Giustizia: l’emergenza carcere toglie dignità all’uomo detenuto di Pino Toscano Gazzetta del Sud, 5 marzo 2011 “Emergenza carcere: tossicodipendenti, stranieri e donne detenute al culmine del sovraffollamento”. Su questo tema si è svolto ieri pomeriggio, nella sala “Giuditta Levato” di Palazzo Campanella, un convegno organizzato dall’Ufficio del Garante delle persone private della libertà personale. Moderato dal giornalista Gianfranco Manfredi, il dibattito, al quale è intervenuto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi, ha preso vivacità e spessore sulla piattaforma proposta dal Garante Giuseppe Tuccio. “Nella fase successiva alla condanna”, ha detto l’alto magistrato, “emerge drammatico l’interesse della verifica delle modificazioni della personalità. Nella sede penitenziaria il reato deve rimanere fuori dalle mura, in una visione dinamica che abbia come obiettivo un “futuro possibile”. Una comunità tutta intera è dunque chiamata a gestire processi di inclusione sociale, con il coinvolgimento in posizione di centralità della persona che ha commesso il reato”. Quanto al “dramma del sovraffollamento”, occorre rafforzare, secondo Tuccio, “il convincimento della sperimentata funzione deterrente delle misure alternative al carcere”. Dopo una stringente analisi, accompagnata da ampi riferimenti legislativi, degli aspetti collegati alla figura del detenuto, il Garante ha posato lo sguardo sulla specificità del territorio calabrese: “La nostra regione vive una atavica condizione di sofferenza sociale per la presenza e la prepotenza di organizzazioni mafiose che esercitano un preoccupante controllo delle fragili dinamiche economico-finanziarie. La comunità calabrese ha giustamente sete di giustizia e sicurezza, ma occorre convincersi che a nulla vale insistere su trattamenti penitenziari esasperati; a nulla vale perseguire fini di sicurezza attraverso la scorciatoia sostanzialistica della invenzione di nuove fattispecie penali o di elevazione delle pene edittali. La risocializzazione del detenuto non è un’utopia. Restituire alla società civile persone su cui è stata esercitata positivamente la funzione della pena è un dovere civile ma, lasciatemelo dire, conviene alla stessa società civile. Non conviene, invece, alla criminalità organizzata”. Sono seguiti i contributi di Nello Cesari, del Dipartimento regionale penitenziario; Sebastiano Ardita, direttore generale del ministero della Giustizia; Donato Capace, segretario generale del Sappe; Carmela Longo, direttore della Casa circondariale di Reggio Calabria; Agostino Siviglia, consigliere giuridico dell’Ufficio del Garante del Comune di Reggio. Tutti, con accenti diversi, hanno sottolineato che l’emergenza-carcere è diventata una situazione permanente. Doris Lo Moro, parlamentare del Pd e segretaria della Commissione Affari costituzionali della Camera, ricorda che il prossimo 8 marzo (“data che non mi piace”) sarà approvata la nuova legge sulla tutela dei bambini detenuti. “Nelle carceri italiane ce ne sono 55. Creature innocenti che scontano la pena assieme alle loro mamme. Bisogna farli vivere in un luogo senza sbarre. La soluzione potrebbe essere quella della case protette, previste dall’art. 4 ma non ancora definite. E, fino a quando non lo saranno, resta il principio”. Che, osserva Lo Moro, “non risolve i problemi: li denuncia”. L’esponente del Pd passa poi in rassegna gli interventi necessari per affrontare le tante criticità del sistema carcerario: dalla salvaguardia dei diritti di chi sta in galera alla possibilità di lavoro; dal diritto alla salute alla territorialità della pena per alleviare i disagi mentali provocati dalla lontananza dai familiari. Tutto ciò fa dire alla Lo Moro che “la questione carceraria non è un problema di generosità e di solidarietà, ma di civiltà”. E, in questo senso, “il ruolo del Garante è fondamentale”. Giovanni Nucera, segretario questore del Consiglio regionale, è particolarmente attivo sull’argomento in discussione, avendo prodotto una serie di iniziative mirate al miglioramento della vita dei detenuti (ma anche del personale penitenziario, anch’esso vittima del sistema), tra cui un ordine del giorno approvato con voto unanime dall’assemblea legislativa. Da osservatore attento della realtà del mondo penitenziario, quindi, Nucera denuncia con vigore le disfunzioni esistenti, soprattutto “per un tasso di sovraffollamento intollerabile (200%) in uno Stato democratico”. Giovanardi fa precedere il suo ragionamento da uno spot contro l’uso degli stupefacenti (ha la delega alla droga, oltre che alla famiglia e al servizio civile). Immagini efficaci, che evidenziano la capacità distruttiva del fenomeno, rispetto al quale il sottosegretario ritiene indispensabile “una grande opera di prevenzione”. Giovanardi, infatti, non crede nella forza dissuasiva del carcere, benché nei casi più gravi la restrizione sia inevitabile: “Il consumatore è un malato, e come tale dobbiamo trattarlo”. Occorre, pertanto, puntare sempre più sulle comunità di recupero. I dati recenti, comunque, segnalano un arretramento che, se non induce all’ottimismo, apre qualche spiraglio. L’uso di cocaina, per esempio, è diminuito del 50%. Il sottosegretario, che pure non è una colomba, ha qualcosa da dire anche sulla carcerazione preventiva: “Un’anomalia italiana, per cui si fa scontare la pena prima ancora di sapere se uno sia colpevole o innocente”. Anzi con la presunzione, costituzionalmente certificata, di innocenza... Giustizia: il grigio della sofferenza quotidiana di Stefano Anastasia (Difensore civico dell’Associazione Antigone) Terra, 5 marzo 2011 Tra buone prassi e quotidiane emergenze si consumano i soliti discorsi sul carcere. Il sovraffollamento, i suicidi, le violenze, la malasanità, e poi un call center, un laboratorio, la scuola, il lavoro all’esterno. Nero e bianco si alternano e convivono. E non si capisce perché quel nero continua a fare da sfondo e quel bianco debba restare puntiforme: se a tutti piace Bollate e non Poggioreale, se nessuno vuole che i detenuti si ammalino e si ammazzino in carcere, se tutti pensano che queste condizioni di detenzione rischiano di essere inumani e degradanti, perché il bianco e il nero continuano a convivere così ambiguamente? Forse perché rappresentano degli estremi, così netti come così irreali? Forse. Forse per capire il carcere è meglio guardare la sua quotidianità, la ordinaria sofferenza che esso impone ai suoi ospiti, una sofferenza fatta di banali prevaricazioni e di minime, progressive degradazioni. Qualche tempo fa, a Francesco viene in mente di comprarsi un computer. È un ergastolano, il tempo non gli manca, vuole investire su di sé e un pc può fare al caso suo. Ma quando l’aveva visto usare da certi suoi compagni di detenzione, non immaginava costasse tanto: quasi 1.700 euro gli chiedono, sottoponendogli un preventivo senza alcuna offerta concorrente. Prendere o lasciare. E Francesco prende, senza sapere che gli sarebbe costato altri 3.600 euro di riparazioni, prima di collassare dopo due anni. Avendoci speso ormai 5.300 euro, Francesco vorrebbe mandarlo in riparazione all’esterno, ma il nuovo direttore dubita che quel tipo di computer possa restare in carcere, nella disponibilità di un detenuto. Passa quindi un anno e mezzo (e un reclamo al magistrato di sorveglianza) prima che il pc vada in riparazione. Riparato è riparato, ma qualche dubbio sopravvive sulla sua legittimità, e Francesco vien informato che il pc è in magazzino, e non gli viene dato. Comincia così il primo sciopero della fame, interrotto da una promessa. Poi il secondo, il terzo e il quarto, ancora fermati da analoghe promesse. Ci riprova in questi giorni. Ma