Giustizia: i ricchi in galera non ci vanno comunque… ecco perché propongo un’amnistia di Luigi Zingales L’Espresso, 11 novembre 2011 Avrei dovuto impararlo nei molti anni spesi a fare seminari: la parte più debole di un ragionamento finisce per oscurare il valore del resto. Così è successo per il mio discorso al convegno della Leopolda di Matteo Renzi. La mia analisi è stata ignorata e la mia proposta vituperata. Il male oscuro dell’Italia - ho sostenuto - è che, salvo nobili eccezioni, la guida politica ed economica del nostro paese è in mano al peggiori. Non al mediocri, ai peggiori. Il nostro paese si è trasformato in una peggio-crazia perché manca una cultura della legalità. Se io, politico, voglio ottenere dei benefici o dei favori che non mi competono, non nomino un candidato competente, ne nomino uno fedele. E non c’è persona più fedele del buono a nulla, che non ha alternative. Se io, imprenditore, voglio assicurarmi che le mie tangenti e le mie evasioni fiscali non vengano rivelate, non scelgo il manager migliore, ma quello più fedele. Questo clientelismo è il motivo per cui il nostro Paese si trova in una profonda crisi. Nella competizione globale vince il migliore: non il compare, il raccomandato politico o il figlio di papà. Come uscirne? Le liberalizzazioni e le privatizzazioni sono importanti perché rendono difficile il perpetuarsi di questa situazione. Ma se aspettiamo che queste cambino la cultura economica e civile di questo Paese dobbiamo aspettare vent’anni. I giovani disoccupati non hanno vent’anni da aspettare. Abbiamo bisogno di una terapia d’urto. Laddove non esiste la fiducia in un sistema meritocratico, tutti investono in raccomandazioni e nessuno investe in capitale umano. Il clientelismo genera clientelismo. Dobbiamo spezzare questo circolo vizioso. Per farlo è necessario eliminare una classe dirigente incompetente e corrotta e creare meccanismi credibili per un ricambio che privilegi il merito. Come? Al primo incontro della Leopolda Renzi aveva proposto la rottamazione. L’idea andava nella direzione giusta, ma aveva due limiti. Primo, ci sono nel nostro Paese molte persone di valore che non hanno più di cinquant’anni. Possiamo permetterci il lusso di rottamarle? Secondo, senza introdurre criteri di merito, si rischia di rimpiazzare un imbelle vecchio con uno giovane. La seconda alternativa, cara a molta Sinistra, è il giustizialismo: tutti in galera. Ma questo significa non aver imparato nulla. Mani pulite fallì perché cercò di colpire tutti. In Italia la legge è così complicata che nessuno è sicuro di non aver commesso un reato. Se tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole. L’ansia giusti-zialista invece della pulizia ci portò la reazione anti-giudici. Per questo ho proposto un’amnistia condizionata a cinque fattori: 1 ) il responsabile confessa il reato 2) menziona tutti i complici 3) restituisce il maltolto 4) si ritira dalla vita pubblica 5) non commette più alcun reato. Se la confessione omette anche il più piccolo dei reati commessi o il più insignificante dei complici, la persona resta perseguibile e sarà perseguita con il più accanito vigore. Questo vale tanto per i politici, come per i dirigenti, pubblici e privati. L’idea dell’amnistia, lo ammetto, fa ribrezzo anche a me. Ma non ne vedo il costo. Purtroppo in Italia in galera i ricchi e potenti non ci vanno. L’amnistia per loro non è un beneficio, sono già di fatto amnistiati. La mia speranza è che coloro che hanno commesso reati minori si precipitino a confessarli, evitando di commetterli nuovamente (perché sconterebbero anche la pena per i reati confessati). Per contro i veri ladri non si faranno avanti, perché per loro l’umiliazione di ammettere i propri crimini e la perdita di potere conseguente sarebbero troppo elevati. E forse con le confessioni si ottengono prove sufficienti per relegare qualche pezzo grosso in galera. Sarebbe un bellissimo esempio. Il pentitismo sconfisse le Brigate Rosse. Perché non dovrebbe riuscire a sconfiggere la Casta dei peggiori? Giustizia: processi lunghissimi e prescrizioni (quasi) certe, anche senza nuove leggi di Danilo Paolini Avvenire, 11 novembre 2011 Avviso a tutti quelli che si erano preoccupati per le proposte di legge sul “processo lungo” e sulla “prescrizione breve”: in Italia il processo lungo, lunghissimo, esiste già e la prescrizione, se non è breve, è quasi certa. Non si tratta tuttavia di un avviso urgente, se le cose non cambieranno avete anni per leggerlo prima che si risolva una causa o un procedimento penale che vi riguarda. A Bari, il processo sui presunti abusi nella gestione della Missione Arcobaleno (l’operazione umanitaria voluta dal governo D’Alema per sostenere i cittadini kosovari fuggiti in Albania per scampare alla guerra) è cominciato nel febbraio scorso e due giorni fa è stata fissata la prossima udienza, al 17 maggio 2012. Peccato che il 28 aprile si sarà prescritto anche l’ultimo dei presunti reati contestati agli imputati. Da quei fatti sono trascorsi ormai 12 anni, tra arresti (quattro persone finirono in carcere per tre mesi), avvicendamenti di inquirenti (il pm era Michele Emiliano fino al 2004, quando venne eletto sindaco di Bari per il Pd), di giudici (quattro i collegi dal 5 febbraio 2009, data prevista per la prima udienza, poi rinviata per ben sette volte) e le consuete, immancabili schermaglie sulla competenza territoriale, che sembra ormai un’opinione. Se ne ricordino l’Associazione magistrati e le Camere penali, prima di denunciare rispettivamente il prossimo “tentativo di delegittimazione” e il prossimo “inaudito attacco al diritto di difesa”: i tempi lunghi, spesso, dipendono anche da loro, non solo dalla carenza degli organici e dalla cattiva organizzazione, pure innegabili. Di certo, gli eventuali colpevoli avranno di che brindare: l’hanno fatta franca. Ma gli eventuali innocenti non avranno giustizia: rimarranno sempre “quelli imputati per... ma poi il reato andò prescritto”. Sembra quasi di vedere i giustizialisti di turno darsi di gomito annotando quella “quasi condanna” a futura memoria. I puntini di sospensione sono voluti, al posto del caso di Bari si può mettere uno qualsiasi degli oltre 400 (quattrocento) procedimenti penali che ogni giorno cadono in prescrizione in Italia. Se poi si volge lo sguardo ai tribunali civili, il tempo a disposizione per leggere questo avviso rischia di aumentare e non di poco. La signora Nicolina N. di Avellino, per esempio, ha oggi 97 anni e da 20 è coinvolta in una causa per questioni di eredità: alla prossima udienza, fissata nel 2014 dalla Corte di Appello di Napoli, si presenterà centenaria. Un caso limite? Certamente, ma la durata media di una causa civile resta di 5 anni, escludendo l’eventuale ricorso in Cassazione. Troppo. Si potrebbe obiettare che non è tempo di parlare dell’urgenza di una vera riforma della giustizia, vista la drammatica crisi economica che morde il Paese. Ma sarebbe un’obiezione sbagliata, perché un’amministrazione farraginosa e inconcludente della giustizia rappresenta un enorme spreco di soldi pubblici in termini di consumo di risorse, di rimborsi per durata non ragionevole dei procedimenti, di risarcimenti non incassati (nel citato processo di Bari, la Presidenza del Consiglio e il Ministero dell’Interno sono parti civili, ma a causa della prescrizione già sanno che non vedranno un centesimo). Al contrario, un sistema giudiziario ben funzionante genera fiducia interna e credibilità internazionale, quindi sviluppo. Che cosa dovrebbe spingere un imprenditore straniero a investire in un Paese, il nostro, dove una controversia commerciale ha un costo pari a quasi un terzo del suo valore (14% in Germania, 17% in Francia) e che la Banca mondiale classifica al 157° in quanto a efficacia della tutela giudiziale? Perché le imprese italiane devono rassegnarsi a rincorrere un credito per più di tre anni? Secondo il vicepresidente del Csm Michele Vietti, i ritardi della giustizia civile “ci costano l’un per cento del Pil, all’incirca 22 miliardi”. Se davvero nascerà un governo di responsabilità, chiunque venga chiamato a guidarlo ci pensi. Nel frattempo, auguri sinceri alla signora Nicolina. Giustizia: il Consiglio d’Europa condanna l’isolamento carcerario come pena accessoria www.linkontro.info, 11 novembre 2011 La pratica italiana di punire con l’isolamento i carcerati condannati a più di cinque anni di detenzione, come previsto dall’articolo 72 del codice penale, è inaccettabile. Ad asserirlo è il comitato per la prevenzione della tortura (Cpt), che nel rapporto annuale pubblicato oggi detta le regole che gli stati devono adottare quando infliggono l’isolamento ai carcerati. Secondo il presidente dell’organismo di monitoraggio del Consiglio d’Europa, l’azero Letif Huseynov, gli unici paesi a ricorrere alla pratica dell’isolamento come parte della pena da scontare sono l’Italia e la Russia. “Ma il Cpt considera che l’isolamento non dovrebbe mai essere imposto come parte della pena”, si legge nel rapporto. Secondo i dati raccolti dal Cpt l’isolamento è una pratica potenzialmente pericolosa che può avere effetti estremamente dannosi sulla salute mentale di coloro che vi sono sottoposti. Per questo, l’organismo chiede agli stati membri del Consiglio d’Europa di ridurre al minimo