Giustizia: il giudizio si aspetta in carcere, ecco uno dei motivi del sovraffollamento di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 4 marzo 2011 La custodia cautelare è sempre più utilizzata quale forma di pena anticipata. Alla data del 31 gennaio 2011 secondo i dati della Giustizia sono infatti 14.351 i detenuti in attesa del primo giudizio ristretti nelle 208 carceri italiane. Un numero impressionante che è la prima causa del sovraffollamento carcerario. Se a loro inoltre andiamo ad aggiungere i 7.926 appellanti e i 4.768 ricorrenti in Cassazione i numeri divengono ancora più esagerati. Vi è infatti un surplus di detenuti pari a circa 23 mila unità (68 mila detenuti per 45 mila posti letto) che sarebbe ben risolto se alla custodia cautelare i giudici preferissero di routine gli arresti domiciliari. Gli imputati - presunti innocenti sino a prova contraria - sfiorano addirittura il 43% della popolazione detenuta. Ci sono regioni come la Campania, ove i detenuti sotto processo sono in numero superiore a quelli condannati in via definitiva. La recente legge sulla detenzione domiciliare ha al momento lasciato inalterata la condizione di affollamento. Per ragioni varie - assenza di risorse, assenza di domicili certi, lentezze procedurali - sono usciti poco più di mille detenuti contro le settemila unità previste dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il sovraffollamento è particolarmente allarmante in alcune carceri. Nei seguenti istituti abbiamo addirittura un numero doppio di carcerati rispetto alla capienza regolamentare: Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Busto Arsizio, Castelvetrano, Castrovillari, Lecce, Locri, Milano San Vittore, Mistretta, Modena, Piacenza, Ravenna, Reggio Calabria, Reggio Emilia, Rovereto, Treviso, Verbania, Venezia Santa Maria Maggiore, Vicenza. Solo a Napoli Poggioreale vi sono oltre 2.550 detenuti, quasi un paese di medie dimensioni. Il 36% della popolazione reclusa è composta da stranieri. Una percentuale cresciuta di dieci punti nell’ultimo decennio e di oltre venti negli ultimi vent’anni. Il 37,4% dei detenuti stranieri proviene dal Maghreb. Le altre comunità più rappresentate sono quelle rumene e albanesi. Gli stranieri commettono reati proporzionalmente meno gravi rispetto agli italiani. Si pensi che il totale degli ergastolani è pari a 1.512 detenuti. Gli stranieri condannati alla pena perpetua sono invece solo 55, ossia poco più del 3%. Gli stranieri sono principalmente dentro per reati contro il patrimonio, per violazione della legge sulla droga e sull’immigrazione. Sono solo 72 coloro i quali hanno imputazioni o condanne per associazione a delinquere di stampo mafioso. Passando invece a dati relativi alla composizione sociale vediamo che i detenuti laureati sono ben pochi, ossia 661, un numero di gran lunga inferiore agli analfabeti. I detenuti di origine del Nord sono quasi il 15% del totale. Mai stati così tanti nella storia penitenziaria italiana. Si pensi che nel 2001 i detenuti nati in Lombardia erano poco più di un terzo rispetto a quelli nati in Campania. Oggi sono pochi di meno. Crollano le presenze di detenuti pugliesi, campani, calabresi, siciliani, sardi. Per quanto riguarda le misure alternative, sono circa 17 mila coloro i quali stanno scontando l’affidamento in prova al servizio sociale, poco meno di 2 mila i semiliberi, circa 13 mila le persone in detenzione domiciliare. Gli stranieri sono meno del 10% del totale. La condizione di irregolarità fa sì che essi usufruiscano meno delle misure alternative alla detenzione rispetto agli italiani a parità di reato commesso e di pena inflitta. Le revoche delle misure alternative per nuovi reati commessi durante l’esecuzione della misura sono statisticamente insignificanti, ossia meno dello 0,5%. Giustizia: garantisti a senso unico… di destra e di sinistra di Luigi Manconi L’Unità, 4 marzo 2011 Probabilmente Nicola Porro, vice direttore del Giornale, non lo sa, ma il suo articolo del 2 marzo mi invita a nozze. Il pretesto è la richiesta di autorizzazione all’arresto per il senatore del Partito democratico Alberto Tedesco, coinvolto nelle indagini sulla sanità pugliese. Secondo Porro il Pd deve votare contro l’autorizzazione: non è accettabile, infatti, che "i processi si celebrino in carcere", dal momento che "in un paese civile non si può e non si deve tollerare l’abuso della carcerazione preventiva". In altre parole, la mancata autorizzazione all’arresto equivarrebbe a "un impegno perché la presunzione di innocenza resti un caposaldo del nostro sistema e perché il carcere ci sia, ma solo a sentenza definitiva". Parole sante. Nella mia esperienza di parlamentare ho votato contro la richiesta di arresto anche in qualche circostanza molto difficile, per le ragioni esposte da Porro e per un’altra ancora: perché la custodia cautelare non avrebbe offerto alcun contributo a una maggiore efficacia delle indagini. E si sarebbe risolta in una mera misura afflittiva. Dunque, perché infliggerla prima dell’eventuale condanna? E tuttavia l’apparente buonsenso delle parole di Porro, che pure tanta ostilità suscitano in parte della sinistra, contiene un’insidia, dietro la quale si cela una truffa colossale. E