perché Francesco non può avere il suo computer, pagato - grazie alla mediazione dell’Amministrazione penitenziaria - come un cacciatorpediniere? Qualcuno gli ha raccontato di un ignoto regolamento. Ma se anche non esistesse questa occhiuta normativa, la verità è che l’essenza del carcere è proprio in questo potere di disposizione, incomprensibile e (quasi) assoluto. Tra il bianco e il nero, c’è questo grigio della sofferenza quotidiana. Giustizia: violenza sessuale in Caserma a Roma, indagati tre carabinieri e un vigile di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 5 marzo 2011 La difesa: “Nessuno stupro”. Le versioni però non coincidono La procura ora deve chiarire il ruolo dei quattro, che si contraddicono a vicenda. La donna conferma le accuse: ho subito abusi dopo essere stata costretta a ubriacarmi. Con ruoli distinti, ma tutti indagati per violenza sessuale. La procura di Roma ha iscritto alcuni giorni fa i tre carabinieri della stazione Quadraro e il vigile urbano accusati di aver stuprato una ragazza arrestata per furto. Inchiesta delicata e atti secretati, la procura vuole vederci chiaro. Per questo sta aspettando gli esami sul tampone fatto alla ragazza e sta ascoltando, più e più volte, i racconti di quella sera. Che non coincidono. Anzi. Il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il sostituto Eleonora Fini sono decise ad accertare la verità. Nella convinzione che cose del genere non debbano accadere. Meno che mai all’interno di una caserma. La ricostruzione, dunque. La donna ha denunciato senza mezzi termini di essere stata violentata. I carabinieri negano, ammettendo però il rapporto sessuale “consensuale” e “amichevole”. Un percorso a ritroso in quella notte che si annebbia anche per il whisky. La vittima, una ragazza madre di 32 anni, ha ricordi confusi. L’alcol e, probabilmente la paura e lo choc, rendono difficile mettere nero su bianco quella maledetta notte. Dice di non ricordare atteggiamenti violenti, questo no. Ma è sicura di essere stata costretta a bere. E, a quel punto, di aver avuto rapporti con i carabinieri e con il vigile urbano. Non violenti, di sicuro non voluti. Versione molto diversa da quella resa dai militari della stazione Quadraro. Ragazzi tra i 23 e i 25 anni, incredibilmente convinti di non aver fatto nulla di male. Che, a loro volta, vengono contraddetti dal vigile. I carabinieri sono concordi nel raccontare di essere rientrati intorno alle 4 del mattino. Avevano girato più locali, bevuto alcuni drink. Quando sono arrivati in caserma, erano decisamente alticci. Al piantone c’era il collega di turno con un amico vigile urbano. Il campanello suona: la ragazza detenuta nella cella di sicurezza ha sete. I quattro decidono di andare insieme. L’atmosfera è divertita, fanno gli spacconi. Le offrono, attraverso le sbarre, del whisky. Lei beve, aggiunge di avere fame. La portano in mensa. Raccontano di aver mangiato, bevuto e chiacchierato. Raccontano che, poi, forse per il whisky, la ragazza ha iniziato a fare avances. I quattro sono stati sentiti dagli inquirenti. Chi è inconsapevole, chi, ormai tardivamente, è disperato e piange. I carabinieri hanno detto, tutti, che il collega di turno al piantone se ne è andato, pur sapendo quello che stava succedendo alle sue spalle (motivo che ha indotto i magistrati a indagarlo comunque per violenza sessuale). Mentre i due carabinieri hanno avuto rapporti completi, e “amichevoli”, con lei e il vigile no. È qui che il racconto dei presunti aguzzini si spacca. Il vigile ha raccontato di non aver partecipato. Né lui, né gli altri due carabinieri: “Abbiamo lasciato uno di loro solo con lei. Era chiaro che stessero facendo sesso e che fosse consensuale”. Ieri i quattro sono stati tutti trasferiti: i militari in altre città, il vigile in un ufficio. Le difese si preparano a una battaglia non facile. “È una brutta storia - ha detto l’avvocato Carlo Taormina che difende uno dei due carabinieri che hanno consumato il rapporto - e io non posso fare altro che limitarmi alle considerazioni di un tecnico. Giusto o no, per il nostro codice la detenzione è un’aggravante del reato, non il presupposto. E in questo caso non ci sono state violenza fisica, minacce o abuso” L’agente: sì, in caserma c’è stato sesso ma all’inizio è stata lei a provocarci “Sì, c’è stato un rapporto sessuale in quella caserma. Ma era consenziente, nessuno stupro, nessuna violenza sessuale”. Il racconto del vigile urbano, da diciotto anni nella municipale e in servizio, fino al trasferimento di ieri, nel centro di Roma, inizia così. Lo ha detto al magistrato, dal quale s’è presentato col suo avvocato, e lo ha ripetuto ai suoi superiori che lo hanno interrogato sulla vicenda nei giorni scorsi. Una versione che, in più punti, non coincide con quelle rese dagli altri due carabinieri ascoltati in procura. Né col racconto della vittima. “Mercoledì 23 avevo trascorso la serata con un mio amico carabiniere - dice il vigile indagato per violenza sessuale - poi siamo rientrati in caserma, dove il mio amico alloggia. Lì abbiamo incontrato gli altri due militari. Saranno state le cinque del mattino. La detenuta, dalla cella di sicurezza nella quale era rinchiusa, ha iniziato a gridare che aveva fame e aveva sete, e di darle qualcosa. Allora i due carabinieri che l’avevano arrestata l’hanno fatta uscire e l’hanno portata nella mensa. Lì le hanno dato da bere del liquore”. Nella denuncia la donna dice invece di essere stata svegliata mentre dormiva. E di aver bevuto il whisky offerto dai carabinieri già in cella. Solo dopo avrebbe chiesto di mangiare e dalla cella, infine, sarebbe stata portata alla sala mensa. “Lei, forse per l’alcol, ha iniziato a provocare”, prosegue il vigile. “Non erano proposte velate erano approcci sessuali inequivocabili. All’inizio ci abbiamo scherzato su, ma lei insisteva. Mi si è avvicinata e mi ha tirato per la maglietta per baciarmi. Io l’ho allontanata. Ho altri orientamenti sessuali. A quel punto lei s’è buttata su uno dei carabinieri e ha iniziato a baciarlo, con foga. Quindi io e gli altri due militari siamo usciti in corridoio e li abbiamo lasciati da soli nella sala mensa”. Altra crepa nella versione del vigile urbano. Uno dei carabinieri ascoltati in procura ha infatti dichiarato che uno soltanto è uscito dalla sala mensa, gli altri tre, compreso il vigile urbano, sono rimasti dentro, partecipando tutti alla “situazione totalmente amichevole”. Conclude il vigile. “Era chiaro a tutti cosa stesse succedendo in quella sala: i due stavano consumando un rapporto sessuale. Assolutamente consenziente”. Il Comandante: ho detto io ai miei uomini di dire tutta la verità Il colonnello Maurizio Mezzavilla comanda i 6mila carabinieri della piazza di Roma e della sua provincia. È arrivato in città il 9 ottobre scorso, da Messina. È un friulano con 33 anni di servizio nell’Arma e dai modi diretti. Anche in ore assai complicate come queste. “Guardi, lo dico in modo semplice e chiaro. A prescindere dalle valutazioni che la magistratura farà in sede penale e su cui, evidentemente, non entro, quanto è accaduto nella stazione del Quadraro è riprovevole. Il comportamento dei tre carabinieri è stato dissennato. Comunque. E proprio per questo, quel che è accaduto non può e non deve sporcare il lavoro che, ogni giorno, 24 ore su 24, fanno gli uomini dell’Arma con grande sacrificio e professionalità”. Colonnello, non crede che la storia delle “mele marce” inizi a suonare un po’ consunta e, soprattutto, auto giustificatoria? “Io non ho usato la parola mele marce. Né ho alcuna intenzione di minimizzare. Io dico che l’Arma è un’istituzione che da 200 anni custodisce valori cui non è mai venuta meno. Ma