sguardo comparativo rivolto ad altri Paesi d’Europa e d’America sembra avvalorare l’ipotesi che quella degli ultimi due decenni sia piuttosto una mutazione strutturale del sistema punitivo, che interessa l’attuale fase di sviluppo dell’intera società capitalista, una crisi di adattamento ai processi di trasformazione, legati alla globalizzazione, in atto in queste società. I termini “efficientismo” e “funzionalismo” designano forme di perversione oggi diffuse in Europa e in America, cioè in Paesi le cui costituzioni pur contengono i principi dello stato sociale di diritto e del diritto penale liberale. L’efficientismo penale, dunque, costituisce una forma nuova di diritto penale dell’emergenza, una degenerazione che sempre ha accompagnato la vita del diritto penale moderno. Viceversa, il diritto penale sussidiario o dell’extrema ratio, è al tempo stesso il diritto penale della Costituzione. Esso rappresenta lo spazio residuale dell’intervento punitivo nel quadro di una politica integrale di protezione dei diritti dell’uomo, nel caso in cui gravi violazioni dei diritti fondamentali e una domanda sociale ineludibile lo rendano necessario. Come diritto penale della Costituzione, il diritto penale sussidiario presuppone uno sforzo continuo dell’immaginazione sociale per il controllo del sistema punitivo e dei meccanismi di criminalizzazione, per la riforma della legislazione, della giustizia, della polizia e del carcere. Un tale sforzo dovrà essere rivolto senza tentennamenti alla realizzazione dei principi costituzionali in materia penale ed alla applicazione dei risultati delle più avanzate ricerche sul funzionamento dei sistemi penali e sulle politiche pubbliche di effettiva protezione dei diritti dell’uomo. Giustizia: la Cassazione impone maggiori limiti all’utilizzo della custodia cautelare di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2011 Per il trafficante di droga il carcere non è l’unica possibilità. La Cassazione inizia ad applicare la sentenza della Corte costituzionale con la quale, a luglio, è stata dichiarata l’illegittimità della norma, contenuta nella legge che ha tra l’altro introdotto lo stalking, con la quale si prevedeva l’obbligo di custodia cautelare per l’imputato del reato delineato dall’articolo 74 del Dpr n. 309 del 1990. La Corte, con pronuncia della Sesta sezione penale depositata l’11 novembre, ha così chiarito che toccherà al giudice valutare, caso per caso, se e quando la detenzione rappresenti la misura più opportuna. Per queste ragioni è stato accolto il ricorso presentato dalla difesa di un uomo, con tre precedenti condanne per reati in materia di armi, che era stato ristretto in carcere sotto l’imputazione di appartenenza alla ‘ndrangheta. La sentenza della Cassazione sottolinea l’intervento di pochi mesi fa della Corte costituzionale (sentenza n. 231) con la quale è stata bocciata la disposizione della legge n. 38 del 2009. La norma censurata, che riscriveva in parte l’articolo 275 del Codice di procedura penale, stabiliva l’obbligo di custodia cautelare in carcere per il delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Un vincolo che non era aderente ai principi che comunque devono guidare il legislatore nella disciplina delle misure cautelari. Il modello da seguire è quello della “pluralità graduata”, di una gamma di misura alternative, caratterizzate da un diverso grado di incisività sulla libertà personale. “Al contrario, la norma scrutinata stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti, una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari; assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata, ove la presunzione relativa non risulti vinta, unicamente la custodia cautelare in carcere, senza alcuna possibile alternativa”. La norma che invece era stata introdotta nel 2009 si caratterizza per un elevato tasso di irrazionalità, visto che colpiva la partecipazione a un’associazione criminale indipendentemente da qualsiasi considerazione sulla sua fisionomia. Insomma, si qualifica penalmente nello stesso modo sia l’adesione a un sodalizio transnazionale, forte di un’articolata organizzazione, di cospicue risorse finanziarie, sia quella al piccolo gruppo, a volte persino limitato al solo ambito familiare, che opera magari in un’area limitata e con più modesti mezzi. In una prospettiva più attenta alle caratteristiche del caso concreto allora toccherà all’autorità giudiziaria definire la misura cautelare più opportuna, tenendo conto oltretutto del fattore tempo, che potrebbe comunque condurre a dovere rimodulare la misura in relazione all’effettiva e concreta pericolosità dell’imputato. Potrebbe, infatti, darsi che non sia il carcere la soluzione più adeguata, ma altre misure meno pesanti senza perdere per forza di efficacia. Giustizia: oltre 500 storie poco note di errori giudiziari raccolte in un sito-archivio di Valentina Marsella Secolo d’Italia, 16 novembre 2011 Se fosse un film all’italiana riadattato si chiamerebbe “Dentro la notizia dell’errore giudiziario”. La trama: due giornalisti che cercano di raccontare le storie che hanno di fronte con assoluto distacco dalle tribune politiche, ma guardando all’aspetto puramente umano dei protagonisti “vittime” dell’errore o dell’ingiusta detenzione. E soprattutto, cercando di capire perché e dove, storia per storia, la giustizia ha sbagliato. Non è un film, è la realtà. Anzi, la mission tutt’altro che impossibile, portata avanti dai giornalisti Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, prima autori, nel 1996, del libro “Cento volte ingiustizia - Innocenti in manette”, e oggi titolari del primo database online italiano sugli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni. Un mondo sconosciuto Entrare in errorigiudiziari.com per certi versi significa affacciarsi in un mondo nuovo e sconosciuto, lontano dai riflettori. Quasi cinquecento storie raccolte e almeno altrettante ancora da inserire nel database, raccontano delle disavventure con la legge di gente comune, di cui i media spesso poco parlano. Ma in tutti questi casi a essere eloquenti sono le stesse storie unite da un destino che ha fatto trovare i protagonisti, da un capo all’altro dell’Italia, faccia a faccia con una giustizia ingiusta. Dal 1994 Maimone e Lattanzi fanno coppia fissa in questo percorso professionale. Hanno iniziato raccogliendo in un libro, ben cento storie, ambientate nel lungo periodo intercorso dal dopoguerra ai giorni nostri. “Abbiamo raccontato vicende poco note - spiega Valentino Maimone - escludendo di proposito il caso Tortora, già ampiamente trattato e mediaticamente conosciuto. Si tratta di spaccati, pezzi di cronaca ricostruiti con l’unico intento di sollevare una riflessione approfondita su una delle più attuali e delicate questioni della giustizia”. L’autore spiega che il libro è frutto di un anno e mezzo di lavoro, che oltre alla cronaca ha visto la testimonianza di tutti quelli che possono essere i protagonisti di un processo. Dunque l’ingiustizia analizzata da tutte le angolazioni possibili. C’è infatti l’intervento di quattro addetti ai lavori: l’accusa rappresentata dal giudice Ferdinando Imposimato, la difesa, nella persona dell’avvocato Carlo Taormina, docente di procedura penale presso l’Università di Tor Vergata di Roma, Severino Santiapichi, per anni presidente della Corte d’Assise di Roma, ex procuratore generale presso la Corte d’Appello di Perugia, e Renato Borruso, ex magistrato della Corte di Cassazione. Un sito-database Dopo l’uscita del libro, le due “penne” hanno continuato nella missione professionale archiviando tutti i casi in cui si imbattevano con un unico criterio: offrire una documentazione il più possibile completa, verificata e asettica sulle ingiuste detenzioni, riconosciute nel 90 per cento dei casi e dunque risarcite, e sugli errori giudiziari. Una distinzione, quella tra ingiusta detenzione ed errore, quasi mai data per scontato da chi per mestiere si occupa di giornalismo giudiziario: “La parola errore giudiziario - fa notare infatti l’autore del sito-database - viene infatti spesso usata in modo forzato e strumentale, anche se non c’è stata una sentenza di proscioglimento a seguito di un processo di revisione nei confronti della presunta vittima. Ci vorrebbe una maggiore cautela su questo tema, e l’informazione non dovrebbe mai piegarsi ad alcuna strumentalizzazione politica”. Ecco perché su “errorigiudiziari.com” non sono prevalenti i casi legati a vicende politiche (Tangentopoli e non solo). A parlare devono essere le storie, le vicissitudini della gente comune, la frustrazione e la paura di chi ingiustamente è finito in manette senza sapere, a