I figli devono sapere tutta la verità Il Mattino di Padova, 15 novembre 2011 I figli di detenuti devono sapere la verità ed essere aiutati a capire Sono i figli la vera molla che può spingere una persona a cambiare, sono loro che costringono anche i padri detenuti a misurarsi con la responsabilità, e quindi a non mentire, a cercare di affrontare la realtà della carcerazione senza mascherarla. È la cosa più difficile, dire a un figlio che “papà è in galera”, e a volte le famiglie non sono preparate a farlo, e sono lasciate sole in questi difficili momenti, sole magari a raccontare valanghe di bugie, per paura che il bambino non regga il peso della verità. Una verità che invece bisogna avere il coraggio di dire, perché i figli hanno il diritto di saperla, e di non essere ingannati ma aiutati a capire. Ma la solitudine delle famiglie è un incubo che la società ha il dovere di affrontare. Una famiglia lasciata sola è inevitabilmente facile preda delle stesse insidie che già l’hanno colpita e difficilmente troverà la forza per reagire di fronte alla tragedia. Una famiglia, pur ferita può reagire, se aiutata. Non posso raccontare mezze verità Non posso più continuare a raccontare una mezza verità ai miei figli Spiegare ai propri figli perchè di colpo ti sei allontanato da loro e che il posto dove ti trovi è un carcere non è affatto facile. Io ho due figli piccoli, fin dal giorno del mio arresto con loro non ho fatto altro che sorvolare sulla verità. Ho evitato di nominare anche solo la parola carcere, convinto che l’unico modo per proteggerli oramai era quello di non fargli sapere dov’ero, mentre prima di fronte alla convinzione di poter guadagnare qualcosa facilmente non ero stato capace di pensare quali potessero essere le conseguenze di una mia scelta sbagliata. Ma attraverso le varie visite che mi hanno fatto in carcere, quindi vedendo la polizia penitenziaria e le perquisizioni, ed anche tramite la televisione e la scuola i miei figli hanno capito dove mi trovo, si sono limitati però solo a pronunciare timidamente la parola carcere, e senza mai chiedermi perché mi trovassi in questa situazione. In maniera molto superficiale, invece che spiegargli chiaramente come stanno le cose e che mi trovo in questa situazione per aver sbagliato, ho preferito dire loro che ero sì in carcere, ma per lavorare. Avendo passato parte di questa carcerazione agli arresti domiciliari avrei avuto il modo di approfondire con loro il discorso, ma anche in quell’occasione ho preferito non farlo. Riconosco che specialmente in quella situazione era doveroso e da parte mia più responsabile dare a loro delle spiegazioni, visto che mi hanno posto domande sul perché non potevo uscire di casa e perché venivano i carabinieri a fare i controlli. È stato impossibile non coinvolgere la mia famiglia, e di conseguenza sono tante le situazioni che i miei figli non dovrebbero trovarsi ad affrontare. A distanza di tempo ho capito che dovrò spiegare a loro come stanno le cose senza continuare e fingere o raccontare una mezza verità, convinto che ci sia sempre il tempo poi per rimediare. Devo farlo per evitare che loro credano che tutto questo sia normale, che sia giusto mentire. Devo impegnarmi a fargli capire che se ci sono delle regole è giusto rispettarle, che la scelta del padre non è il modo con cui si affronta la vita. Germano V. Mi nascondevo dietro le bugie Il problema di essere finito in carcere, con le mie figlie, l’ho affrontato nella speranza di proteggerle il più a lungo possibile, raccontando bugie del tipo che stavo lavorando sulle navi e, quindi, non avevo tempo di stare a casa. A distanza di tempo però le domande che loro mi facevano, specie la più grande, ponevano grossi dubbi rispetto a quanto avevo raccontato, e io per rimediare continuavo a mentire fino all’inverosimile. Alcune settimane fa durante un incontro con gli studenti abbiamo affrontato proprio il tema delle bugie in generale e anche rispetto ai propri famigliari. È emerso come spesso alla base dei comportamenti a rischio ci sia un atteggiamento superficiale nei confronti della menzogna, e si sottovaluti che con il tempo si può arrivare a perdere il contatto con la realtà e a convincersi che quella bugia raccontata sia diventata addirittura la verità. Dopo questo lungo confronto sull’argomento ho capito che mentendo non ho protetto affatto le mie figlie, ma ho corso e sto correndo tuttora il rischio che loro vengano a conoscenza della verità, probabilmente anche molto distorta, da parte di altre persone, con la conseguenza di farle sentire tradite proprio da me che sono il padre. Sono arrivato perciò a capire che è giunto il momento di affrontare seriamente con loro questo argomento senza più tenere nascosta la verità. Sto superando in tal modo il timore di condizionare la loro serenità di bimbe, la paura di porle di fronte a delle problematiche tali che potessero costringerle a maturare troppo presto. Cercherò di farlo spiegando loro che il papà ha commesso degli errori nella vita, credendo di poter raggiungere un “obiettivo”, far soldi nel minor tempo possibile e senza dover faticare troppo per rispettare le regole. Questo tipo di atteggiamento ha comportato di dover passare tutti questi anni lontano da loro, causando tanta sofferenza per tutti. Luigi G. Pronto papà, quando torni? Pronto papà, quando torni? Questa è la domanda più frequente che i figli fanno al proprio genitore lontano da casa. La risposta è sempre la stessa, una bugia: “Papà sta lavorando all’estero e tornerà presto”. Sembra facile, ma nella risposta c’è tanto malessere, questa domanda fa male e ti fa sentire impotente, hai voglia di abbracciarli e di fargli percepire l’amore che provi, ma non puoi farlo perché sei detenuto in un paese straniero e lontano. Nei loro confronti mi sento obbligato a mentire, ma sono consapevole che è proprio vero che le bugie hanno le gambe corte. Finché sono piccoli forse può andare bene, ma nel mio caso la condanna è lunga e purtroppo dovrò stare lontano da loro per tanto tempo, quindi mi sentirò fare la stessa domanda anche quando saranno diventati grandi e allora la mia risposta non basterà più. Crescendo cominceranno a chiedersi perché il loro padre non torna ancora a casa e cosa c’è di così importante che glielo impedisce. Cominceranno a sentire parlare della mia situazione da altre persone, magari a scuola, e si domanderanno se è vero. Ho sempre cercato anche nei confronti di tutti i miei famigliari di trasmettere ottimismo, di confortarli, mentendo, dicendogli che tra poco sarei tornato a casa e di avere un pò di pazienza, con la speranza che capiscano che ho mentito solo perché gli voglio bene. Ai miei figli invece dovrò spiegare che mi trovo in questa situazione per aver commesso degli sbagli, ma come posso parlargli di queste cose al telefono, quando mi è consentito fare una sola telefonata a settimana che non può superare i dieci minuti, come posso parlar loro di queste cose senza poterli stringere forte tra le braccia per fargli sentire il calore dell’amore del loro papà? Per questo finora ho preferito mentire. I miei figli sono in Tunisia ed io non effettuo con loro i colloqui, questo in un certo senso mi rende più facile nascondere la verità, ma il fatto di non poter avere con loro nemmeno un minimo contatto e non vederli crescere malgrado la carcerazione mi fa stare male. Mohamed Tlili Giustizia: sulle carceri logica dell’indifferenza e dell’inerzia, ma è giunto il tempo di dire basta di Valter Vecellio Notizie Radicali, 15 novembre 2011 L’allarme e il richiamo non potevano essere più autorevoli. Il 28 luglio 2011: in occasione del convegno “Giustizia! In nome della Legge e del Popolo sovrano”, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parla di “una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile - strutture pseudo-ospedaliere che solo recenti coraggiose iniziative bi-partisan di una commissione parlamentare stanno finalmente mettendo in mora”. Denuncia “l’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona”. Una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, “che ne viene più insidiata che garantita, e dalla quale non si può distogliere lo sguardo, arrendendosi all’obbiettiva constatazione della complessità del problema e della lunghezza dei tempi necessari per l’apprestamento di soluzioni strutturali e gestionali idonee. C’è un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già prospettati e in parte messi in atto, ma esaminando ancora con la massima attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”. Sottolinea infine la prepotente urgenza della questione giustizia e carcere, e l’incapacità della politica “di produrre scelte coraggiose, coerenti e condivise…scelte che ogni giorno di più si impongono, dinanzi alla gravità dei problemi e delle sfide che ci incalzano…”. Negli stessi giorni il settimanale “l’Espresso” pubblica una dettagliata inchiesta: “Tutti prescritti” . Si racconta che sono circa 150mila i processi ogni anno chiusi per scadenza dei termini. Impunità anche per reati gravi, come l’omicidio colposo. La giustizia soffoca sommersa dai fascicoli, uno scandalo senza fine, al punto che molti procuratori rinunciano ai giudizi. “E le cose, per quanto possa sembrare incredibile, sono destinate a peggiorare. Per reati come la corruzione o la truffa, c’è ormai la certezza dell’impunità”. Le cifre: nel 2008, 154.665 procedimenti archiviati per prescrizione; nel 2009 altri 143.825. Nel 2010 circa 170mila. Quest’anno si calcola che si possa arrivare a circa 200mila prescrizioni. Ogni giorno almeno 410 processi vanno in fumo, ogni mese 12.500 casi finiscono in nulla. I tempi del processo sono surreali: in Cassazione si è passati dai 239 giorni del 2006 ai 266 del 2008; in tribunale da 261 giorni a 288; in procura da 458 a 475 giorni. Spesso ci vogliono nove mesi perché un fascicolo passi dal tribunale alla corte d’appello. A Roma e nel Lazio, per esempio, quasi tutti i casi di abusivismo edilizio si spegneranno senza condanna, gli autori sono destinati a farla franca. A Milano, nel 2010 l’accumulo è cresciuto del 45 per cento, significa più di 800 processi l’anno che vanno a farsi benedire. Nel solo Veneto si contano 83mila pratiche abbandonate in una discarica dove marciscono tremila processi l’anno. Un’amnistia mascherata. Senza una terapia d’urgenza, un numero colossale di crimini resterà impunito. Viene fatto un esempio concreto. Nel tempo che la lettura dell’articolo dell’ “Espresso” richiede si prescrivono tre processi. Potrebbe essere il caso della donna di 54 anni morta durante un’operazione all’anca a Reggio Emilia: i familiari hanno speso soldi per costituirsi parte civile e hanno atteso invano per dieci anni, la verità non ci sarà mai. O il più grande scandalo di corruzione della sanità romana, le tangenti elargite da Lady Asl per farsi rimborsare ricoveri inesistenti. O le mazzette intascate per la ricostruzione dell’Irpinia terremotata, la vergogna della prima Repubblica: il processo è finito al macero da poco, 30 anni dopo il sisma. “Nessun colpevole, nessun innocente”, scrive “l’Espresso”. “Tutti prescritti. A pagare è solo la giustizia”. Diciamo meglio: a pagare è il paese, sono i cittadini. Inchiesta vecchio stile, quando “L’Espresso”, diretto da Arrigo Benedetti, era formato quotidiano e pubblicava inchieste come quelle di Manlio Cancogni: “Capitale corrotta, nazione infetta”. Pensate che qualcuno abbia fiatato? No, dall’allora ministro - ora segretario nominato del PdL - Angelino Alfano neppure un sospiro. E dire che prometteva un giorno sì e l’altro pure di fare finalmente giustizia e sistemare le cose. Lo ripeteva ogni giorno, Alfano: si era in dirittura d’arrivo, era cosa praticamente fatta; nuove carceri erano in costruzione; il consiglio dei Ministri aveva varato la “riforma epocale”: separazione delle carriere del Pubblico Ministero da quella del Giudice, giuria popolare, depenalizzazioni varie… “L’obiettivo della riforma è quello di riportare in perfetto equilibrio i piatti della bilancia della giustizia, adeguando anche la Costituzione alle esigenze di efficienza e modernità di una democrazia compiuta”, aveva detto trionfante al settimanale “Panorama”, che gli aveva dedicato la copertina e lo strillo ammiccante: “Farò giustizia”. Bilancio? Fate la somma di zero con zero, aggiungete zero, e vedete il risultato. Il segretario della