l’Arma è figlia di questa società. I suoi uomini sono cittadini di questo Paese e del suo tempo. E questo Paese, negli ultimi cinquant’anni, è cambiato molto. Lo dico perché io so quello che ho fatto e detto ai tre carabinieri della stazione del Quadraro quando ho avuto notizia di cosa era accaduto”. Cosa ha fatto? “Ho ricordato a tutti e tre quali sono i doveri di un carabiniere e li ho invitati a fare una sola cosa. Andare dal magistrato e dire la verità. Quale che fosse il costo. Perché l’Arma non ha paura della verità. Dopodiché, come noto, è stata immediatamente avviata un’indagine interna, i tre militari sono stati deferiti in sede disciplinare e, oggi pomeriggio (ieri, ndr), hanno raggiunto le nuove sedi cui sono stati trasferiti in attesa di ulteriori decisioni che verranno prese in sede disciplinare, a prescindere dal corso che avrà la vicenda penale”. Torniamo al malessere dell’Arma. “Malessere?” Il Quadraro è l’ultimo fotogramma di una sequenza nera. Nell’autunno del 2009 il caso Marrazzo con la banda di carabinieri estorsori. Nella primavera del 2010 i 15 chili di hashish che spariscono dal deposito corpi di reato della stazione carabinieri di Cinecittà. E poi, la morte di Stefano Cucchi, arrestato dalla compagnia Casilino, la stessa che ha competenza sul Quadraro e su Cinecittà. “Non ero io il comandante in quel periodo, ma con questo non voglio assolutamente sottrarmi alla domanda. Premesso che nella vicenda Cucchi le indagini della magistratura hanno liberato da ogni possibile sospetto il comportamento dei carabinieri, le altre vicende hanno visto l’Arma e il mio predecessore intervenire tempestivamente e direi anche molto energicamente. La vicenda Marrazzo è stata svelata dalle indagini dell’Arma. E grazie a quelle indagini si è scoperto anche che l’ex governatore non era stato il primo, né il solo ad essere vittima di estorsioni. Quanto alla vicenda di Cinecittà, prima ancora che le indagini, per altro ancora in corso, accertassero qualsivoglia responsabilità, l’intero personale della stazione è stato rimosso e sostituito. E, da maggio dello scorso anno, la compagnia Casilino ha un nuovo comandante”. Non crede che a Roma, nel micro-universo delle stazioni di quartiere si siano radicati nel tempo, prassi che nascondono spesso piccoli e grandi abusi, piccole e grandi violenze? “Io so che la nostra capillare presenza sul territorio è la migliore garanzia per la sicurezza di una comunità. Che un brigadiere, un maresciallo, un appuntato che, grazie ad anni di lavoro, conoscono a menadito il contesto in cui si muovono, siano una risorsa straordinaria. È ovvio che esiste un rovescio della medaglia. Che un possibile comportamento deviante può restare celato più a lungo. Ma per questo penso che esista uno strumento molto semplice. La qualità del comando e del controllo. E su questo, come ho detto, mi pare che all’Arma non possano essere rimproverate né inerzie, né timidezze”. A proposito di controllo, che ci faceva un vigile urbano alle 4 di notte in una caserma dei carabinieri? “Questa circostanza è oggetto di indagine e dunque non posso discuterne. Posso dire che il vigile era amico di uno dei militari”. Il vigile ha sostenuto con i suoi superiori gerarchici di avere una relazione sentimentale con uno dei militari della stazione Quadraro. “Questo me lo sta dicendo lei adesso. E mi pare un’altra di quelle questioni delicate su cui non è bene affrettare nessun tipo di considerazione”. La vittima sostiene che, il pomeriggio del 24 febbraio, i militari della stazione di Cinecittà hanno provato a dissuaderla dal presentare denuncia. “A me non risulta. A me risulta che la denuncia è stata regolarmente redatta, subito trasmessa all’autorità giudiziaria e che la donna è stata accompagnata in ospedale per essere visitata”. Giustizia: Manconi; non può esserci “consenso”, se una persona è detenuta La Repubblica, 5 marzo 2011 Manconi, presidente di “A buon diritto”: giustificazioni inaccettabili. “Doppiamente subordinata: era di fronte a pubblici ufficiali e privata della libertà”. “È un caso di una gravità inaudita, questa donna era in una duplice condizione di subordinazione: quella del cittadino di fronte al pubblico ufficiale e quella del cittadino privato della libertà nei confronti del pubblico ufficiale che lo ha in custodia”. Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia, presidente di “A buon diritto”, conosce gli abusi che subiscono i detenuti, i conflitti e le complicità che nascono nei luoghi di detenzione. I carabinieri coinvolti dicono che la donna era consenziente. “Questa più che una giustificazione mi sembra un’ammissione ancora più colpevole, di quale consenso si può parlare quando si verificano quelle condizioni? Una giovane donna in cella, socialmente debole, di fronte a tre carabinieri è la più fragile delle vittime. Parlare di consenso è quasi una confessione collettiva”. In questi casi si parla di mele marce. “É solo cattiva retorica. È chiaro che gli atti di violenza compiuti dalle forze dell’ordine sono una minoranza. Vorrei ben vedere che non lo fossero. Aggiungo però che i carabinieri contrariamente a quello che si crede vengono spesso coinvolti in episodi di violenza. Secondo la nostra esperienza di segnalazioni e denunce, i carabinieri sono coinvolti quanto la polizia e la polizia penitenziaria anche se il notevole prestigio di cui godono rischia a volte di essere uno scudo rispetto queste zone d’ombra”. Lei pensa che ancora oggi chi ha una divisa possa credere di avere, in un modo o in un altro, una sorta d’impunità? “Io non credo che chi commette questi reati pensi in quel momento di poter poi godere di qualche forma d’impunità. È una interpretazione semplicistica che non condivido. In questi casi scattano altre pulsioni, ci sono convinzioni, condizionamenti che hanno il sopravvento. Nella caserma penso che ci sia stato un momento di autoesaltazione fascistico sessista, forse c’è stata più la fantasia della donna in proprio potere, che non l’idea dell’impunità”. Giustizia: quel corpo in ostaggio di Adriano Sofri La Repubblica, 5 marzo 2011 C’è una donna, sulla quale si accaniscono di colpo sfortune diverse: d’essere giovane - “ragazza madre” - d’essere “bella”, d’essere “sbandata”. La storia rotola giù come una valanga: il furto di un paio di magliette in un grande magazzino, l’arresto. E poi la sosta per le formalità in una caserma di carabinieri, il trasferimento in un’altra caserma meno affollata, la degenza in una cella di sicurezza (badate: “di sicurezza”), la visita notturna di un piccolo manipolo di carabinieri e, per giunta, un vigile urbano, il whisky, il trasloco dalla camera di sicurezza alla mensa, e là il rapporto sessuale con uno o due degli allegri compagni, mentre gli altri guardano. Il rapporto sessuale - diranno dopo che la giovane ha trovato il coraggio di andare a denunciarli, e per sua buona sorte ha descritto il tatuaggio di uno dei suoi usatori, senza di che sarebbe stata spacciata per calunniatrice - è avvenuto, ma lei era consenziente, anzi, provocava. E poi, è una sbandata. Si stenta a credere alle proprie orecchie. Perché quelle che invocano come giustificazioni, sono confessioni di un delitto e delle sue aggravanti. Se a commetterlo siano pubblici ufficiali, e se lo commettano su una persona privata della libertà e affidata alla loro custodia, lo stupro è stupro, per legge, anche se davvero fosse stato “consentito” e perfino implorato dalla persona prigioniera. Punto sul quale occorre dubitare forte, perché la parola di lei, “sbandata” che sia, non può valere meno di quella dei suoi custodi infedeli, né le canta contro il certificato medico che non riscontra segni di violenza