volte, neppure perché la giustizia li abbia puniti. In quindici anni di attività, i due giornalisti, ne hanno viste e raccontate davvero tante, diventando testimoni e portavoce di chi si sentiva senza difesa in questo terribile tranello. Maimone ricorda la storia di quel ragazzo che, all’epoca dell’omicidio D’Antona fu accusato di essere un presunto telefonista delle nuove Brigate Rosse. “Prosciolto prima ancora di arrivare davanti al giudice per le indagini preliminari, e con tante scuse degli inquirenti - rivela il giornalista - quel giovane mi ha raccontato i terribili attimi in cui è stato caricato su un cellulare dei carabinieri dopo essere stato ammanettato”. Dietro, attraverso le grate dei finestrini, il “telefonista” vedeva la sua città, Roma, scomparire lentamente. Passando da piazza Venezia e dai luoghi simbolo della Capitale, aveva già la sensazione di non rivederli più. n sole filtrava da quelle grate, con lo stesso effetto che avrebbero avuto su di lui le sbarre del carcere. E ancora oggi, dopo essere stato scagionato, l’uomo non riesce, quando è in macchina, a stare sui sedili posteriori, perché quel trauma l’ha profondamente segnato. Errore in agguato La paura, lo choc, sono comuni alle vittime dell’errore: “Sono in tanti - spiega - a raccontarmi di avere il terrore nel sentire suonare il citofono di casa, ricordando quel blitz notturno dei carabinieri prima di essere accusati di qualcosa di cui non avevano neppure una lontana idea”. Come il caso, racconta ancora il giornalista, di un ragazzo alto, biondo, con gli occhi azzurri, che ha passato in cella una settimana senza sapere perché. E quando si è trovato davanti al pm che stava indagando lo ha sentito urlare “Liberate subito quest’uomo!”. Perché l’identikit dell’accusato riguardava un uomo moro e più basso, insomma, evidentemente diverso e riconoscibile anche a un superficiale colpo d’occhio. E ancora, casi di omonimia, furti identità, decine di sprazzi di errori. E la “cosa sconvolgente”, spiega Maimone, è che “si continua a sbagliare senza trovare il modo di arrestare questa spirale”. Una normativa sulla responsabilità civile dei magistrati, di cui giacciono molte proposte in Parlamento e di cui si è parlato nel dibattito politico recente, potrebbe cambiare le cose? “Non so se questa sia l’unica strada per risolvere la questione - afferma Maimone - ma voglio andare oltre. È vero che i procedimenti disciplinari di fronte al Csm si contano sulla punta delle dita, e che nel caso di una colpa clamorosa il giudice dovrebbe in qualche modo pagare l’errore, lo dice anche un referendum votato dai cittadini che è rimasto lettera morta. Ma è anche vero che i magistrati dovrebbero essere messi in condizione di lavorare con i mezzi e le risorse di cui hanno bisogno”. Ma al centro della scena, tra gli errori dell’uno o dell’altro protagonista del processo e la stampa che spesso, in maniera affrettata sbatte il mostro in prima pagina, devono restare le vittime, gli “innocenti in manette”. Del resto “il medico, magistrato e giornalista”, si fa notare nella prefazione del libro di Maimone e Lattanzi, “sono i rappresentanti delle tre corporazioni alle quali il cittadino affida la tutela della salute, della libertà e dell’onore. Per questo, quando queste categorie professionali cadono in errore, le conseguenze finiscono per avere un’incidenza maggiore sulla vita della gente”. Le statistiche confermano che negli ultimi quindici anni sono state completamente scagionate oltre trecentomila persone. Soltanto tra il 1990 e il 1994, sono state quasi 24mila e 500 le sentenze definitive pronunciate con la formula più ampia per l’imputato: non aver commesso il fatto. Ad esse vanno aggiunti altri 73.326 imputati assolti con una formula altrettanto liberatoria, ma più tecnica: “il fatto non sussiste” o “non costituisce reato”. Giustizia: morte innaturale… di Cinzia Gubbini Il Manifesto, 16 novembre 2011 Cristian De Cupis aveva 36 anni. Arrestato dalla Polfer alla stazione Termini, portato in ospedale è morto dopo quattro giorni di ricovero. Secondo l’autopsia non ci sono lesioni mortali. I medici: “Aveva una crisi depressiva. Poi è morto nel sonno”. Ma sul suo corpo ci sono escoriazioni. Si svolgeranno domani i funerali di Cristian De Cupis, il ragazzo romano di 36 anni morto il 12 novembre all’ospedale Belcolle di Viterbo, nel reparto riservato ai detenuti. Cristian, originario del quartiere Garbatella di Roma dove in molti lo ricordano come un frequentatore, anche se non assiduo, del centro sociale La Strada, era stato fermato mercoledì 9, intorno alle 8 di mattina, da alcuni agenti della Polfer, la polizia ferroviaria, e tratto in arresto. Le accuse, anche se nessuno ha ancora letto i verbali, sarebbero di resistenza e pubblico ufficiale. Ma il motivo per cui gli agenti hanno fermato Cristian sarebbero da ricondurre a un’aggressione avvenuta di mattina presto alla stazione. Alle 4,30 di mercoledì, sotto al tunnel che collega via Marsala a via Giolitti, qualcuno ha aggredito ferocemente, e senza alcun apparente motivo (nessun furto) un dipendente di un bar della stazione che si recava al lavoro. L’uomo è ancora ricoverato, con una prognosi di trenta giorni. L’aggressore gli ha spaccato la faccia. E la Polfer era sulle sue tracce. Tre ore dopo fermano Cristian De Cupis per un controllo, pensando che si tratti dell’aggressore. Lui reagisce malissimo. Si agita, si dimena. Un testimone direbbe di aver visto “atti di autolesionismo”. Un altro arriva quando Cristian è già a terra e lo sente inveire contro un poliziotto: “Sei sempre tu, ce l’hai con me”. Cosa ci facesse di primo mattino Cristian alla stazione Termini non è chiaro. Non aveva ancora lavoro, era uscito da poco tempo dalla comunità di San Patrignano, dopo anni passati nel tunnel della droga (aveva anche precedenti) e da cui però aveva deciso di uscire. Il percorso di disintossicazione era andato bene. Sicuramente, come anche nel caso di Stefano Cucchi che in molti hanno rievocato in queste ore, Cristian non doveva essere un ragazzo facile. Era “terrorizzato dai poliziotti”, racconta il fratello Claudio, “tanto che recentemente quando aveva dovuto rinnovare un documento, si era fatto accompagnare”. Dalla stazione Termini, Cristian viene portato all’ospedale Santo Spirito. Dunque la polizia si preoccupa della sua salute. Ma perché viene portato in ospedale? In ambienti sanitari si dice che “era in crisi depressiva, piangeva, non sapeva come uscire dalla sua situazione”. Per questo gli era stato somministrato del metadone, ma tutti gli esami erano risultati a posto. Il dottore che lo visita, comunque, sporge denuncia, riscontrando escoriazioni sul suo corpo. E anche Cristian avrebbe denunciato di essere stato picchiato. Il giorno, intorno alle 23, dopo viene trasferito a Viterbo, dove era già stato ricoverato in precedenza. I primario, Giulio Starnini, lo ricorda come “un ragazzo tranquillo”. Anche ai medici di Viterbo aveva detto di “essere stato picchiato”, ma stava bene ed è “morto nel sonno” dopo una doccia. La zia e il fratello vengono avvertiti solo per comunicare la morte. Quando vedono il corpo notano lividi e graffi e si recano in Procura. Dove scopre che un fascicolo aperto c’era già, sulla denuncia del medico. L’autopsia è stata eseguita senza che la famiglia abbia avuto il tempo di nominare un perito di parte. Dalle prime anticipazioni si dice che non vi erano lesioni interne mortali. Arriveranno la prossima settimana, invece, i referti tossicologici e già si parla della sieropositività di Cristian. In ogni caso aveva da poco fatto un check up, da cui era risultato sano. Dunque, come si muore in quattro giorni a 36 anni dopo un incontro “agitato” con la polizia? Dopo il ricovero al Santo Spirito le sue condizioni devono essere apparse tali da consigliare un ricovero e non il carcere. Perché? Il sentore Ignazio Marino, capo della Commissione di inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, ha avviato un’inchiesta. Il garante dei detenuti Angiolo Marroni ha interessato il Viminale. L’ho visto gridare contro un poliziotto Preferisce che il suo nome non sia reso pubblico, ma è stato lui a farsi vivo per raccontare quello che ha visto, e sentito, la mattina del 9 novembre alla stazione Termini: il fermo di Cristian De Cupis: “Era molto agitato, ma quello che più mi ha colpito è che continuava a gridare contro un poliziotto in particolare”. Che vuol dire che Cristian era molto agitato? Voglio dire che era molto fisico, urlava, si dimenava, era molto reattivo. Da questo punto di vista mi sembrava in ottima forma. Lei perché si è avvicinato? Stavo prendendo il treno per Milano che parte alle 