proprio là dove si dice che la carcerazione preventiva va evitata "per il ricco e potente, come per l’invisibile". Probabilmente mi sono distratto, ma non ricordo un (un solo) articolo del Giornale a tutela di un (un solo) "invisibile". Non parlo di Porro, che personalmente non conosco, ma il comportamento del Giornale e di gran parte della destra italiana è stato e resta univocamente teso alla mobilitazione ideologica contro gli "invisibili"; e indefessamente a favore di tutte le norme, le politiche, i dispositivi d’autorità che riducono, quando non azzerano, diritti e garanzie degli "invisibili". Nei confronti di migrati e profughi, poveri cristi e tossicomani il Giornale è stato schiettamente e coerentemente giustizialista e forcaiolo. Non è stato il solo, certo, e il giustizialismo ha trovato e trova largo ascolto anche a sinistra. Ma in questo campo ciascuno parla e risponde per sé. E per quanto mi riguarda, a proposito di Silvio Scaglia e dei suoi colleghi, ho scritto, ho fatto iniziative pubbliche, mi sono dato da fare come so e posso. È grottesco dover rivendicare ciò che, sul piano politico, è niente più che un dovere, ma francamente le lezioni di garantismo esigono cattedre al di sopra di ogni sospetto. Non mi sembra di aver mai letto, sul Giornale, una sola perplessità a proposito della classificazione dell’immigrazione irregolare come fattispecie penale; o un qualche dubbio sugli standard di tutela delle garanzie all’interno dei Centri di identificazione ed espulsione; o sul confine tanto esile da risultare impercettibile, e fonte di abusi, tra uso personale di sostanze stupefacenti e attività di piccolo spaccio. E nemmeno una inchiesta sul sistema penitenziario italiano e sulla frequenza di suicidi tra i detenuti (17 - 18 volte maggiore della frequenza di suicidi nell’intera popolazione). Va da sé il discorso appena fatto può essere perfettamente rovesciato. A sinistra - con la sola eccezione dei radicali e di pochi altri - si è rispettosi (moderatamente, per la verità) delle garanzie del sistema penale per i soggetti senza risorse e per gli strati deboli, ma per nulla rispettosi quando quelle garanzie vengono rivendicate dai "mostri" (ieri Cesare Previti oggi Silvio Berlusconi). Questa speculare faziosità e questo vicendevole settarismo rischiano di rinviare all’infinito l’acquisizione di un’autentica consapevolezza garantista come cultura condivisa e orientamento diffuso. È un limite non di poco conto. I ceppi che si stringono intorno ai polsi di qualcuno sono un accadimento in qualche misura inevitabile nella nostra organizzazione sociale. Ma se non mirano a bloccare chi rappresenti una minaccia attuale e immanente, quei ceppi devono sempre essere guardati con preoccupazione e utilizzati con parsimonia: tanto più se fossero accompagnati da urla di giubilo e gridolini di piacere. In altre parole: Silvio Berlusconi è un avversario politico (posso arrivare a dire: è "il nemico assoluto" se inteso in termini incruenti) ma lo è fin tanto che sia in grado di nuocere. Una volta in ceppi è solo un pover uomo privato della libertà. Giustizia: nelle carceri si continua a morire tra l’indifferenza di Giuseppe Conti (vice presidente Unione Camere Penali Italiane) La Nuova Sardegna, 4 marzo 2011 Ho seguito con particolare interesse l’iniziativa promossa dalla Cgil nuorese sulla politica penitenziaria non foss’altro perchè vi ho partecipato in qualità di relatore. In quella interessante occasione ho avuto modo di ascoltare l’autorevole opinione del Dr. Ionta, numero uno del Dap, che ha sostenuto l’impermeabilità dell’i sola alle infiltrazioni mafiose e quella dell’On.le Guido Melis che sul punto ha manifestato serie e condivisibili perplessità. Mi limito ad osservare che da quando il Dr. Ionta ha consumato la sua esperienza di Pm a Nuoro è passato troppo tempo e, probabilmente, la sua pur rispettabile opinione pecca di ottimismo per via di un ricordo romantico della nostra terra e del carattere "duro e fiero" del popolo sardo, come lo ha benevolmente definito. Occorrerà piuttosto riflettere sul fatto che in questi ultimi 30 anni il popolo sardo così come la mafia e il terrorismo hanno subito profondi cambiamenti. Ma non è di questo che vorrei occuparmi. Mentre si discute del complesso rapporto fra territorio e sicurezza o sulle ipotizzate ricadute conseguenti la presenza di uno o più detenuti sottoposti al 41-bis, leggo una serie di notizie che somigliano ad un bollettino di guerra: romano, trentasettenne, detenuto in attesa di giudizio per ricettazione, si impicca con il lenzuolo alle sbarre della cella; detenuto romeno si uccide utilizzando i lacci delle scarpe; detenuto per spaccio di stupefacenti di 31 anni si toglie la vita nella sua cella utilizzando un sacchetto di plastica; gli agenti della polizia penitenziaria, in servizio presso il super carcere "Le Costarelle" di Preturo a L’Aquila, svolgono indagini per appurare i motivi che hanno spinto un calabrese, detenuto in regime di 41-bis, a togliersi la vita. Potrei continuare ma preferisco fermarmi giacché il trend dei suicidi resta in linea con quello del 2010, quando a togliersi la vita furono 66 detenuti; quando furono 1134 i tentativi di suicidio e quando si