Uil-Pa Penitenziari Eugenio Sarno ha diffuso cifre e dati che costituiscono un affresco da brivido: nelle carceri italiane sono rinchiusi qualcosa come 67mila detenuti (64.081 uomini e 2.848 donne), a fronte di una disponibilità reale di posti detentivi pari a 43.879. Un surplus di 23.050 detenuti in più rispetto alla massima capienza, che determina un indice medio nazionale di affollamento pari al 52,5 per cento. In ben dieci regioni italiane, il tasso di affollamento vari dal 15 per cento al 50 per cento. In nove dal 51 per cento all’80 per cento. L’unica regione italiana che non presenta una situazione di sovraffollamento è il Trentino Alto Adige. Capofila, per sovraffollamento, la Puglia (79,4 per cento), seguita da Marche (71,8 per cento), Calabria (70,6 per cento), Emilia Romagna (69,7 per cento) e Veneto (68,0 per cento). L’istituto con il più alto tasso di affollamento si conferma quello di Lamezia Terme (186,7 per cento), seguito da Busto Arsizio (152,17 per cento), Brescia Canton Mombello (146,6 per cento), Varese (145,3 per cento) e Mistretta (143,8 per cento). Il 50 per cento (102) delle strutture penitenziaria presenta un affollamento dal 50 per cento all’80 per cento; il 35 per cento (72) un affollamento dal 2 per cento al 49 per cento. Dal 1 gennaio al 30 giugno del 2011 si sono verificati 34 suicidi in cella. Nello stesso arco temporale in 135 istituti sono stati tentati 532 suicidi, dei quali oltre duecento sventati in extremis dal personale di polizia penitenziaria. Il maggior numero di tentati suicidi si è verificato a Cagliari (28). Seguono Firenze Sollicciano (25), Teramo (19), Roma Rebibbia, San Gimignano e Lecce con 18 tentati suicidi. In 160 istituti si sono verificati 2583 episodi di autolesionismo grave. Il triste primato spetta a Bologna (112), a seguire Firenze Sollicciano (106), Lecce (93), Genova Marassi (77) e Teramo (66). Ad aggravare il quadro complessivo concorrono i 153 episodi di aggressioni in danno di poliziotti penitenziari, che contano 211 persone ferite. Sempre dal 1 gennaio al 30 giugno 2011 in 175 istituti si sono verificate 3392 proteste individuali (scioperi della fame, rifiuto del vitto, rifiuto della terapia). Proteste collettive (battiture, rifiuti del carrello) invece in 126 istituti. Accade così che questa estate per la prima volta della Repubblica i dirigenti degli istituti penitenziari e degli uffici dell’esecuzione penale abbiano manifestato a Roma i uffici dell’esecuzione penale esterna per rivendicare il diritto a un contratto che manca da quando nel 2005 è stata varata la riforma della dirigenza penitenziaria, e denunciare la drammatica crisi del sistema carcerario. “Lo Stato italiano, ad ogni livello, continua a trattare le carceri come discariche sociali, dove i direttori degli istituti e chi vi lavora sono abbandonati, al pari dei detenuti, in una voragine che inghiotte tutto, dalla legalità ai diritti umani”. A Ferragosto ventimila persone, e tra loro direttori di carceri, agenti di polizia penitenziaria, personale volontario, detenuti, abbiano effettuato uno sciopero della fame e della sete per un giorno cercando così di richiamare l’attenzione sulla situazione disastrosa di carceri e giustizia. Per non dire del lungo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella, Rita Bernardini, Irene Testa. Una situazione ben “descritta” da un comunicato (naturalmente ignorato) dal sindacato dei direttori penitenziari: “…La verità di oggi è quella di carceri che assomigliano sempre di più a favelas ingabbiate, dove il personale vive situazioni di grande stress e sempre più si vergogna per le risposte che non riesce a dare alle istanze dei detenuti e dei cittadini sul pieno riconoscimento di diritti fondamentali che esse devono assicurare, quali quello alla salute ed alle cure mediche, ad una adeguata alimentazione, al diritto di ricevere una branda per la notte, a quello di poter utilizzare in modo ordinario docce, gabinetti, lavandini, di poter avere ambienti sufficientemente illuminati, pareti periodicamente tinteggiate e non solo lordate da umori umani, sporcizie o altro, che rappresentano i graffiti della disperazione, così come di poter essere, seppure minimamente, garantiti da eventuali rischi d’incendio, di malattie infettive, etc. Costretti ad esprimere, ancora una volta, indignazione e rabbia per come passi in silenzio tutto ciò, noi Direttori Penitenziari, davvero preoccupati che il tempo delle barbarie verso il quale corriamo seppellisca le spinte legalitarie e riformiste che speravamo dovessero divenire gli strumenti principali per avviare, in modo progressivo e veloce, un concreto miglioramento del sistema carcerario, nonché favorire la formazione di una coscienza più forte e comune in materia di diritti umani e sistema penale, siamo ancora una volta pronti alla mobilitazione per denunciare tutto ciò. Non intendiamo, infatti, sottrarci alle nostre responsabilità etiche che sono, come maggior sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari, quelle di sostenere ogni seria iniziativa di sensibilizzazione finalizzata a riportare l’attenzione delle istituzioni e dei cittadini sul sistema carcerario. A tal riguardo, non possiamo non essere grati alla benemerita azione di quanti, come Marco Pannella, si impegnino su questo fronte scomodo e di tutta quella miriade di realtà associative, laiche e non, che continuano incessantemente a ricordare la gravità di una situazione che potrebbe da un momento all’altro sfuggire di mano, con conseguenze inimmaginabili per la sicurezza degli operatori penitenziari, di quelli di giustizia, della cittadinanza tutta. A quanti si sono dimostrati essere i più seri nostri interlocutori, e che hanno mostrato di comprendere, liberi da pregiudizi ideologici, sicuritari o ipergarantisti, come il problema delle carceri e della giustizia richiedano strategie nuove, rivolgiamo l’invito ad una più forte ed urgente mobilitazione, prima che sia davvero troppo tardi. Come più volte abbiamo ribadito, Noi siamo servitori dello Stato e non complici di illegalità. Se per ricostruire una logica penitenziaria che non sia solo quella della punizione e della deprivazione che nei fatti trasuda da ogni istituto, se per restituire alla pena il suo valore rieducativo, se per abbattere il rischio di una impennata dei suicidi di persone detenute così come quelle di operatori penitenziari, se per davvero e subito si vogliono recuperare risorse economiche per destinarle al sistema penitenziario, al rafforzamento dei suoi organici della dirigenza penitenziaria, dei ruoli tecnici e delle aree educative, del personale della polizia penitenziaria, se per fare tutto ciò si dovesse ricorrere, da parte di un Parlamento che torni in se stesso, ad uno strumento delicato quale risulti essere quello dell’amnistia, Noi direttori non ne saremmo scandalizzati o indignati: ci indigna invece ciò che ogni giorno siamo costretti a vedere e subire”. Nel frattempo, per restare sulla “notizia”, in poche ore si registrano due nuovi suicidi in cella. Il primo nel carcere napoletano di Poggioreale; l’altro nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia. A Poggioreale a suicidarsi, con dei brandelli della coperta in dotazione, è stato R.G., 50enne originario di Napoli, arrestato per tentato omicidio. A Reggio Emilia a suicidarsi un pluriomicida che si è impiccato al rientro in cella dopo aver effettuato un colloquio con i propri cari. Sale quindi a 58 il totale dei suicidi in cella in questo 2011. A questo punto vogliamo provare a tirare le somme e tracciare un bilancio del governo Berlusconi per quel che riguarda le possibili soluzioni strutturali in materia di giustizia? Facile, semplice: prendete zero, sommatelo a zero, e a questa somma aggiungete zero… Che fare? Marco Pannella, e con lui molte associazioni del volontariato, le Camere Penali, propongono un’amnistia: per decongestionare la situazione delle carceri, e “liberare” le scrivanie dei magistrati di migliaia di fascicoli comunque destinati a “morire” per prescrizione, per consentire loro di potersi dedicare ai processi più gravi e urgenti: in sostanza, il ragionamento è: meglio un’amnistia mirata e “governata” della una quotidiana amnistia indiscriminata che si chiama prescrizione. Una soluzione non da tutti condivisa anche se tutti sono concordi nel ritenere insopportabile e intollerabile la situazione esistente nelle carceri e nei tribunali. Ma se non l’amnistia, cosa? C’è poi il problema di ripetere che torni a verificarsi quanto accaduto. Sarebbe opportuno e saggio, per esempio: a) abrogare la legge Bossi-Fini che rende punibile l’extracomunitario clandestino in quanto tale; b) abrogare la legge Fini-Giovanardi, che non serve a perseguire i grandi spacciatori di droga, ma sovente punisce il “pesce piccolo” consumatore; c) la possibilità di scontare la pena per reati di non grave pericolosità sociale in altre forme che non siano il carcere. Tre condizioni preliminari che, se adottate, decongestionerebbero notevolmente carceri e tribunali. Pensate: in una zona ad alta densità mafiosa come Agrigento, il locale tribunale è letteralmente intasato dai processi agli extracomunitari clandestini. È evidente che l’inerzia e l’indifferenza rispondono a una precisa logica. Ma è giunto il tempo di dire basta, di smettere di accettarla e subirla. Giustizia: le carceri italiane peggio delle favelas di Dimitri Buffa L’Opinione, 15 novembre 2011 “La verità di oggi è quella di carceri che assomigliano sempre di più a favelas ingabbiate, dove il personale vive situazioni di grande stress e sempre più si vergogna per le risposte che non riesce a dare alle istanze dei detenuti e dei cittadini sul pieno riconoscimento di diritti fondamentali che esse devono assicurare, quali quello alla salute ed alle cure mediche, ad una adeguata alimentazione, al diritto di ricevere una branda per la notte, a quello di poter utilizzare in modo ordinario docce, gabinetti, lavandini. .. così come di poter essere, seppure minimamente, garantiti da eventuali rischi d’incendio e di malattie infettive”. La prima parte dell’editoriale sulla questione delle carceri italiane stavolta l’ha scritta Enrico Sbriglia, un sindacalista del Sidipe, cioè il sindacato dei dirigenti penitenziari, che con queste parole bene esprime cosa provi oggi chi lavora a contatto con i detenuti italiani. La burocrazia para borbonica che purtroppo governa l’intera giustizia penale e civile italiana, con la sua “appendice carceraria”, per utilizzare un’espressione di Marco Pannella che spesso sentiamo durante le sue chilometriche chiacchierate della domenica, generalmente con Massimo Bordin e talvolta anche con l’amico de “L’Opinione” Valter Vecellio, ha prodotto questo mostro di ferocia ed insensibilità. Ben riassunto nelle parole a suo tempo “dal sen fuggite” a un non rimpianto guardasigilli leghista, l’ingegner Roberto Castelli, che quando già nel 2003 si parlava di sovraffollamento (e poi tre anni dopo anche grazie all’intervento di Giovanni Paolo II ci fu l’indulto) affermò “che le galere non possono essere alberghi a cinque stelle”. Nella distanza siderale tra le parole di Castelli e quelle di Sbriglia, cioè tra un politicante e un addetto ai lavori, c’è tutto il dramma delle istituzioni italiane, non solo quelle penitenziarie. E ancora prima della mancanza di fondi e della velleità dei vari piani carceri che si sono susseguiti in questo scorcio di legislatura, sta proprio nel cinismo delle forze politiche più forcaiole (Lega Nord e Italia dei Valori tanto per capirci) il vero dramma in essere, il vero “nucleo di shoah”, sempre per citare Pannella. Dice Sbriglia che “come più volte abbiamo ribadito, noi siamo servitori dello Stato e non complici di illegalità”. E in tal senso “se per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri il Parlamento dovesse pensare all’amnistia noi direttori non ne saremmo scandalizzati o indignati. Ci indigna invece ciò che ogni giorno siamo costretti a vedere e subire”. Le parole sono chiare i concetti pure. Non ci sono le condizioni? Si creino lealmente senza paura di perdere voti se la causa è il risanamento di un’istituzione come è il carcere. Perché se deve essere certa la pena per chi commette reati, la Costituzione vuole che sia allo stesso modo probabile, o almeno possibile, la riabilitazione e il reinserimento dell’ex detenuto. Se il carcere è