corporale: andate a riscontrare segni di un “ripetuto rapporto orale” imposto a una che è in mano vostra e che avete fatto bere. Questa è la storia, e vien fatto di reagire in due modi opposti. Dicendo amaramente che non c’è niente di cui sorprendersi, e che questo succede, e a volte se ne ha notizia, grazie a un telefono che registra, a un testimone che cede, a un tatuaggio incautamente esposto. Oppure mostrando quanto c’è di cui sorprendersi. Per esempio, che i protagonisti, rei confessi e provati, vengano “trasferiti altrove e assegnati a compiti di ordine pubblico”, piuttosto che arrestati. Il colonnello comandante della provincia di Roma ha bensì dichiarato che “il nostro giudizio di assoluta riprovazione prescinde dalle responsabilità penali che si stanno doverosamente accertando”, ma il fatto riprovato è di per sé un misfatto penale. E di che cosa parlano i commentatori titubanti circa l’eventualità che si sia trattato di “sesso o violenza sessuale”? Del naturale intercambio di sesso da svolgere in una camera di sicurezza, e fra carcerieri e carcerata? Certo che la trista storia “non può offuscare la meritoria opera dell’Arma” eccetera, e che le mele marce eccetera. Purché questo profluvio di frasi non sia una litania ipocrita. Quando un ragazzino scippa una pensionata si potrebbe ragionevolmente avvertire che non tutti i ragazzini scippano le pensionate, ma suonerebbe superfluo. Si tuteli pure il buon nome dell’Arma e dei ragazzini, ma si rifletta come si deve alla questione drammatica sollevata dal rapporto fra chi disponga di un corpo altrui, e chi se ne trovi in balia. Pochi giorni fa si era trattato di un paio di poliziotti municipali palermitani soprannominati Bruce Lee o chissà come altro, abituati a imperversare su disgraziati indifesi, finché una loro vittima ha reagito a morte dandosi fuoco. Ora la storia romana ha riportato tutti al ricordo fremente di Stefano Cucchi, e non solo per qualche fortuita coincidenza di carabinieri e caserme. Qui c’era una giovane donna, “bella” e “sbandata”. Là un giovane uomo, fragile e “sbandato”. Due corpi fatti apposta: l’una per il “rapporto orale” (espressione che vuole essere perbene e suona più disgustosa, non l’avranno chiamato così, quella notte), l’altro per le botte. Il certificato di lei non rileva segni e così via, il certificato di lui li rileva tutti. Corpi che abusano di corpi. Succede di essere in balia d’altri, o che altri siano in nostra balia. Non so quale delle due condizioni sia meno augurabile. Succede di essere corpi esausti o malati, esposti inermi alla buona o cattiva volontà di un badante o un infermiere. Di essere bambini affidati all’amore e alla pazienza, o alla frustrazione e alla furia, di un famigliare o una babysitter o una maestra d’asilo. Disporre dell’incolumità e della dignità altrui, ecco una condizione delicatissima, che chiama alla più rigorosa responsabilità, e però può tentare a sfogarsi e infierire. La condizione di chi è privato della libertà è un caso peculiare di questo repentaglio. C’è un organismo europeo incaricato di vigilare sul trattamento delle persone private della libertà. La sigla è Cpt, la denominazione per esteso è costretta a essere prolissa: “Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”. Le persone private della libertà sanno che cosa vuol dire trovarsi in balia d’altri. Conoscono le intimazioni regolamentari a spogliarsi di panni e di personalità: “Qui non ti vede nessuno, qui non ti sente nessuno. Qui non sei nessuno”. Lo sanno orribilmente gli ostaggi di sequestri privati, costretti a chiedersi che cosa sarà di loro, e a temere il peggio. Lo sa anche chi è privato della propria libertà in nome della legge, e dovrebbe sentirsi protetto da una mano giusta e leale, al sicuro. “Assicurare alla giustizia”, si dice. Come la signora S.D.T., ragazza madre, assicurata alla giustizia per aver rubato un paio di magliette all’Oviesse. Come il signor Stefano Cucchi, assicurato alla giustizia per possesso di modica quantità di stupefacenti, morto di botte e disidratazione. Giustizia: detenuta nigeriana denunciò violenza nel Cie… ma la colpevole è lei di Stefano Galieni Liberazione, 5 marzo 2011 Le motivazioni della sentenza di assoluzione per l’aggressione a Joy a via Corelli “processano” la parte lesa: Joy è una “violenta ragazza nigeriana”, essendosi costituita parte civile “è portatrice di pretese economiche”. Una sentenza pronunciata “in nome del popolo italiano” che assolve un funzionario di polizia, l’ispettore Vittorio Addesso, accusato di aver tentato di violentare Joy, ragazza nigeriana detenuta all’epoca dei fatti nel Cie di Via Corelli a Milano. Sembra partorita decine dì anni indietro, quando lo stupro era un reato contro la morale, quando era la donna a dover portare prova dell’avvenuto stupro. È stata emessa il 2 febbraio scorso ma solo ieri ne sono state rese note le motivazioni. Un testo che nessuna persona dotata di un minimo di senso civico, che nessun uomo degno di questo appellativo vorrebbe mai leggere. Dieci pagine in cui si prova a demolire l’impianto accusatorio basandosi su un assunto: Joy non è credibile. È una “violenta ragazza nigeriana” che ha capeggiato una rivolta e che ha tentato di salvarsi dall’espulsione denunciando il falso. Joy non è credibile perché la prima testimonianza resa in un italiano poco accademico, non collima perfettamente con quanto affermato in sede dibattimentale. Non è credibile perché la testimonianza della sua amica Hellen era “un può disordinata” e quindi non perfettamente aderente a quanto da lei affermato, perché contro di lei ci sono due testimoni sicuramente più attendibili: il responsabile per la Croce Rossa del centro, Massimo Chiodini, e un altro funzionario di polizia, l’ispettore Tavelli, condannato poi in primo giada a 7 anni per aver costretto una transessuale brasiliana ad un rapporto sessuale in cambio della promessa di un permesso di soggiorno. Joy non è credibile, perché non ci sono le altre testimoni che confermerebbero la sua versione dei fatti, peccato che almeno due siano già state deportate in Nigeria prima di poter parlare. Dieci pagine che grondano di razzismo e maschilismo allo stato puro. Si legge infatti che “le dichiarazioni della persona offesa nei delitti di abuso sessuale possono costituire da sole prova sufficiente per l’affermazione delle responsabilità penale dell’agente, ma ciò può avvenire solo dopo avere doverosamente e rigorosamente vagliato l’attendibilità della persona offesa stessa”. “Joy, essendosi costituita parte civile, è portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico”. Un ribaltamento vero e proprio dell’onere della prova. Ma non basta, Joy è stata condannata per una rivolta scoppiata alcuni giorni dopo il tentativo di violenza e siccome l’ispettore Addesso è risultato testimone a suo carico Joy si è vendicata. La prova? Avrebbe potuto denunciare le violenze mentre era in Via Corelli, nelle mani dello stesso ispettore (e di altri funzionari come Tavelli) e non l’ha fatto, aspettando di essere al sicuro, dopo la scarcerazione. Avrebbe dovuto, secondo i giudici, fidarsi anzitempo degli operatori sociali presenti nel centro. La stessa testimonianza di Chiodini, che ha negato qualsiasi abuso, lascia interdetti: “Un tale comportamento (quello di Addesso) avrebbe costituito un autogol inimmaginabile”. Uno degli elementi su cui si è aggrappata la difesa riguarda la presenza o meno di altre detenute nel corrile del centro teatro dell’aggressione. La frase riportata si commenta da sola: “nessuna amica di razza bianca né alcuna nigeriana è stata citata”. Chiaro, la testimonianza di due uomini bianchi e in divisa conta più di quella di due donne