consumarono circa 5600 episodi di autolesionismo. Una persona normale, a questo punto, si domanderà come mai nello scorso anno si è tolto la vita un detenuto ogni 5 giorni e come mai nel 2011 i morti sono già 26, 10 i suicidi, tutti giovani al di sotto dei 35 anni. Non sarà per via del fatto che la maggior parte dei reclusi vive in condizioni igienico-sanitarie da terzo mondo? O perchè esasperati dal dover trascorrere nell’ozio 22 ore chiusi in pochi metri quadrati magari facendo i turni con i compagni di cella per scendere dalla branda a sgranchirsi le gambe? Non sarà che sono stanchi di consumare il pasto a pochi centimetri dalla "turca", quando non si riesce più a distinguere dagli altri odori quello della minestra? Questo, appena accennato, è il regime di detenzione normale. Altro è quello speciale, il carcere "duro", quello che le forze politiche fanno a gara per realizzarlo sempre più "duro", dove il detenuto è ridotto ad uno zombie, in stato di vita apparente. Preso atto dell’i nsopportabile sovraffollamento e delle condizioni bestiali nelle quali vive la maggior parte dei detenuti italiani, sin dal gennaio dello scorso anno è stato proclamato lo stato di emergenza e, constatato che nelle carceri i detenuti continuano a morire, con proroga a tutto il 2011. Per fortuna c’è il "Piano Straordinario d’interventi di Edilizia Penitenziaria" già varato nel 2009 anche se mal si concilia con quella quarantina di istituti sparsi per il bel Paese, già costruiti e mai utilizzati. Ove quest’ultima soluzione non dovesse funzionare così come in passato, attendiamo di verificare i benefici della recente legge c.d. "svuotacarceri" anche se a tutt’oggi, fra preclusioni e requisiti vari, non ha svuotato proprio niente. Settecento detenuti su 70.000 circa (poco più dell’1%) avrebbero beneficiato di quello che altrettanto improvvidamente è stata definita dall’opposizione un "indulto mascherato". Tutto ciò è sufficiente per spiegare la ragione per la quale il dibattito sul rapporto fra territorio e sicurezza non riesce ad appassionarmi? Giustizia: Cassazione; detenuto gravemente malato va sempre ricoverato in ospedale www.cassazione.net, 4 marzo 2011 Non conta se le esigenze cautelari sono eccezionali: il detenuto va ricoverato agli arresti in ospedale nel caso in cui non ci sia un carcere attrezzato per assisterlo nella sua malattia, purché la malattia sia grave. Lo precisa la Sentenza n. 8493 del 3 marzo 2011, emessa dalla sesta sezione penale della Cassazione. Accolto il ricorso dell’indagato per traffico internazionale di stupefacenti: non c’è accusa che tenga di fronte ai principi della convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). In base all’articolo 275 comma 4 ter Cpp il giudice ha l’obbligo, e non la mera facoltà, di disporre il trasferimento del detenuto agli arresti in clinica ospedaliera in presenza di una malattia che non si può curare adeguatamente nell’ordinario regime carcerario. L’alternativa è la reclusione in una struttura penitenziaria che sia idonea e spetta comunque al giudice valutare le condizioni, non risultando sufficienti le determinazioni della direzione sanitaria e amministrativa del carcere. Il magistrato, naturalmente, può richiedere il contributo conoscitivo rappresentato da esami diagnostici e indagini medico - legali. Insomma: il ricovero nella casa di cura può essere escluso soltanto laddove emerge che nel circuito penitenziario il recluso può ottenere la somministrazione delle terapie di cui ha bisogno. Giustizia: la legge sulle detenute madri verso l’approvazione in occasione dell’8 marzo Dire, 4 marzo 2011 Con la norma al vaglio del Senato le mamme con bimbi fino a 6 anni, se imputate, non potranno essere sottoposte a custodia cautelare in carcere, "salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza". E in quest’ultimo caso si può predisporre la custodia in istituti a "custodia attenuata" (che però scarseggiano). Per le condannate è prevista la possibilità, di scontare un terzo della pena ai domiciliari o in istituti di cura o a custodia attenuata purché non abbiano commesso particolari delitti (per esempio quelli connessi alla criminalità organizzata). Ma i Radicali criticano la legge: "Troppa fretta - dicono - nella discussione. Il testo, così come si presenta oggi non introduce grandi novità per via delle modifiche restrittive al testo originario che rischiano di vanificarne i contenuti innovativi e lasciare più o meno invariato il numero di bambini incarcerati con le loro mamme". Si parla di 70 bambini almeno. Giustizia: Sappe; i nuovi padiglioni previsti dal Piano carceri destinati a rimanere chiusi Dire, 4 marzo 2011 Manifestazione nazionale l’8 marzo. Mancano 6.500 agenti in Italia, 650 solo in Emilia - Romagna. Durante (Sappe): "Le nuove assunzioni annunciate dal ministro serviranno per sopperire alle carenze delle strutture esistenti". Dopo l’avvio del Piano Carceri, avvenuto il 28 febbraio a Piacenza, il segretario generale aggiunto del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), Giovanni Battista Durante, commenta le 1.800 nuove assunzioni annunciate dal ministro in quell’occasione. "Erano previste dalla legge 199, la cosiddetta legge Alfano - afferma. Ora aspettiamo