indispensabile il ricorso a questa pratica, anche come misura disciplinare o utilizzata per proteggere il singolo carcerato. Nel rapporto il Cpt delinea tutti i principi che gli Stati devono applicare affinché le loro pratiche inerenti l’isolamento rispettino gli standard stabiliti a livello europeo e non rischino di trasformarsi in maltrattamento. Giustizia: la vergogna del pianeta carcere; poveri tra poveri, in gabbia come allo zoo di Valentina Ascione Gli Altri, 11 novembre 2011 Quasi tutti i desideri del povero sono puniti con la prigione”. Rimbombano nella testa queste parole di Louis-Ferdinand Celine - nel suo “Viaggio al termine della notte” - come nei corridoi i passi svelti dell’agente di turno che ci fa strada, staccandoci di un paio di metri: quelli necessari a evitare che la nostra visita sorprenda qualche detenuto in atteggiamento o in abiti sconvenienti. Preoccupazione tutt’altro che peregrina, specialmente a Sassari, dove c’è solo un muretto a separare il gabinetto dal resto della cella, dalle brande, dal tavolo e dagli armadietti in cui ciascuno conserva i pochi indumenti consentiti dal regolamento. O a Messina, dove non c’è neanche quello e i detenuti hanno dovuto ingegnarsi per trovare un po’ di privacy dietro un vecchio lenzuolo che avvolge il cesso come fosse una tenda; per non cedere anche quell’ultimo briciolo di dignità senza il quale si ridurrebbero ad animali in uno zoo. Per molti, tuttavia, è già così; per qualcuno è addirittura peggio. E i paragoni con bestie da macello e polli in batteria si sprecano nelle invocazioni che in italiano per lo più malfermo si levano al nostro passaggio, mentre volti di tutte le età e di colori diversi si affacciano curiosi sulla soglia di celle anguste o affollatissime, divorate dall’umidità e dal fumo acre di innumerevoli sigarette. Circondati da pareti sporche e scrostate, tappezzate con immagini di modelle, calciatori e auto sportive a coprire i buchi, o con decine di pacchetti vuoti di Marlboro ovunque riciclati come saponiere e portaspazzolini. Attraverso le sbarre lanciano sguardi interrogativi, molti si rivolgono alla telecamera gesticolando o sorridendo, qualcuno si copre il viso. Sguardi diffidenti o pieni di speranza. E poi mani, per fermare il nostro cammino. Chiedere una sosta e qualche minuto appena di attenzione per storie, vite, tutte differenti eppure segnate da un destino comune. È sempre difficile scegliere in quale cella entrare. Doloroso, quasi, poiché è impossibile restare sordi alle grida di chi ci invita anche nella propria, per mostrarci, ad esempio, i materassi sbrindellati della casa circondariale di Canton Mombello a Brescia dove regolarmente si dorme per terra perché 500 persone devono dividersi spazi sufficienti solo per 206; o per chiederci di riprendere gli scarichi che all’Ucciardone non funzionano o lo scroscio d’acqua che allaga il pavimento ogni volta che si apre un rubinetto. O i rubinetti secchi della casa di reclusione di Favignana, dove d’estate l’acqua manca per gran parte della giornata e quando c’è sa di sale. Quando con Simone Sapienza, collega di Radio Radicale, abbiamo deciso di realizzare una video-inchiesta nelle carceri italiane eravamo ovviamente già a conoscenza del grave stato di crisi del nostro sistema penitenziario; della situazione drammatica denunciata da direttori, poliziotti, educatori e altri operatori che ne sono vittime e prigionieri cornei detenuti, che a migliaia riversano il proprio disagio nelle lettere che in quantità arrivano in redazione o al Partito radicale. Eravamo certamente aggiornati sulla serie interminabile di suicidi e atti di autolesionismo, sul tasso crescente di sovraffollamento e sulla scarsità cronica di risorse economiche che ostacola la promozione di attività di trattamento, impedisce la rieducazione dei reclusi e ne compromette la sicurezza. Tuttavia, ogni volta che abbiamo messo piede in una cella degli otto istituti a cui il Dap ci ha dato accesso tra agosto e ottobre, ci si è presentato davanti uno scenario ben al di là delle nostre aspettative. Un mondo governato dalla miseria. Le mura di un carcere trasudano miseria. Ogni aspetto, ogni angolo, ne racconta la povertà: il degrado delle strutture, la sporcizia, l’odore dei vitto nelle narici sembra resistere, sempre uguale, all’alternarsi delle pietanze, da Giarre a Brescia, passando per Messina, Palermo, Perugia. Ma à colpire è soprattutto l’indigenza della popolazione detenuta. “San Sebastiano è un istituto di persone molto povere, alcuni non hanno nemmeno il conto corrente”, racconta Teresa Mascolo, direttrice della struttura sassarese, tra le più problematiche sul territorio nazionale, dove dei circa 180 detenuti presenti lo scorso settembre meno di quaranta avevano possibilità di lavorare, come porta vitto, “scopini” o addetti alla manutenzione ordinaria. Chi non ha un lavoro né una famiglia all’esterno su cui poter contare - come la maggior parte dei detenuti stranieri che in Italia superano un terzo del totale e in istituti come quello di Can-ton Mombello toccano punte del 70 per cento - finisce per non avere neanche i soldi per acquistare l’acqua minerale, laddove quella del rubinetto non è potabile al di là di ogni ragionevole dubbio; un bagnoschiuma, uno shampoo o altri prodotti per l’igiene personale. Ed è dunque costretto a vivere, o meglio, sopravvivere con quel poco che le finanze disastrate delle strutture riescono a fornire ai detenuti: tre pasti al giorno, per i quali l’amministrazione penitenziaria spende meno di 4 euro a persona - e che qualche istituto non riesce ad assicurare a tutti - lenzuola monouso e un rotolo di carta igienica al mese per ciascun detenuto; uno ogni due settimane nel migliore dei casi. La disparità di risorse, oltre a negare una detenzione dignitosa per i più indigenti, in qualche caso è fonte di tensioni tra compagni che non contribuiscono allo stesso modo, ad esempio, all’approvvigionamento di quanto necessario per la pulizia della cella. Ma a prevalere è in genere la solidarietà e quindi una sorta di “welfare autonomo” in base al quale i più fortunati danno una mano a chi non ha i mezzi per soddisfare perfino i bisogni più elementari. Come nel piccolo carcere di Giarre, dove gli ospiti della sezione a custodia attenuata per tossicodipendenti cedono parte del proprio vitto a quelli della sezione “comuni”. Nel corso degli anni la tipologia di detenuti è notevolmente cambiata per l’altissima percentuale di tossicodipendenti, circa il 30 per cento, raggiunta nel giro di un decennio. E per quella ancora maggiore di stranieri, frutto della “mancanza di occasioni legali di ingresso nel nostro Paese che determina una fascia molto consistente di clandestinità” - osserva Fulvio Vassallo, docente di Diritto di asilo all’Università di Palermo - all’interno della quale “è facile restare coinvolti nel traffico di stupefacenti” e in altri reati. Si accredita sempre di più, dunque, la definizione del carcere come una “discarica sociale”. Popolata di persone per le quali la galera è una condizione quasi inevitabile, “prive di punti di riferimento sociali, culturali e lavorativi”, secondo Eugenio De Martino che da anni presta servizio come educatore a Favignana, nella fortezza risalente al XII secolo, dove alcune tra le immagini più suggestive della “cinematografia carceraria” si materializzano nella dura realtà dei “cubicoli”, celle scavate sette metri sotto terra, con poca aria e senza luce naturale. Ed è tra queste vecchie mura che per anni restano confinati gli internati della Casa di lavoro; persone spesso con problemi di tossicodipendenza o provenienti dalla marginalità sociale che hanno già espiato la propria pena, ma che per riacquistare la libertà devono dimostrare di non essere più socialmente pericolose in base a criteri poco trasparenti perfino per i magistrati di sorveglianza, che quando si trovano davanti ai loro fascicoli preferiscono passare oltre. Così, proroga dopo proroga l’internamento diventa una sorta di “ergastolo bianco”. L’incertezza normativa è uno degli aspetti più critici della vita penitenziaria. E fa il paio con l’enorme potere discrezionale di direttori che hanno strettissimi margini di manovra nella gestione delle risorse economiche, distribuite dall’alto su capitoli di spesa rigidi e predefiniti. Ma che possono invece intervenire su quasi tutto ciò che scandisce la vita quotidiana dei reclusi. L’orario delle docce, ad esempio, le telefonate, o il contenuto dei pacchi che possono entrare in carcere. Fino alle cose più piccole, come il numero di caramelle che un papà detenuto può portare al colloquio con i propri figli. Concessioni e divieti, piccoli o grandi, di cui molto spesso i detenuti ignorano la ragione. E che tuttavia possono fare la differenza in un sistema disumano, oltre che illegale sotto il profilo costituzionale. “Una monarchia. Perché tutto quello che succede si risolve qua dentro, non esce mai fuori niente”, chiosa in barese stretto Giuseppe Cassano, detenuto a Messina Gazzi. Una sintesi che forse vale più di mille parole. Giustizia: la lunga notte di Stefano (e dello stato di diritto) di Aurelio Armenide Il Futurista, 11 novembre 2011 A due anni dalla scomparsa, un documentario ricorda il caso Cucchi. Nome: Stefano. Cognome: Cucchi. Nazionalità: cittadino italiano, ma