nigeriane. Certo non si afferma direttamente questo. Si dice che era “quasi impossibile che due uomini fossero presenti nel reparto femminile”, che Chiodini non può essere stato complice o connivente di Addesso per garantirsi la pace del Centro e la tutela della propria posizione di responsabile. Una strana condizione in cui chi controlla e chi è controllato parla con voce sola. Hellen non è invece attendibile a priori perché con Joy condivide “amicizia, nazionalità e sorte processuale” oltre che per il “disordine” con cui ha testimoniato. Una pagina oscena della magistratura insomma, che sembra retaggio puro di un passato coloniale mai sopito e dimostra il livello dello Stato di Diritto quando ad alzare la testa sono donne, per lo più immigrate e oggetto di tratta. Una sentenza in perfetta linea con la cultura del premier, in cui non si lascia neanche il minimo spazio al dubbio, si ignora totalmente il contesto concentrazionario in cui avvengono questa come altre nascoste violenze. Una sentenza che sintetizza perfettamente cosa sono i Cie e perché non sono riformabili. A chi scrive resta il beneficio del dubbio: ma davvero si tratta di una sentenza scritta in nome del Popolo italiano? Giustizia: per Joy nessun testimone… di razza bianca o nera di Gian Carlo Castelli Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2011 Assolto perché la vittima aveva dichiarato il falso: con questa sentenza si è concluso il processo nei confronti di Vittorio Addesso, ispettore di polizia in servizio presso il Cie milanese di via Corelli denunciato da una giovane nigeriana, Joy per tentata violenza sessuale. Il fatto risale all’agosto del 2009 e il racconto della ragazza è questo: durante una delle bollenti serate estive di quei giorni, Joy e la sua amica Helen (rinchiuse nel centro dopo una retata anti-prostituzione) si sdraiano su alcuni materassi portati in cortile per sfuggire al caldo. A un certo punto, secondo il racconto della giovane, l’ispettore, insieme al quale era presente un dirigente del Cie, Massimo Chiodini in forza alla Croce rossa italiana, si avvicina a Joy e si sdraia sul suo corpo, toccandole il seno e tentando poi di baciarla, lei si ribella: “non si fa così, non posso dove dormo, tu vieni sopra di me e tu mi toccare così, io non piace così...”. Alle rimostranze della ragazza (riportate letteralmente nella sentenza le cui motivazioni sono state rese note due giorni fa), secondo la denuncia, l’ispettore si sarebbe schermito, “stavo scherzando” ed è finita lì. “Da giorni mi chiedeva il numero di telefono per fidanzarsi con me una volta uscita”, dirà ancora la nigeriana. Alcuni giorni dopo scoppia una rivolta nel Cie a cui Joy partecipa e viene arrestala. Durante il processo lei racconta questa storia e, dopo la sua denuncia, si apre un fascicolo d’indagine. L’ispettore nega tutto, lo stesso fa il dirigente della Croce rossa che sarebbe stato presente (“insieme alla mia amica si adoperò per tirare via l’ispettore da me”, secondo Joy) e a quel punto l’unica testimonianza per l’accusa rimane quella di Helen che non viene ritenuta, però, attendibile. Visto, però, che si tratta di violenza sessuale, sottolinea la sentenza, sarebbe sufficiente anche soltanto l’accusa della parte lesa. Ma il codice penale prevede il principio dell’attendibilità soggettiva della vittima e qui il processo subisce la svolta: Joy (e la sua amica Helen), si legge nella sentenza, era una persona tratta in arresto per la rivolta nel Cie proprio dall’ispettore Addesso in seguito testimone al processo e quindi, conclude il giudice Luerti, “la persona offesa è portatrice di un intenso interesse proprio”. Nella sentenza si legge, poi, dell’assenza di altre testimoni (“nessuna amica di razza bianca né alcuna nigeriana”, viene scritto con linguaggio discutibile). Insomma, una specie di ritorsione personale. Inoltre, in questo modo, avrebbe potuto evitare l’espulsione in quanto parte lesa. “Non è vero affatto - secondo l’avvocato di Joy, Eugenio Losco - la ragazza aveva già ottenuto un permesso per aver denunciato i suoi sfruttatori. Lascia perplessi, inoltre, il fatto che la denuncia di Joy sia stata considerata un falso. Avrebbero potuto dire che non c’erano prove sufficienti ma non che abbia deliberatamente raccontato una cosa per un’altra”. L’archiviazione dell’ispettore è stata chiesta dallo stesso pubblico ministero. “E questa è un’altra anomalia - dice il legale - perché il pm Ghezzi che aveva svolto l’indagine aveva ritenuto di rinviare a giudizio l’imputato e poi la stessa procura, senza che fossero intervenuti altri elementi, ha deciso di archiviare”. Ora Joy, dopo un’odissea di trasferimenti in diversi Cie sparsi lungo la penisola, si trova in una struttura protetta nel nostro Paese. L’ispettore Addesso, invece, ha querelato la ragazza per diffamazione. Giustizia: interrogazione Pd; che fine hanno fatto i 400 “bracciali elettronici” costati 110 milioni? www.senato.it, 5 marzo 2011 Legislatura XVI, Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-01925. Negri - Ai Ministri dell’interno e della giustizia. Premesso che da una notizia apparse sul settimanale “Il Mondo” del 10 febbraio 2011 si apprende che nel 2003 sarebbe stato stipulato un contratto tra il Ministero dell’Interno e la Telecom, per la durata di dieci anni e con un ammontare complessivo di 110 milioni di euro, per la fornitura al Ministero della giustizia di 400 braccialetti elettronici per il controllo a distanza; secondo quanto riportato nel suddetto articolo il progetto non sarebbe mai decollato in quanto dei 400 braccialetti ne sarebbero stati utilizzati soltanto dieci esemplari circa su persone sottoposte a misure restrittive della libertà mentre i rimanenti 390 braccialetti sarebbero in giacenza presso il Ministero dell’interno, intonsi; considerato che se tale notizia dovesse corrispondere al vero si sarebbe di fronte ad un grave ed inaccettabile spreco di risorse pubbliche cui occorrerebbe porre immediato riparo; a titolo d’esempio giova ricordare che in Gran Bretagna, il braccialetto elettronico, come strumento per il controllo dei detenuti alternativo alla detenzione, viene utilizzato, efficacemente, su 50.000 carcerabili, oltre ai minorenni, i tifosi e gli automobilisti a rischio, e che tale sistema consente un risparmio di circa un quinto rispetto alla detenzione, si chiede di sapere se quanto denunciato in premessa corrisponda al vero e quali siano le valutazioni del Governo in merito a tale la notizia; quali siano i motivi per cui il progetto del braccialetto elettronico non è decollato e a chi siano da attribuire la responsabilità di un’operazione fallimentare estremamente esosa per l’erario; se non intenda, verificata l’attendibilità della denuncia, porre tempestivo rimedio ad una situazione di grave pregiudizio per il pubblico erario ed adottare, nell’ambito delle proprie competenze, ogni opportuna iniziativa nei confronti di coloro che siano responsabili di tale scandalosa operazione; infine, a quanto ammonti ad oggi la spesa complessiva sostenuta dalle casse dello Stato per tale operazione. Abruzzo: i Radicali chiedono l’istituzione del Garante regionale dei diritti dei detenuti Comunicato stampa, 5 marzo 2011 “La situazione carceraria - che nel Paese ha ormai raggiunto livelli di vera e propria emergenza - è stata spesso, in questi anni, anche in Abruzzo, al centro di gravissimi episodi di cronaca”. Inizia così la lettera aperta ai consiglieri regionali abruzzesi inviata da Alessio Di Carlo, fondatore ed editore della testata Giustizia Giusta.info e Roberto Di Masci, segretario regionale dei Radicali abruzzesi, per sollecitare la nomina del Garante Regionale dei Detenuti. Nel