8, quindi saranno state le 7,30. Ero al mio binario, che si trova più o meno al centro della stazione. Poco più indietro ho sentito un gran trambusto. Ma c’erano almeno trenta persone. I testimoni sono sicuramente tanti. Cosa ha visto? Un ragazzo a terra, di fianco, sopra di lui c’erano diversi poliziotti, lo stavano ammanettando. Lui si dimenava molto e gridava. Cosa diceva? Diceva: “Avete visto tutti quello che mi hanno fatto”. E poi, una cosa che mi ha colpito molto, perché si riferiva in particolare a uno degli agenti: “Sto bastardo - diceva - è sempre lui... una volta che ti becco senza divisa... te devo beccà fuori... sei sempre tu”. Ripeto, era molto agitato. Però mi colpiva che si riferisse a un poliziotto come se già si conoscessero, come se fosse già accaduto qualcosa. Ma lei ha capito chi poteva essere? No ovviamente no. Ho solo visto allontanarsi uno dei poliziotti, staccarsi dal gruppo. Come se volesse nascondersi, almeno mi ha dato questa impressione. Era alto e con gli occhiali da vista. Cristian aveva sangue, ferite, ha visto la polizia picchiarlo? Ed è sicuro che fosse proprio lui? No, non aveva né sangue né ferite. Non ho visto gli agenti picchiarlo, so solo che lui diceva “Avete visto tutti quello che mi hanno fatto”, ma io sono arrivato dopo, alla fine. Che sia lui ho pochi dubbi, ho visto le foto. La cosa l’ho seguita finché i poliziotti lo hanno caricato, praticamente di peso, e lo hanno messo su uno di quei veicoli che usano all’interno della stazione, quelli che hanno degli abitacoli trasparenti. Lui era talmente agitato che per dimenarsi ha fatto un salto e ha sbattuto la testa sul soffitto del veicolo. Autopsia esclude lesioni mortali, ma aveva crisi depressiva (Ansa) Nessuna lesione interna mortale sarebbe stata riscontrata dai periti che, su disposizione della procura della Repubblica di Viterbo, hanno eseguito l’autopsia sul cadavere di Cristian De Cupis, il detenuto romano di 36 anni, morto sabato scorso nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Belcolle. I periti hanno riferito al Pm Stefano D’Arma, titolare dell’inchiesta, che, a parte alcune piccole escoriazioni sulla fronte, peraltro indicate anche nella cartella clinica, non sono stati trovati sul corpo altri segni di violenza. La loro conclusione è che il decesso sarebbe stato causato da un arresto cardiocircolatorio. Il presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, Ignazio Marino, ha però annunciato di aver avviato una istruttoria sulla morte di De Cupis, che ha denunciato di essere stato picchiato dagli agenti al momento dell’arresto. “Vogliamo accertare - ha detto Marino - di non trovarci di fronte a un nuovo caso Cucchi”. Gli ulteriori accertamenti in corso, tra i quali gli esami tossicologici, diranno se l’arresto cardiaco possa essere una concausa delle patologie, in primo luogo di origine infettiva, di cui soffriva De Cupis, e dell’uso di sostanze stupefacenti che hanno segnato per anni la sua esistenza. Anche le ecchimosi sulle sue spalle che il fratello ha riferito di aver visto, hanno una spiegazione medica: si tratta di macchie ipostatiche post mortem hanno detto i medici. De Cupis fu arrestato alla stazione Termini di Roma il 9 novembre per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Prima di essere bloccato, secondo gli agenti, aveva colpito con un pugno un passante causandogli la frattura del setto nasale. A causa dello stato di agitazione psicofisica in cui versava, l’uomo venne accompagnato nel pronto soccorso dell’ospedale romano del Santo Spirito. Durante la visita riferì ai medici di aver subito un violento pestaggio dai poliziotti che lo avevano arrestato e che, da allora, avvertiva dolori alla testa. Fu immediatamente sottoposto a una Tac e ad altri accertamenti radiografici che, secondo quanto si è appreso, hanno escluso la presenza di traumi. Il giorno successivo, intorno alle 23, il detenuto fu trasferito a Viterbo, nel reparto di medicina protetta dell’ ospedale cittadino. Durante la compilazione della cartella clinica riferì di nuovo di essere stato malmenato al momento dell’arresto. L’11 novembre fu sottoposto ad esami clinici e a un elettrocardiogramma. Le sue condizioni, compatibilmente con le patologie di cui soffriva, risultarono discrete. Secondo i medici, era però preda di una crisi depressiva. “Piangeva e diceva di non vedere una via d’uscita dalla condizione in cui versava”, hanno riferito. Gli fu poi somministrato del metadone a basso dosaggio e altri farmaci. Nel pomeriggio ricevette la notizia che gli erano stati concessi gli arresti domiciliari. “Si era rasserenato e calmato - raccontano gli operati del reparto, la sera si era fatto la doccia ed era andato a dormire”. La mattina del 12 novembre, alle 5, gli infermieri lo hanno trovato morto nel suo letto. “Era ancora caldo”, è scritto nel referto. “Lo avrei tenuto un paio di giorni in osservazione e poi lo avrei dimesso - ha detto il primario del reparto, l’infettivologo Giulio Starnini - aveva tutti i valori sostanzialmente a posto e nulla avrebbe fatto presagire una morte così repentina”. Nelle prossime ore il Pm dovrebbe autorizzare la restituzione della salma alla famiglia per la sepoltura. Infine, il presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, Ignazio Marino, ha annunciato di aver avviato una istruttoria sulla morte di De Cupis. “Vogliamo accertare - ha detto Marino - di non trovarci di fronte a un nuovo caso Cucchi”. Il Garante: autopsia senza consulente di parte, ma mi fido del magistrato che indaga “È chiaro che è stato percosso dalla polizia alla stazione Termini. Su questo non ci sono dubbi. C’è anche un testimone, un avvocato, che mi ha telefonato e ha visto tutto”. È quanto ha dichiarato oggi dal carcere di Rebibbia, Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio, a proposito della morte di Cristian De Cupis, il 37enne romano arrestato nella capitale e poi trasferito in un reparto sanitario nell’ospedale Belcolle collegato al carcere Mammagialla di Viterbo. Dopo aver presentato il progetto di informatizzazione del carcere di Rebibbia accanto al direttore dell’istituto di reclusione Carmelo Cantone e del presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, consigliere Giovanni Tamburino, Marroni, parlando del caso De Cupis, ha detto: “Purtroppo l’autopsia è stata fatta senza il consulente di parte perché non è riuscito ad arrivare in tempo. Non si capisce come un ragazzo di 36 anni possa morire d’infarto. Mi fido comunque molto del magistrato che ha in mano la vicenda. Mi dicono che è un magistrato molto serio e molto severo”. A proposito della situazione delle carceri nel Lazio, Marroni ha poi sottolineato: “Ci sono ancora carceri troppo affollate. Abbiamo 6.600 detenuti, la capienza è però intorno ai 4.200, 4.300 posti. Ovunque ci sono affollamenti - ha precisato ancora, spazi ristretti, ridotta anche la parte della socialità. Ovunque, inoltre, c’è anche una carenza di polizia penitenziaria che è assolutamente spaventosa. Per questo motivo ci sono assenze tra il personale e la polizia penitenziaria e anche qualche suicidio. Una situazione difficile - ha concluso Marroni - di cui non vedo lo sbocco”. Sappe: inaccettabile rappresentare penitenziari come luoghi di violenza “Non possiamo accettare una tendenziosa e falsa rappresentazione del carcere come luogo in cui, quotidianamente e sistematicamente, avvengono violenze in danno dei detenuti, così come traspare dalle parole del politico comunista Giovanni Russo Spena”. Protesta il segretario del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, Donato Capece, dopo il commento dell’esponente di Rifondazione comunista sul caso De Cupis. “Russo Spena sostiene che la tortura nei nostri istituti di pena è una realtà: o ha elementi concreti e si rivolge alla magistratura o eviti di dire stupidaggini - afferma Capece. Non accettiamo che le donne e gli uomini della polizia penitenziaria che lavorano ogni giorno, nelle oltre duecento strutture detentive del Paese, con professionalità, zelo e abnegazione, vengano rappresentati associando al loro lavoro i sinonimi inaccettabili di violenza, indifferenza e cinismo”. Per il segretario del Sappe, “non è questo il momento delle opinioni o dei giudizi; è il momento che la magistratura accerti con serenità, equilibrio e pieno rispetto dei valori costituzionali, le cause, le responsabilità e le verità sulla morte di Cristian De Cupis, morto nel reparto detentivo dell’ospedale Belcolle di Viterbo. La polizia penitenziaria - sottolinea Capece - è una istituzione sana, composta da uomini e donne che con alto senso del dovere, spirito di sacrificio e grande professionalità