senza diritti. Perché il più importante di quei diritti - la vita - gli è stato strappato via brutalmente. La storia di Stefano rappresenta una non-storia. Perché se da un lato in molti cercano ancora di nascondere, deviare, spostare il tiro da ciò che è accaduto, (ecco le parole indegne del sottosegretario Carlo Giovanardi: “Cucchi drogato, è morto perché anoressico, era in carcere perché era uno spacciatore abituale”), dall’altro c’è chi combatte per fare luce su un buio pietoso, di cui un paese civile dovrebbe provare vergogna. Stefano è stato il 148esimo morto nei penitenziari italiani, nell’ ottobre di due anni fa. Un numero destinato purtroppo a crescere inesorabilmente, toccando quota 177 solo due mesi dopo. Serve fermarsi un momento e domandarsi: che paese è quello in cui lo stato non aiuta i familiari di una vittima a impossessarsi della verità? Chi ha paura dei fatti e delle risposte a quelle domande? Uno sforzo in questa direzione è stato fatto dalla pellicola 148 Stefano. Mostri di inerzia presentata pochi giorni fa al Festival del Cinema di Roma alla presenza dei genitori di Stefano, della sorella Ilaria assieme a tanti volti che hanno seguito in questo biennio la vicenda: il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, il presidente dell’associazione A buon diritto, Luigi Manconi, l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, Marco Travaglio, in rappresentanza del Fatto Quotidiano che ha offerto un contribuito alla produzione, Riccardo Noury di Amnesty International. Il film, diretto da Maurizio Cartolano e prodotto dai coraggiosi Valerio Terenzi e Simona Banchi (Ambra Group) non si limita solo a dare spazio e luce a emozioni, lacrime o paure. Ma si azzarda a fare una cosa che a volte troppo pochi riescono a fare in casi simili: raccontare un fatto e raccontarlo tutto. In maniera rigorosa, senza retorica, agitando i fatti puri e duri come una bandiera. Così il padre Giovanni e la sorella Ilaria descrivono Stefano, figlio e fratello. Senza nascondere nulla, anche gli aspetti più intimi come la sua fragilità e gli errori commessi, i suoi problemi con la droga. Ma non è stata alcuna sostanza, poco più di due anni fa, a togliere la vita a Stefano, bensì altre braccia e altre gambe. Con fendenti e colpi crudeli. In spregio del diritto e dell’umana convivenza. “L’ultima volta che l’ho visto - racconta il padre nel documentario - è stato alla prima udienza. Per giorni e giorni abbiamo cercato di rivederlo, o quantomeno sapere delle sue condizioni fisiche, ma non ci è stato permesso. Abbiamo saputo di lui solo quando un ufficiale giudiziario è venuto a casa per chiederci l’autorizzazione all’autopsia...”. “Invece è morto. Forse pensando di essere stato abbandonato dalla sua famiglia, mentre semplicemente non ci lasciavano entrare. Vorrei potergli dire che non era solo”. No, non era solo il giovane Stefano la notte di venticinque mesi fa nella sala dell’ospedale romano “Sandro Pertini”. Non lo era nemmeno in carcere, perché non si procurò quelle ferite mortali da solo, né in solitudine decise di andare incontro a ciò che tutti conoscono. Con lui c’erano i suoi carnefici. Ma anche chi, idealmente, pensava a lui e avrebbe voluto aiutarlo. Quelle stesse persone, la sua famiglia, che continuano a combattere per un pugno di verità. No, non era solo Stefano: lo hanno scritto anche in un libro la sorella Ilaria e Giovanni Bianconi del Corriere della Sera, in Vorrei dirti che non eri solo. Perché l’unico dato incoraggiante che è emerso da questa dolorosa vicenda è stato il coraggio sterminato della sua famiglia. Di pubblicare coraggiosamente le immagini di quel corpo martoriato, di non tacere, di non cedere alla facile disperazione. Un libro, un docu-film: tutto qui? Per niente. C’è anche una canzone per Stefano: il nuovo singolo di Fabrizio Moro, “Fermi con le mani” scritto dal cantautore romano a due anni dalla scomparsa di Cucchi. Si tratta del secondo inedito tratto dal dvd e doppio ed Atlantico live uscito da pochi giorni. “Scrivo questa denuncia, consapevole che un giorno le mie parole potrebbero perdersi tra le tante scritte, dette, cantate e spese in memoria di Stefano Cucchi, come, potrebbero diventare una piccola testimonianza di uno dei tanti momenti bui che il mio paese sta attraversando. Fondamentalmente scrivo questa denuncia perché nonostante tutto, credo che un giorno mio figlio potrà crescere in un posto migliore di quello in cui io sto facendo fatica a capire tante cose.... scrivo questa denuncia con la coscienza di un padre”. Verga così Fabrizio Moro i suoi intenti, nella consapevolezza che attorno al dramma di Stefano e della sua famiglia si è quasi sollevato un mondo. Più forte della legge, dello stato, di un senso di democrazia che, a volte, proprio non sembra tale. Perché non compie fino in fondo il proprio dovere, non fa cose democratiche. Dal momento che morire così, senza un perché e senza motivi, proprio non è da paese democratico. Giustizia: Capriotti (ex capo Dap); revocarono il carcere duro ai mafiosi, io non ne sapevo niente di Andrea Cottone Live Sicilia, 11 novembre 2011 Mentre in tutta Italia scoppiavano le bombe piazzate da Cosa nostra, oltre 300 nomi grossi della mafia venivano riammessi fra i detenuti comuni, mettendo fine al loro isolamento al 41 bis, il carcere duro. E l’uomo che stava a capo del Dap, il dipartimento amministrazione penitenziaria, non ne sapeva nulla. L’ultimo retroscena su quella che è considerata parte della trattativa fra Stato e Cosa nostra, viene fuori da un verbale del dicembre dello scorso anno, in cui a parlare è Adalberto Capriotti, direttore del Dap dal luglio 1993 al giugno del 1995. L’ex magistrato racconta anche particolari inediti su un periodo cruciale della recente storia italiana. Parla del suo vice, Franco Di Maggio, e di come avrebbe letteralmente messo le mani addosso all’allora Guardasigilli, Giovanni Conso. Ma racconta anche come, la notte dell’esplosione della bombe a Roma e Milano, fu convocata una riunione straordinaria a Palazzo Chigi alle due del mattino. E l’orientamento generale era che si trattasse di terroristi della ex Jugoslavia, con l’eccezione del capo della polizia Parisi che avrebbe detto: “Questa è mafia”. La lite col ministro. Adalberto Capriotti, già procuratore generale a Trento, succedeva a Nicolò Amato. “Mi fu posto - racconta al procuratore capo Messineo, all’aggiunto Ingroia e ai sostituti Di Matteo e Sava - vicino, subito, un personaggio importante ma come un turbine, una tempesta, ed era il collega Franco Di Maggio (…) fu chiamato e messo al mio fianco come vice”. Non imposto, specifica l’ex direttore del Dap, ma proposto dal gabinetto dell’allora Guardasigilli, Giovanni Conso. “Lì è, anche per le vostre indagini, molto è il gabinetto, lì dovete guardare, ecco, il gabinetto del ministro che con Conso era capo di gabinetto una donna e rimase, questa donna credo che venne con Martelli che era il predecessore, che si chiama Pomodoro, a sua volta essa era, c’aveva un vicecapo del gabinetto pure donna che si chiamava Liliana Ferraro”. Quest’ultima è stata una stretta collaboratrice di Falcone al ministero. Nelle parole di Capriotti, l’allora Guardasigilli Giovanni Conso era “un uomo molto prudente, di una levatura anche giuridica specifica, scientifica e morale superiore e credo che se l’avesse conosciuto…”. Perché, parlando di Di Maggio, Capriati avverte : “Io non lo conoscevo e non l’avessi mai fatto”. E spiega perché: “Una volta ho assistito a violentissima lite, sempre per ragioni di ufficio, fra Conso e questo Di Maggio e io mi misi di mezzo perché Di Maggio, oltre a dargli del tu, lo insultava e insomma io non potevo permetterlo, e per la mia posizione e perché Conso era il nostro ministro, era il nostro ministro e questo non si può fare”. Secondo le indagini, c’era un tema che faceva scintille: il 41 bis. Ma Capriotti non ricorda, “non lo so ma probabilmente… ho visto un mucchio di carte così, ecco (…) io entrai quando già era in atto questo diverbio”. “Tenga presente - aggiunge - che finché ci fu Di Maggio, le proteste di tutti i funzionari, gli ufficiali allora, e per una cosa o per l’altra, erano quasi quotidiane che pervenivano a me… lo stesso ministro Biondi (successore di Conso, ndr) si rivolgeva a me”. I trecento. L’interrogatorio si muove sulla mancata proroga di oltre trecento 41 bis, allora rinnovato di volta in volta ogni sei mesi. Capriotti spiega come si istruivano le pratiche: “Credo che loro richiamassero l’attenzione sul carcere, sul direttore, sugli assistenti sociali, cosa dicevano, e naturalmente sul pubblico ministero”. Poi al Guardasigilli veniva proposta una lista di persone a cui prorogare il regime di carcere duro. Un elenco che poteva essere decurtato di alcuni nomi a cui, automaticamente, veniva revocato il 41 bis. E per gli inquirenti qualcosa non torna. Come mai questi pareri, di vari uffici e diverse autorità, sono stati chiesti solo il 29 ottobre 1993 (un venerdì), su un provvedimento in scadenza il 1° novembre seguente? “C’è allegato con circa 300, forse anche di più, nominativi di detenuti - dice il pm Di Matteo - risulta a questo ufficio che in relazione a questo elenco, nessun 41 bis venne prorogato (…) un mancato rinnovo nei confronti di più di 300 detenuti, ha memoria?”