il finanziamento". Ma Durante sottolinea anche come "questi nuovi agenti non serviranno certo per i nuovi padiglioni in via di costruzione, ma piuttosto per sopperire alle carenze di organico delle strutture già esistenti" e, oltre ad annunciare una mobilitazione nazionale per l’8 marzo, dichiara: "Come sindacato non permetteremo l’apertura di nessun nuovo padiglione fino a quando non si sarà raggiunto il numero di agenti necessario per far funzionare al meglio quelli vecchi". Maurizio Serra della Fp/Cgil di Bologna auspica che "partano al più presto i corsi di formazione per far sì che queste 1.800 unità si concretizzino in agenti nelle qualifiche necessarie per il funzionamento delle carceri". Resta da capire poi in che modo questi agenti verranno distribuiti sul territorio. Per quanto riguarda l’Emilia - Romagna, afferma, "le criticità maggiori sono a Bologna, Piacenza e Forlì". Il Piano Carceri, approvato dal ministro della Giustizia Alfano, prevede la costruzione di 20 nuovi padiglioni in tutta Italia per un costo di circa 11 milioni di euro l’uno. Quelli previsti in Emilia - Romagna sono 5 (Bologna, Reggio Emilia, Ferrara, Modena e Piacenza) che ospiteranno mediamente 200/300 detenuti e richiederanno 50 agenti l’uno. Sono 250 agenti che vanno a sommarsi ai 650 che, secondo i dati del Sappe, mancano in regione (in tutta Italia ne mancano 6.500). "Se a questi si aggiungono i 100 agenti necessari per le due strutture di Rimini e Parma, già pronte ma chiuse per mancanza di personale - ricorda Durante - arriviamo a 1.000 agenti nella sola Emilia - Romagna". Per quanto riguarda Bologna, Maurizio Serra indica un altro elemento importante rispetto al numero di agenti. "C’è una discrepanza tra il personale in organico e quello materialmente in servizio alla Dozza - spiega - visto che sono almeno 140 gli agenti distaccati in altre attività o istituti". L’incontro avuto il 28 febbraio dai sindacati (compresa la Cgil) con il Prefetto di Bologna, Angelo Tranfaglia, era anche finalizzato a fare in modo che alla Dozza si possa ritornare a una dotazione organica piena. "Il prefetto si è impegnato a sensibilizzare le istituzioni rispetto ai distacchi - precisa Serra - e, a meno che non siano giustificati da condizioni di vita o salute, a ripristinare i numeri della dotazione organica: per la Dozza sarebbe una boccata d’ossigeno". I nuovi padiglioni previsti dal Piano Carceri serviranno a ridurre il sovraffollamento delle carceri italiane? Secondo Maurizio Serra, in realtà, sarebbe opportuna un’analisi della popolazione carceraria perché, "una fetta consistente dei detenuti alla Dozza, è tossicodipendente o dentro per reati legati alla tossicodipendenza - chiarisce - rispetto ai quali le misure alternative avrebbero una valenza maggiore di recupero, oltre a favorire un miglioramento della vita all’interno del carcere". Serra sottolinea anche che "come Cgil non vediamo con sfavore il ricorso alle misure alternative perché ciò non si tradurrebbe in uscite generalizzate, come spesso si paventa, ma in misure più adeguate". Ne è convinto anche Giovanni Battista Durante, che aggiunge, "favorire l’esecuzione penale esterna e il lavoro dei detenuti è un passaggio fondamentale - spiega - Non bisogna strumentalizzare l’opinione pubblica facendo credere che in carcere c’è maggiore sicurezza perché se poi non si garantisce la rieducazione del detenuto, è probabile che questo quando esce torni a delinquere". Giustizia: dalle prigioni si comunica con Facebook? no, è solo l’ultima leggenda metropolitana di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 4 marzo 2011 "Su Facebook messaggi da e per il carcere", "Altro che pizzini e messaggi in codice... dal carcere ora si comunica con Facebook". Questo hanno scritto rispettivamente Stefano Piedimonte sul Corriere del Mezzogiorno del primo marzo e, facendogli eco quasi alla lettera, Floriana Rullo su Affari Italiani un paio di giorni dopo. Loro basano queste affermazioni sul fatto che alcuni commenti pubblicati nella pagina del gruppo di Facebook "La mia vita rubata dalla giustizia" sembrano partiti da persone ristrette in qualche prigione. Un uomo in particolare, il cui nickname è Ciro, avrebbe comunicato il seguente messaggio: "Ho già fatto due anni e un mese e devo ancora scontare tre anni e sei mesi, ma c’è gente che sta peggio di me…(…)". Questa frase dimostrerebbe l’esistenza di rapporti d’interazione comunicativa fra carcerati e iscritti al social network, ma non è stata letta con attenzione e quindi non si è capito come stanno veramente le cose. In realtà, avendo superato un quarto della pena detentiva, Ciro ha sicuramente mandato quel messaggio mentre stava fuori dal carcere, ad esempio durante un permesso premio. Secondo il quarto comma dell’articolo 9 della legge Gozzini "La concessione dei permessi è ammessa: a) nei confronti dei condannati all'arresto o alla reclusione non superiore a tre anni anche se congiunta all'arresto; b) nei confronti dei condannati alla reclusione superiore a tre anni dopo l'espiazione di almeno un quarto della pena ovvero di dieci anni di essa nei casi di condanna all'ergastolo". Ciro in sostanza non si è reso autore di un fatto illegale ma qualcuno non è