un’istituzione non può essere negletto come una discarica abusiva della camorra. E i magistrati di sorveglianza potrebbero anche loro cominciare a prendere decisioni clamorose (anche quelle che assicurano le prime pagine sui giornali senza usare la scorciatoia del gossip delle intercettazioni tra vip, potenti e escort, ndr). Come quella del magistrato della California che ha già annunciato che entro poche settimane sarà liberato il medico di Michael Jackson condannato a quattro anni per avere involontariamente fatto morire la rock star con le prescrizioni e le somministrazioni di barbiturici. E sapete perché? A causa del sovraffollamento delle prigioni locali. Punto. Non c’è altro da dire. Giustizia: tre storie di “ordinaria follia”, i penitenziari italiani come campi di concentramento di Valerio Carli L’Opinione, 15 novembre 2011 Oramai non è più una questione di statistiche di morti, di suicidi, anche di agenti della polizia penitenziaria e non solo più dei detenuti: le carceri italiane stanno diventando dei veri e propri campi di concentramento dove gestire come capita, un po’ con la ferocia della burocrazia, un po’ con la compassione di alcuni esseri umani e un altro po’ con l’indifferenza dei più, quelli che Marco Pannella nelle proprie definizioni oniriche chiama “nuclei consistenti di Shoà”. Posti dimenticati dallo stato, anche in termini di mancate assunzioni di agenti di custodia, di stanziamento per le infrastrutture e persino per il cibo dei reclusi, anfratti in cui seppellire la cattiva coscienza di una società che identifica la carcerazione con la propria sicurezza senza sapere di stare scavando la bara allo stato di diritto. Ci sarebbero migliaia di esempi, migliaia di casi, migliaia di storie da raccontare e con i dovuti approfondimenti. Per pura comodità del lettore abbiamo deciso di ricordare tre casi che recentemente hanno scosso l’opinione pubblica sensibile ai problemi del carcerario e alle voci che vengono dal di dentro. Quello del detenuto senegalese Saidou Gadiaga, 37 anni, morto dopo un attacco di asma in una cella della caserma Masotti, sede del comando provinciale dei carabinieri di Brescia, il 12 dicembre 2010. Quello di un povero rumeno, Marcel Vizitiu, morto ammazzato di botte il 3 ottobre di quest’anno dopo avere compiuto quelli che vengono definiti atti di renitenza a pubblico ufficiale. E quello del cuoco del carcere di Velletri Ismail Ltaief, tunisino, che ha denunciato alcune guardie carcerarie e la vicedirettrice, tutti rinviati a giudizio per reati vari tra cui il peculato, per i continui furti del vitto dei detenuti. Tutti e tre questi casi sono stati oggetto di interrogazioni parlamentari dei radicali, nella persona di Rita Bernardini, ormai considerata la Florence Nightingale delle prigioni d’Italia. La morte di Saidou Era venerdì 11 dicembre 2010 quando questo ragazzo senegalese di 37 anni viene arrestato a Brescia, terra ad alta densità leghista, perché a un controllo dei carabinieri per strada risultava privo del permesso di soggiorno. Se lo avessero fermato tredici giorni dopo, quando anche l’Italia recepisce la normativa europea sui rimpatri che annulla il reato di inottemperanza al provvedimento di espulsione, le manette non sarebbero scattate. Come scrive “La Repubblica” quel giorno, “l’immigrato non viene rinchiuso in carcere ma nella caserma di piazza Tebaldo Brusato”. Gadiaga è un paziente asmatico. I carabinieri lo sanno perché ha subito mostrato il certificato medico. Alle prime ore del mattino il senegalese ha una crisi. Lo conferma un testimone, Andrei Stabinger, bielorusso detenuto nella cella accanto. “Sono stato svegliato dal detenuto che picchiava contro la porta e chiedeva aiuto gridando. Aveva una voce come se gli mancasse il respiro. Dopo un po’ di tempo ho sentito che qualcuno apriva la porta della cella e lo straniero, uscito fuori, credo sia caduto a terra”. Il video che ha fatto il giro di tutta Facebook fa vedere quest’uomo che cade fuori dalla cella aperta nell’indifferenza delle guardie presenti per terra e muore soffocato dopo pochi minuti. Sarebbe bastata una dose di Ventolin per salvarlo. La morte di Vizitiu La sua storia l’ha raccontata con una lettera a Rita Bernardini, che poi ne ha fatto un’interrogazione parlamentare al ministro Guardasigilli, il suo avvocato, Giuseppe Serafino, che poi ha anche presenziato al congresso di Radicali italiani tenutosi la scorsa settimana a Chianciano. Ecco il suo racconto: “Vizitiu Marcel la sera di venerdì 30 settembre, verso le ore 20, si sarebbe recato presso una rivendita di tabacchi di Messina in evidente stato di ebbrezza. Poiché avrebbe sin da subito incominciato a dare in escandescenza i titolari del negozio hanno chiamato i carabinieri che sono intervenuti pressoché nell’immediatezza. A questo punto il racconto dei carabinieri (unica fonte di quei momenti) è a senso unico: il Vizitiu è impazzito e incomincia a rivolgere loro una serie di minacce ed ingiurie, talune incomprensibili altre chiare ed in italiano (il cittadino rumeno, scrivono in altro atto, non parla e non comprende l’italiano). I carabinieri cercano di contenerlo ma la scomposta reazione del Vizitiu gli impedisce di farlo efficacemente. Con difficoltà lo ammanettano ma questo continua a dimenarsi. Con maggiore difficoltà lo mettono sulla lettiga di una barella alla quale viene assicurato con le cinghie in dotazione. Poiché nonostante queste misure continuava ancora a dimenarsi lo assicurano alla barella con un secondo paio di manette. In tutto questo frangente, scrivono i carabinieri, il Vizitiu avrebbe cercato di colpirli a testate andando rovinosamente a sbattere a terra con la testa a causa della mancanza di equilibrio dovuta all’ubriachezza e così provocandosi numerose fratture ed ematomi, avrebbe cercato di colpirli con calci e pugni e solo con l’intervento di un’altra pattuglia e dei sanitari del 118 sarebbero riusciti ad immobilizzarlo nelle forme sopra dette”. In carcere il giovane viene visitato da un medico che gli trova contusioni e ferite su tutto il corpo, come se avesse subito un pestaggio. Aggiunge poi il dottor Famà: “altresì si evidenzia che nella prima fase di accoglienza, ed ancor prima della presa in carico del detenuto, è stato stabilito un contatto telefonico con il magistrato di turno, dottoressa Arena, alla quale, dopo aver fatto opportuna comunicazione al Direttore della casa circondariale, si è rappresentata la grave difficoltà ad ospitare il detenuto in oggetto sia per la condizione medica sia per le lacune logistiche dell’istituto. Tuttavia, dopo ampia discussione, viene ordinato di accettare il detenuto e di provvedere al meglio della sua gestione”. Dopo il ricovero in ospedale viene dimesso, “perché avrebbe firmato lui”, ma di quella carta non c’è traccia. Il 2 ottobre in carcere il giovane si aggrava e il giorno dopo muore nell’indifferenza burocratica di tutto il personale medico che si rimpalla le responsabilità. Ismail Ltaief: il cuoco del carcere di Velletri Tra le tre storie questa è l’unica che, per ora, non ha avuto un esito tragico. Ismail adesso è libero, proprio il 10 ha testimoniato davanti al tribunale di Velletri che sta giudicando i suoi ex carcerieri con l’accusa di avere lucrato sul vitto dei detenuti. Peccato che non abbia lavoro, che sia costretto a vivere in una tenda al freddo sulla spiaggia di Ostia e che ogni qual volta abbia provato a trovare un posto da pizzettaro, pasticciere o cuoco, attività in cui eccelle, si sia sentito ridere in faccia. E va considerato che, coloro che lui ha accusato, già dentro al carcere lo minacciarono di morte (“farai la fine di Cucchi”) dopo avere tentato prima di comprarne il silenzio con 15 mila euro. Chi lo protegge a Ismail da eventuali rappresaglie di qualsivoglia natura? Per fortuna almeno l’associazione radicale “il detenuto ignoto” di Irene Testa e l’avvocato Alessandro Gerardi, che lo assiste nel processo contro i cinque agenti e la vice direttrice in qualche maniera lo aiutano. Anche economicamente. Ma la sua è veramente una storia emblematica di quanto in Italia nelle carceri la rieducazione non paghi. Mentre la scuola del crimine forse sì, visto che quando lui scoprì che gli agenti si portavano a casa intere casse del cibo destinato ai reclusi gli proposero di fare parte della cricca. Tanto perché mai (avranno pensato) un detenuto in Italia dovrebbe comportarsi onestamente? Vuoi commentare questo articolo? Iscriviti o effettua il login per partecipare alla discussione. Giustizia: intervista a Ornella Favero “dovrebbe chiederla il Pd l’amnistia” di Giorgio De Neri L’Opinione, 15 novembre 2011 “In un frangente come quello attuale in cui la giustizia penale è al collasso e la domanda di sicurezza viene artatamente confusa con quella di “più galera per tutti”, in un paese normale sarebbe dovuta essere l’opposizione di sinistra a chiedere l’amnistia per la “Repubblica” insieme a Marco Pannella, Rita Bernardini, Irene Testa e gli altri radicali che dallo scorso aprile a turno hanno scioperato a turno con la fame e con la sete per ripristinare la legalità nelle carceri italiane e avrebbe dovuto farlo senza pensare al proprio tornaconto elettorale o al fatto che se ne sarebbe potuto giovare anche il premier Silvio Berlusconi”. Ornella Favero, che presiede la onlus “Ristretti Orizzonti”, una di quelle più attive insieme ad “Antigone” e poche altre nel cosiddetto settore carcerario, non è di certo una donna con ambizioni politiche. Però la realtà italiana la conosce bene e capisce le dinamiche demagogico elettorali che hanno portato a questo punto le prigioni del Bel Paese, tra restrizioni sulla Gozzini, legge ex Cirielli, legge Fini-Giovanardi sulle droghe e legge Bossi Fini sull’immigrazione, con un carico di detenuti pari a 67. 428 unità al 31 ottobre 2011, contro una capienza massima teoricamente consentita di 45.817. Dinamiche che si chiamano “domanda di sicurezza”, “certezza della pena” e altri orrendi slogan che hanno caratterizzato le campagne elettorali nazionali e locali tanto del centro destra quanto del centro sinistra negli ultimi anni. Dinamiche che hanno portato recentemente la camera penale di Roma a ironizzare pesantemente con “Alemanno - Di Pietro e Maroni” dopo i deprecabili scontri di piazza e le devastazioni nella capitale durante la famigerata manifestazione degli indignados di sabato 15 ottobre. Con un comunicato chiamato “Legge(rezza) Reale”, in cui si dice fra l’altro che “l’Asse Alemanno - Di Pietro - Maroni, ricompattandosi nel comune e genetico autoritarismo che supera ed annulla ogni contingente posizionamento politico, ha trovato la sua magica parola d’ordine: Rivogliamo la Legge Reale. E così, dall’immigrazione agli stupefacenti, dal tifo da stadio ai disordini di piazza, la soluzione è sempre la stessa: più manette, più condanne, più carcere; meno diritti, meno garanzie, meno difesa. E questo con soave leggerezza, ed altrettanta demagogia, mentre le patrie galere - strapiene di disgraziati indecentemente ammassati - stanno collassando nell’indifferenza generale (qualche digiunatore a parte). Si vedrà presto se, almeno stavolta, i giuristi avranno qualcosa da dire, o prevarranno i soliti egoismi vestiti da sofismi che da troppo tempo, interessati solo ad ottenere facili consensi calpestano i fondamentali diritti di libertà”. La Favero è perfettamente d’accordo con questa analisi: “hanno venduto lo slogan più sicurezza per tutti mistificandolo e confondendolo con quello più galera per tutti e oggi ci troviamo con le carceri piene e con la sicurezza dei cittadini persino peggiorata”. Ornella Favero, come possono fare i politici liberali a convincere quelli autoritari, come i suddetti da lei citati, che non è con questi slogan da “chiacchiere e distintivo” che si può risolvere il problema della giustizia penale in Italia? Quello che io constato, anche in altri settori, come quello dell’economia e della relativa crisi finanziaria in atto in tutta Europa, è che prima o poi la realtà si vendica delle menzogne. Io non ho speranze attualmente né ottimismi da comunicare su questa classe politica, tanto di governo quanto di opposizione, la quale non avrebbe dovuto lasciare solo Pannella a chiedere l’amnistia per la repubblica ma avrebbe dovuto appoggiarlo anche a costo di far sì che di quel provvedimento potesse giovarsene il tanto da loro odiato Silvio Berlusconi. Ma, con le