. “No, non l’ho mai sentito” risponde l’allora direttore del Dap. “Non le sembra un pò diciamo in qualche modo tardiva questa richiesta” chiede il pm. “E certo che è tardiva” risponde Capriotti. Più avanti nell’interrogatorio, il procuratore capo Messineo fa il punto: “Sotto la sua gestione, a novembre del 1993, furono non prorogati e quindi di fatto revocati se così vogliamo dire (…) circa oltre 300 posizioni fra cui io ho letto qua l’elenco, anche noti capimafia, come lo spiega?”. “Io rispondo - dice Capriotti - l’amministrazione ha valutato e se ha valutato bene è un altro paio di maniche, che non convenisse prorogare, riandiamo al discorso qualcuno forse ha suggerito… ecco, questo è… (…) il ministro era a conoscenza di questa revoca”. Capriotti, invece, sostiene di non essere stato mai informato da nessuno. Il comitato straordinario. La notte fra il 27 e il 28 luglio 1993, la mafia fa esplodere bombe a Roma (a San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e Milano (via Palestro). “Fummo svegliati alle due di notte e portati a Palazzo Chigi dove già c’era Ciampi (allora presidente del consiglio, ndr), c’erano molti eh, questo sì, non ricordo Conso, se ci fosse o era fuori, io c’ero senz’altro”. Un comitato per l’ordine e la sicurezza nazionali del tutto straordinario. “In quell’occasione parlavano… fecero ipotesi, Ciampi a sua volta stava, si trovava in argomenti non di Banca d’Italia da… e ricordo e qui bisogna dare atto ad alcuni fra cui io, quindi che avevo torto, in quel momento era in corso un contenzioso forte con gli ex territori della Jugoslavia, ne successero eh di cose del genere, Milano… e in sostanza allora la questione fu divisa, Parisi era per la mafia, disse che sicuramente questione di mafia, io e qualcun altro diciamo: potrebbe essere dall’estero, che siano stati i croati, così… sbagliato in pieno, da quello che poi avete visto, Parisi aveva ragione, ma Parisi probabilmente parlava perché qualcuno gli aveva soffiato”. Un evento, insolito, “tanto straordinario che io mi ricordo perfettamente, c’era Ciampi che non sapeva più… che pesci prendere”. “Dato il momento - continua Capriotti - se ne parlò tanto in quella notte, finì all’alba”. Col risultato che “i carabinieri e la polizia immediatamente intervenissero per vedere un pò l’origine, dato che si parlava ed io sbagliavo insieme ad altri”. Tutto qua? Gli inquirenti contestano che si fece una riunione così straordinaria per decidere, infine, solo che le forze dell’ordine dovessero indagare? “E noi, noi abbiamo scartato qui una questione, che lo Stato si serve anche di una intelligence” conclude Capriotti. Al termine della riunione, all’alba, “anche in questa occasione, Di Maggio lo trovai di sotto, cioè Di Maggio non fu ammesso (…) quando scesi sì… ‘che avete deciso, che avete deciso?’” chiude Capriotti, ricordando le domande del suo vice. Giustizia: omicidio Scazzi; psicologa del carcere di Taranto indagata per falsa testimonianza Adnkronos, 11 novembre 2011 Il procuratore aggiunto della Repubblica del Tribunale di Taranto, Pietro Argentino, poco fa durante la replica nel corso dell’udienza preliminare del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, ha chiesto la trasmissione degli atti alla stessa Procura della testimonianza della psicologa del carcere, Dora Chiloiro, in occasione della seduta di lunedì. L’ipotesi di reato che si configurerebbe a carico della professionista potrebbe essere quella di falsa testimonianza in riferimento in particolare all’esame e al numero di incontro avuti con Michele Misseri nel penitenziario jonico nel periodo in cui lo zio della vittima era detenuto. Gli unici incontri che risultano agli atti sarebbero stati quelli del 10, del 13 e del 17 ottobre del 2010. Dopo di che la psicologa, secondo quanto risulta alla Procura, non avrebbe incontrato Misseri. Inoltre nel corso della testimonianza la dottoressa Chiloiro avrebbe parlato del fatto che l’uomo le avrebbe riferito del memoriale e delle lettere in cui tornava ad autoaccusarsi che invece in quel momento non erano ancora state scritte. Infine la Procura ha depositato agli atti una intercettazione di un colloquio in carcere tra Michele Misseri e una nipote. Dopo l’intervento dell’avvocato della parte civile, Nicodemo Gentile è in corso adesso una breve pausa dei lavori. Lettere: l’utilizzo del braccialetto elettronico dipende dal Viminale Il Giornale, 11 novembre 2011 Il ministro Palma risponde al “Giornale” sullo strumento che può svuotare le carceri: i controlli affidati alla polizia. Perché non applicare il braccialetto elettronico ai 28.564 detenuti - indagati in attesa di giudizio, appellanti e ricorrenti, insomma non condannati invia definitiva - che sono attualmente rinchiusi nelle carceri italiane sovraffollate? È l’appello lanciato sul Giornale da Stefano Lorenzetto al ministro della Giustizia, Nitto Francesco Palma, che ora risponde con la sottostante lettera, nella quale non si dichiara contrario allo strumento ma puntualizza che la sua adozione dipende, costi compresi, dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Anche se quello dei costi dovrebbe essere l’ultimo problema, considerando che col bracciale lo Stato risparmierebbe oltre un miliardo di euro l’anno. Caro Stefano, ho letto il tuo articolo dell’8 novembre sull’uso del braccialetto elettronico per i detenuti in attesa di giudizio. Nel ringraziarti per le parole di apprezzamento spese nei miei confronti, vorrei fornirti alcune indicazioni sul tema. La normativa vigente prevede che l’autorità giudiziaria, nel disporre la misura degli arresti domiciliari ovvero della detenzione domiciliare, possa prescrivere, con il consenso dell’interessato, l’applicazione del braccialetto elettronico, quando ne abbia accertato la disponibilità da parte della polizia giudiziaria. Nel caso in cui venga disposta l’applicazione del braccialetto elettronico, la competenza a verificare l’effettiva disponibilità del mezzo stesso è affidata alla questura o ai comandi provinciali delle altre forze di polizia, così come sono demandati all’ufficio o comando di polizia i controlli sull’osservanza delle prescrizioni connesse all’esecuzione delle misure e l’onere dell’attivazione e disattivazione degli stessi dispositivi. La competenza in materia è quindi rimessa interamente al ministero dell’Interno tramite le forze di polizia operanti sul territorio, le quali, d’altronde, espletano il controllo sui soggetti posti agli arresti o in detenzione domiciliare. Nel ringraziarti per il tuo prezioso contributo, ti saluto cordialmente. Nitto Francesco Palma Ministro della Giustizia Emilia Romagna: cinquecento tonnellate di rifiuti elettronici l’anno smaltite dai detenuti Redattore Sociale, 11 novembre 2011 Dai laboratori del progetto “Raee in carcere” anche opere d’arte esposte a Ecomondo. Un progetto con due anime: una ambientalista e l’altra sociale. Ambientalista perché ha a che fare con il corretto smaltimento o riutilizzo dei Raee, i rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche; sociale perché ad apprendere e svolgere questo lavoro sono i detenuti che partecipano ai laboratori “Raee in carcere”, avviati nel 2005 con l’iniziativa comunitaria Equal “Pegaso” finanziata dalla regione Emilia-Romagna con il Fondo Sociale Europeo per promuovere l’inclusione lavorativa di persone svantaggiate. Utili, ma anche belli: all’interno dei laboratori, infatti, la creatività ha trovato il suo spazio e alcune delle opere realizzate, sono confluite in una mostra allestita dal Museo del Riciclo, piattaforma web del consorzio Ecolight, presso la fiera riminese Ecomondo. Si tratta di una giostra, un pesce e un settimino realizzati con i rifiuti elettronici dai detenuti delle case circondariali di Forlì e Bologna, nel corso dei laboratori gestiti dalle cooperative sociali Gulliver e It2, in collaborazione con l’associazione Recuperiamoci. Dal loro avvio nel 2005, i laboratori hanno coinvolto e formato 21 detenuti, di cui 9 sono stati assunti come figure specializzate; oggi sono 12 le persone impegnate nei laboratori e indennizzate (in fase di tirocinio o borsa lavoro), di cui 7 remunerati (regolarmente assunti) per operazioni di smontaggio e trattamento dei Raee. La quantità dei Raee non pericolosi gestita fino ad oggi dai detenuti ammonta a 500 tonnellate l’anno, con un obiettivo di recupero dell’85%. L’attività, inoltre, contribuisce a riciclare più di 660 tonnellate di ferro, 10 tonnellate di rame, 5 di alluminio e 25 di plastica. Secondo i dati del ministero della Giustizia, l’inserimento graduale in attività lavorative abbatte in maniera netta la percentuale di recidiva: meno del 10% delle persone che prima di uscire dal carcere hanno frequentato attività socializzanti torna a delinquere, percentuale che sale fino al 70% dei casi per chi, invece, rimane sempre in carcere. Dati che danno la misura dell’importanza di un’attività come quella portata avanti dai laboratori condotti nelle carceri di Bologna, Ferrara e Forlì. Le opere d’arte realizzate all’interno dei laboratori di Forlì e Bologna ed esposte a Ecomondo rappresentano un’importante vetrina per l’iniziativa. “L’attività artistica - spiega Barbara Bovelacci, responsabile del progetto ‘Raee in carcerè- ci dà la possibilità di portare all’attenzione della