sono quotidianamente impegnati nella prima linea della difficile realtà carceraria”. Ugl: appurare responsabilità su morte De Cupis “È doveroso attendere il risultato delle indagini affinché vengano appurate le responsabilità, ma è altrettanto opportuno chiedere che sia predisposto al più presto un protocollo d’intesa tra le Forze di Polizia, utile a stabilire le modalità di consegna degli arrestati presso le strutture di pena della Regione ed evitare che si possano così avanzare sospetti sull’operato degli agenti di Polizia Penitenziaria”. Lo dichiara il segretario nazionale Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, in merito alla morte di Cristian De Cupis, avvenuta lo scorso 12 novembre presso la struttura ospedaliera Belcolle di Viterbo, le cui cause sono in corso di accertamento. “Chiediamo perciò - conclude il sindacalista - un incontro urgente al provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Lazio per individuare un gruppo di lavoro che predisponga le regole da adottare per la consegna delle persone arrestate alle strutture di pena, ovvero il rilevamento dei servizi di piantonamento”. Nieri: fare chiarezza su ultime 72 ore di de cupis “È necessario che si faccia chiarezza su tutto ciò che è accaduto nelle 72 ore che son trascorse tra il fermo di Cristian De Cupis alla stazione Termini, da parte della Polfer, e il suo decesso, presso il reparto detentivo dell’ospedale Belcolle di Viterbo. Si tratta di un fatto di estrema gravità, che richiede rapidi accertamenti da parte della magistratura, per dare rassicurazioni e giustizia alla famiglia e a tutta la comunità”. È quanto dichiara Luigi Nieri, capogruppo di Sinistra, ecologia e libertà nel Consiglio regionale del Lazio. “Si trattava di una persona senza un profilo criminale spiccato. Il ragazzo - prosegue Nieri - era uno dei tanti che oggi sono vessati da una legge di particolare severità, come quella sulle droghe”. “Chiedo alla Polverini - aggiunge il capogruppo - di rendere immediatamente pubblici tutti gli atti che ha in mano l’ospedale Belcolle di Viterbo, ricordando che la sanità penitenziaria è, da ormai più di tre anni, di competenza regionale. Va sgombrato subito il campo dal dubbio che vi siano state responsabilità omissive nei giorni del ricovero. A tal proposito abbiamo presentato un’interrogazione alla presidente”. “Permangono comunque - conclude Nieri - su questa vicenda, molti dubbi e preoccupazioni su cui dovranno dare risposta le altre istituzioni”. Lettere: suicidi in carcere, siamo davanti a una situazione ormai diventata intollerabile di Franco Uda (Presidente provinciale Arci Sassari) La Nuova Sardegna, 16 novembre 2011 Qualche settimana fa nel carcere di San Sebastiano a Sassari è morto un giovane tossicodipendente, Fabrizio Piras, dopo aver inalato gas da una bomboletta che i detenuti usano per scaldare l’acqua o per il caffè. Da molti anni gli operatori del carcere chiedono che il ministero della Giustizia stanzi i fondi per sostituire i fornelli a gas con quelli elettrici per evitare la prassi, purtroppo diffusa, dell’inalazione del gas come sostituto della droga. Fabrizio Piras era in carcere per reati connessi alla sua dipendenza da sostanze stupefacenti, così come capita a circa un quarto della popolazione carceraria. Gli altri ospiti delle carceri italiane sono stranieri detenuti per reati connessi alla tossicodipendenza e alla violazione delle norme sull’immigrazione. Essi rappresentano un terzo dei detenuti complessivi. Il sovraffollamento delle carceri italiane, i detenuti sono poco meno di 68.000 a fronte di una capienza di circa 46.000, è dovuto principalmente all’introduzione delle leggi sul consumo di stupefacenti e quella sull’immigrazione, leggi fortemente “carcerogene”, e al fatto che le misure alternative alla detenzione vengono utilizzate in maniera inadeguata. Per questo la battaglia che molte associazioni conducono oggi per l’amnistia è rivolta a risolvere rapidamente il dramma del sovraffollamento, ma rischia di essere una soluzione momentanea se non si studiano misure strutturali definitive. I dati sulle morti e sui suicidi nell’ultimo anno (161 i morti di cui 55 suicidi) ci dicono che la situazione è drammatica e le condizioni carcerarie sono ormai incompatibili con i più elementari principi di civiltà e violano la Costituzione che indica nel carcere non la mera punizione, ma un percorso riabilitativo che restituisca alla società persone pienamente riscattate: in molte carceri italiane è impossibile svolgere le attività di socializzazione e quelle sportive, di formazione professionale, le biblioteche e i laboratori sono impraticabili. L’applicazione sistematica delle misure alternative alla detenzione e la depenalizzazione di molti reati e in particolare quelli relativi al consumo di sostanze e quelli relativi alla condizione degli stranieri rappresentano una soluzione efficace sia per il sovraffollamento sia per il buon risultato dell’attività riabilitativa. Le misure alternative alla detenzione vanno dall’affidamento al servizio sociale alla sospensione condizionata della pena, dalla semilibertà al lavoro esterno, dalla detenzione domiciliare alla semidetenzione fino alla conversione della sanzione in pena pecuniaria. Possono essere ammessi a queste misure gran parte dei detenuti e come dimostrano i dati pubblicati di recente da Fabrizio Leonardi e dall’associazione Antigone, i casi di recidiva, cioè di reingresso in carcere, è di circa il 20% per chi ha scontato la pena con forme alternative e del 68% per chi invece ha scontato l’intera pena all’interno del sistema carcerario. Questo dimostra che il carcere non rappresenta affatto la soluzione securitaria che molti propagandano, ma è spesso una scuola di carriere criminali, mentre la possibilità di scontare il proprio debito con la giustizia attraverso un percorso realmente riabilitativo garantisce l’effettivo reinserimento nella società. Infine, solo la depenalizzazione di tutte le pratiche di consumo di sostanze, della condizione giuridica degli stranieri che sono in carcere spesso in virtù del loro status senza che abbiano commesso un reato, dei piccoli reati per i quali si può ricorrere a pene pecuniarie può garantire un miglioramento duraturo delle condizioni carcerarie. Lettere: a proposito delle spese per il giuramento della Polizia penitenziaria di Assunta Borzacchiello (Capo ufficio stampa Dap) L’Unità, 16 novembre 2011 Gentile Direttore, con riferimento all’articolo di Luciana Cimino sulle spese sostenute per il giuramento dei 756 agenti di Polizia Penitenziaria, nel quale si sostiene che il Dap abbia speso circa 2 milioni e 300mila euro, si forniscono le reali spese documentate. La permanenza degli allievi nelle strutture alberghiere di Roma è costata 72.620 euro (compreso pernottamento, prima colazione e cena). Il costo totale della cerimonia, comprensivo del pranzo che gli allievi hanno consumato presso la sede della scuola di formazione di Roma, e le spese di allestimento della tribuna, assommano a 130.000 euro. Riguardo alla permanenza degli allievi nelle scuole, nel periodo compreso tra la conclusione del corso di formazione (ottobre) e la cerimonia del giuramento, il dipartimento ha responsabilmente atteso, come concordato con le organizzazioni sindacali, che venisse completato l’interpello ordinario nazionale rivolto al personale che aspetta da anni di essere trasferito dalle sedi del nord e che in tal modo potrà raggiungere sedi di servizio vicine alla propria residenza di origine. All’esito dell’interpello gli agenti del 163° corso, quindi, entro la fine di novembre saranno tutti assegnati, secondo il criterio della posizione in graduatoria, con un vincolo di permanenza di 5 anni, negli istituti penitenziari del nord dove ci sono le maggiori difficoltà di gestione. Va aggiunto, infine, che la cerimonia del giuramento, alla presenza del Ministro della Giustizia, è stato un doveroso, solenne e sobrio riconoscimento verso i giovani agenti di Polizia Penitenziaria (erroneamente denominati nel titolo dell’articolo agenti di custodia) e non una vana e irresponsabile parata per il ministro. La Polizia Penitenziaria non è figlio di un dio minore, affronta ogni giorno situazioni di emergenza e l’ingresso dei 756 nuovi agenti, numero eccezionale rispetto alle assunzioni degli anni precedenti, anche se non risolve la sofferenza degli organici, costituisce un segnale positivo nella situazione emergenziale delle carceri. Cordiali saluti La controreplica de L’Unità Nel nostro articolo arrivavamo a determinare in 2 milioni 300mila euro la spesa complessiva per la cerimonia del giuramento attraverso tre voci: a) la somma di 