solite lodevoli eccezioni di quei quattro gatti di cultura liberale nell’uno o nell’altro schieramento, oltre che degli “eroi radicali” che ci sono sempre stati al fianco in questi terribili anni, nessuno ha voluto guardare questa realtà drammatica. E quindi? Per anni ci hanno detto che il debito pubblico non era un problema e adesso guardi un pò che sta succedendo e allo stesso modo per anni hanno detto che l’unica maniera per dare sicurezza al cittadino era ampliare a dismisura la giustizia penale, i nuovi reati e soprattutto il dare più galera a tutti. E anche qui io posso dire: guardate un po’ che fine che stiamo facendo! Come se ne esce? Con un’alleanza trasversale per riformare la giustizia penale, codice compreso, la condizione e la concezione carceraria, sviluppando le pene alternative laddove possibili, a 180 gradi come si suol dire oggi. Sulle droghe ci vorrebbe meno proibizionismo e anche su tutti i reati che coinvolgono la sfera privata dell’individuo ma che in realtà non fanno vittime: oggi con il nuovo codice della strada se una persona viene fermata che ha bevuto un bicchiere in più, senza che abbia fatto incidenti, per un paio di volte, rischia un anno di carcere, io dico che questo è troppo. Basta il ritiro della patente, no? In carcere solo le persone pericolose, gli omicidi, i mafiosi, ma non nell’inumano 41 bis che è una tortura legalizzata, e il resto dei detenuti, gran parte di essi, paghi soprattutto con arresti domiciliari, pene pecuniarie e di riparazione sociale. Il truffatore o il ladro? Ripaghino il danno morale verso la società lavorando gratis per la vittima oltre che quello materiale vero e proprio. Non si abbia paura di perdere qualche migliaio di voti, non ci si vada più in televisione a raccontare frottole sulla sicurezza e magari ci si confronti sui suicidi in carcere che in Italia ormai coinvolgono a livelli impressionanti non solo i reclusi ma anche chi ci lavora dentro i penitenziari. Che dice della lettera di Enrico Sbriglia del Sidipe, il sindacato dei dirigenti dei penitenziari italiani? Che dovrebbero leggerla in tutte le scuole, le stesse che ci accolgono con gli applausi quando portiamo in visita le delegazioni dei detenuti che abbiamo recuperato e che si possono sempre recuperare. Una lettera che riprende quello che disse Napolitano lo scorso 28 luglio nel convegno al Senato organizzato dal presidente Renato Schifani e da Emma Bonino: “c’è una prepotente urgenza di legalità” nel pianeta carcere e i direttori non vogliono più essere i burocrati complici della incapacità, del cinismo e della ferocia demagogica di questa classe politica. Giustizia: intervista a Patrizio Gonnella “dietro le sbarre, un Paese incivile” di Andrea Monti Panorama, 15 novembre 2011 Le prigioni italiane potrebbero contenere 45.817 carcerati. Ma ne ospitano 67.428. Lo dice il rapporto sulle condizioni di detenzione presentato oggi dall’Associazione Antigone. Allo spaventoso tasso di sovraffollamento (nel 2009 era al 148%, il più alto dell’Unione europea) si somma il dramma dei suicidi: da gennaio a oggi si sono uccisi 58 reclusi, in linea con la media degli ultimi anni. Panorama.it ne ha parlato con Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione. Come vive oggi un detenuto italiano? Dipende dal penitenziario. Prendiamo Milano: se vieni arrestato in un certo quartiere vai a Bollate, dove c’è grande attenzione verso i carcerati. In un’altra zona invece ti ritrovi a San Vittore, dove non c’è spazio e le condizioni igienico-sanitarie sono complicatissime. Si immagini la differenza tra Bollate e Poggioreale (Napoli), che costringe 18 reclusi in 30 metri quadri, o tra Bollate e Regina Coeli (Roma), dove ho visto con i miei occhi persone che dormono per terra. Perché le prigioni sono così piene? Il numero di reati non cresce, non c’è un aumento delle denunce penali. La colpa è delle norme. Penso alla custodia cautelare in carcere: il 43% dei detenuti è in attesa di giudizio. La media europea è del 25. A volte il periodo di custodia supera la pena a cui poi si viene condannati. Dobbiamo velocizzare i processi e adottare misure alternative (come gli arresti domiciliari) per chi non è accusato di fatti particolarmente gravi. Quali altre leggi andrebbero riviste? La Fini-Giovanardi sugli stupefacenti, troppo severa e ideologica. Il consumatore (o spacciatore) di droghe leggere è equiparato a quello di droghe pesanti. Così vanno in prigione persone con un bassissimo profilo criminale. In Italia il 37% dei detenuti è in galera per reati legati alle tossicodipendenze: in Inghilterra e Francia siamo sotto il 20. Poi c’è la legge sulla recidiva, che elimina la possibilità di sanzioni diverse dal carcere per chi commette più volte lo stesso tipo di reato. Restiamo in tema di droga: anche in questo caso si penalizzano i micro-criminali, non il mafioso che gestisce il traffico e che una volta preso sta dentro tutta la vita. Cosa si è fatto negli ultimi anni contro il sovraffollamento? Il governo Berlusconi ha dichiarato lo stato di emergenza per due anni di fila e ha puntato sulla costruzione di nuove carceri: un’operazione che in Italia non si è mai realizzata, neppure quando c’erano i soldi. Anche stavolta sono stati fatti alcuni bandi, ma non si è aperto nemmeno un cantiere. La soluzione è un’altra: mandare in galera solo chi è davvero pericoloso per la società. Sarebbe più equo e più economico. Indulto e amnistia sono ipotesi possibili? Sarebbero utili se accompagnati a un sistema di riforme. L’indulto del 2006 riportò un minimo di decenza nella vita dei carcerati, ma fu un atto isolato, eccezionale. Per questo i suoi effetti si sono esauriti rapidamente. Quanto pesano le condizioni di detenzione sui suicidi? Chi si uccide lo fa per motivi legati alla sua storia personale. Il sovraffollamento fa sì che non ci si accorga se un detenuto sta male, se è depresso, se non telefona più a nessuno. Molti suicidi avvengono nella prima fase della carcerazione. Un conto è se entri e hai un letto normale, sei seguito da uno psicologo e non c’è violenza. Un altro è se vivi in mezzo alla sporcizia, nella tua stanza non si può stare in piedi tutti insieme e gli operatori non hanno tempo e modo di ascoltarti. Ogni anno ci sono centinaia di tentativi di suicidio e migliaia di atti di autolesionismo. C’è chi si taglia un dito o cerca di inghiottire una lametta per ottenere un pacchetto di sigarette. Aumentano le malattie, cresce l’uso degli psicofarmaci. La situazione è insostenibile, tanto che per la prima volta la mia associazione ha le stesse parole d’ordine del sindacato dei direttori dei penitenziari. Anche loro non ce la fanno più, si sentono abbandonati sul piano politico o culturale. Quanto sono diffuse invece le violenze sui carcerati? Ci sono sempre state e temo ci saranno sempre, perché la prigione è un luogo chiuso, invisibile all’esterno. Le cose vanno bene se il direttore del penitenziario o il comandante di polizia ha una forte radice democratica e dice: qui queste cose non si fanno. Altrimenti si hanno abusi occasionali o sistematici, con vere e proprie squadrette che operano pestaggi regolari. In quali carceri agiscono queste “squadrette”? Non posso dirlo. Ogni volta che ci sono le basi per denunciare un abuso ci rivolgiamo alla procura della Repubblica. Da qualche anno abbiamo anche un ufficio di difensore civico: offriamo consulenza legale gratis ai detenuti che ci segnalano violazioni dei loro diritti. La società italiana è consapevole di quanto succede nelle carceri? Più di prima, anche se non ancora a tal punto da creare il moto di indignazione che dovrebbe esserci in uno Stato democratico. Ormai nessuno può dire di non sapere che le prigioni sono sovraffollate. E il caso di Stefano Cucchi ha sollevato un interesse senza precedenti, soprattutto grazie al coraggio della famiglia. Come si possono migliorare stabilmente le condizioni di vita dei detenuti? Servono scelte forti e razionali. Non bisogna farsi condizionare dal consenso, dalle elezioni, da ciò che vuole la gente. Dobbiamo smettere di pensare che grandi fenomeni come l’immigrazione o le droghe si possano affrontare solo con fermi, arresti e custodie cautelari. Altrimenti il carcere diventa una porta girevole da cui si entra e si esce continuamente. E non svolge né la sua funzione di deterrenza, né quella di recupero. Giustizia: manicomi criminali, aboliti per legge… ma ancora aperti di Elisa Latella www.linkiesta.it, 15 novembre 2011 Il Senato ha votato per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, che dovrebbero essere strutture di cura e recupero ma sono di fatto carceri in condizioni di assoluto degrado. Al momento, dei 368 internati dichiarati dimissibili, solo 101 hanno lasciato le strutture perché il sistema sanitario non è pronto ad accoglierli. Sono trascorsi più di trent’anni dalla legge Basaglia che ha chiuso i manicomi ma nonostante questo in Italia ci sono ancora almeno 1.404 internati nei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani. Nel 2011, la Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale del Senato ha monitorato le strutture italiane per avere notizie degli internati che avrebbero dovuto essere stati dimessi già da mesi o anni: su 368 internati dichiarati dimissibili, per ora solo 101 hanno effettivamente lasciato le strutture. La maggior parte non ha potuto lasciare l’ospedale psichiatrico giudiziario perché si ritrova senza progetto terapeutico, non ha una comunità che possa accoglierlo o una Asl che lo assista. Di recente il Senato ha votato sì alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) con una risoluzione, che ha visto maggioranza e opposizione votare in modo compatto. Il provvedimento apre la strada a una riforma del sistema della detenzione psichiatrica che, in tempi ancora da definire, porterà alla chiusura degli Opg. Secondo il presidente della commissione d’inchiesta Ignazio Marino “la risoluzione è un atto di responsabilizzazione del Governo e delle Regioni. Nessuno potrà più dire “io non sapevo” o “non è possibile intervenire”, perché queste persone, internate nelle sei strutture italiane, sono una responsabilità di tutti. Vi sono uomini che hanno compiuto crimini efferati: però, pur avendo aggredito o ucciso, devono essere curati e hanno il diritto di vivere in un ambiente pulito e dignitoso. Altri, quasi 400, non sono pericolosi e avrebbero avuto da tempo il diritto di uscire. Con l’intervento della Commissione, molti di loro hanno varcato la soglia degli Opg, ma altri sono ancora lì ad ingrossare le fila dei cosiddetti “ergastoli bianchi”, persone che a causa delle “proroghe” rischiano di non uscire mai. Una prassi di sistematica lesione di due diritti fondamentali”. E ancora: “C’è ancora molto lavoro da fare: dopo i sequestri di alcune aree dell’Opg di Montelupo Fiorentino e di Barcellona Pozzo di Gotto del luglio scorso, stiamo monitorando le condizioni di tutti gli internati che sono stati trasferiti e di quelli che ancora permangono negli Opg. Alla fine di gennaio, scadrà l’altro termine contenuto nei decreti di sequestro per l’adeguamento dell’intera struttura - quindi anche delle parti non sequestrate - ai requisiti minimi previsti dalle leggi nazionali e regionali. Una data importante”. Il voto al Senato è arrivato dopo le numerose indagini portate avanti dalla Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale. Uno di questi è in Sicilia, quello di Barcellona Pozzo di Gotto, gli altri si trovano a Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere, Napoli e Aversa. Tremende le immagini che la Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale ha girato negli ex manicomi giudiziari. Numerose associazioni hanno aderito all’appello Stop Opg per l’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari. Tra i traguardi raggiunti anche attraverso l’attività di sensibilizzazione, un nuovo accordo per il superamento degli Opg approvato in conferenza unificata (Stato, regioni, province, comuni). Giustizia: Bernardini; con Monti abbiamo parlato della violazione dei diritti umani nelle carceri Dire, 15 novembre 2011 “La giustizia è a nostro avviso il più grave problema istituzionale e sociale del nostro Paese, e questo abbiamo detto a Monti”. Lo ha detto la deputata radicale Rita Bernardini, intervistata da Radio radicale dopo l’incontro tra una delegazione radicale e il presidente del Consiglio