rievocare a drammatica condizione del penitenziario di Sulmona - che vanta il non invidiabile primato dei suicidi avvenuti in carcere - e quella dell’Istituto di pena di Castrogno di Teramo, con i gravissimi episodi di pestaggio avvenuti nel 2009, Di Carlo e Di Masci hanno ricordato che la criticità del fenomeno carcerario non si limita al dramma del sovraffollamento ed alla carenza di organico Polizia penitenziaria ma anche alle conseguenze della drastica riduzione di fondi sui capitolo di bilancio che ha colpito pesantemente le attività lavorative, di studio e di sostegno, anche psicologico, previste dalla legge in favore delle persone detenute. “Una situazione esplosiva”, scrivono il responsabile di Giustizia Giusta e quello di Radicali Abruzzo, “che ha comportato l’aumento esponenziale di quelli che il Dap definisce (con formula a dir poco infelice) “eventi critici”, cioè suicidi, tentativi di suicidio, autolesionismo, aggressioni al personale” ,tanto più grave in Abruzzo, se si pensa che solo Pescara si è dotata, a livello comunale, della figura del Garante. L’invito conclusivo rivolto ai consiglieri regionali di tutti gli schieramenti - ripartendo dalle proposte di legge presentate durante la legislatura in corso tanto da esponenti della maggioranza quanto da rappresentanti dell’opposizione - è quello di dare corso alle procedure necessarie per addivenire finalmente alla nomina della figura del Garante Regionale dei Detenuti e, al tempo stesso, concludono Di Carlo e Di Masci “a voler esercitare il potere-dovere di ispezione nei penitenziari, anche con il diretto coinvolgimento delle Associazioni scriventi, da sempre attente al fenomeno dell’emergenza carceraria in particolare ed alla tutela dei diritti umani in generale”. Trentino: detenuti al lavoro in servizio digitalizzazione archivio utilizzazione acque Ansa, 5 marzo 2011 Via libera dalla Giunta provinciale all’attivazione di un progetto pilota per l’appalto ai detenuti del carcere di Spini di Gardolo del servizio di digitalizzazione dell’archivio del Servizio Utilizzazione acque pubbliche provinciale. Attraverso cooperative sociali facenti parte di Con.Solida sarà affidato il servizio di varie attività ai lavoratori ospitati all’interno del nuovo carcere. La Provincia autonoma di Trento, Federazione trentina delle Cooperative - Con.Solida e la direzione della Casa circondariale hanno sottoscritto oggi un accordo per valorizzare le capacità lavorative di persone socialmente fragili e in difficoltà attivando il distretto dell’economia solidale, che trasforma le fasce deboli della comunità in risorse di produttività locale. “Si apre così un nuovo scenario di collaborazione istituzionale con tutto il comparto della cooperazione sociale - ha affermato la direttrice del carcere Antonella Forgioni, che ha sottoscritto stamani il documento con il Presidente Dellai - da gennaio infatti hanno preso il via le iniziative di recupero dei detenuti, in una modalità completamente diversa che in passato”. Un’altra attività che partirà a maggio e vedrà coinvolti i detenuti sarà quella di lavanderia del carcere, che avrà come interlocutore un’altra cooperativa sociale. Quattro gli obiettivi individuati dall’accordo approvato oggi dalla Giunta provinciale: implementare processi più ampi di responsabilità territoriale, aumentare i livelli di integrazione tra le diverse politiche pubbliche, sostenere la capacità imprenditoriale delle organizzazioni che partecipano al sistema del welfare trentino per valorizzare le competenze lavorative delle persone in difficoltà e incrementare in Trentino le opportunità di inserimento lavorativo e di occupazione accessibili a persone in difficoltà, in esecuzione penale e ad ex-detenuti. Pordenone: nuovo carcere per 450 detenuti; costerà 40 mln di euro, di cui 20 a carico enti locali Il Gazzettino, 5 marzo 2011 Potrebbe essere la volta buona. Dopo circa 33 anni di attesa, illusioni e grandi delusioni, il nuovo carcere potrebbe finalmente essere realizzato. Di più. Forse in un slancio di euforia dall’ufficio del Commissario delegato al Piano carceri, Franco Ionta, si sono pure sbilanciati sui tempi. La prima pietra potrebbe essere posata in Comina all’inizio del prossimo anno. Uno slancio di ottimismo? Una cosa è certa: visto come sono andate le cose sino ad ora meglio restare con i piedi ben ancorati a terra. Una grossa novità, però, c’è. Ieri, infatti, il commissario delegato Franco Ionta e il vicepresidente della Regione, Luca Ciriani, hanno sottoscritto l’intesa istituzionale per la localizzazione della nuova struttura penitenziaria di Pordenone. Dimensioni e costi. Il nuovo carcere sarà realizzato in Comina e avrà un costo complessivo stimato di 40,5 milioni di euro. Ospiterà 450 detenuti. Regione, Provincia e Comune concorreranno finanziariamente alla realizzazione dell’istituto con 20 milioni di euro: 15 la Regione, 3 l’Ente intermedio, 2 il Municipio. Agli Enti locali, come stabilito dall’Intesa, sarà trasferito il vecchio istituto penitenziario del Castello. L’area individuata per il nuovo carcere non necessita di varianti urbanistiche. I tempi. Il piano carceri stabilisce la realizzazione in tempi rapidi con disposizioni d’urgenza. La progettazione preliminare sarà realizzata dallo stesso Dipartimento. A giugno - luglio la gara per l’assegnazione dell’opera e la progettazione definitiva da parte dell’impresa vincitrice. Un anno in tutto per la posa della prima pietra: febbraio - marzo 2012. I dubbi. Vero che la Regione ha sottoscritto l’intesa con l’impegno di intervenire con 15 milioni di euro. I soldi, però, non sono stati messi nel Bilancio 2010. Poco male verrebbe da dire: la variante è fattibile a maggio. Solo che i soldi non ci sono e la Lega si è messa di traverso. Senza quei milioni il carcere a Pordenone non si farà. Soddisfazione. In ogni caso se la nuova struttura sarà realizzata ci sono alcuni politici che hanno un merito speciale. Il primo è Sergio Bolzonello che ha cercato questo risultato ed ha convito la proprietà del sito in Comina a cedere l’area. Poi Manlio Contento che ha sempre seguito la vicenda a Roma. Da Trieste una mano l’hanno data a inizio legislatura Franco Dal Mas e Antonio Pedicini. Ci ha creduto Alessandro Ciriani che metterà sul tavolo 3 milioni. Prima di cantare vittoria, però, meglio aspettare. Visti i precedenti. Venezia: la direttrice Iannucci ascoltata dal pm per la morte di un detenuto tunisino Il Gazzettino, 5 marzo 2011 Erano state date precise disposizioni per garantire la sicurezza di quel detenuto, sottoposto al regime di “grande sorveglianza” dopo un primo tentativo di suicidio. Lo ha spiegato la direttrice del carcere di Santa Maria Maggiore, Irene Iannucci, al sostituto procuratore Francesca Crupi, nel corso dell’interrogatorio avvenuto l’altro giorno alla cittadella della giustizia di piazzale Roma, nell’ambito dell’inchiesta sulla morte del giovane detenuto di nazionalità tunisina suicidatosi il 22 settembre dello scorso anno, all’età di 22 anni, approfittando un momento in cui era rimasto da solo in cella. “La dottoressa Iannucci ha fornito tutti i chiarimenti - spiega il suo difensore, l’avvocato Alberto Taralo di Gorizia - In quei giorni non era in servizio e fu nell’istituto soltanto per pochi minuti, dando precise disposizioni affinché fossero posti in atto tutte le misure necessarie”. Ora spetterà al magistrato il compito di completare gli accertamenti, anche alla luce delle dichiarazioni della direttrice, e verificare se vi siano state omissioni e responsabilità da parte di altri. Quella mattina di inizio autunno, il giovane tunisino aveva aspettato che sei compagni uscissero per l’ora d’aria e che la guardia carceraria