2.122.000 euro di stipendi corrisposti ai 756 agenti nominati a ottobre ma fermi due mesi senza essere trasferiti alle loro sedi in attesa della cerimonia; b) 70mila euro di spese alberghiere; e) 100mila euro di spese generali. Ora apprendiamo dal Capo Ufficio Stampa dell’Amministrazione Penitenziaria che l’importo delle voci b) e c) è stato addirittura superiore: 72.620 e non 70milaper l’albergo, 130mila e non 100mila per le spese generali. Tutto questo senza smentire le spese relative agli stipendi. Dunque questo giuramento è costato 32.620 euro in più di quanto avevamo indicato. L’Amministrazione Penitenziaria conferma inoltre che, come riportato nell’articolo, gli agenti di polizia penitenziaria non saranno operativi nelle sedi di competenza prima di fine mese. Asti: detenuti a scuola di economia e ambiente di Sabrina Belgero (Assessore all’Ambiente Comune di Castellero - Asti) La Stampa, 16 novembre 2011 Se pensare al futuro è un’esigenza fondamentale per la scuola e per i giovani, in genere, si può immaginare quanto lo sia per un detenuto che sta scontando la pena in carcere. E se il futuro del Paese sarà, come tutti ci auguriamo, quello della green economy, educare ai temi della sostenibilità ambientale diventa dunque una sfida vincente e un’occasione di arricchimento, professionale e umano, sia per i carcerati che per i docenti. L’idea è di Andrea De Leo e Chiara Costa, due giovani studenti di Scienze Politiche dell’Università di Torino e volontari del Servizio Civile Nazionale, che hanno lanciato, qualche settimana fa, l’iniziativa “Economia & Ambiente”, riuscendo a coinvolgere (a titolo gratuito e volontario) studenti e docenti della Facoltà in un ciclo di incontri per avvicinare i detenuti della Casa Circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino alle principali tematiche ambientali di cui si discute nell’attualità. Il Polo Universitario delle Vallette non è del resto nuovo a questo genere di iniziative. Istituito nel 1998, già ospita alcune sezioni delle Facoltà di Scienze Politiche e di Giurisprudenza e coinvolge una cinquantina di docenti universitari. Attraverso lezioni frontali e tutorship individuali, l’Università garantisce così il diritto allo studio ai detenuti, italiani e stranieri, che siano in possesso del diploma di scuola secondaria, non così comune in carcere. Non essendo possibile, per legge, istituire classi miste, il percorso di studi è oggi riservato ai soli uomini che abbiano riportato una condanna definitiva e sono esclusi i condannati per reati sessuali, i collaboratori di giustizia e i detenuti in regime di massima sicurezza. Nell’arco di questi anni circa 80 detenuti hanno potuto usufruire della formazione universitaria, un numero che può sembrare basso, confrontato con l’esterno, ma estremamente significativo in un contesto come quello carcerario. Oggi i detenuti iscritti a Scienze Politiche e Giurisprudenza sono 19, ma l’offerta è stata estesa anche a chi è sottoposto a regimi “alternativi”, come la semilibertà e l’affidamento in prova. L’iniziativa “Economia & Ambiente” di De Leo e Costa si inserisce all’interno di “Oltre la pena: percorsi universitari per il reinserimento sociale”, un progetto del Servizio Civile Nazionale promosso dall’Università di Torino e coordinato dalla professoressa Elana Ochse, Responsabile della Didattica del Polo Studenti Detenuti per la Facoltà di Scienze Politiche. Dopo aver notato che alcuni detenuti mostravano un certo interesse su temi ambientali, come la raccolta differenziata - avviata anche nelle strutture del carcere - i due ragazzi hanno iniziato, ad aprile scorso, a lavorare alla loro proposta. “L’Operatore Locale di Progetto ci ha chiesto di proporre qualcosa di nuovo, che andasse oltre le ordinarie attività di supporto alla didattica per gli studenti del Polo”, racconta Andrea, laureando in Sviluppo, Ambiente e Cooperazione. “Io mi sto specializzando in Economia e Politiche dell’Ambiente e ho pensato di coinvolgere i miei professori e compagni di corso, oltre ad alcuni professionisti dell’associazionismo e delle istituzioni. Per i docenti l’iniziativa si sta rivelando un’occasione per fare un’esperienza nuova e profonda, dal punto di vista umano, e per conoscere un mondo con cui difficilmente si entra in contatto.” Il calendario di lezioni, avviato il 22 settembre, prevede 14 seminari con cadenza settimanale, fino al 22 dicembre, tenuti da cinque docenti e nove giovani laureati, con la partecipazione di tre esperti provenienti da imprese e istituzioni: l’architetto Agata Fortunato, Responsabile dell’Ufficio Ciclo Integrato dei Rifiuti della Provincia di Torino, Alberto Cucatto, Responsabile provinciale del Servizio Qualità dell’Aria e Risorse Energetiche e Andrea Saroldi, referente della Rete dei Gruppi di Acquisto Solidale italiani. I temi spaziano dalle relazioni tra ambiente, economia e società, ai principi del diritto internazionale, la contabilità ambientale, la raccolta differenziata e il riciclo dei rifiuti, gli acquisti verdi delle pubbliche amministrazioni e i cambiamenti climatici. “Non è stato difficile ottenere le autorizzazioni necessarie per mettere in pratica il progetto – racconta De Leo. Il Direttore del carcere, Pietro Buffa, si è anzi mostrato molto disponibile e ha spinto affinché l’iniziativa andasse in porto - e anche gli esperti hanno dato subito la loro adesione”. Il progetto è piaciuto particolarmente alla Provincia di Torino, che a fine agosto ha concesso il Patrocinio. “Mi pare che gli incontri stiano riscuotendo un buon successo - continua Andrea. Alcuni detenuti sembrano molto sensibili ai temi ambientali, anche se non mancano gli scettici. Credo sia comunque positivo riuscire a stimolare un dibattito vivace, con domande, ma soprattutto critiche costruttive, stimolate da temi come il riciclo, le fonti energetiche rinnovabili o questioni più “calde” come la Tav. A parte un nocciolo duro di “ecologisti” convinti, agli altri sembra che interessi anche solo la possibilità di avere un confronto con il mondo esterno, che può trasformarsi in un’occasione per esprimere i propri punti di vista su temi di attualità. Il carcere è una realtà difficile e ogni cosa che possa rompere la routine viene in genere accolta positivamente”. Mahmoud, 42 anni, marocchino, è detenuto per spaccio e ci stupisce per le sue idee molto chiare sui temi studiati. “Credo sia molto importante - ci racconta - sensibilizzare le persone sulle questioni ambientali e i danni che stiamo causando ai nostri figli. Perché è assurdo proseguire con questo modello di sviluppo economico, indifferente all’inquinamento e ai danni irreparabili che sta portando. Quello attuale è un regresso, ma è possibile un altro tipo di sviluppo, sostenibile, che si tradurrà in progresso”. “Questo ciclo di conferenze - dice Alain, 37 anni, detenuto per omicidio - è di grande interesse perché si divulgano informazioni utili sul problema ambiente e soprattutto ci aiuta a capire meglio un problema che ci coinvolge tutti quanti. Mi auguro che si raccontino queste cose anche all’esterno, per rendere partecipe il maggior numero di persone”. “Ho tenuto una lezione sul cambiamento climatico e le politiche internazionali di fronte ad un’audience acuta, attenta e partecipativa - spiega Silvana Dalmazzone, docente di Economia dell’Ambiente e Gestione delle Risorse Naturali. È un’esperienza che ho trovato forte e preziosa, a cui ripenso spesso, e che mi ha spinto a documentarmi di più sulla realtà carceraria, leggendo alcuni articoli del Direttore e scritti dei suoi detenuti. Mi ha fatto riflettere su temi ai quali avevo raramente pensato prima: le carceri sono tutte simili? Esistono forme di detenzione che diano qualche chance di reinserimento? Questo mi ha fatto pensare che in questi mondi opachi, normalmente invisibili, chi vive e lavora all’esterno dovrebbe poterci mettere piede più spesso. A beneficio, credo, di entrambe le parti”. Roma: a Rebibbia informatizzazione di oltre 145mila fascicoli archivio tribunale Adnkronos, 16 novembre 2011 Al via l’informatizzazione, da parte dei detenuti del carcere di Rebibbia, degli oltre 145mila fascicoli dell’archivio del Tribunale di sorveglianza di Roma e del Lazio. Il progetto è stato ufficialmente avviato oggi, all’interno del carcere di Rebibbia, alla presenza del Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, del direttore dell’istituto di reclusione Carmelo Cantone e del presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, consigliere Giovanni Tamburino. Il progetto è stato finanziato dalla cassa delle ammende, l’ente con personalità giuridica istituito al Dap che si occupa di finanziare programmi