comunità questi laboratori attraverso oggetti gradevoli da vedere e magari anche da acquistare. L’obiettivo della nostra attività è il recupero di persone che si trovano in una condizione svantaggiata, dando loro l’occasione di impegnarsi in maniera continuativa in attività lavorative per reinserirsi nella comunità e nella legalità”. Il progetto prevede attività di trattamento e smontaggio dei Raee nei laboratori avviati sia all’interno delle carceri (come nel caso di Bologna e Ferrara) che all’esterno (Forlì) per quei detenuti che hanno il permesso di svolgere attività lavorative fuori dall’istituto. I laboratori sono gestiti da cooperative sociali che ricevono, attraverso i consorzi Ecodom ed Ecolight, commesse per trattare i Raee da piccole e grandi aziende che producono gli apparecchi. Una volta smontati, i Raee vengono riciclati, smaltiti, riutilizzati, anche in maniera creativa. Le persone che frequentano i laboratori, dopo un periodo di tirocinio, vengono assunte dalle cooperative sociali che li gestiscono e che vengono pagate dai consorzi per il lavoro svolto. E c’è la possibilità concreta di trovare un lavoro una volta tornati in libertà, grazie alla rete di imprese che gira attorno al progetto. “Attraverso il disassemblaggio dei rifiuti elettronici viene data una solida opportunità di lavoro alle persone in esecuzione penale - spiega Walter Camarda, presidente di Ecolight - L’arte che nasce dai rifiuti diventa occasione per una rieducazione, nel rispetto dell’ambiente e nel rispetto della legalità”. Nella mostra allestita ad Ecomondo, il Museo del Riciclo espone anche alcune installazioni presentate all’ultima edizione del concorso “Rifiuti in cerca d’autore” e altre opere nuove selezionate tra le oltre 250 realizzate con materiali riciclabili. Presso lo stand, sarà possibile esprimere la propria preferenza per l’opera che piace di più attraverso Facebook: ogni giorno, ai primi 150 sarà regalata una luce da lettura firmata Ecolight. Il Museo del Riciclo nesce un anno e mezzo per valorizzare il lavoro degli artisti che utilizzano materiali di scarto, accrescere la sensibilità sul tema dei rifiuti, in particolare dei Raee che devono essere raccolti e riciclati per limitare la dispersione di sostanze inquinanti. I laboratori in carcere favoriscono il reinserimento lavorativo delle persone in esecuzione penale: dall’avvio della sperimentazione a settembre del 2009, il laboratorio di Forlì ha impegnato complessivamente sei detenuti, di cui tre assunti, che hanno lavorato circa 300 tonnellate di Raee. Marche: presentato un progetto regionale per l’inserimento lavorativo dei detenuti http://www.gomarche.it, 11 novembre 2011 Migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri e favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti. Vanno in questa direzione le iniziative regionali per il 2011 a vantaggio di adulti e minori sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, illustrate giovedì mattina, ad Ancona, nel corso del convegno sullo stato di attuazione della legge sul sistema carcerario nelle Marche “Inclusione lavorativa, inclusione sociale dei detenuti, attività culturali e attività trattamentali e di prevenzione della recidiva: i finanziamenti regionali, pari a 800mila euro, raddoppiati rispetto allo scorso anno - ha spiegato l’assessore alle Politiche sociali, Luca Marconi - sono destinati a questi quattro obiettivi. Ciò che intendiamo realizzare in particolare, in fase dapprima sperimentale ed in prospettiva definitiva, è un percorso di inclusione socio-lavorativa, così che, attraverso un reimpiego formativo e lavorativo che recuperi la dignità personale dei detenuti nonché le loro competenze ed abilità professionali, si possano perseguire anche gli interessi generali della collettività, quali la maggiore sicurezza sociale, la riduzione del rischio di recidiva penale e la progressiva eliminazione di ogni forma di discriminazione nel mercato del lavoro”. Per quanto riguarda l’inclusione lavorativa, è stato presentato un progetto specifico, elaborato dall’apposito gruppo di lavoro inter istituzionale del Comitato regionale di coordinamento del settore penitenziario. Il progetto prevede la realizzazione di 15 percorsi formativi retribuiti in azienda a favore di altrettanti detenuti, coordinati da specialisti di una organizzazione esterna accreditata di supporto; l’organizzazione dovrà occuparsi di tutto il percorso (colloqui, bilancio delle competenze, orientamento, ricerca delle aziende, tutor, supervisione) nonché della gestione contabile ed amministrativa. Il percorso formativo semestrale in azienda è propedeutico all’inserimento lavorativo a tempo determinato o indeterminato da parte dell’azienda, che a tale scopo viene incentivata economicamente in misura proporzionale all’esito. Il progetto avrà la durata massima di 30 mesi. “Altra priorità - ha continuato Marconi - è l’inserimento in seno alla società una volta terminato il periodo detentivo. In questo caso, gli interventi sono a cura degli Ambiti Territoriali Sociali, anche al fine di coinvolgere le comunità locali e il più ampio numero di soggetti del territorio. Si tratta di servizi erogati fuori dal carcere, rivolti ad ex detenuti e a detenuti in esecuzione penale esterna o prossimi alle dimissioni. Sono ammissibili sussidi economici di sostentamento e interventi di natura abitativa o di accoglienza temporanea presso strutture residenziali o semiresidenziali”. Con le attività trattamentali culturali si intende invece valorizzare le esperienze di teatro e di diffusione dei servizi bibliotecari in carcere (prestiti librari, letture di gruppo, letture tematiche) in collaborazione con le biblioteche comunali. “Si tratta - ha detto Marconi - di attività culturali di provata valenza rieducativa e socializzante per i detenuti, già sperimentate in alcuni istituti penitenziari nelle Marche”. Il progetto teatrale prevede il coinvolgimento di almeno due istituti e la possibilità di esportare il modello laboratoriale negli altri istituti delle Marche, o almeno la possibilità di rappresentare l’esito finale del laboratorio in modo itinerante in altri istituti. Il progetto di promozione e di fruizione delle biblioteche interne agli istituti penitenziari è finalizzato alla creazione di un sistema bibliotecario e di mediateca penitenziario regionale che possa anche interagire con altre forme di trattamento quali il teatro, il cinema, la musica, gli audiolibri, l’informazione; dovrebbe promuovere inoltre un maggiore coinvolgimento della cittadinanza e delle associazioni del territorio e, quindi, una maggiore integrazione tra il carcere e la comunità. Radicali: percorsi formativi per detenuti un segno di civiltà L’Associazione Radicali Marche sottolinea l’importanza delle decisioni assunte dal Comitato regionale di coordinamento del settore penitenziario. Quanto deciso dal gruppo di lavoro interistituzionale del Comitato regionale di coordinamento del settore penitenziario di aprire quindici percorsi formativi retribuiti in azienda per altrettanti detenuti, va nella direzione giusta rispetto all’attenzione necessaria che le istituzioni devono avere nel rispettare la Costituzione e diamo volentieri atto alla Regione Marche per quanto fatto. Marche: Garante dei detenuti incontra il presidente del Tribunale di sorveglianza Ansa, 11 novembre 2011 L’importanza di una rete di collaborazione tra tutti i soggetti che ruotano attorno all’istituzione carceraria per ottenere risultati concreti nella tutela dei diritti dei detenuti. È stato questo - riferisce un comunicato - il tema di un incontro svoltosi oggi tra l’Ombudsman delle Marche e Garante dei detenuti Italo Tanoni e il presidente del Tribunale di sorveglianza delle Marche Anna Bello e i magistrati di sorveglianza. Tanoni, accompagnato dai suoi collaboratori, si è soffermato sugli aspetti della vita carceraria più frequentemente al centro delle richieste dei detenuti; tra questi, la carenza di mediatori culturali e la difficoltà di accesso alle strutture per visite e colloqui. È stata inoltre ribadita la necessità di monitorare i percorsi dei detenuti anche dopo l’uscita dal carcere, soprattutto nel caso di soggetti particolarmente fragili. Illustrati, inoltre, i progetti che l’Autorità di garanzia sta portando avanti per offrire ai reclusi occasioni di crescita culturale, formativa e professionale. Liguria: il Sappe incontra il vice Presidente della Regione l’Assessore alla Sicurezza Comunicato stampa, 11 novembre 2011 1.832 detenuti presenti il 30 ottobre scorso nelle 7 Case circondariali liguri edificate per ospitarne regolarmente 1.139, più imputati (952) che condannati (874), 81 le donne ristrette e 1.027 gli stranieri: insomma, un tasso di crescita costante della popolazione detenuta in Liguria a fronte di un organico di Polizia Penitenziaria in calo. Questi i dati dell’emergenza penitenziaria ligure, affrontata questa mattina a Genova in un incontro che ha visto il Sindacato di Polizia penitenziaria Sappe confrontarsi con la Vice Presidente della Giunta Regionale Fusco e l’Assessore alle politiche della Sicurezza Montaldo. Commenta Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri: “La critica situazione penitenziaria genovese e ligure emerge dagli ultimi numeri sulle presenze in carcere. Attualmente nelle carceri liguri sono impiegati 911 Poliziotti rispetto ai 1.264 previsti. Questi devono fronteggiare un’emergenza sovraffollamento che ha abbondantemente superato quella capienza che al DAP definiscono “tollerabile”: oggi abbiamo in cella più di 1.800 persone detenute sulle 1.139 previste. E con la imminente apertura di nuovi piani detentivi nel carcere di Spezia, è facile presumere che entro l’anno la Liguria avrà duemila persone detenute: un triste record mai raggiunto prima.”