incaricato. “Abbiamo voluto sottoporgli le parole del Presidente della Repubblica, quelle parole che ci auguriamo il Presidente Napolitano non abbia dimenticato”, ha detto la deputata radicale. “Quando abbiamo ricordato il numero dei procedimenti penali e civili pendenti - circa 10 milioni - la meraviglia del senatore a vita Monti è stata alta. Ha fatto uno scatto. Evidentemente - osserva Bernardini - nessuno prima di noi aveva posto il problema della bancarotta della giustizia italiana. Bancarotta che ha ripercussioni pesanti sull’economia italiana. Altro dato che ha sorpreso il presidente del consiglio incaricato - ha aggiunto la deputata radicale - quello della violazione dei diritti umani e civili nelle carceri - il 42 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio, percentuale doppia della media europea, in questo siamo primi. Un dato, questo, che certamente lo ha colpito”. La deputata ha spiegato che i Radicali hanno fornito a Monti i “documenti - ultimi quello del sindacato dei direttori di carcere e quello del forum delle comunità cattoliche sulla giustizia, quelli delle associazioni vicine al mondo della detenzione - in una cartellina che speriamo voglia consultare”. “Quel che può esser conosciuto può essere giudicato consapevolmente. Anche la conoscenza è una forma di controllo che apre sicuramente una spirale virtuosa, nel funzionamento delle nostre istituzioni”, ha concluso la deputata radicale. Giustizia: Lisiapp; al nuovo Guardasigilli, chiunque sarà, chiediamo di “fare presto” Agenparl, 15 novembre 2011 La situazione degli istituti penitenziari del paese stanno avviandosi pian piano ad un punto cruciale di emergenza anche con effetti allarmanti per la società civile. È quanto afferma in una nota il Lisiapp Libero Sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria, che sottolinea come in questi mesi ma ormai sono anni che le carceri sono in totale abbandono da parte delle istituzioni. La sequenza incredibile di gravi e numerosi eventi critici, sfociati in episodi di aggressioni al personale di polizia penitenziaria, sono un malessere quotidiano che si vive nelle strutture detentive, ma tutto ciò, non è soltanto dovuta a problemi di sovraffollamento, ma forse anche ad una politica gestionale dell’intero sistema penitenziario che non tutela gli operatori in prima linea. A questo, continua la nota del Lisiapp, noi rivendichiamo alle istituzioni centrali molti punti cardini quali il rinnovo dei contratti e degli adeguamenti stipendiali, il superamento delle determinazioni assunte in materia pensionistica con le recenti manovre economiche per il personale del Comparto Sicurezza, le assunzioni di personale della Polizia Penitenziaria (le 1.611 previste nel piano carceri, a fronte di una carenza stimata in circa 6.000 unità, malgrado le promesse non hanno ricevuto copertura finanziaria) e ancora, dei ruoli amministrativi il cui numero dal 2000 è diminuito del 40% compreso il neo decretato ruoli tecnici del Corpo di polizia penitenziaria e poi, stanziamenti economici adeguati e indispensabili a mantenere la funzionalità del sistema penitenziario e compensare il pagamento del lavoro straordinario e delle missioni dal personale di Polizia Penitenziaria, la rideterminazione degli organici per ciascuna sede sul territorio e in ambito centrale, l’istituzione della previdenza complementare (Tfr e Fondi Pensione), in ragione del passaggio del sistema pensionistico da retributivo a contributivo, il pagamento al personale degli arretrati ancora non corrisposti, il riallineamento giuridico ed economico alle altre Forze di polizia dei Ruoli di Polizia Penitenziaria (Sovrintendenti, Ispettori e Commissari). Auspichiamo conclude la nota, che il nuovo Guardasigilli, possa intraprendere la strada della ragionevolezza e con una forte presa di coscienza delle problematiche che affliggono il personale di polizia penitenziaria e non solo preoccuparsi delle condizioni della giustizia in generale. Giustizia: detenuto 36enne muore tre giorni dopo l’arresto… non sia altro caso Cucchi! Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2011 È successo nella struttura protetta del nosocomio Belcolle di Viterbo, dove un 36enne romano era stato portato per una Tac: dopo le manette per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, aveva detto di esser stato picchiato dagli agenti della Polfer. Un uomo è morto nel reparto detentivo di un ospedale tre giorni dopo un fermo di polizia. La mente corre a Stefano Cucchi, la storia si ripete. Il Garante per i detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ha denunciato il caso di Cristian De Cupis, un 36 enne romano fermato il 9 novembre alla stazione Termini con le accuse di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Giunto all’ospedale Santo Spirito con escoriazioni, De Cupis avrebbe detto di essere stato pestato dagli agenti della Polfer e avrebbe sporto denuncia. Il giorno successivo, l’uomo (che viveva nel quartiere romano della Garbatella) è stato ricoverato nella struttura protetta del nosocomio Cristian De Cupis: gli è stata eseguita una Tac, poi il suo arresto è stato convalidato e il giudice ha disposto i domiciliari una volta terminato il ricovero. Ma non ha fatto in tempo: Cristian De Cupis è morto prima di poter tornare a casa. Una morte quanto meno sospetta, secondo il Garante, che chiede alla magistratura di fare presto. “A chi lo ha incontrato nei giorni del ricovero l’uomo era parso a tratti agitato e a tratti lucido, comunque non in condizioni che potessero far immaginare una morte repentina - ha spiegato Marroni. A conferma di ciò, la circostanza che l’uomo, solo due giorni prima dell’arresto, si era rivolto ad una struttura di orientamento per detenuti per cercare un lavoro”. Detenuti, pestaggi, numeri che non fanno più notizia. “La situazione è comparabile a quella dello scorso anno, non è accaduto nulla di significativo. Ma significativo è il fatto che non è accaduto nulla”. L’associazione Antigone presenta il suo annuale rapporto sulle condizioni di detenzione e il suo presidente Patrizio Gonnella pone l’accento su tutto quello che non è stato fatto. Il Piano carceri, per esempio, tanto sponsorizzato dall’ex Guardasigilli Alfano, ma rimasto sulla carta: soltanto in questi giorni sono usciti i primi tre bandi per l’ampliamento degli istituti di Lecce, Taranto e Trapani. Un Piano che costa 661 milioni di euro e che si sarebbe dovuto realizzare entro il 2012. “Avrebbero dovuto realizzare un migliaio di posti letto in più. Ma se i detenuti in eccesso sono 22 mila, cosa ce ne facciamo di mille brande?”. Al 30 settembre 2011 i detenuti erano 67. 428 a fronte di una capienza regolamentare di 45. 817. Tra di loro, gli stranieri sono 24. 401. Soltanto 37. 213 le persone con una sentenza passata in giudicato. L’affollamento carcerario ci vede agli ultimi posti in Europa. Colpa dei troppi delinquenti? “No, colpa di leggi ideologiche come la Fini-Giovanardi sulle droghe - spiega il presidente di Antigone - che fanno entrare in carcere persone pericolose soltanto verso se stesse. Il 37 per cento di chi è in galera ha violato quella legge. La media europea è del 15-18 per cento. Se si aggiunge la ex Cirielli sulla recidiva, i piccoli spacciatori ricevono pene più severe senza la possibilità di misure alternative”. Proprio quelle che mancano in Italia. Secondo il rapporto, coloro che nel 2009 hanno iniziato a scontare una misura alternativa al carcere sono poco più di 13 mila (contro le 123 mila della Francia, per esempio). In carcere la dignità non esiste più. A San Vittore sono detenute 1. 635 persone contro una capienza di 712. A Poggioreale si fanno i turni anche per stare in piedi. In cella si muore: 154 decessi dal primo gennaio al 25 ottobre, di cui 53 suicidi. Non ci sono diritti neanche per i bambini: nel penitenziario romano di Rebibbia 24 minori di tre anni vivono con le loro mamme (il nido ne potrebbe ospitare 19). Ma la notizia più grave è che non ci sono più soldi. Nel 2010, le direzioni degli istituti hanno denunciato un’esposizione finanziaria di 120 milioni di euro nei confronti dei fornitori dei servizi essenziali. Il risultato è che i detenuti rimangono pure senza riscaldamento. Solo il 20 per cento della popolazione carceraria lavora e i fondi per gli incentivi alle assunzioni da parte di cooperative sociali e imprese sono finiti. La polizia ha una carenza di organico di 6 mila unità. Detenuto muore, aveva denunciato un pestaggio (La Repubblica) Viterbo, De Cupis ricoverato dopo il fermo: “Picchiato dai poliziotti”. Indaga la procura. Il fratello: “Il corpo era pieno di lividi ma era sanissimo, si era appena fatto un check-up”. È morto tre giorni dopo essere stato arrestato e, a quanto avrebbe dichiarato ai medici dell’ospedale, picchiato dalla polizia. La vicenda di quello che sembra essere un nuovo caso Cucchi e sulla quale la procura di Viterbo ha già aperto un fascicolo per omicidio colposo, è iniziata lo scorso 9 novembre alla stazione Termini e a denunciarla è il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Cristian De Cupis, 36 anni, un passato costellato da piccoli reati e tormentato da una tossicodipendenza dalla quale è uscito qualche mese fa, lo scorso mercoledì è stato ammanettato da due agenti della Polfer al termine di una colluttazione. Portato, in stato di fermo per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, all’ospedale Santo Spirito, secondo Angiolo “avrebbe denunciato al pronto soccorso di essere stato pestato dai poliziotti che lo avevano arrestato. Tre giorni dopo il fermo, è morto, per cause da accertare, in un letto del reparto riservati ai detenuti dell’ospedale Belcolle di Viterbo”. Lì è stato trasferito il 10 novembre - in ambulanza e scortato dalla polizia - e sottoposto a tutti gli esami di rito, compresa una Tac, dicono i sanitari. “Del suo trasferimento a Viterbo noi ne sapevamo nulla - ha raccontato Maria Alfonsi, la zia della vittima che ospitava Cristian a casa sua da tre mesi, da quando era uscito da San Patrignano - L’ultima volta che l’ho sentito è stato mercoledì notte alle due: mi ha detto che aveva un braccio fasciato, ma che non mi dovevo preoccupare, che avrebbe preso il notturno per tornare a casa. Poi ho provato a cercarlo ma il cellulare era staccato. Non l’ho più sentito, non è più tornato”. Il giorno seguente dall’ospedale Belcolle De Cupis è stato accompagnato in procura e il giudice Stefano D’Arma ha convalidato il suo arresto e disposto gli arresti domiciliari al termine del ricovero. “Sarà importante capire cosa ha detto al magistrato - ha dichiarato Massimo Mercurelli, difensore nominato dalla famiglia De Cupis - se ha ripetuto le accuse nei confronti dei poliziotti”. La mattina del 12 novembre De Cupis è morto. Un decesso inaspettato, perché “mio fratello era in perfetta salute - ha spiegato Claudio - dieci giorni fa aveva fatto un check up completo ed era sanissimo. Nessun problema cardiaco, nessun problema respiratorio. Quando lo abbiamo visto all’obitorio era pieno di lividi sulle spalle, in faccia era graffiato e al petto aveva una grande macchia rossa. Vogliamo capire ora perché Cristian, che stava ricominciando a vivere e lo scorso lunedì era anche andato all’ufficio di collocamento per chiedere un lavoro, è morto”. In attesa degli esami autoptici Marroni ha comunque inviato una nota al ministero della Giustizia e a quello dell’Interno sollecitando le verifiche del caso. E il senatore dell’Italia dei Valori Stefano Pedica ha già annunciato un’interrogazione parlamentare. Secondo una prima versione della polizia ferroviaria di Termini, “l’arrestato si sarebbe procurato da solo le lesioni, nel tentativo di sottrarsi alla cattura”. Autopsia senza periti, genitori avvertiti arresto dopo il decesso (Il Messaggero) Ora quei due poveri genitori vogliono la verità. Vogliono sapere se il loro Cristian è morto per le botte degli agenti, vogliono sapere perché sono stati avvertiti del suo arresto solo quando era già morto e perché non è stato riconosciuto loro neppure il diritto di farsi rappresentare da un medico di fiducia al momento dell’autopsia. La Procura di Viterbo - perché Cristian è morto nell’ospedale Belcolle - ha aperto un’inchiesta, il fascicolo è sul tavolo del sostituto Stefano D’Arma, la famiglia di Cristian ha già nominato un legale, l’avvocato romano Massimo Mercurelli. Abitano alla