di assistenza e di reinserimento dei detenuti e internati finalizzati al miglioramento delle condizioni carcerarie. L’informatizzazione dell’archivio del Tribunale di sorveglianza di Roma e del Lazio consente, inoltre, di riordinare l’imponente massa di documenti cartacei e soprattutto di rendere più funzionale ed efficiente l’attività della magistratura di sorveglianza sull’intero territorio della regione. Il lavoro è partito oggi con 9 detenuti-lavoratori all’interno di un locale del carcere, classificati in media sicurezza. Sono state istallate delle postazioni informatizzate con computer e scanner collegati ad un server per consentire ai detenuti, che hanno sostenuto nei mesi scorsi un corso di formazione, di svolgere il proprio lavoro e di archiviare i dati digitalizzati. Partendo da 145mila fascicoli, composto da una media di 30 pagine, si prevede che saranno digitalizzati complessivamente oltre 4.350.000 pagine. È previsto che ognuno dei detenuti, coinvolti nel progetto lavorerà una media di 960 pagine al giorno (120 l’ora) per una durata del progetto che, a questi ritmi lavorativi, si stima oppressivamente per due anni. "La cerimonia di stamattina - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - è il punto di arrivo di una lunga fase progettuale che ha coinvolto, con profitto, Dap, Tribunale di Sorveglianza e carcere di Rebibbia N.C.. E’ importante che le istituzioni abbiano deciso di affidare un lavoro così delicato ai detenuti Ricreare all’interno di una struttura carceraria un’atmosfera di quotidianità come quella di un posto di lavoro qualsiasi può contribuire a favorire il reinserimento sociale dei reclusi che, attraverso questo progetto potranno anche acquisire una professionalità ed una specializzazione da spendere sul mercato del lavoro". "Abbiamo dato la nostra disponibilità al progetto visto come un'opportunità -ha spiegato del direttore dell'istituto di reclusione Carmelo Cantone- per risolvere un problema molto serio sulla gestione dei dati d'archivio ponderosi, come lo sono del resto tutti quelli delle strutture pubbliche ed in particolar modo quelli delle strutture giudiziarie". All'interno del carcere di Rebibbia ha ricordato ancora Cantone ci sono 12 attività lavorative dove vengono impiegati i detenuti assunti da datori di lavoro esterni". Questa è quindi la dodicesima iniziativa -ha proseguito Carmelo Cantone-. La digitalizzazione dei documenti deve essere ovviamente fatta in tale sicurezza per quanto riguarda la gestione dei dati sensibili -ha ricordato il diretto dell'istituto penitenziario- il progetto è finanziato per un anno, rinnovabile per l'anno successivo. Non si tratta pero' di una iniziativa spot -ha sottolineato ancora- noi ci teniamo che le nostre attività si solidifichino, diventino degli zoccoli duri che vadano avanti nel tempo. Si tratta, infatti, di un progetto aperto ad altre strutture pubblico-private che vorranno interagire con noi, avendo un costo del lavoro nel complesso conveniente, nello stesso tempo una risposta professionale più che dignitosa". "L'informatizzazione degli oltre 145mila fascicoli dell'archivio del Tribunale di sorveglianza di Roma e del Lazio è un'occasione di lavoro ma anche di dimostrazione di un rapporto di fiducia straordinario, tra il Tribunale di sorveglianza, il carcere, i detenuti -ha spiegato il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. I fascicoli sono infatti pieni di dati sensibili hanno quindi una lora riservatezza. C'è, lo ripeto, quindi un rapporto di fiducia totale tra il carcere e i detenuti. I detenuti - ha concluso poi Marroni - sono dipendenti di una cooperativa sociale e quindi pagati a stipendio pieno e non hanno nessun tipo di trattenuta". "Si tratta di una iniziativa positiva - ha dichiarato il presidente del Tribunale di sorveglianza, consigliere Giovanni Tamburino. Per il Tribunale di sorveglianza rappresenta un ottimo risultato in quanto l'archivio era quasi ingestibile perchè soffocato da centinaia di migliaia di procedimenti. Si tratta poi - ha proseguito - di una iniziativa che dà un lavoro qualificante ai detenuti e al contempo risolve un problema molto serio della nostra amministrazione". Lodi: nel carcere progetti per una fonoteca e per un laboratorio di pasticceria di Cristina Vercellone Il Cittadino, 16 novembre 2011 Quello di via Cagnola sarà il primo carcere in Italia ad avere una fonoteca. Un luogo dove i detenuti potranno conoscere la musica ed ascoltarla. L’idea è della direttrice Stefania Mussio. “Quello della musica è un canale culturale che vogliamo approfondire - spiega. L’idea è nata dopo il corso di canto con la cantante jazz Stefania Martinelli. Il corso è piaciuto molto, tanto che pochi giorni fa ha presentato un nuovo progetto: un corso di canto unito a incontri di apprendimento della musica e alla realizzazione di una fonoteca. Questo sarà possibile grazie alla Martinelli, ma anche all’Alovoc, l’associazione di volontari guidata da Franco Pasquali e Mario Uggè, la Fondazione della Banca Popolare di Lodi, Elena Zeni e lo staff educativo, insieme a tutta la struttura, i poliziotti, il comandante e gli stessi detenuti. Ci sembra un progetto importante. La musica è un canale culturale che arriva prima di altri”. Per questo il carcere ha previsto degli incontri sui diversi generi musicali, da dicembre 2011 a giugno 2012, ai quali invitare persone esperte di musica, da quella classica, con il maestro Dario Garegnani, al blues con Max De Bernardi e Dario Polerani, ma anche il jazz e la musica straniera con il cantastorie senegalese Dou-dou Kwatè, per finire con le nuove contaminazioni fra jazz e musiche del mondo, grazie all’esperienza del musicista Luca Garlaschelli, di un cantautore italiano (è stato contattato Gianmaria Testa), la musica sacra e quella rock. “La cosa importante - afferma Mussio - è imparare ad ascoltare la musica e desiderare di ascoltarla. Per questo abbiamo in mente di dedicare una sala alla fonoteca, comprando libri musicali e cd, ma anche 5 lettori cd da tavolo, le cuffie, dei tavolini per i lettori, 5 poltrone comode, lo scaffale per contenere i cd, insieme al computer per catalogarli. I dischi saranno acquistati, chiesti in regalo a case discografiche o editori e chiesti in dono ai volontari”. La scelta del materiale fonografico verrà effettuata con l’obiettivo, concordato anche con i detenuti, di mettere a disposizione degli utenti materiale nuovo, sconosciuto, che possa rappresentare un momento di scoperta di nuovi mondi musicali. Mi auguro che a fine gennaio la fonoteca sia pronta”. Intanto, novità si affacciano anche sul fronte della pasticceria interna al carcere, nella quale lavorano i detenuti. “Adesso - spiega soddisfatta la direttrice - compreremo un nuovo forno. Questo grazie ai fondi ottenuti dall’Alovoc e dalla Fondazione della Banca popolare di Lodi, all’interno di progetti concordati con la direzione. Il presidente Duccio Castellotti e tutto il Cda sono sempre stati molto attenti al carcere. Questi soggetti hanno condiviso la nostra idea. In passato avevamo fatto un corso di pasticceria ed era molto piaciuto. Da qui è nata l’idea di proseguire su questa strada. Una parte di fondi sono stati messi da privati generosi. Il comune ci ha dato la possibilità di allestire un banchetto il giovedì, in piazza Broletto, per la vendita di torte e biscotti. L’anno scorso abbiamo organizzato anche un coffee break per gli incontri dell’ordine degli avvocati, grazie all’interessamento del garante dei diritti Paolo Muzzi. Sono stati tutti molto contenti. Abbiamo molti imputati che non sono in grado di uscire, questi lavori per loro sono importanti. Ora vorrei creare un legame con una cooperativa. In questo modo i pasticcieri sarebbero retribuiti meglio di adesso e il mercato si allargherebbe. Adesso tutto avviene tramite il passaparola. Un ristorante ci ha chiesto di mettere nel suo menu la nostra torta al cioccolato, ma ci dobbiamo organizzare. Con la cooperativa sarebbe tutto più semplice”. E i pasticcieri di via Cagnola potrebbero sfondare nel mondo della buona cucina. Il lavoro è la salvezza di chi si trova in una prigione Articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quanto ai trattamenti, basta contare le persone che si sono suicidate in carcere dall’inizio dell’anno per capire che non tutto il sistema penitenziario italiano si attiene alle leggi costituzionali: sono 58, vivevano tutti in strutture sovraffollate. Quanto alla rieducazione, in molte carceri si attuano efficacissimi programmi di formazione sì, ma alla criminalità, favorita dallo stretto contatto fra i detenuti. Ma non è così dappertutto: nella provincia di Lodi, per