stato di questo avviso e, forse per questo motivo, ha spinto gli amministratori di Facebook a bloccare la pagina del gruppo che contava 20.311 persone all’inizio di gennaio. Per curiosità sono andato a vedere gli ultimi messaggi pubblicati nella bacheca di "La mia vita rubata dalla giustizia" e vi ho trovato preghiere alla Madonna, dediche astratte alla figura dei papà detenuti, foto di personaggi un tempo carcerati come Nelson Mandela e la pubblicità gratuita di una serie di racconti ben scritti da un detenuto. Ciò significa qualcosa di molto preciso: il gruppo era stato creato fuori dalle patrie galere e non poteva che essere composto nella quasi totalità da parenti e amici di detenuti e da persone sensibili ai temi della solidarietà verso dei soggetti svantaggiati come quelli detenuti. Puntava a promuovere una cultura in sintonia con quella del Vangelo secondo Matteo: "… io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi." Il gruppo di Facebook "La mia vita rubata dalla giustizia" non agiva al di fuori delle leggi e, per questo semplice motivo, chi l’aveva fondato ne ha potuto creare un altro, già condiviso da 9.459 persone e chiamato "La mia vita rubata dalla giustizia 2". Basta visitarlo per conoscere meglio la verità ed eliminare ogni pregiudizio. Il 2 marzo, ad esempio, nella sua bacheca un commentatore ha dichiarato: "siamo sul Corriere della Sera". Un altro ha voluto aggiungere: c'è un'inchiesta di come sia possibile che dal carcere si possa usare Internet. L'ho appena visto da Studio Aperto su Italia Uno". Poco dopo un giovane ha esclamato: "io sto agli arresti e sono stato detenuto. Apposta parlo!" Gli arresti a cui si è riferito quel giovane sono gli arresti domiciliari, una condizione nella quale lui può legalmente usare Internet! Tutto questo conferma in modo chiaro e limpido che su Facebook non ci sono mai stati messaggi da e per il carcere inteso in senso stretto. Chi ha pensato e pensa il contrario dovrebbe finalmente aprire gli occhi, ragionare col cervello prima di lanciare delle accuse e poi fare una riflessione autocritica per aver creduto all’ultima e più assurda fra le numerose leggende metropolitane. Giustizia: Angelo Provenzano; vi racconto mio padre… il boss malato Sette - Corriere della Sera, 4 marzo 2011 "I periti chiedono esami e terapie ma lo Stato non lo cura", dice il primogenito del capomafia, Che chiede "rispetto" ma parla di tradimenti segreti, di Riina e di un mafioso col pallino della filosofia. Parlare di mio padre? Provocherei solo altre inutili e ridicole polemiche. Tutto quello che dichiaro viene strumentalizzato, usato per fare proclami. E io non voglio essere usato da nessuno". Angelo Provenzano si siede con addosso ancora il giubbotto. Sbuffa, e accende la prima sigaretta. "Posso?", domanda, inspirando lentamente. Ha gli occhi azzurri del padre, gli stessi lineamenti marcati ed espressivi, la stessa corporatura. E il padre è Bernardo Provenzano, classe 1933, il boss di Cosa Nostra. L’appuntamento con il figlio maggiore del capo mafia corleonese è in via Libertà a Palermo. Nello studio dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, legale di Provenzano. Un incontro fissato dopo decine di telefonate, mail, sms... e confermato solo poche ore prima di un volo preso in tutta fretta per Punta Raisi. In quella via, e poco distante da quello studio legale, c’è una targa per ricordare Piersanti Mattarella, il presidente della Regione Sicilia ucciso in via Libertà il 6 gennaio del 1980. Totò Riina, Michele Greco e altri esponenti della cupola sono stati condannati all’ergastolo in quanto mandanti dell’omicidio. L’inchiesta, però, non è riuscita a identificare gli esecutori materiali del delitto né i presunti mandanti esterni. E Provenzano potrebbe aiutare, potrebbe fare piena luce su questo delitto e su tanto altro. Ma non ha mai parlato e a breve potrebbe non farlo più. Il boss corleonese è malato. "Per questo ho presentato nel 2009 un’istanza di scarcerazione, non perché lo vogliamo fuori, sia chiaro, quell’istanza è stata la via per chiedere una perizia medica", precisa Rosalba Di Gregorio, 58 anni, il legale che difende, con il collega Franco Marasà, Bernardo Provenzano dal giorno dell’arresto del boss, l’11 aprile del 2006. "Non avevamo altro modo per chiedere un’indagine medica e, adesso, c’è una perizia che dice che Provenzano sta male, molto male. Come sosteniamo da tempo. Ci sono voluti due anni e l’oncologo ha giurato lo scorso 2 febbraio, fra trenta giorni depositerà la sua relazione". Intanto c’è quella dei dirigenti di Medicina legale dell’Università di Ferrara, Francesco Avato, della Neurologia dell’Università di Pavia, Giuseppe Micieli, e dell’Urologia del San Raffaele di Milano, Francesco Montorsi. Al boss oltre a un’ischemia è stata riscontrata una "sindrome parkinsoniana". Non solo. I periti chiedono che venga eseguita al più presto una scintigrafia e soprattutto una terapia, "radio o chemio", Ci sono infatti alcuni valori che fanno pensare al ritorno del tumore alla prostata per cui Provenzano fu operato nel 2003, a Marsiglia. Tanto da far scrivere di una "prognosi non particolarmente favorevole a breve - medio termine (circa 2 - 3 anni)". Come dire, questo è