Garbatella, il padre e la madre di Cristian De Cupis, 36 anni, una vita difficile e segnata dalla droga, ed erano in casa quella sera maledetta del 9 novembre, neanche una settimana fa. La sera in cui - stando alla ricostruzione che ne ha fatto Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio - Cristian venne fermato da una pattuglia della polizia ferroviaria mentre vagava dalle parti della Stazioni Termini. Non si sa esattamente cosa accadde in quei momenti. Di sicuro gli agenti della Polfer decisero di arrestarlo - lui che aveva solo piccoli precedenti, anche questi legati alla droga - per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Dalla Stazione Termini, però, invece che in carcere Cristian - un fisico debilitato, l’ombra del ragazzone sorridente delle sue foto - venne portato al pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito. E qui interviene ancora Marroni raccontando che “aveva delle escoriazioni alla fronte” e che “avrebbe riferito ai medici di essere stato percosso dagli agenti che lo hanno arrestato, e per questo avrebbe anche sporto denuncia”. La copia di questa denuncia non è ancora spuntata fuori, potrebbe essersi trattato anche solo di una denuncia verbale. La mattina dopo, la mattina di giovedì 10 novembre, Cristian viene trasferito in ambulanza e scortato dalla polizia nella struttura protetta dell’ospedale Belcolle di Viterbo, un centro abbastanza attrezzato per casi come il suo. È sempre Marroni a raccontare che venerdì 11 Cristian De Cupis “viene sottoposto a tutti gli esami di rito compresa una tac”, probabilmente oggi agli atti del fascicolo aperto sulla sua morte. È lo stesso giorno in cui un giudice lo viene a interrogare in ospedale, ne convalida l’arresto e gli concede i domiciliari, appena dimesso può tornare a casa. Ma il passaggio è decisivo: cosa ha raccontato Cristian durante questo interrogatorio? Muore la mattina di sabato, Cristian, alla Garbatella di lui non sanno più niente ormai da tre giorni. Interviene l’autorità giudiziaria e dispone l’autopsia. È stata eseguita ieri mattina, ma vi ha partecipato soltanto il medico legale della Procura. I genitori disperati non hanno fatto in tempo a nominare nessun perito di parte. “A chi lo ha incontrato durante il ricovero - rivela Marroni - De Cupis è parso a tratti agitato e a tratti lucido, comunque non in condizioni che potessero far immaginare una morte repentina”. E comunque un uomo che aveva dei progetti, che stava cercando di uscire da quella vita: solo un paio di giorni prima dell’arresto aveva bussato a una struttura di orientamento per domandare un lavoro. Marroni ha scritto una lettera al ministero della Giustizia e a quello dell’Interno: “Questa vicenda presenta lati non ancora chiariti, che necessitano di un approfondimento e soprattutto di chiarezza. Quella chiarezza che meritano i familiari di quest’uomo e le centinaia di operatori della sicurezza che svolgono con correttezza e abnegazione il loro lavoro”. Bisogna far presto, conclude il garante dei detenuti “per sgombrare ogni nube e per evitare l’atroce sensazione di trovarsi davanti a un nuovo caso Cucchi”. Fiano e Favi (Pd): accertare al più presto le cause di questa morte (Dire) “Occorre al più presto che la magistratura accerti le reali cause del decesso del detenuto Cristian De Cupis ricoverato presso il reparto protetto del carcere di Viterbo. Se quanto riportato dal garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, risultasse vero, e cioè che De Cupis aveva denunciato di essere stato picchiato nel corso del suo arresto, ci troveremmo di fronte a un altro caso Cucchi che ha rappresentato e rappresenta un monito civile e umano per il pieno rispetto della dignità e dell’integrità fisica e psichica di tutte quelle persone che si trovino sotto la tutela dello Stato”. Così in una nota congiunta Emanuele Fiano, responsabile nazionale Sicurezza, e Sandro Favi, responsabile nazionale carceri del Pd. Sulla vicenda il senatore dell’Italia dei Valori Stefano Pedica ha annunciato un’interrogazione parlamentare. Anche lui ha parlato di analogie con il caso Cucchi. Pedica (Idv): a Viterbo analogie con caso Cucchi (Ansa) È di queste ore la notizia di un detenuto morto che avrebbe denunciato al pronto soccorso dell’ospedale in cui è stato ricoverato di essere stato pestato dagli agenti di polizia durante il fermo: su questa vicenda presenterò appena possibile un’interrogazione parlamentare. Lo afferma in una nota il senatore dell’Italia dei Valori Stefano Pedica. L’uomo, un 36enne di Roma, è morto nel reparto detenuti dell’ospedale di Viterbo, secondo quanto riferito dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Ancora non è chiuso il processo per Stefano Cucchi e già ci troviamo di fronte ad un altro caso che presenta delle analogie - ha aggiunto Pedica -. Porgo le mie condoglianze ai familiari di Cristian De Cupis, da domani stesso mi attiverò per capire l’esatta dinamica e le circostanze che lo hanno portato al decesso. Peciola (Sel): responsabilità istituzionale per un’altra morte sospetta (Dire) “Un’altra morte sospetta avvenuta nel reparto per i detenuti di un ospedale, su cui invito le autorità giudiziarie a fare piena luce. Questo caso presenta molte analogie con il caso di Stefano Cucchi, sul quale è attualmente in corso il processo di primo grado”. È quanto afferma in una nota Gianluca Peciola, consigliere provinciale di Sinistra, Ecologia e Libertà, che aggiunge: “Il giovane, residente alla Garbatella, fermato alla stazione Termini per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale e condotto al pronto soccorso di un ospedale romano, aveva denunciato di essere stato percosso dagli agenti della Polfer che lo avevano arrestato. Sarà la magistratura ad accertare eventuali responsabilità degli agenti di Polizia e dei medici e sanitari degli ospedali”. Secondo Peciola “lo Stato ha il compito istituzionale di tutelare la salute e la vita delle persone che vengono sottoposte a fermo o arrestate. È evidente la responsabilità istituzionale di questa morte che poteva essere evitata. Questa morte dimostra che c’è un allarme giustizia nelle carceri italiane e l’aumento di questi fatti denuncia che le persone fermate e arrestate sono in balia di atti di violenza al di fuori di ogni controllo. Un fatto intollerabile in uno Stato di diritto. È necessario istituire subito un osservatorio sul rispetto dei diritti umani nelle carceri. Alla famiglia il nostro più sentito cordoglio”. Gonella (Antigone): su caso De Cupis inchiesta faccia subito chiarezza (Dire) “È una vicenda che richiede immediatamente chiarezza. Speriamo non ci siano resistenze da parte di nessuno rispetto all’individuazione della verità, e ci auguriamo che l’inchiesta faccia immediatamente chiarezza. Questo sarebbe per tutti un elemento di rassicurazione”. Lo dice Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, commentando la vicenda di Cristian De Cupis, il 36enne romano trovato morto nel reparto detentivo dell’ospedale Belcolle di Viterbo, due giorni dopo essere stato fermato dalla polizia per oltraggio e resistenza, e - secondo i racconti del giovane - picchiato dagli stessi poliziotti. Il presidente di Antigone chiede dunque che si faccia chiarezza “su quanto è accaduto dal momento del fermo di De Cupis alla stazione Termini e nelle successive 72 ore” sui motivi del provvedimento di fermo, se si tratta veramente di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, quindi i motivi giuridici che hanno portato al fermo, perché questo fermo è avvenuto con modalità che hanno portato De Cupis in ospedale, quello che è successo nel reparto detentivo del nosocomio viterbese e se è stata prestata adeguata cura. Insomma bisogna chiarire subito le cause del decesso - aggiunge - tenendo conto che non siamo al primo episodio”: Gonnella, in proposito, ricorda altri casi di violenza in strutture carcerarie, annunciando che il prossimo 23 novembre, l’associazione Antigone “parteciperà alla seconda udienza, in cui ci si siamo costituiti parte civile, di un processo penale per maltrattamenti di due detenute che vede imputati 5 agenti di polizia ad Asti”. Sappe: fare luce su morte De Cupis ma non si invochi caso Cucchi (Adnkronos) L'auspicio che "la magistratura faccia piena luce sui fatti" e l'invito a "evitare che ancora una volta si invochi il caso, ormai tristemente famoso, di Stefano Cucchi, per cui si sta celebrando il processo e per il quale si dovrà ancora vedere di chi sono le responsabilità". Il segretario del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Donato Capece, commenta così all'Adnkronos la vicenda di Cristian De Cupis, il 36enne romano trovato morto nel reparto detentivo dell'ospedale Belcolle di Viterbo, due giorni dopo essere stato fermato dalla polizia per oltraggio e resistenza, e, in base a quanto raccontato da lui stesso, picchiato dagli agenti. "Il Belcolle è una struttura protetta dell'Amministrazione penitenziaria, nato per i detenuti affetti da malattie infettive poi allargato per le patologie a lunga degenza - spiega Capece - Lì il ruolo della polizia penitenziaria è solo un ruolo di garante della sicurezza, mentre il resto è demandato al Servizio sanitario nazionale che attraverso medici e personale garantisce l'assistenza ai pazienti". "è troppo semplice invocare il Caso Cucchi o maltrattamenti in carcere - ribadisce Capece - La magistratura faccia in fretta le sue indagini e se ci sono responsabilità chi le ha ne deve risponderè'. "Noi siamo per un carcere trasparente, che sia al di sopra di ogni sospetto. La polizia penitenziaria continua a lavorare con impegno nonostante il sovraffollamento, in strutture che non garantiscono la dignità delle persone. Chiediamo alla politica un segnale - conclude il segretario del Sappe - Che fine ha fatto, ad esempio, il piano carceri, che fine hanno fatto 600 milioni che dovrebbero essere usati per costruire nuovi padiglioni?". Piemonte: l’Associazione Antigone chiede istituzione del Garante regionale dei detenuti Adnkronos, 15 novembre 2011 Un appello perché in Piemonte si istituisca al più presto la figura del Garante per i diritti dei detenuti. Lo ha fatto questa sera Claudio Sarzotti, presidente di Antigone Piemonte, intervenendo alla presentazione, organizzata in consiglio regionale, di “Prigioni malate” l’VIII rapporto dell’associazione Antigone sulla detenzione in Italia. “In Piemonte c’è già una legge che istituisce il garante - ha spiegato - e c’è stato anche un bando a cui hanno partecipato diverse personalità ma stiamo ancora attendendo la nomina”. Quest’anno il rapporto dell’associazione si concentra soprattutto sullo stato di salute e sulle garanzie sanitarie dei detenuti. All’incontro hanno partecipato Roberto Placido, vicepresidente dell’assemblea delegato al Comitato, l’on. Bruno Mellano, Aldo Fabozzi, provveditore regionale per il Piemonte e la Valle d’Aosta, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia e Daniela Ronco e Giovanni Torrente, curatori della pubblicazione. “La nostra Costituzione dice chiaramente - ha spiegato Placido - che la pena detentiva deve tendere alla rieducazione e al recupero del condannato. Oggi questo non accade e le istituzioni e la politica devono affrontare il problema”. Dai dati emerge infatti una recidiva del 70% tra chi esce dal carcere dovuta secondo Sarzotti alla poca rieducazione del sistema penitenziario “questa percentuale - ha sottolineato - scende al 20% se si analizza chi ha partecipato a progetti di reinserimento lavorativo-sociale”. Resta preoccupante, il dato sul sovraffollamento delle carceri che, evidenzia lo studio, nell’ultimo decennio è stato prodotto soprattutto dalla crescita della presenza di detenuti stranieri che hanno inciso per i due terzi sulla crescita della popolazione reclusa. Il Piemonte conta 13 istituti penitenziari con una capienza regolamentare di 3.628 unità. Ma i carcerati effettivi sono 5.182, di cui 2.610 stranieri, con un indice di sovraffollamento del 143%. In particolare si registra un sovraffollamento del 42,3% nel penitenziario di Torino, del 45,8% in quello di Biella e di oltre il 54% nel carcere di Alba con punte del 79% a Vercelli e del 90% a Verbania “anche se - rileva Giovanni Torrente - non bisogna guardare i numeri in assoluto: il carcere di Verbania resta comunque uno dei più vivibili”. Prato: il “made in carcere” è una rete nazionale, nasce