. Martinelli ha chiesto agli esponenti della Giunta regionale ligure di inserire anche il Corpo di Polizia Penitenziaria nei progetti formativi della Regione Liguria finalizzati ad acquisire la conoscenza delle lingue straniere (stante l’alto numero di stranieri detenuti) e della patente europea di informativa; di favorire politiche alloggiative a canone agevolato per gli appartenenti alle Forze di Polizia ed alla Polizia Penitenziaria in particolare; di porre in essere e favorire, con i Comuni della Liguria, l’impiego di detenuti in progetti per il recupero del patrimonio ambientali occupando loro, ad esempio, nella pulizia dei greti dei torrenti e delle spiagge della nostre Provincie, nella cura degli alberi e dei parchi della città. Il Sappe ha quindi chiesto alla Regione, nell’ambito dell’Osservatorio per la sicurezza, di monitorare gli eventi critici che periodicamente accadono in carcere. Su questi temi, l’Assessore Montaldo e la vice Presidente regionale Fusco hanno comunicato l’intendimento di presentare in Commissione, e quindi eventualmente anche in Giunta una piattaforma complessiva penitenziaria regionale. Che tratti di sanita, formazione, edilizia. Rispetto a tutto cio, il Sappe auspica tempi rapidi. Verona: Lisiapp; il doppio dei detenuti nella Casa Circondariale di Montorio www.informazione.it, 11 novembre 2011 “Il carcere di Verona doveva ospitare 251 detenuti, tollerabile un massimo di 472, ne ospita invece mediamente 850 nelle sezioni maschili e 70-80 nella sezione femminile - spiega il dott. Mirko Manna segretario generale del Lisiapp (libero sindacato appartenenti polizia penitenziaria) che sottolinea i disagi che vivono quotidianamente gli uomini e le donne della polizia penitenziaria nella struttura di Montorio. Oltre a ciò afferma il leader del Lisiapp esiste un problema si sovraffollamento carcerario dove ci sono in media 850 detenuti invece di 472 “il ministro Palma, al di là del suo ruolo politico, dovrebbe come già annunciato, provvedere ad attuare programmi alternativi alla detenzione, come per esempio le misure di detenzione domiciliare e la depenalizzazione delle pene, solo cosi si riuscirebbe a sfoltire gli istituti penitenziari. Siamo d’accordo continua Manna, con il Guardasigilli a nessun intervento di indulto o amnistia in quanto sarebbero provvedimenti tampone e che andrebbero ad incidere in modo negativo sulla società civile. Inoltre , esordisce concludendo il dr. Luca Frongia segretario generale aggiunto , le autorità centrali dovrebbero intervenire per trovare anche ad una soluzione alle centinaia di aggressioni nei confronti del personale di polizia, dove si hanno conseguenze anche gravi sul piano fisico e psicologico degli operatori. A ciò, il Lisiapp ha istituito da poche settimane un osservatorio sugli episodi di aggressione , che ad oggi contano 252 casi l’ultimo nella casa circondariale di Rovigo. Roma: Leonetti (Provincia); ok consiglio a mozione per i diritti dei detenuti Adnkronos, 11 novembre 2011 “I dati sui penitenziari del Lazio, ed in particolar modo di quelli presenti nel territorio della provincia di Roma, sono drammatici sia sotto il profilo della capienza che della sicurezza. Basta pensare che il 71.3% dei detenuti di tutta la Regione sono ospiti degli istituti correttivi della nostra provincia che presentano già centinaia e centinaia di detenuti in esubero rispetto alle capienze regolamentari”. Lo dichiara il vice presidente del consiglio provinciale di Roma, Sabatino Leonetti riferendo che ieri il consiglio provinciale ha approvato una mozione, che lo vede primo firmatario, per i diritti dei detenuti. “Ad esempio - prosegue - i penitenziari romani (Regina Coeli e Rebibbia) ospitano 3.610 detenuti su una capienza regolamentare di 2.532, i due penitenziari di Civitavecchia, invece, ospitano 621 detenuti su una capienza regolamentare di 438 mentre il penitenziario di Velletri detiene 385 persone. Inoltre la media per detenuto è nettamente al disotto dei 3 metri quadri di spazio, ritenuti necessari per vivere, e la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che costringere un detenuto in uno spazio inferiore ai tre metri quadri è considerato tortura”. “Anche i sindacati degli agenti penitenziari hanno raccolto il grido di aiuto dei detenuti - continua il vice presidente Leonetti - sollevando sia il problema della necessità di una migliore condizione di vita per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, sia il problema di una migliore qualità per il lavoro di presidio e controllo svolto nei penitenziari stessi”. “La Provincia di Roma - sottolinea Leonetti - già si è attivata in merito alle questioni dei detenuti, anche in forza della propria competenza amministrativa sul tema della formazione e del lavoro, evidenziando nelle scarse possibilità di reinserimento sociale dei detenuti o ex-detenuti all’interno del mondo del lavoro e della società civile uno dei problemi più rilevanti, e per questo il 28 gennaio 2009 ha sottoscritto un importante protocollo di intesa con il Garante regionale dei diritti dei detenuti nel Lazio e il Comune di Roma, finalizzato a sviluppare la massima collaborazione tra le istituzioni sottoscriventi per consentire la fruizione di tutti i diritti alle persone limitate nella libertà”. “Nonostante l’impegno della Provincia di Roma - afferma Leonetti - del Garante regionale dei diritti dei detenuti nel Lazio e delle altre istituzioni competenti e impegnate su questo tema, la situazione degli istituti penitenziari e dei detenuti è ancora drammatica ed è necessaria una iniziativa forte e pressante verso organi nazionali per sollecitare con ogni urgenza le opportune iniziative al fine di migliorare le condizione dei detenuti”. “Per questo - conclude - il consiglio provinciale di Roma, nella seduta di ieri ha approvato ad unanimità la mozione che ha come oggetto la situazione drammatica dei penitenziari nella nostra provincia, che mi vede primo firmatario, con la quale abbiamo intenzione di sollecitare, con atto formale, il governo e il parlamento affinché garantiscano, con mezzi e risorse, il rispetto dei diritti delle persone detenute e il loro reinserimento nella società”. Campobasso: Di Giacomo (Sappe); impiegare i detenuti in attività protezione civile Ansa, 11 novembre 2011 Detenuti da impiegare in attività forestali e di bonifica ambientale nell’ambito dei servizi di protezione civile. È l’idea lanciata dal consigliere nazionale del Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria (Sappe), Aldo Di Giacomo, nel corso di un incontro con il direttore del carcere di Isernia, Barbara Lenzini. “La risposta - ha riferito all’Ansa Di Giacomo - è stata entusiasta. Le unità che rispondono ai requisiti - ha aggiunto - potrebbero essere circa dieci, mentre in tutta la regione (carceri di Campobasso e Larino), una quarantina. Parlerò di questa ipotesi al Provveditore degli istituti penitenziari al quale ho già accennato l’idea progettuale”. Gorizia: il carcere di via Barzellini è da salvare, il piano del sindaco approda a Roma Il Piccolo, 11 novembre 2011 Proporre al ministero della Giustizia una convenzione per “rendere vivibile” (è proprio questa la frase che utilizza il primo cittadino) la casa circondariale di via Barzellini. Questo è l’obiettivo della prossima trasferta a Roma del sindaco Ettore Romoli che incontrerà nuovamente il ministro Francesco Nitto Palma: l’incontro è l’ideale seguito di quello di qualche settimana fa quando il primo cittadino ottenne garanzie sul mantenimento in vita del penitenziario. Ora si passa alla seconda fase: quella della proposta. Il vertice con il ministro “In realtà, l’incontro era stato fissato per domani (oggi, ndr) ma è slittato perché il ministro ha un altro impegno. Quando riuscirò ad incontrarlo, sempre che sia sempre lui ministro della Giustizia, gli proporrò una soluzione-tampone per la nostra casa circondariale. Come ho dichiarato di recente, il Comune di Gorizia - questo il succo della proposta che sarà avanzata - potrebbe mettere a dispozione una parte dei fondi necessari a rendere maggiormente vivibile il carcere, per i poliziotti e i detenuti che oggi vivono davvero pesanti disagi. Ciò in attesa dell’eventuale costruzione di un nuovo carcere o della sua ristrutturazione definitiva”. Il ministro (già in occasione del primo incontro) accolse con favore questa disponibilità, riservandosi di approfondire in ogni suo aspetto l’ipotesi al fine di accertarne la percorribilità e, in ogni caso, di individuare una soluzione che affronti il problema. Una volta effettuati tali approfondimenti, in tempi quanto più brevi possibile, il ministro promuoverà - appunto - un altro incontro con il sindaco per definire la situazione. “Ribadisco che il ministro ha dichiarato che non c’è alcuna ipotesi di chiusura del