quanto resta da vivere a Provenzano, se curato in tempo. Eppure la tanto contestata e oggi sbandierata istanza di scarcerazione dell’avvocato Di Gregorio è del giugno 2009. "Il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha ignorato per ben due volte le ordinanze del tribunale per il ricovero di Bernardo Provenzano in un centro clinico... ordinanze di ricovero disposte sulla base di una relazione sanitaria del carcere di Novara, dove il mio assistito è detenuto in regime di 41-bis. E oggi, dopo due anni e una perizia disposta dalla corte, abbiamo scoperto che l’ultima scintigrafia a Provenzano è stata fatta nel 2009 e che la recidiva di un tumore alla prostata non è più solo una minaccia. È per questo che formulo un legittimo dubbio: che interesse si ha, a qualunque livello, a che Provenzano muoia al più presto?". Angelo Provenzano, si alza, toglie il giubbotto e accende l’ennesima sigaretta. "Sia chiaro, io non chiedo niente. Curatelo se volete, altrimenti...". Altrimenti lasciatelo morire? Non arriva una risposta, ma solo uno sguardo diretto, duro. "Lo so cosa sta pensando, lo so perfettamente... lo sdegno lo sento, è quello di chi come lei crede che se lo meriti di morire così. Solo e non curato. Perché è Bernardo Provenzano. Non se lo aspettava che "prendessi colpo prima"?". Prego? "Prendere colpo prima, anticipare... da noi si dice così. Quello che mi dà fastidio è il meccanismo perverso attivato in Italia, non c’è più chiarezza nei ruoli, quello del carnefice e della vittima si invertono uno sull’altro, si confondono. Perché una cosa è lo Stato di diritto, un’altra la vendetta. Lo Stato deve punire chi non rispetta la legge ma ha il dovere di rispettare l’essere umano. Quando sento in televisione o leggo sui giornali dichiarazioni di vendetta da persone che rappresentano lo Stato noto una pericolosa inversione dei ruoli. Un rappresentante delle istituzioni deve garantire l’ordine non proclamare vendette". "E queste dichiarazioni, anche queste saranno travisate, interpretate", ribatte l’avvocato Di Gregorio. "Interpretate o no", continua Angelo Provenzano "poco importa, la realtà è che a fronte della Procura Generale, che ha incaricato un suo consulente, noi abbiamo scelto di non nominare un perito di parte. Questo per evitare interpretazioni varie ed eventuali. Al contrario di quanto è stato detto e scritto non è mai stata chiesta la scarcerazione per Bernardo Provenzano, ma solo che autorità competenti, assolutamente asettiche e obiettive, verificassero lo stato di salute di mio padre. Solo questo". C’è chi dopo le sue dichiarazioni l’ha accusata di non aver preso una posizione... Lei dovrebbe convincere suo padre a collaborare. "La posizione l’ho presa con quello che faccio. Le ricordo che né io né mio fratello abbiamo precedenti penali. Così come le ricordo che io non sono un giudice ma un figlio, e come tale ho solo dei doveri nei confronti di una persona che mi ha dato la vita". E si torna a quel discorso dei ruoli. E un figlio, anche se è il figlio del boss Provenzano, ha il dovere di rispettare quel ruolo. Solo quello. Eppure dovrebbe convincerlo a collaborare, almeno se lo ritiene colpevole... "Ho le mie teorie, preferisco non rispondere". Lo fa l’avvocato Rosalba Di Gregorio: "Se ritiene suo padre colpevole? Quando farà l’avvocato o il giudice e avrà studiato le carte ve lo saprà dire". Insisto. Dire a suo padre di pentirsi, in questa situazione politica... potrebbero le rivelazioni di Bernardo Provenzano mettere in difficoltà qualcuno? "Non posso rispondere. Questa è una domanda che va fatta a mio padre". Lei in passato ha indicato nei giudici Falcone e Borsellino due vittime della ragion di Stato... "Lo confermo e lo ribadisco". Ci sono dei pentiti e delle sentenze che hanno provato la responsabilità di suo padre e di Totò Riina nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio... "Lo so. Io leggerò quelle sentenze, lei vada a guardarsi la strage di Portella della Ginestra del primo maggio del 1947. Le mie sono solo ipotesi, non ho nessuna certezza, ma dico che quello stesso copione recitato così bene una volta può aver avuto altre repliche". I giudici Falcone e Borsellino sono stati uccisi dalla mafia. Anche da suo padre. "So che è stato condannato per questo. Non conosco le prove. Le posso dire che l’uomo che io conosco nel privato non è quello che viene descritto nelle sentenze e nelle carte processuali". Allora mi parli dell’uomo che conosce lei. Ha vissuto per sedici anni la latitanza di suo padre... "Quegli anni sono solo miei. Ho chiuso in cassaforte quel periodo della mia vita. Oggi so che era una latitanza. Spesso mi capitava di restare in casa per mesi. Non potevo aprire le finestre, non incontravo nessuno. Non parlavo con nessuno. La mia era una quotidianità falsata, una non vita. Ero in una sorta di gabbia, lontano dal mondo. Non è stata una villeggiatura di lusso come qualcuno immagina". In quegli anni ha però vissuto suo padre? "Sì, eravamo insieme. Mi ha insegnato a giocare a dama. Perché sorride? Ha imparato in carcere, e non c’era una scacchiera ma solo pedine bianche fatte con la mollica del pane e quelle nere passate nel lucido per le scarpe. L’ho costretto a giocare a dama tutte