addetta a quell’ala si allontanasse: quindi prese le lenzuola, le legò alla finestra del bagno e, dopo averle avvolte attorno al collo, e lasciò andare. Il ventiduenne era stato condannato per spaccio di droga e stava attendendo il processo di appello: in passato aveva già tentato di togliersi la vita, e la mattina stessa del suicidio si era ferito un braccio. All’attenzione del magistrato sono state poste anche le pesanti condizioni in cui versa il penitenziario di Santa Maria Maggiore a seguito del gravissimo sovraffollamento e di una cronica carenza di agenti, problemi più volte denunciati dagli stessi sindacati di polizia, impegnati a ridurre per quanto possibile i disagi. Trento: requiem per il carcere di via Pilati, in procinto di essere distrutto in nome dell’Autonomia www.questotrentino.it, 5 marzo 2011 La storia delle carceri di via Pilati è una storia di simboli tra passato, presente e futuro. Il progetto dell’architetto Schaden, iniziato nel 1877, venne terminato nel 1881. Un carcere, una corte d’Assise, e un tribunale. Un modo per avvertire l’Italia, fresca di vittoria nella terza guerra d’indipendenza, che lì l’impero austro-ungarico era presente e non aveva intenzione di mollare la presa. Ma la simbologia si avvertiva anche ad un altro livello, prima che con l’intervento del 1967, nel quale si demolì la corte d’Assise, si rovinasse la completezza del disegno. Quei tre edifici in sequenza rappresentavano le tappe della giustizia. Dal tribunale erano direttamente visibili le carceri, cosicché l’imputato potesse scorgere dalle finestre ciò che lo attendeva in caso di colpevolezza. Ma veniamo ad oggi. Il destino delle carceri sembra segnato, la demolizione imminente. I detenuti sono stati trasferiti in un complesso che assicura loro migliori condizioni di vita, e non ci sono buoni motivi per fare un passo indietro. Il presidente Dellai afferma che “oramai si è deciso”. Trascurando peraltro la vivace protesta da parte di organizzazioni quali Italia Nostra e Fondo Ambientale Italiano, che hanno raccolto circa 5400 firme contro la demolizione, a cui vanno aggiunte 900 segnalazioni delle carceri come “luogo del cuore” in una celebre campagna di sensibilizzazione; di molti architetti trentini, anche se formalmente l’Ordine non si è pronunciato; di autorevoli critici d’arte, tra i quali Mina Gregori, che parlò di “evento antistorico e imperdonabile”. Sempre secondo Dellai, invece, la struttura architettonica all’interno della cosiddetta “area Madruzza” risulta già ampiamente compromessa. Ma questa è, come ci dice la presidentessa regionale del Fai, Giovanna degli Avancini, una grossolana inesattezza. Il palazzo che ospita le carceri ha certamente bisogno di essere ristrutturato, ma è perfettamente intatto. L’intervento del 1967 colpì “solo” la corte d’Assise. Per quanto riguarda invece il trasferimento dei detenuti, è certamente stato doveroso, ma ciò non significa per forza demolire il luogo da cui essi si sono spostati. Le possibilità di utilizzo di un edificio simile sono moltissime. Ma è una questione di simboli, anche per Dellai. Demolizione significa anche rivendicazione dell’autonomia del Trentino, significa che le carceri non sono un monumento nazionale, ma sono proprietà esclusiva della Provincia. E in un’autonomia declinata come scellerata libertà di azione, nemmeno gli stessi trentini hanno voce in capitolo. “Oramai si è deciso”. È una storia di simboli, nel bene e nel male. Le carceri sono però patrimonio statale, appartengono all’Italia tutta. Il ministro della cultura Bondi avrebbe potuto (e dovuto) pronunciarsi su questa vicenda, ma una mozione di sfiducia lo attanagliava e non lo faceva dormire la notte. Per fortuna, gli amici si riconoscono nei momenti di difficoltà. E così ecco arrivare, in cambio di un dolce silenzio, qualche voto a sfavore della mozione al ministro, e il gioco è fatto. Poltrona salvata, carceri no. In questa vicenda c’è di tutto. Arte, politica, intrighi, accordi. Manca solo un pizzico di etica. Le tracce del passaggio di Schaden non si trovano solo a Trento: edifici da lui progettati, o da altri architetti nello stesso stile, sono disseminati in tutta quella parte d’Europa che nella seconda metà del XIX secolo era controllata dall’amministrazione dell’impero austro-ungarico. Da Fiume (oggi Reijka) a Lubiana, da Graz alla Polonia. Le sue opere sono il filo conduttore che lega tra loro città diversissime, sono testimonianze di una storia comune. Sono simboli necessari alla costruzione di un’identità Europea, senza la quale è e sarà impossibile proseguire il cammino verso una federazione di stati unita e coesa, in grado di affrontare difficoltà come quelle di questo periodo. La costruzione di un’identità collettiva richiede sforzi enormi, non bastano inni e bandiere. Ora, più di un tempo, gli sfrenati regionalismi non possono che nuocere. Gorizia: carcere escluso dal Piano di Ionta; il Sindaco Romoli scrive al ministro Alfano Il Piccolo, 5 marzo 2011 La necessità per Gorizia di avere un carcere adeguato, non fatiscente come quello di via Barzellini, è stata ribadita dal sindaco, Ettore Romoli, al ministro della Giustizia, Angiolino Alfano. “Caro Ministro Alfano, sono vere le indiscrezioni di stampa secondo le quali non c’è un euro per il nuovo carcere di Gorizia?”. Questo il tenore della lettera che nei giorni scorsi il sindaco ha scritto al Ministro della Giustizia, Angiolino Alfano. Gorizia ha bisogno di un carcere perché quello esistente è in condizioni ormai degradate. Ma pare che il governo si sia dimenticato di finanziare quello nuovo. Inoltre, se dovesse andare in porto il trasloco della Questura all’ex scuola Pitteri, ecco che con Tribunale, Procura e un carcere nuovo si creerebbe un funzionale centro dedicato alla sicurezza dei cittadini. Scrive Romoli ad Alfano: “Giorni fa, sulla stampa locale, sono comparsi gli interventi di alcuni rappresentanti sindacali i quali, facendo riferimento alle condizioni fatiscenti della Casa circondariale di Gorizia, hanno evidenziato come l’attuale Piano-carceri non contempli nessuna forma di finanziamento per la risistemazione della struttura isontina. Mi permetto pertanto di rivolgermi a Te al fine di ottenere una conferma, o eventualmente una smentita, in merito a queste dichiarazioni, così da poter fornire alle parti interessate informazioni certe e attendibili. Qualora il Piano-carceri, come denunciato, non preveda di fatto alcuna disponibilità finanziaria da dedicare a Gorizia, Ti prego di farmi sapere quanto prima se, a Tuo parere, ci potrebbero essere dei margini di recupero di tale situazione, così da individuare eventuali forme di intervento da porre in essere nei modi e nei tempi ritenuti più consoni. Non mi sento, tuttavia, di nasconderTi che l’esclusione di Gorizia dal Piano nazionale mi lascerebbe stupito e alquanto sconcertato, soprattutto in considerazione del fatto che, nei mesi passati, le istituzioni locali sono state sollecitate ad attivarsi al fine di trovare una soluzione concreta al problema (ristrutturazione dell’immobile di via Barzellini oppure individuazione di un sito adeguato ove trasferire ex novo la struttura carceraria): proprio in tale contesto, i miei contatti con il Prefetto di Gorizia sono stati numerosi e sempre orientati a scelte funzionali e realizzabili con il più ampio consenso possibile della cittadinanza. Ti confermo di essere ancora fermamente convinto che Gorizia, in qualità di capoluogo dell’Isontino, non possa e non debba assolutamente privarsi della sua struttura carceraria, la quale deve però, al tempo stesso, poter garantire ai detenuti e agli operatori che in essa lavorano dignità e adeguate condizioni di