penitenziario di Gorizia”. Il convegno della Camera penale Intanto, la Camera Penale di Gorizia, “viste le allarmanti notizie dei giorni scorsi riguardanti il futuro di tale struttura, ha voluto organizzare sul tema una conferenza, aperta a tutta la cittadinanza oltre che agli operatori del settore. La conferenza si intitola “Gorizia perderà il carcere?” e si terrà nella giornata di domani alle 15.30 nella sala dei Musei provinciali in Gorizia (Borgo Castello 13/15). “Alla conferenza - si legge in una breve nota - si è ritenuto doveroso invitare i vertici dell’amministrazione penitenziaria competenti territorialmente, le rappresentanze sindacali della Polizia penitenziaria, i magistrati del Tribunale di sorveglianza e del locale Tribunale penale ed i rappresentanti degli enti territoriali interessati, al fine di affrontare la problematica sotto i diversi aspetti per poter ampliare il dibattito e valutare le possibili soluzioni da adottare”. Al dibattito sono stati invitati anche i sindacati della polizia penitenziaria, compreso il Sappe, il quale (qualche settimana fa) aveva lanciato l’allarme sulle colonne di questo giornale, parlando della possibilità di una chiusura della Casa circondariale di via Barzellini. In seguito a tale denuncia, c’era stata la trasferta romana di Romoli. Lodi: funziona, e riduce i costi, il progetto di reinserimento dei detenuti Il Cittadino, 11 novembre 2011 Dal carcere al lavoro, 70 in quattro anni. Lunedì un convegno sul tema dell’occupazione ma all’orizzonte c’è la mancanza di finanziamenti per portare avanti l’iniziativa. Detenuti, ex carcerati, in pena alternativa o ancora in attesa di giudizio. Dal 2008 al 2011 in 70 hanno trovato un’occupazione. Spesso anche a tempo indeterminato. Questo grazie al progetto e allo sportello del “Lavoro debole”, messo in campo presso il centro per l’impiego, dalla provincia di Lodi e realizzato in partnership con significative realtà del territorio lodigiano (comune di Lodi e di Codogno, Consorzio lodigiano per i servizi alla persona, Acli, Caritas, Progetto insieme, A&I onlus, Bambinisenzasbarre, associazione Loscarcere e cooperativa Microcosmi). Il 14 novembre, alle 21, nella sala Carlo Rivolta del teatro alle Vigne, Microcosmi e Loscarcere, insieme al comune di Lodi, alla provincia e alla fondazione della Banca popolare di Lodi si svolgerà una serata di approfondimento sul valore del lavoro. L’integrazione delle persone detenute ed ex detenute nel tessuto sociale rappresenta un vantaggio anche per la società civile che ne guadagna in sicurezza. “È accertato che l’integrazione - spiega la presidente di Loscarcere Laura Steffenoni - abbatte in maniera significativa ed efficace la recidiva. Questo progetto, portato avanti in rete con gli enti pubblici del territorio ha dato ottimi risultati. L’obiettivo della serata è anche quello di spiegare che i contributi elargiti dalla fondazione della Banca popolare di Lodi sono andati a buon fine”. “Nel 2010 - aggiunge la referente di Microcosmi Simona Bernasconi - Loscarcere ha ricevuto 14mila euro, mentre quest’anno c’è stato un affidamento diretto di 10mila euro a Microcosmi. L’ufficio di piano ha messo sul piatto altri 10mila euro per le borse lavoro sia nel 2010 che nel 2011. I 30mila euro riconosciuti agli operatori, invece, arrivano dalla legge 8. Dobbiamo tener conto però del fatto che un detenuto in carcere costa 150 euro al giorno, mentre un detenuto inserito in questo progetto, compresi i costi della borsa lavoro e quelli degli operatori, costa solo 5 euro al giorno”. I dati dell’efficacia del progetto parlano da soli: “Nel 2011 - spiegano Steffenoni e Bernasconi - abbiamo affidato 13 borse lavoro a detenuti, ex detenuti o persone in pena alternativa e in attesa di giudizio (che fuoriescono così anche da percorsi di sostegno al reddito), con assunzioni a tempo determinato. Nel 2008 abbiamo preso in carico 57 persone, 27 delle quali inserite nel mondo del lavoro, 10 anche in aziende profit. Nel 2009 sono state prese in carico 53 nuove persone, 20 già seguite. 22 di queste sono state inserite (5 con borse lavoro, 14 in aziende profit e 8 in cooperative b). Tra 2010 e 2011 gli utenti sono stati 97, 57 nuovi e 40 vecchi. Trenta sono stati inseriti nel 2010 e 15 di questi sono diventati definitivi. Nel 2011 ne abbiamo inseriti 11, ma per altri 8 sono in corso le trattative. Fondamentale è anche il lavoro di Grazia Grena, ideatrice del progetto e punto di riferimento fondamentale per le aziende. Riesce persino a far assumere le persone in attesa di giudizio e a congelare il posto fino a quando non scontano la pena una volta condannati”. A preoccupare gli organizzatori è la giovane età delle persone aiutate. “La media della nuova utenza - spiegano - va dai 19 ai 26 anni. Ultimamente abbiamo avuto anche ragazzi di 18 anni e li prendiamo in carico insieme ai famigliari. Quello di Lodi è un progetto pilota in Italia che ora altri stanno prendendo come modello. Capofila è la provincia aldilà dell’appartenenza politica”. Alla serata saranno presenti anche alcuni imprenditori lodigiani coinvolti nel progetto. Interverranno il presidente della fondazione della Bpl Duccio Castellotti, l’assessore provinciale Mariano Peviani e quello comunale Silvana Cesani, Luigi Pagano, provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, Claudio Cazzanelli (A & I onlus), Grena e Steffenoni. Non mancherà nella serata neanche un appello: “Il progetto - lamentano Steffenoni e Bernasconi - finisce il 15 dicembre e ad oggi non sappiamo se sarà rifinanziato. Regione Lombardia non ci ha ancora detto nulla. Con i residui potremo arrivare fino a febbraio, poi dobbiamo chiudere”. E visti i risultati sarebbe molto più che un peccato. Pistoia: convegno in Comune, il carcere di Santa Caterina sotto osservazione Il Tirreno, 11 novembre 2011 Ha per titolo “Per una società più giusta, un carcere più vivibile” la tavola rotonda in programma oggi alle 17 nella Sala Maggiore di palazzo comunale. All’iniziativa parteciperanno il sindaco Renzo Berti, l’assessore alle Politiche sociali Paolo Lattari, la presidente della Provincia Federica Fratoni, la senatrice radicale Donatella Poretti, il garante regionale dei detenuti Alessandro Margara, il direttore generale dell’Asl 3 Alessandro Scarafuggi, il presidente dell’associazione Altro Diritto Emilio Santoro e, per l’associazione Il Delfino, Amina Elia. Gli interventi saranno moderati dal giornalista Paolo Vannini. L’iniziativa è organizzata dal coordinamento pistoiese “Cittadini anche in carcere” in collaborazione con il Comune. “Si tratta di un primo tavolo per inquadrare e analizzare i vari problemi di chi è detenuto nel carcere di Santa Caterina in Brana - spiega l’assessore alle Politiche sociali Paolo Lattari. L’obiettivo è di migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Sempre per perseguire lo stesso scopo, di recente il consiglio comunale ha approvato il regolamento che istituisce e disciplina la figura e l’attività del garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Tra i suoi compiti figurano quello di favorire la partecipazione di chi si trova in carcere alla vita civile e alla fruizione dei servizi comunali, di promuovere iniziative di sensibilizzazione e di vigilare sul rispetto dei diritti. Chi sarà scelto dovrà svolgere questo importante incarico di mediazione tra il carcere e il territorio e dovrà vigilare sulle problematiche legate alla detenzione per tutelare i diritti di chi si trova in carcere”. Cosenza: presidio Ugl per difendere i diritti del personale di Polizia Penitenziaria Gazzetta del Sud, 11 novembre 2011 Presidio Ugl davanti al carcere di Cosenza stamattina per manifestare la volontà di ripristinate corrette relazioni sindacali. La Segreteria Regionale Ugl Polizia Penitenziaria, ha riscontrato - si legge in una nota - un sostanziale attacco alle libertà sindacali dell’Ugl. “L’occasione è utile - si legge ancora - per evidenziare lo stato di abbandono in cui versa il personale della Calabria”. Presente sul posto il segretario nazionale aggiunto Tonino Mancini, che ha voluto manifestare la vicinanza al personale penitenziario. Ci si riferisce in particolare ai gravissimi fatti di cui è stato vittima il Segretario regionale dell’UGL Polizia penitenziaria Andrea Di Mattia, prima oggetto di minacce a mezzo lettera anonima assieme al Vice Segretario Regionale Carlo D’Angelo, poi destinatario di reiterati rilievi disciplinari unitamente ad altri dirigenti sindacali in servizio in diverse sedi della regione Calabria. Genova: detenuto non torna da permesso, arrestato al Brennero Ansa, 11 novembre 2011 Aveva fatto perdere le sue tracce dopo aver ottenuto un permesso di 48 ore dal carcere di Genova. Un torinese di 42 anni, Bruno Zanatta, è stato arrestato dalla polizia al Brennero dopo avere sconfinato per cinque chilometri in Austria. Per espatriare il torinese si era fatto accompagnare da una donna polacca alla stazione ferroviaria del Brennero, da dove l’uomo ha proseguito su un treno, scendendo alla stazione successiva in territorio austriaco. Qui è stato individuato dai gendarmi che lo hanno consegnato alle autorità italiane. L’uomo deve scontare tre anni e dieci mesi per reati di droga. La polacca è stata denunciata per favoreggiamento. Aversa (Ce): festa con i