le sere, finché non l’ho battuto". Com’è suo padre, Bernardo Provenzano? "È dotato di un’integrità morale quasi islamica, ed è paradossale pensando a quello che c’è scritto nelle carte processuali. Io non ho mai visto istigazione alla violenza, anzi tutt’altro. Mi ha sempre detto: "Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te... Quello che vuoi ricevere dagli altri lo devi fare". Frasi che cozzano col mito della bestia Provenzano, della belva umana condannata a più ergastoli". Angelo Provenzano si ferma. Aspetta la prossima domanda. Di suo padre non vuole più parlare. Suo padre leggeva la Bibbia... "Non solo. Mio padre ha sempre letto libri di filosofia... ecco sì, mi sarebbe piaciuto vederlo in una sorta di "duello" filosofico... Un boss con la seconda elementare che legge i filosofi tedeschi, eppure è così. In lui c’è sempre stata una sorta di maniacale voglia di cultura, ci ha costretto a leggere, a imparare. A quattro anni e mezzo sapevo già leggere e scrivere. E me lo ha insegnato lui. E a sei ero obbligato a leggere tutti i giorni una pagina dello Zingarelli "perché era importante"... Vede, la biografia di mio padre andrebbe riscritta, parlare di lui significa parlare del terzo di otto figli, di un uomo che ha vissuto negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, costretto a lasciare la scuola e a vivere in una dimensione di assoluta miseria... Bisognerebbe contestualizzare il suo passato, la sua adolescenza". Mi scusi mala miseria e la povertà, il dopoguerra e tutte le difficoltà che vuole non possono giustificare le scelte e le azioni di suo padre. "Sul piano giudiziario provvede la magistratura, sul piano umano vorrei ricordare il suo passato e non per giustificarlo ma solo per spiegare quel contesto storico in cui è nata la mafia. Lei ha mai letto "I Beati Paoli" di Luigi Natoli? Quelli di mio padre erano gli anni del latifondismo, c’era il signorotto locale che si divertiva a opprimere, a schiacciare il popolino. Ed è da quel senso di ribellione che nasce la mafia. Una rabbia che si è evoluta in qualcosa di terribile. La mia è stata una sorta di ricerca storica al contrario, sono andato a riguardare mio padre e il fenomeno mafioso, e all’origine non poteva essere definito un fenomeno criminale, e non andava nemmeno trattato solo da un punto di vista giudiziario. In quegli anni c’era anche l’assenza dello Stato...". Ma oggi la mafia c’è ancora. Eppure lo Stato c’è, ed è presente anche in Sicilia. "Se vuole a questo le rispondo, ma a registratore spento". La trattativa fra Stato e mafia avrebbe portato all’arresto di Totò Riina. E a tradire sarebbe stato suo padre, Bernardo Provenzano. "Mio padre è in regime di 41-bis. Non ha avuto alcun tipo di sconto. E oggi non è neanche curato. Detto questo, la domanda deve farla a lui e non a me". Lei ha mai subito delle minacce? "No". Eppure Totò Riina sarebbe stato consegnato da suo padre allo Stato. Non ha paura che qualcuno decida di vendicarsi? "Le rispondo come prima. Quello che mi fa paura sono i fatti non le illazioni". Dopo i sedici anni di latitanza, lei, sua madre, Saverio Benedetta Palazzolo, e suo fratello, Francesco Paolo, siete andati a vivere a Corleone. Come si trova in quello che era il paese di suo padre? "Credo di essermi guadagnato la stima e il rispetto della gente. Ma solo per quello che sono io, per Angelo, e non per il cognome che porto". Quanto quel cognome Provenzano ha pesato nella sua vita? "Non solo ha pesato... ma pesa. Perché non è finita. Quando qualcuno mi dice che non ho il diritto di chiedere niente, significa che il mio cognome pesa. Pesa ancora. Che lavoro faccio? Rappresentante di vini... e non viviamo in una villa con piscina e maniglie in oro zecchino. No, non c’è nessun patrimonio segreto di Bernardo Provenzano. Se ha nascosto da qualche parte un tesoro a noi non lo ha comunicato". E Matteo Messina Denaro? "So chi è. Anch’io leggo i giornali". Angelo Provenzano si alza in piedi, riprende il suo giubbotto e saluta. Su quell’aereo che mi riporta a Milano, mentre gli assistenti di volo mostrano come gonfiare il salvagente con la cannuccia, nel caso in cui si precipiti da diecimila metri, penso a una delle tante domande che Angelo Provenzano ha fatto a me: "Perché il 41 - bis è stato istituito dopo la morte di Borsellino e non dopo quella di Giovanni Falcone? Perché hanno aspettato la strage di Via d’Amelio?". Già, perché? Lettere: una psicologa penitenziaria scive al Presidente della Repubblica di Cinzia Dini Ristretti Orizzonti, 4 marzo 2011 Gentilissimo Sig. Presidente, sono una psicologa penitenziaria e mi rivolgo a Lei per esprimerLe la mia profonda amarezza ed il mio senso di impotenza per la sempre più inumana situazione delle carceri italiane. Ho da poco appreso che l’Amministrazione Penitenziaria ha predisposto un nuovo taglio del 30% delle nostre ore, dedicate ai servizi psicologici per i detenuti: per risparmiare pochi spiccioli si privano in questo modo definitivamente i reclusi di ogni speranza. Vorrei che ciascun cittadino, ciascun politico immaginasse solo per un attimo cosa significhi essere rinchiusi in uno dei nostri Istituti. Immaginiamo di essere in un ambiente buio, umido, ghiaccio d’inverno o