il marchio dei detenuti che lavorano Il Tirreno, 15 novembre 2011 Un imprenditore, Paolo Massenzi, lancia la griffe dei detenuti. Si chiamerà “Vag”, Veri avanzi di galera, l’etichetta per borse, mobili e bambole. I cestelli delle lavatrici, assemblati e trasformati in mobiletto da una cooperativa del pistoiese, parlano del lavoro dentro il carcere “Dozza” di Bologna. Le bambole-cuscino “Ninetta” comunicano invece la voglia di riscatto che passa attraverso la manualità delle detenute di Sollicciano. Il campionario di cento borse che le sartorie sociali Auser toscane confezioneranno, sulla scia dei prototipi disegnati dalla creativa pratese Lorella Ranallo, utilizzando come materiale le coperte dismesse del carcere di Vigevano, farà girare la produzione dietro le sbarre, per dare lavoro a una sartoria interna al carcere di Vigevano (gestita da una cooperativa). I prototipi, quelli della linea di borse con le coperte ma anche di altri prodotti, escono da un laboratorio artigianale di via del Tasso a San Giorgio a Colonica, dove Paolo Massenzi, 46enne manager informatico romano trapiantato a Prato dal 1997 e fondatore del network “Recuperiamoci!”, sta realizzando il sogno di mettere in piedi un’economia carceraria virtuosa attivando reti di vendita sul territorio. Tutto il pianeta del “made in carcere” italiano (600 oggetti frutto del lavoro con i detenuti di 150 cooperative, per un totale di 50 carceri a fronte di 210 carceri italiani) è “ammassato” negli scaffali di questo fondo artigianale dove si progettano i prototipi di Vag (“Veri avanzi di galera”, linea di oggetti di tutti i tipi proveniente dalle lavorazioni dentro le “patrie galere”). E visto che Natale s’avvicina, perché magari non mettere sotto l’albero una borsa cucita da chi, pur essendosi rovinato la vita, non ha perso la speranza di fare qualcosa di buono? “Stiamo cercando uno spazio in centro storico e aiuti per vendere i prodotti fatti nelle carceri italiane - spiega Massenzi. Per la duplice linea di borse con tessuto ricavato dai pantaloni dell’esercito o dalle coperte del carcere, abbiamo disegnato i prototipi e messo in campo vari soggetti sul territorio. Le donne della sartoria sociale Auser di Vaiano si sono rese disponibili per la prima campionatura di 10 borse delle 100 necessarie. Non c’interessa costruire una grande impresa puntando esclusivamente alla commercializzazione, ma creare le condizioni di sostenibilità per l’economia carceraria” Massenzi si fruga in tasca, investe nel progetto i risparmi che guadagna lavorando con le consulenze nell’informatica giusto quei 10 giorni al mese. Il resto lo dedica a creare contatti e a fare rete con le cooperative sociali in carcere. Viaggia a bordo del suo camper anni Ottanta “recuperato” per visitare le realtà dei carcerati. Quella casa a quattro ruote gli serve dall’estate 2010 per percorrere oltre 100mila km durante il “Jail Tour” (tuttora attivo e autosostenuto). Un viaggio lungo lo Stivale, dal carcere di Alba fino a Siracusa per raccogliere, catalogare e mettere in mostra vino, biscotti, bigiotteria, pasta, formaggi, mobili e ogni altra creazione dei detenuti. Fin qui tutto a spese proprie, senza mai bussare alla porta per chiedere finanziamenti. Ma il contatto con le dinamiche del carcere gli ha cambiato la vita. “Lavorando in carcere ti passano tanti pensieri, ti rendi conto che i problemi veri sono altri”. La “molla” gli scattò nell’ottobre 2009, quando seppe dalla radio dell’assurda morte di Stefano Cucchi. “In un misto tra curiosità e ascolto, è nata l’esigenza di scoprire le realtà “buone” dentro il carcere, cercando di capire come promuoverle meglio. Il dato italiano è preoccupante: su 67mila detenuti ne lavorano solo 2mila” Non sono mai tutte rose e fiori in queste circostanze. “Entrare in un carcere e convincere il direttore a sposare un progetto non assistenzialista non è facile. Con alcuni si è creata subito sintonia, con altri è più difficile. Per ogni pezzo da ricercare, tutto viaggia sulla sensibilità delle persone. Faccio l’esempio delle coperte per realizzare le borse “Vag”. All’inizio non si trovavano, nessuno sapeva se e dove fossero, poi ne sono arrivate 500 proprio dal carcere di Vigevano. Abbiamo provveduto a lavarle e igienizzarle, presto diventeranno borse”. Sulmona (Aq): “pane e solidarietà”… i detenuti a scuola di panificazione Il Centro, 15 novembre 2011 21 detenuti del supercarcere sulmonese parteciperanno al progetto “Pane e solidarietà”, presentato stamane nella sede sulmonese della Provincia. L’iniziativa, realizzata dalla Provincia in collaborazione col Cescot e il Ministero della giustizia, si propone l’obiettivo finale di creare una panetteria all’interno della casa circondariale per vendere prodotti da forno all’esterno. In pratica, il progetto consiste in un corso di formazione da cento ore, 70 pratiche nei laboratori dell’Officina dei sapori - Cescot e 30 teoriche in carcere, curato da maestri panettieri. A dare gambe all’idea il finanziamento da 10mila euro della Provincia. “Si tratta della somma massima che potevamo dare - hanno spiegato l’assessore alle politiche sociali Luigi D’Eramo e il presidente della Provincia Antonio Del Corvo - un segnale importante che testimonia la nostra attenzione verso tali attività”. Con loro anche il vice presidente della Provincia Antonella Di Nino. “La solidarietà non solo a parole ma a fatti - si è congratulato Angelo Pellegrino, direttore del Cescot Abruzzo - sono le azioni concrete che contano in operazioni del genere”. Primi consumatori dei prodotti saranno proprio i detenuti, che consumano circa due quintali al giorno di pane. I 21 detenuti scelti sono internati, soggetti a permessi particolari e già inseriti in altri progetti lavorativi. “Si tratta per loro di una grossa opportunità di reinserimento - osserva Sergio Romice, direttore del supercarcere - l’idea è quella di realizzare un’impresa che resti nella struttura”. Taranto: Sappe; carcere senza acqua calda e senza riscaldamento, esplode la rabbia dei detenuti Comunicato stampa, 15 novembre 2011 Non bastava il gravissimo sovraffollamento di detenuti che ormai ha raggiunto quasi 700 presenze a fronte di 315 posti; non bastava la fatiscenza della struttura che in alcuni settori del carcere risulta essere anche pericolante; non bastava una precaria situazione igienico a cui si aggiunge una carente assistenza sanitaria; non bastavano i sacrifici che ogni giorno devono fare i poliziotti penitenziari per portare avanti una barca che fa acqua da tutte le parti. Già tutte queste problematiche sarebbero bastate a far esplodere il carcere del capoluogo jonico, invece no, dallo stop degli automezzi per mancanza di benzina dei giorni scorsi, si è arrivati anche alla mancanza del combustibile per riscaldare sia l’acqua che gli ambienti. Nei giorni scorsi il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, aveva scritto alla Direzione del carcere chiedendo di risolvere con urgenza la situazione inerente la mancanza di acqua calda per le docce e per il riscaldamento che costringe detenuti e personale al freddo. A seguito di ciò nei giorni scorsi si è assistito ad innalzamento della tensione con episodi incresciosi che non hanno avuto un epilogo cruento, grazie alla professionalità e serietà dei poliziotti penitenziari. Purtroppo nella serata di ieri sera invece nulla si è potuto fare di fronte alle intemperanze di un detenuto tarantino di circa 30 anni, forse esasperato anche dalla situazione generale di malessere che si respira all’interno del carcere, che ha aggredito due agenti procurando loro alcune lesioni. Il Sappe è ben cosciente che il lavoro della Polizia Penitenziaria benché oscuro sia molto pericoloso, ma non può accettare di fare da capro espiatorio o agnello sacrificale delle inefficienze di un amministrazione che non è più in grado di assicurare nemmeno il minimo indispensabile. A Taranto accade una cosa inaccettabile, mentre si stanno per spendere circa 10 milioni di euro per costruire un’altra sezione detentiva, (che dovrebbe servire ad aumentare il sovraffollamento) l’intero carcere crolla a pezzi per mancanza di manutenzione sia ordinaria che straordinaria. Abbiamo anche notizia che presso la caserma agenti oltre al riscaldamento, manca del tutto l’acqua sia calda che fredda per cui non è possibile utilizzare nemmeno i servizi igienici. Sembrerebbe che il problema dell’acqua calda poteva essere risolto per sempre e senza spese, grazie ad un impianto fotovoltaico costruito all’interno del carcere, ma l’impianto non può andare in funzione poiché manca un pezzo che da mesi non si riesce a comprare. Il Sappe chiede perciò l’intervento urgente dell’Amministrazione poiché la situazione potrebbe ulteriormente deteriorarsi con gravi ripercussioni sull’ordine e la sicurezza sia all’interno del carcere che all’esterno. Federico Pilagatti Segretario Nazionale Sappe Viterbo: il carcere non ha soldi per la benzina, detenuto non viene tradotto in aula per il processo Dire, 15 novembre 2011 Le casse del carcere Mammagialla sono vuote, così vuote da non poter pagare nemmeno il carburante e l’olio per il furgone blindato della polizia penitenziaria adibito al trasporto dei detenuti. Così Giovanni Corrao, accusato di associazione mafiosa, non è stato accompagnato a Palermo, nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, per partecipare all’udienza preliminare, insieme ad altri 65 indagati, ma è stato costretto ad assistere in videoconferenza. Il suo difensore ha però eccepito la legittimità del provvedimento in quanto Corrao non è sottoposto al regime del 41 bis. Al Gup Lorenzo Matassa non è rimasto che stralciare la sua posizione rispetto a quella degli altri indagati e fissare una nuova udienza per il prossimo 21 novembre. Purché nel frattempo la direzione del carcere abbia trovato i soldi per pagare il viaggio. Corrao era stato arrestato nel dicembre 2010 nell’ambito della maxi operazione “Addio pizzo 5”, condotta dai carabinieri. Sul banco degli imputati 66 presunti fiancheggiatori dei boss mafiosi Salvatore e Sandro Lo Piccolo. Droghe: Relazione Oedt 2011; “relativamente stabile” il consumo in Europa Redattore Sociale, 15 novembre 2011 Cocaina al picco della popolarità, mentre il consumo di cannabis continua a diminuire tra i giovani. Preoccupazione per l’uso problematico di oppioidi e per le nuove droghe. Il consumo di droga in Europa è “relativamente stabile”. È questo il bilancio sul fenomeno degli stupefacenti tracciato dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt) di Lisbona che questa mattina ha presentato la Relazione annuale 2011. Uno studio che “mostra qualche segnale positivo - si legge nei comunicati dell’Oedt - sul consumo di cocaina che potrebbe avere raggiunto il picco massimo di popolarità, mentre il consumo di cannabis continua a diminuire tra i giovani”. Preoccupazioni permangono sull’uso problematico di oppioidi e sulle nuove droghe. I segnali di “stabilità” per alcune delle droghe più “affermate” vengono così controbilanciati da “nuove minacce”, che secondo Wolfgang Götz, direttore dell’Oedt, richiedono “politiche e risposte europee strutturate in modo da fronteggiare le sfide del prossimo decennio”. Per l’osservatorio, sono circa 14,5 milioni gli europei di età compresa tra 15 e 64 anni che hanno provato la cocaina una volta nella vita e 4 milioni ad averla consumata nell’ultimo anno. Più numerosi i consumatori di cannabis: 78 milioni ad averla provata almeno una volta, di cui circa 22,5 milioni nell’ultimo anno. La Relazione odierna dell’Oedt, però spiega come “gli ultimi dati europei confermano la tendenza generale alla stabilizzazione o al calo nel consumo di cannabis tra i giovani adulti (15-34 anni)”. Il consumo regolare di cannabis in Europa rimane “un motivo di preoccupazione”: sono 9 milioni i giovani europei tra i 15 e i 34 anni che hanno fatto uso di cannabis nell’ultimo mese. Più esposti al rischio di diventare consumatori frequenti di cannabis i giovani di sesso maschile. Anfetamine e ecstasy, invece, sono state consumate almeno una volta da 12,5 milioni di persone le prime e 11 milioni le seconde. Per quanto riguarda il consumo problematico di oppioidi, invece, nell’ultima Relazione il dato parla di una prevalenza media tra i 3,6 e i 4,4 casi ogni 1.000 abitanti per circa 1,3 milioni di persone. In Europa oltre 10 mila decessi legati a eroina e oppiacei