sicurezza... vincoli, questi, che oggi risultano essere del tutto disattesi. Pescara: Garante dei detenuti; proroga a Nieddu, ma a cinque 5 da istituzione ancora senza ufficio Ansa, 5 marzo 2011 Il consigliere Michele Di Marco, oggi, ha presentato, in consiglio, una mozione memore della delibera n. 162/05, che istituiva “la figura del garante delle persone private della libertà personale al fine di promuovere una funzione di vigilanza e osservazione indiretta, l’esercizio dei diritti, opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali”. La nomina si prevedeva fosse affidata a persona di prestigio e l’incarico fu affidato all’Avv. Nieddu. Di Marco ha fatto presente che a tutt’oggi, però, non è stata rispettata l’esecutività della delibera, per ciò che riguarda l’artt. 5 e 6, che prevedono la messa a disposizione di un locale da adibire a ufficio nella struttura comunale “comprensiva degli strumenti di lavoro, nonché le indennità e rimborsi spese a favore del garante”. Così si è deliberata la proroga dell’incarico da Garante dei detenuti a favore di Nieddu e l’esecutività agli artt. 5 e 6. Su 25 consiglieri presenti, 23 hanno votato sì. Di Nisio ha sottolineato, “bisogna fare di più per i detenuti” e Alessandrini ha ricordato, “il carcere deve essere solo l’extrema ratio”. Augusta (Sr): Osapp; detenuto evade dal carcere, situazione insostenibile Il Velino, 5 marzo 2011 Un contingente di circa cinquanta di uomini della polizia penitenziaria di Augusta è impegnato da questo pomeriggio in una vasta battuta del territorio alla ricerca di un detenuto di origine sarda che sarebbe riuscito a tagliare la corda. Dalle 15 circa, infatti, non si hanno notizie di un recluso che era impiegato come lavorante esterno nella caserma del personale della casa circondariale di Augusta. Gli agenti, in cronica carenza di risorse e mezzi, stanno impiegando anche le proprie autovetture per attuare le ricerche dell’evaso. A darne notizia è Mimmo Nicotra, vice segretario generale dell’Osapp, sindacato della Polizia Penitenziaria. “Ad Augusta - ricorda - l’organico degli agenti è in difetto di almeno 140 unità”. Il detenuto stava scontando una pena per la quale avrebbe dovuto trascorrere ulteriori cinque anni dietro le sbarre. L’evasione, secondo gli esponenti sindacali, sarebbe stata facilitata da un tratto della recinzione rotto che l’uomo avrebbe scavalcato. Una situazione di pericolo che, ribadisce l’Osapp, era già stata denunciata in altre due occasioni. “Pochi giorni fa - dichiara Mimmo Nicotra - alla presenza del Capo del Dap abbiamo rappresentato la grave difficoltà della Sicilia orientale. Che delle 518 unità carenti in Sicilia se ne contano circa 400 tra le carceri di Messina, Catania, Siracusa.” Una manifestazione di protesta è stata annunciata nei prossimi giorni ad Augusta per evidenziare il grave stato di sofferenza in cui si trovano gli istituti di pena siciliani ed in particolare quello megarese, dove alla penuria di organico si associa il sovraffollamento della popolazione detenuta. Un pericoloso mix che mette a repentaglio l’incolumità degli stessi reclusi e degli agenti che operano all’interno delle strutture carcerarie. Perugia: è ai domiciliari ma va su Facebook, arrestato da polizia e riportato in carcere Ansa, 5 marzo 2011 Ai domiciliari per spaccio di droga e con il divieto di comunicare con l’esterno, un romeno di 24 anni è stato sorpreso su Facebook dalla polizia di Città di Castello (Pg) e quindi arrestato. In particolare gli agenti hanno accertato che il giovane si scambiava messaggi (comunque non dal contenuto illecito) sul social network. È stata così informata l’autorità giudiziaria che ha disposto nei suoi confronti la sostituzione degli arresti domiciliari con la custodia cautelare in carcere. Quindi l’arresto. Como: detenuto straniero vuole vedere i figli ma non ottiene risposta; aggredisce e ferisce agente Agi, 5 marzo 2011 Voleva vedere i figli, una richiesta che aveva fatto diverse volte e che a fronte del solito modulo da compilare senza ottenere soddisfazione ha perso la pazienza. Sarebbe questa la motivazione che avrebbe indotto l’altro giorno un detenuto straniero ad aggredire un agente della Polizia penitenziaria nel carcere del Bassone di Como ferendolo, non gravemente, a una spalla e tentando anche di colpirlo con una lametta. Oggi l’uomo è comparso in Tribunale a Como per il processo con rito direttissimo. Per lui l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale. Il suo avvocato ha però chiesto i termini a difesa ottenendo lo spostamento dell’udienza a mercoledì prossimo. L’episodio, che si aggiunge ad un’altra aggressione ad altri due agenti nei giorni precedenti, ha riproposto il problema del sovraffollamento della casa circondariale situata nella piana di Albate e della carenza perenne di personale. Il carcere di Como è nato per ospitare 175 detenuti. In un secondo momento, tramite un decreto legislativo, la capienza fu innalzata a 400. Ora gli ospiti sono circa 600. Firenze: disoccupato spacca vetri banca; voglio andare in carcere per avere vitto e alloggio… Adnkronos, 5 marzo 2011 Ha spaccato a martellate i vetri di una banca, con la precisa volontà di essere arrestato, perché almeno - così ha detto ai carabinieri - avrebbe avuto vitto e alloggio garantiti. Protagonista un 28enne di Trapani, disoccupato, che ieri sera ha preso un martello e ha infranto le vetrate di un istituto di credito in viale Talenti, a Firenze. Poi, ha segnalato il suo gesto al personale di un pub. Sul posto sono intervenuti i carabinieri, che hanno arrestato il 28enne, esaudendo così di fatto la sua volontà. L’uomo ha detto ai militari che era partito qualche giorno prima da Trapani, poi di essere andato a Roma, e di essere arrivato ieri a Firenze, senza soldi. Per lui, senza denaro e senza lavoro, il carcere rappresentava una sorta di posto sicuro in attesa di tempi migliori. Teramo: Forza Nuova; usare detenuti per spalare fango, soprattutto rom e stranieri Ansa, 5 marzo 2011 “Considerata la carenza di mezzi e di uomini per togliere il fango dalle strade della provincia teramana chiediamo se non sia il caso di affrontare la questione con estrema razionalità e decisione costituendo una speciale task-force formata dai detenuti (soprattutto rom e stranieri) rinchiusi nel carcere di Castrogno che potrebbero sopperire a tali deficienze”. È la proposta di Marco Forconi, segretario provinciale Forza Nuova Teramo. “Come è giusto il fatto che i detenuti abbiano il diritto e la possibilità di essere reinseriti in un normale contesto civile un volta scontata la loro pena - prosegue Forconi - ritengo altrettanto doveroso, da parte degli organi amministrativi ed istituzionali, premiare coloro che, durante il corso della propria detenzione, si siano particolarmente distinti in attività sociali d’alto valore civico”. Medio Oriente: imprenditore palestinese torturato nelle carceri dell’Anp Infopal, 5 marzo 2011 Un imprenditore dalla doppia cittadinanza statunitense-palestinese è stato torturato crudelmente mentre si trovava nelle carceri dell’Anp: lo riferiscono fonti del Palestinian information center (Pic). Si tratta di Idris Hajja, 46 anni, del nord di Gerusalemme, cui sono stati frustati i piedi e somministrate diverse percosse al volto nel carcere di Byutiya, gestito dalle milizie di sicurezza dell’Anp. Prima del suo ultimo periodo di reclusione, circa un mese fa, Hajja era stato rilasciato dopo altri otto mesi di prigione, durante i quali aveva subito il processo della corte marziale ed era stato assolto dalle accuse rivoltegli. I familiari del prigioniero hanno contattato l’ambasciata Usa a Gerusalemme per intervenire a favore del rilascio di Hajja.