detenuti Opg, pienamente riuscita l’iniziativa allo stadio Bisceglia www.teleclubitalia.it, 11 novembre 2011 Un grosso applauso alla fine ha abbracciato tutti ed ha qualcuno è scappata anche una lacrima. È stato un pomeriggio diverso quello visto ieri allo stadio Bisceglia di Aversa. Il tradizionale allenamento del mercoledì si è trasformato in un festoso incontro di calcio fra i giocatori dell’Aversa Normanna ed i pazienti dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario cittadino. Un match fortemente voluto dalla signora Giancarla Perugini, moglie del presidente Giovanni Spezzaferri, dallo stesso massimo dirigente granata e dall’amministratore delegato Alfonso Cecere, sempre pronti ad impegnarsi in iniziative di carattere sociale e sostenere, come in questo caso, una struttura pubblica che in passato è balzata agli onori della cronaca per fatti non certo positivi. Dall’altra parte il comandante della polizia penitenziaria Luigi Mosca e la direttrice Carlotta Giaquinto, decisi a non lasciarsi scappare quest’opportunità, coglierla al volo, sostenerla con il massimo entusiasmo. Dopo le foto ricordo e lo scambio di gagliardetti, proprio come in una partita ufficiale di campionato, via a correre sul prato verde, all’inseguimento di un pallone, per dare un calcio alle avversità della vita, per fare gol nel cuore di chi ha pregiudizi. “È un’iniziativa che ci permette di far avvicinare la città all’Opg - afferma soddisfatta la Giaquinto - di superare le mura, non solo sono quelle reali della nostra struttura, ma quelle che spesso troviamo nella mente di coloro che partono prevenuti verso chi è costretto a viverci. È importante far uscire i pazienti, dargli visibilità, creare un’integrazione con il territorio. Spero che sia un inizio di un maggiore coinvolgimento da parte di tutta la città. Da parte dell’Aversa Normanna c’è stata sempre attenzione e sensibilità verso l’Opg. Siamo molto riconoscenti per questa bellissima quest’iniziativa”. “Abbiamo un piccolo campetto di calciotto all’interno della struttura, - ribadisce il comandante Mosca - dove i ragazzi si allenano. Ora c’è venuta l’idea di fare qualcosa di più, di nuovo, grazie alla disponibilità della signora Perugini e di tutta l’Aversa Normanna. È un’occasione importante per consentire a questi ragazzi d’iniziare a reintegrarsi nella società ed avere un contatto con l’esterno”. “Negli anni scorsi abbiamo offerto all’Opg divise sociali e palloni per consentire ai pazienti di svolgere un’attività fisica - commenta orgoglioso il presidente Spezzaferri - ora abbiamo voluto vedere i frutti di questo nostro aiuto. Scherzi a parte, è giusto, oltre che bello, vedere tanta gioia sul viso di questi ragazzi. Noi siamo una società di calcio, ma non pensiamo solo al calcio. C’è un territorio da valorizzare, delle persone da integrare, dei giovani da far crescere con i valori positivi dello sport. Anche questo è il nostro scopo, oltre a vincere le partite”. A proposito di vittoria, per la cronaca la partita è finita 8-7 in favore dell’Opg. Ma non c’è stata nessuna protesta verso l’arbitro per il rigore assegnato ingiustamente o la rete realizzata in sospetto fuorigioco. Dopotutto, è stata solo una partita di calcio. Ancona: i detenuti di Montacuto in scena con letture sceniche di Mozart e Salieri www.vivereancona.it, 11 novembre 2011 In scena oggi 11 novembre i detenuti della Casa Circondariale di Montacuto realizzeranno una lettura scenica di Mozart e Salieri la “piccola tragedia” di Puškin frutto del laboratorio teatrale condotto da Luciano Colavero Venerdì 11 novembre 2011 alle ore 10.30 presso gli spazi della Casa Circondariale di Montacuto è prevista una lezione aperta del Laboratorio Teatrale “Mozart e Salieri” nel quale i detenuti realizzeranno una lettura teatrale del lavoro di Puškin. Il laboratorio teatrale, condotto da Luciano Colavero che rientra nel progetto della Fondazione Teatro delle Muse, Muse per la città, sarà incentrato sulla “piccola tragedia” di Puškin “Mozart e Salieri”. Il testo sarà realizzato in forma di lettura scenica dai detenuti della Casa Circondariale di Montacuto. Il laboratorio si occuperà non solo di far avvicinare i partecipanti alla possibilità di recitare la parola poetica di Puškin (attraverso esercizi che possano aiutare gli allievi a sviluppare le proprie possibilità di espressione e comunicazione anche nella vita quotidiana), ma principalmente si preoccuperà di indagare il tema centrale che il poeta a voluto affrontare nella sua opera: l’ingiustizia divina nel dispensare il talento agli esseri umani e la scelta di un uomo di farsi giustizia da sé. Da alcuni anni la Fondazione Teatro delle Muse lavora in collaborazione con la Casa Circondariale di Montacuto per coinvolgere i detenuti ai laboratori teatrali. Il progetto è uno dei percorsi di formazione per un teatro sociale ed educativo che rientrano all’interno di Muse per la città. Partner istituzionale del progetto Casa Circondariale di Montacuto (An). Con il sostegno di Regione Marche - Ambito Sociale Territoriale 11 del Comune di Ancona “Comitato Carcere e Territorio” e dell’Assessorato alle Politiche Sociali della Provincia di Ancona. Afghanistan: uccise civili per passatempo, sergente Usa condannato all’ergastolo Agi, 11 novembre 2011 È stato condannato all’ergastolo Calvin Gibbs, 26 anni, sergente dell’Esercito americano, sposato e padre di un bambino in tenera età, che fra il gennaio e il maggio dell’anno scorso, quando era di stanza in Afghanistan, guidò la sua squadra a perpetrare, come passatempo, delitti di ogni genere contro la popolazione civile locale: la corte marziale insediata nella base di Lewis-McChord presso Tacoma, nello Stato di Washington, lo ha infatti giudicato colpevole di tutti e quindici i capi d’imputazione, compresi tre di omicidio aggravato premeditato; per ognuno di essi la pena prevista era appunto il carcere a vita. L’accusa aveva chiesto che fosse esclusa per il sergente la possibilità di ottenere la libertà vigilata, ma i cinque membri della giuria l’hanno invece subordinata all’espiazione di almeno dieci anni di reclusione. La vicenda, uno scandalo paragonabile a quello del 2004 per le sevizie a danno dei detenuti nel famigerato penitenziario iracheno di Abu Ghraib, ha rischiato di rendere ancora più tesi i rapporti tra l’amministrazione Usa e le autorità di Kabul. Tre subordinati di Gibbs si erano già dichiarati colpevoli e avevano accettato di deporre a suo carico, ottenendo in cambio verdetti relativamente meno pesanti, mentre il sottufficiale in giudizio ha tentato di sostenere di aver agito in combattimento o sotto attacco, e dunque per legittima difesa. Il procuratore militare, maggiore Drè LeBlanc, ha replicato ricordando come Gibbs e i suoi uomini fossero soliti riferirsi agli afghani come a “selvaggi”, e ed è sbottato: “Eccolo il selvaggio, il selvaggio è il sergente Gibbs”. L’interessato aveva del resto ammesso di aver mutilato a più riprese i cadaveri delle proprie vittime, tagliando loro le dita o strappandone i denti, per poi esibirli davanti ai commilitoni quali macabri trofei di guerra. “Per me è come quando a caccia si asportano le corna a un cervo”, è stata la sua allucinata auto-giustificazione. “Bisogna venire a capo di quello che si fa”. Nel corso del processo, durato una settimana, è emerso inoltre che Gibbs e gli altri erano soliti piazzare armi da fuoco sui resti degli afghani assassinati, per far credere che si trattasse di guerriglieri pronti a combattere e allontanare da sé eventuali sospetti. Libano: nuova protesta nel carcere di Rumiyeh, 92 detenuti in sciopero della fame Aki, 11 novembre 2011 Nuova protesta di detenuti nel carcere di Rumiyeh, sulle colline a nordest della capitale libanese Beirut, spesso teatro di rivolte dei prigionieri e struttura in cui sono rinchiusi anche alcuni militanti del gruppo integralista islamico Fatah al-Islam. Almeno 92 detenuti sono in sciopero della fame per chiedere la riduzione delle pene che sono state loro comminate. Lo riferisce l’agenzia di stampa libanese Nna, precisando che per evitare disordini all’interno del penitenziario sono state rafforzate le misure di sicurezza. I detenuti, tutti condannati a un anno di carcere, chiedono che le rispettive sentenze vengano ridotte a nove mesi. In passato il carcere di Rumiyeh, il più grande del Libano e notoriamente sovraffollato, è stato spesso teatro di proteste dei carcerati per chiedere migliori condizioni di vita e una riduzione delle pene. A Rumiyeh, costruito nel 1971 per ospitare 1.500 persone, secondo dati del 2008 sarebbero rinchiusi oltre quattromila detenuti. In un’ala del penitenziario sono stati incarcerati fino al 2009 anche i quattro generali libanesi arrestati nel 2005 perchè sospettati di aver avuto un ruolo nell’omicidio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, ucciso in un attentato a Beirut il 14 febbraio del 2005 insieme ad altre 22 persone. E sempre in questa struttura sono rinchiusi alcuni militanti di Fatah al-Islam, il gruppo coinvolto nei combattimenti che da maggio a settembre di quattro anni fa hanno insanguinato il campo profughi palestinesi Nahr el-Bared, nei pressi di Tripoli, nel nord del Libano. Gli scontri del 2007 sono costati la vita a 220 militanti, 171 soldati libanesi e 47 civili palestinesi.