esempio, è attivo da cinque anni un progetto finanziato dalla Regione che si chiama “Lavoro debole” e che mira al reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, ex detenute o in pena alternativa, mettendo in rete il mondo penitenziario, gli enti locali, le cooperative sociali e le imprese. Un progetto ambizioso che ha dato i suoi primi risultati, presentati durante l’incontro che si è svolto lunedì sera in sala Carlo Rivolta, cui sono intervenuti i rappresentanti di tutte le realtà coinvolte. Per la Provincia di Lodi, capofila del progetto, c’era l’assessore Mariano Peviani, per il comune di Lodi Silvana Cesani, mentre Francesca Valenzi ha rappresentato il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. La casa circondariale di Lodi, destinataria ultima del progetto, era presente fra il pubblico con il cappellano del carcere don Gigi Gatti, l’agente di rete Elena Zeni e il vice capitano degli agenti di polizia penitenziaria Raffaele Ciaramella. Seduti in platea anche gli imprenditori che hanno dato lavoro ai detenuti coinvolti. Al tavolo dei relatori, invece, sedevano i presidenti delle due realtà del terzo settore che hanno condotto fattivamente il progetto: Laura Steffenoni dell’associazione Loscarcere, che ha moderato la serata, e Grazia Grena della società cooperativa Microcosmi. “Siamo partiti in territorio completamente vergine - ha detto Grena - che non aveva mai mostrato nessun segno di attenzione verso la realtà carceraria. Così abbiamo cominciato a stringere alleanze con un gran numero di soggetti diversi, associazioni, comunità di recupero, comuni, uffici provinciali. Ma la sfida vera è stata coinvolgere il mondo del profit, convincere le aziende ad inserire in organico persone in esecuzione penale”. Per incentivare le assunzioni, la Fondazione Bpl ha stanziato fondi per dodici “borse lavoro”, perché è sempre più difficile trovare imprese disposte ad assumere, detenuti o liberi cittadini il discorso non cambia. “Negli ultimi due anni abbiamo esteso il progetto anche alle compagne dei detenuti - ha aggiunto Grena -, ma non siamo ancora riusciti a inserirle, la nostra rete non è abbastanza forte. Per crescere dobbiamo estendere i nostri contatti nel mondo delle imprese e inserire più profondamente il carcere in questo sistema: conciliare le esigenze produttive di un’azienda profit con le regole del sistema carcerario è molto faticoso”. Maurizio Lazzari di Tecno Service srl ne sa qualcosa: dato che per regolamento i detenuti non possono portare in carcere niente che provenga dall’esterno, “la tuta agli operai gliela lavavo io”. Porto Azzurro: Sinappe; problemi strutturali e poca manutenzione, il carcere cade a pezzi Il Tirreno, 16 novembre 2011 “La trascuratezza mantenuta negli anni, ha portato ad una struttura decadente e difficile da vivere”. È un giudizio tranciante, quello che una delegazione regionale e locale Sinappe dà sul carcere di Porto Azzurro, dopo aver effettuato un sopralluogo approfondito. La delegazione ha notato che, nonostante il recente ammodernamento, ci sono problemi con il sistema di telecamere. “Non esistono sistemi di automatismo, nonostante i cancelli della portineria ed altri, sarebbero ben predisposti per tali meccanismi”. Inoltre il box, che rappresenta l’unico automatismo dell’istituto, attualmente non è funzionante. “Così - dicono dal Sinappe - è il malcapitato agente ad aprire manualmente le porte di ferro di accesso ai reparti che, oltre al carico di lavoro è un pericolo per la sicurezza dell’istituto”. Ma i giudizi severi del sindacato sono legati soprattutto alla sicurezza degli agenti. “Mancano i servizi essenziali affinché il lavoro possa essere svolto in tranquillità e sicurezza - spiegano - ciò rende il personale insoddisfatto”. Ce ne sono anche per la struttura. “La costruzione, che appare dall’esterno massiccia, per la completa ristrutturazione del muro di cinta, in realtà presenta già gravi danni strutturali nei reparti interni. Mancano le docce nella maggior parte delle stanze detentive, progetto di cui si era parlato ma che, per mancanza di fondi, non è mai stato realizzato. Si è potuto constatare l’esistenza di strutture umide, piene di muffa, come il III Reparto che risulta allagato in ogni occasione di pioggia forte”. Un capitolo a sé merita il nodo della carenza di organico. “Nel I e II reparto, che comprende VIII sezioni detentive con capienza di oltre 250 detenuti, risulta che prestino servizio 2 agenti nei turni di mattina e di pomeriggio, ma spesso una sola unità di notte”. Altre lamentele sono relative alle condizioni della caserma agenti. “La struttura è esposta ad estreme variazioni climatiche, dal freddo intollerabile al caldo afoso, al soffitto che, per incuria, fa arrivare acqua perfino nella stanza di qualche inquilino”. Napoli: detenuto tenta il suicidio nella “cella di sicurezza” del Tribunale Ansa, 16 novembre 2011 Un detenuto di 57 anni, Francesco U., ha tentato di suicidarsi nelle celle di sicurezza del Tribunale di Napoli dove si trovava in attesa di un processo, proveniente dal carcere di Secondigliano, procurandosi una serie di lesioni gravissime su tutto il corpo con una “lama” ricavata da una bottiglia di plastica fatta a pezzi. È stato salvato dall’intervento del presidio di pronto soccorso presente nel Tribunale, in piazzale Cenni, e guidato dal dottor Francesco Passarelli. “Quando siamo arrivati - spiega Passarelli - ci siamo trovati di fronte una scena impressionante: l’uomo era in una pozza di sangue, la perdita ematica era davvero di una certa portata”. Almeno otto i tagli sul corpo, tra cui al collo, all’addome, abbastanza in profondità, e soprattutto ai polsi con la completa recisione delle vene. Dopo i primi soccorsi, l’uomo è stato portato in ospedale. “Faccio il medico da trent’anni - confessa Passarelli - ed avevo visto altri casi di autolesionismo con coltelli e lamette ma mai che si arrivasse a realizzare delle lame artificiali con una bottiglia di plastica che i detenuti possono portare con loro per bere. Evidentemente quanto è accaduto deve far riflettere chi è preposto alla sorveglianza a prevenire eventuali episodi analoghi, sia di autolesionismo che di lesionismo vero e proprio con delle armi improprie rappresentate dai pezzi delle bottiglie di plastica”. Firenze: denuncia di Rifondazione comunista; botte a un detenuto di Sollicciano Il Manifesto, 16 novembre 2011 Un “nuovo episodio di intimidazione e violenza” nel carcere di Sollicciano: lo denunciano i consiglieri provinciali di Rifondazione comunista Andrea Calò e Lorenzo Verdi. L’episodio, secondo quanto ricostruito dal garante dei detenuti, Franco Corleone, risalirebbe a una decina di giorni fa “quando un giovane detenuto magrebino sarebbe stato percosso da tre agenti”. “Oltre ad aver mandato le carte alla procura - ha detto Maria Pia Giuffrida, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana - abbiamo aperto un’inchiesta amministrativa”. Il detenuto, ricoverato in osservazione nel reparto di psichiatria, sarebbe stato prelevato da tre agenti che nel tentativo di calmarlo lo avrebbero portato in un’altra stanza. Secondo quanto ricostruito il giovane, poi trasferito, avrebbe perso due denti e riportato contusioni. “Al di là di ciò - continua Corleone - il problema sono le condizioni di vita e il sovraffollamento del carcere e le situazioni di stress a cui sono sottoposti anche gli agenti”. Sassari: intervista all’ex direttrice; le mie prigioni… tra minacce e solidarietà La Nuova Sardegna, 16 novembre 2011 Difficile a credersi, ma il “primo” carcere non si scorda mai. Lo sa Teresa Mascolo, pugliese di Serracapriola (Foggia), 46 anni, che mercoledì ha lasciato la direzione di San Sebastiano per il penitenziario di Viterbo. Dal suo arrivo a Sassari, nel 2009 - “due anni e quattro mesi esatti” - la casa di reclusione di via Roma è finita più volte al centro di bufere giudiziarie. Lei non si è mai risparmiata, e non le hanno risparmiato nemmeno le minacce. “Ma ho anche scoperto una solidarietà straordinaria. In carcere tutto è amplificato. La sofferenza e pure l’umanità”. Tradisce nostalgia Teresa Mascolo, che a San Sebastiano ha assunto la sua prima direzione dopo la laurea in Giurisprudenza a Roma, la gavetta, i concorsi, la vicedirezione a Ferrara. “Sono andata via da pochi giorni, sono ancora confusa”, spiega al telefono. Ed è chiaro dalla voce che abbia gli occhi lucidi. “Perché voglio ringraziare Sassari, tutte le persone che hanno condiviso con me questi due anni, soprattutto i miei uomini”, dice riferendosi agli agenti di Polizia penitenziaria, i suoi uomini appunto, ma anche ai detenuti e al personale dell’istituto. E lancia un