Nell’Unione Europea i casi di overdose letali di oppiacei sono stati 7.600 nel 2009, ma i decessi legati all’eroina e altri oppiacei possono superare di gran lunga i 10 mila. È l’allarme lanciato dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt) di Lisbona che questa mattina ha presentato la Relazione annuale 2011. Secondo il rapporto, sono “più di 7.600 i casi di overdose letali riportati nell’Ue e in Norvegia nel 2009, con gli oppiacei associati alla maggior parte dei decessi, ma studi condotti su questo fenomeno, però, indicano che i decessi per overdose possono essere solo la punta dell’iceberg”. L’Oedt, infatti, calcola che possano esserci “circa 10 mila - 20 mila consumatori problematici di oppiacei che muoiono ogni anno in Europa, principalmente per overdose, ma anche per altre cause”. Secondo l’osservatorio, la maggior parte delle vittime sono uomini di età compresa fra i 30 e i 40 anni. Un rischio di morte che per i consumatori regolari di oppioidi sale di 10-20 volte rispetto a chi non usa droga. Calato il consumo di oppioidi per via iniettiva, mentre desta ancora preoccupazioni il rischio di focolai epidemici di Hiv fra i consumatori di droga per via iniettiva. “Negli ultimi 10 anni un approccio proattivo, pragmatico e concreto ha prodotto reali miglioramenti nella riduzione delle infezioni da Hiv associate alla tossicodipendenza in tutta l’Ue - ha dichiarato Wolfgang Götz, direttore dell’Oedt. Non possiamo dimenticare, tuttavia, che il consumo di droga per via iniettiva è ancora responsabile, ogni anno, di oltre 2.000 decessi associati a Hiv/Aids in tutta l’Ue”. Aumentano le segnalazioni per gli oppioidi sintetici. “Alcuni paesi in Europa riferiscono che gli oppioidi sintetici hanno sostituito l’eroina sul mercato - spiega la Relazione -. Circa il 5% di coloro che iniziano un trattamento per problemi di droga indica oppioidi diversi dall’eroina come sostanza principale”. Circa 700 mila i dipendenti da oppiacei in terapia sostitutiva Sono circa 1,1 milioni le persone in trattamento per problemi legati al consumo di droghe nei paesi dell’Unione europea, in Croazia, Turchia e Norvegia (dati relativi al 2009). È quanto riferisce l’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt) di Lisbona che questa mattina ha presentato la Relazione annuale 2011. Secondo la Relazione sono circa 700mila i consumatori di oppiacei sottoposti a terapia sostitutiva in Europa, rispetto ai 650mila del 2007. “Per i consumatori di oppiacei, tutti questi paesi offrono sia la terapia senza farmaci sia la terapia sostitutiva - spiega la Relazione -. Cinque paesi dell’Ue (Danimarca, Germania, Spagna, Paesi Bassi e Regno Unito) offrono una terapia assistita con eroina per un ridotto numero di consumatori cronici che non ha ottenuto risultati positivi con altri interventi”. Il numero di consumatori problematici che ha accesso alla terapia sostitutiva è circa la metà del numero stimato di consumatori (1,3 milioni), spiega l’Oedt, un dato in linea con quanto succede in Australia e Stati Uniti, mentre è superiore a quanto riportato per il Canada. Dalla Relazione 2011 emerge che il trattamento è vantaggioso in termini di costi-benefici per la salute pubblica, mentre cresce l’impegno europeo nello sviluppo linee guida. “La nostra relazione mostra chiaramente il valore della collaborazione e del coordinamento europei nel campo delle droghe - ha aggiunto Wolfgang Götz, direttore dell’Oedt -. Lo riscontriamo in molti settori: condivisione delle informazioni e azioni congiunte stanno avendo un impatto sempre maggiore sui mercati della cocaina e dell’eroina e gli sviluppi delle risposte della salute pubblica stanno consentendo ad un numero sempre maggiore di tossicodipendenti di accedere e beneficiare dei servizi di assistenza specializzati. Questi progressi sono reali e sono stati sorretti da una forte strategia Ue che ha permesso agli Stati membri di identificare priorità, condividere conoscenze ed agire collettivamente. È essenziale mantenere questo tipo di prospettiva se l’Europa deve continuare a rispondere alle nuove sfide che l’evoluzione del fenomeno della droga sta ponendo in questo momento”. Cocaina: consumo in calo nei paesi europei dove è più diffusa È la cocaina la sostanza stimolante illecita consumata più di frequente in Europa. Questo il verdetto dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt) di Lisbona che questa mattina ha presentato la Relazione annuale 2011. Secondo l’Osservatorio, sono 14,5 milioni gli europei tra i 15-64 anni di età che hanno provato almeno una volta la cocaina, ma secondo la Relazione, su questo fronte arrivano segnali positivi di riduzione dei consumi da quattro dei cinque paesi con i più alti livelli di consumo (Danimarca, Spagna, Italia e Regno Unito). Secondo il rapporto, in questi paesi si registra “un certo calo nel consumo di cocaina nell’ultimo anno tra i giovani adulti (15-34 anni), che rispecchia la tendenza osservata in Canada e negli Stati Uniti”. A dissuadere dal consumo, specifica la relazione, anche “l’onere finanziario associato al consumo regolare” che la rende “meno attraente nei paesi in cui l’austerità è all’ordine del giorno”, con un prezzo medio al dettaglio che nella maggior parte dei paesi dell’Ue “oscilla tra 50 e 80 euro al grammo”. Sul versante delle dipendenze, invece, circa il 17% dei tossicodipendenti che iniziano un trattamento riferiscono la cocaina quale principale droga problematica, mentre vengono segnalati circa 1.000 decessi all’anno correlati alla cocaina. Consumo spesso associato al forte consumo episodico di alcol (“binge drinking”). “Studi recenti - spiega la relazione - hanno riscontrato che più della metà dei cocainomani in terapia erano anche dipendenti dall’alcol”. Nuove droghe, nel 2011 segnalate 39 sostanze I fornitori di droghe “legali” sono sempre in anticipo rispetto ai controlli offrendo rapidamente nuove alternative ai prodotti vietati. L’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt) nella Relazione 2011 torna a sottolineare la “dinamica simile al gioco del gatto col topo” nel settore delle droghe sintetiche tra cui l’ecstasy (Mdma, Mdea e Mda) e le anfetamine. “I produttori - spiega l’Osservatorio - utilizzano tecniche sofisticate per aggirare le normative destinate a prevenire la diversione dei precursori (sostanze chimiche utilizzate per la produzione di droghe illecite, ndr), tra cui la sintesi di precursori da pre-precursori o il loro mascheramento come sostanze chimiche non controllate, da riconvertire dopo l’importazione”. L’Europa resta, secondo la Relazione, il più grande produttore mondiale di anfetamina, mentre per quanto riguarda le altre sostanze, dopo un periodo di relativa diminuzione, le ultime Relazioni segnalano una certa ripresa per l’ecstasy. “Relazioni recenti indicano una disponibilità crescente di Mdma - spiega l’Oedt -. Nei Paesi Bassi, ad esempio, il paese più strettamente associato alla produzione di ecstasy, sono state trovate pasticche ad alto dosaggio”. Notevole il consumo di metanfetamina, che sembra diventare attualmente più disponibile in alcune zone del nord Europa, dove potrebbe sostituire in parte le anfetamine. Per l’Osservatorio il rapido emergere di nuove sostanze psicoattive rappresenta una sfida crescente, sia in Europa sia a livello internazionale. “Dopo il record di 41 nuove droghe notificate all’Oedt e all’Europol nel 2010 (rispetto a 24 nel 2009), i dati preliminari per il 2011 presentati oggi mostrano che non vi sono segnali di diminuzione. Finora, nel 2011, sono state segnalate 39 sostanze attraverso il sistema di allarme rapido europeo. Le misure per identificare nuove sostanze sono sempre più proattive: più di 150 sostanze vengono attualmente monitorate attraverso il sistema di allarme rapido”. Preoccupante anche il fenomeno dei negozi online: “Lo studio istantaneo più recente eseguito dall’Oedt dei rivenditori online di “legal highs” (luglio 2011) ha individuato un numero record di 600 negozi online che vendevano presumibilmente prodotti psicoattivi e ha rivelato un’ampia gamma di nuovi prodotti in vendita. Inoltre, più siti sembravano cautelarsi tramite restrizioni sulle consegne o clausole di esonero della responsabilità e avvertenze”. Un mercato, spiega Wolfgang Götz, direttore dell’Oedt, “sempre più rapido e coordinato che sembra adattarsi velocemente sia alle minacce sia alle opportunità. Ne sono una prova non soltanto il numero assoluto di nuove sostanze che emergono sul mercato, ma anche la loro diversità e il modo in cui vengono prodotte, distribuite e commercializzate”. Ungheria: multe e carcere per gli homeless, il parlamento approva controversa legge-dissuasione Tm News, 15 novembre 2011 Il Parlamento ungherese ha approvato una discussa norma che prevede fino al carcere per gli “homeless” che dovessero essere “pizzicati” per almeno due volte a dormire in luoghi pubblici. Lo scrive l’agenzia di stampa Mti. A proporre la norma, nella forma d’un emendamento alla legge che colpisce la microcriminalità, sono stati alcuni parlamentari del partito di maggioranza assoluta Fidesz a giugno. La nuova norma stabilisce che le persone che dovessero essere sorprese per la seconda volta in sei mesi a dormire in luoghi pubblici vengano multate di 150mila fiorini (473 euro) o messi in carcere. La norma entrerà in vigore il primo dicembre. I proponenti hanno spiegato che attualmente “l’utilizzo irregolare di aree pubbliche” non avrebbe alcuna capacità di dissuasione, quindi il nuovo provvedimento avrebbe soprattutto una funzione preventiva. Inoltre, non dovrebbe essere applicato - a loro dire - finché non saranno allestiti dignitosi rifugi per i senza fissa dimora. La nuova legge sulla criminalità, proposta dal ministro della Giustizia Tibor Navracsics, prevede che i detenuti siano obbligati al lavoro e vieta loro di rilasciare interviste o fare dichiarazioni alla stampa in cambio di soldi. Siria: detenuti carcere Homs; decine di migliaia i prigionieri d’opinione Aki, 15 novembre 2011 “Le autorità siriane continuano a detenere decine di migliaia di detenuti d’opinione”. È questa la denuncia che arriva direttamente dai prigionieri del carcere di Homs, che hanno fatto pervenire un loro comunicato nel quale condannano la “determinazione” con cui il governo di Damasco “fa fallire tutte le soluzioni che potrebbero far uscire la Siria dalla crisi”. Ne è un esempio il mancato rispetto della road map della Lega Araba, approvata dalle autorità, ma mai applicata sul campo, e il fatto di aver “ignorato le raccomandazioni del Congresso di dialogo nazionale che si è svolto sotto lo stesso patrocinio governativo”, spiega il comunicato. “Da circa otto mesi, le autorità siriane non fanno altro che coprire la realtà della crisi nazionale, ma questo causerà un’escalation della violenza, il caos e la guerra civile, che porteranno a un intervento esterno con tutte le amare e gravi conseguenze sulla popolazione e sul Paese”, afferma il comunicato dei detenuti. “Il popolo siriano ha sacrificato molti martiri sul cammino doloroso di questa crisi e noi siamo solo una piccola parte di questo sacrificio”, sottolinea la nota, precisando che solo nel carcere centrale di Homs “vi sono ancora oltre mille prigionieri politici detenuti in condizioni infernali e disumane”, senza contare che tutta la struttura dell’edificio è “vecchia e cadente”. I detenuti hanno esortato le autorità di Damasco ad affrontare la crisi. “È giunto il momento di un confronto nazionale sincero che conduca alla nostra liberazione e revochi gli ingiusti procedimenti giuridici che gravano su di noi”, si legge nel comunicato, che chiede anche “l’applicazione rapida ed efficace di tutte le clausole della road map araba, che rappresenta l’ultima chance di salvezza nazionale per la Siria”. Myanmar: monaci protestano per fallita amnistia dei detenuti politici Asca, 15 novembre 2011 Un gruppo di monaci buddisti ha organizzato una manifestazione di protesta a Mandalay, in Myanmar, alla quale hanno preso parte circa 500 persone, per chiedere l’immediata scarcerazione dei prigionieri politici. I cinque religiosi si sono barricati in un palazzo da dove hanno dettato le loro condizioni tramite un altoparlante: amnistia per i prigionieri e fine del conflitto civile tra esercito e minoranze etniche. Ieri era attesa nel Paese una nuova amnistia per i detenuti, che però non si è concretizzata.