messaggio chiaro: “Sono passati dieci anni dal pestaggio: basta con quella storia, San Sebastiano non è più il carcere dei picchiatori”. In questa intervista non si sottrae nemmeno alle domande sulla morte del detenuto Marco Erittu, al centro di un’inchiesta per omicidio. E rivela: “Ho subito minacce, ma non me ne sono curata”. San Sebastiano ha brutta fama. Com’è cambiato dal suo arrivo? “Strutturalmente, purtroppo, non più di tanto. Abbiamo potuto rifare i passeggi, comprare bigliardini e tavoli, rimesso a posto un paio di celle. Ma le mura sono quelle. Credo che l’unico modo per migliorare le cose sia quello di stemperare il clima. Ma di questo devono parlare altri, non io”. Modestia a parte, quel è la cosa che le ha dato più soddisfazione? “Il modo in cui abbiamo fatto squadra, mi riferisco a tutto il personale, in un momento molto difficile, quest’estate, in seguito all’arresto di un agente, quando c’è stato un battage pubblicitario pesante. Io sono una garantista. Ma se si parla di garantismo con i detenuti lo stesso atteggiamento deve essere usato per gli agenti. Sono passati dieci anni dai pestaggi (l’arresto di ex provveditore, direttore e agenti, molti poi assolti, è del maggio 2000, ndr), e oggi San Sebastiano è un carcere completamente diverso. Non esiste più usare violenza, oggi ha si usa la penna”. Dalle carte dell’inchiesta sulla morte di Erittu, novembre 2007, emergono rapporti discutibili tra qualche agente e alcuni carcerati, soprattutto quelli più forti e temuti. “Non ho vissuto quella fase, ma se fossi venuta a conoscenza di comportamenti simili non avrei fatto sconti a nessuno”. Anche gli agenti e gli operatori sono uomini, è umano avere paura di chi ha un lungo curriculum criminale. “No, se uno fa questo lavoro deve fare la differenza, anche di fronte alle minacce. Deve dare l’esempio rispettando la legge. La penso così”. Ha mai ricevuto minacce? “Sì, anche se ho continuato a lavorare senza diffondere la notizia perché il personale non deve essere terrorizzato. Preferisco non parlarne”. Ha avuto paura? “Sì, come tutti, ma in fondo non così tanto. Sono andata dritta per la mia strada e non mi sono fatta prendere dallo sgomento. Tutto è andato bene. Se si può dire, in fondo Sassari mi ha portato fortuna”. Qual è stato il momento più difficile? “Quando ho capito che nonostante gli sforzi, la vita viene meno. Quando è stato arrestato uno dei miei agenti (nell’inchiesta su Erittu, ndr). È stato destabilizzante. Tutti aspettiamo che la magistratura faccia chiarezza, ma conoscendolo posso dire: ecco lui è uno che si difende con la penna. L’altro momento duro è stato quello del sovraffollamento del 2010, quando siamo arrivati a 221 detenuti, mentre quando sono andata via, mercoledì erano 193”. Qualcuno dice che di recente siano stati messi a dormire in locali che non sono celle, come le sale colloquio. “Falso. Comunque non conosco la situazione aggiornata a dopo la mia partenza”. Sotto la sua direzione ci sono stati diversi suicidi. “Due, uno del 17 luglio 2010 e un altro pochi giorni fa. Li ricordo bene, perché è davvero una cosa drammatica. L’ultimo era Fabrizio Piras, un ragazzo giovane, carino, che ha cercato lo sballo con un fornelletto a gas ed è morto. Quando è successo, a ottobre, ero nel mio ufficio, verso le 22.30. Sono andata in infermeria e ho visto mentre cercavano di rianimarlo. Hanno fatto tutto il possibile. È stato uno choc”. Cosa si porta dietro? “La consapevolezza che il carcere è come una fetta di società, ci sono i ricchi e i poveri, anche se a San Sebastiano i detenuti sono quasi tutti poveri. Ma chi ha di più spesso dà chi ha meno. E ci si affeziona anche, e molto. In fondo, è come la vita là fuori”. Pesaro: “Carcere e multiculturalismo”, venerdì presentazione del libro alla San Giovanni Corriere Adriatico, 16 novembre 2011 Sarà presentato venerdì 18 novembre, alle ore 16.30, alla biblioteca San Giovanni (via Passeri 98) il libro “Carcere e multiculturalismo” di Donato Antonio Telesca (edizioni Quattroventi). A dialogare con l’autore, che è ispettore capo della Polizia penitenziaria e presta servizio alla Casa circondariale di Pesaro, interverranno il professor Vito Minoia dell’Università di Urbino, la direttrice della Casa circondariale di Pesaro Claudia Clementi ed il comandante della Polizia penitenziaria Livio Ricchiuti, introdotti dall’assessore ai Servizi sociali della Provincia Daniela Ciaroni. Specializzato in Criminologia e Psichiatria forense all’Università di San Marino, Donato Antonio Telesca analizza nel libro la relazione tra il microcosmo penitenziario e il macrocosmo sociale, a partire dal principio legislativo che il carcere non dovrebbe essere una realtà chiusa, ma aperta al territorio circostante, con cui interagire creando spazi e occasioni per un autentico reinserimento sociale. Particolare attenzione è dedicata agli effetti causati nelle carceri italiane dalla crescente presenza di detenuti stranieri, appartenenti a culture diverse, spesso in condizione di indigenza. L’iniziativa è degli assessorati ai Servizi sociali della Provincia di Pesaro e Urbino e del Comune di Pesaro. Tailandia: ok governo a ddl amnistia, potrebbe salvare l’ex premier Thaksin Adnkronos, 16 novembre 2011 L’esecutivo thailandese ha approvato un decreto di amnistia che potrebbe “salvare” l’ex primo ministro Thaksin Shinawatra (2001-2006), condannato in contumacia a due anni per abuso di potere, per aver favorito nel 2003 l’acquisto di terreni statali da parte di sua moglie. Approvato in una riunione a porte chiuse dell’esecutivo, mentre la premier Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin, era in visita agli alluvionati, il decreto che dovrà ora passare al vaglio del Parlamento prevede una amnistia per tutti i condannati di oltre 60 anni a pene inferiori a 3 anni di carcere. Il decreto di amnistia reale è stato messo a punto per la celebrazione dell’84mo compleanno del re Bhumibol Adulyadej, il prossimo 5 dicembre. Stando al quotidiano ‘Bangkok Post’ che cita fonti governative, a differenza di precedenti amnistie il provvedimento proposto in decreto non prevede che gli amnistiati abbiano scontato almeno in parte la condanna e non sono esclusi i condannati per corruzione. Il 62enne Thaksin è fuggito all’estero nel luglio 2008 poche settimane prima della condanna e da allora è sempre vissuto lontano dalla Thailandia, prevalentemente a Dubai, sostenendo sempre che non sconterà neppure un giorno di carcere per una sentenza politica. Siria: per la Francia la liberazione di un migliaio di detenuti politici è “insignificante” Tm News, 16 novembre 2011 La liberazione di un migliaio di prigionieri in Siria “non corrisponde affatto alle attese della Comunità internazionale”. Lo ha dichiarato il ministero degli Affari esteri francese, ricordando che questo Paese conta decine di migliaia di prigionieri politici. “Le recenti ondate di arresti dimostrano che il regime siriano non ha intenzione di mettere fine alla cruenta repressione”, ha aggiunto il portavoce del ministero, Bernard Valero, sottolineando che molti prigionieri “sono vittime di torture”. La Francia chiede in particolare la liberazione immediata del regista Nidal Hassan, scomparso il 3 novembre, ha precisato. La televisione pubblica siriana ha annunciato che “1.180 detenuti, coinvolti negli accadimenti in Siria e che non hanno sangue sulle mani, sono stati liberati” ieri. “Continuiamo a chiedere che la commissione di inchiesta delle Nazioni Unite, creata il 23 agosto e costituita il 12 settembre, possa recarsi in Siria”, ha aggiunto Bernard Valero. Senza menzionare l’attacco odierno contro un centro dei servizi segreti siriani da parte di soldati dissidenti, né la creazione da parte di questi ultimi di un consiglio militare provvisorio, il portavoce ha infine ritenuto che “il coinvolgimento della Lega araba e della Comunità internazionale è necessaria per incoraggiare il popolo siriano a preservare il carattere pacifico della contestazione”. Secondo le Nazioni Unite, la repressione della contestazione dalla sua partenza a marzo ha provocato 3.500 morti. Serbia: Mladic si dichiara malato; Tribunale Penale Internazionale dispone esami Ansa, 16 novembre 2011 I giudici del Tribunale penale internazionale dell'Aja (Tpi) hanno ordinato un esame medico completo per l'ex generale serbo-bosniaco Rakto Mladic, detenuto nel carcere del tribunale, chiedendo che sia loro sottoposto il rapporto sul suo stato di salute, al più tardi entro il 6 dicembre. La decisione della Camera del Tpi intende verificare le dichiarazioni del detenuto che si è dichiarato molto malato, tanto da non potere assistere alle udienze del suo processo.