caldo asfissiante d’estate, sporco, degradato, se non fatiscente; di occupare spazi vitali compressi fino all’inverosimile, nella migliore delle ipotesi per 16-20 ore al giorno, nella peggiore per 22-24 ore al giorno; di essere senza denaro, senza il sostegno economico dei familiari, senza la possibilità di lavorare, almeno per procurarsi i beni primari come cibo decente, sapone per lavarsi, indumenti, asciugamani, e di essere quindi del tutto dipendenti dalle associazioni di volontariato per sopravvivere; di avere necessità di lavarsi e non poterlo fare, per l’acqua gelida o per essere fuori dagli orari prestabiliti per le docce. Saremmo animati - come lo sono loro - da una perenne smania di ascolto da parte degli operatori, educatori, agenti, medici, psicologi, un personale sempre troppo esiguo nel numero e in costante burn-out, costretto troppo frequentemente a deludere questa necessità primaria: ebbene, sperimenteremmo - come quotidianamente fanno loro - senso di abbandono, profonda frustrazione, disperazione, depressione, angoscia, fino a compiere atti autolesivi, gesti estremi di esasperazione, violenza. Caro Sig. Presidente, di carcere ci si ammala, di carcere si muore. Ci ammaliamo troppo spesso anche noi operatori, anche noi psicologi ed a fronte di un precariato mal retribuito e di un continuo svilimento da parte dell’Amministrazione Penitenziaria del nostro operato professionale. Un Paese civile dovrebbe dare piena attuazione all’art. 27 della nostra moderna ed illuminata Costituzione, nel fine ultimo del perseguimento del bene collettivo e della sicurezza sociale, perché si riducano i rischi di recidiva, che oggi sono altissimi: un detenuto che viene maltrattato, umiliato e privato della sua dignità non sarà migliore, svilupperà rancore per le Istituzioni e quando uscirà molto probabilmente tornerà a delinquere. Un Paese civile non può chiudere gli occhi di fronte ad un simile scempio, di fronte alla violazione sistematica dei fondamentali diritti umani e del dettato costituzionale. Questo carcere, purtroppo, temo sia lo specchio di Istituzioni malate, che stravolgono gli scopi sociali, nel perseguimento autoreferenziale di egoistici tornaconti e non del bene della collettività, collettività cui appartengono - ci piaccia o no - migliaia di esseri umani che, anziché essere aiutati a crescere, vengono sempre più lasciati senza sostegno ed opportunità, ammassati ad imputridire nell’inedia e nella disperazione. Convinta che il 17 marzo sia un momento importante per il nostro Paese, lo festeggerò proprio in quella galera, che di ‘patria’ ha ben poco, in cui sono fiera di lavorare, accanto a "fratelli d’Italia" - cittadini italiani, europei o del mondo - che spesso conservano, nonostante le loro vite travagliate e deragliate, trascorse nella sofferenza, nella malattia e nella marginalità sociale, molta più dignità, più rispetto e buon senso di chi ci governa. Marche: Sappe; carceri al collasso, sovraffollamento al 150% Il Resto del Carlino, 4 marzo 2011 L’allarme arriva dal sindacato degli agenti di custodia. Si registra anche un’emergenza stranieri, "pari al 43,5% nelle Marche". Ad Ascoli un sovrannumero di 12 carcerati. Sono al collasso, le carceri marchigiane. Nella nostra regione, secondo il sindacato degli agenti di custodia Sappe, ci sono 1.143 detenuti, di cui 33 donne, a fronte di una capienza di 773: "il 50% in più della capienza". Ancona ospita "il 120% di detenuti in più, Pesaro il 90%". Soprattutto un’emergenza stranieri: "sono 498 pari al 43,5%". Per il segretario regionale e consigliere nazionale del Sappe Aldo Di Giacomo, "le carceri italiane sono diventate solo una discarica sociale dove sistemare ogni tipo di recluso" con la conseguenza che "non sono più in grado di ricevere detenuti". I detenuti in attesa di giudizio sono 464, quelli con condanna definitiva 679". Ad Ancona, a fronte di una capienza regolamentare di 172 detenuti ne sono presenti 377, "il 120% in più di quelli previsti, di cui 212 in attesa di giudizio, 165 con condanna definitiva, 168 gli stranieri pari al 45%". Ad Ascoli Piceno "a fronte di una capienza regolamentare di 112 detenuti ne sono presenti 124, di cui 64 in attesa di giudizio, 60 condannati, mentre gli stranieri sono 42 (34%)". A Camerino "a fronte di una capienza regolamentare di 33 detenuti (8 donne - 25 uomini) ne sono presenti 52, di cui 9 donne, i detenuti in attesa di giudizio sono 28, i condannati 24 e gli stranieri 33, di cui 7 donne, pari al 63%". Mentre a Fermo "su capienza regolamentare di 45 reclusi, ne sono presenti 74, di cui 8 in attesa di giudizio e 66 condannati. Gli stranieri sono 39 (53%)". A Fossombrone, "capienza regolamentare 209 persone, sono presenti 143 detenuti, di cui 8 in attesa di giudizio e 135 condannati. Gli stranieri sono 13 (9%)". A Pesaro a fronte di una capienza regolamentare di 178 detenuti ne sono presenti 337, il 90% in più di quelli previsti. In detenuti in attesa di giudizio sono 144, i definitivi 193, gli stranieri 181 (54%). Secondo Di Giacomo "le situazioni peggiori ad Ancona e Pesaro, dove i detenuti sono quasi il doppio e gli stranieri sono altre il 50%". Calabria: nelle carceri situazione al limite della sopportazione fisica Gazzetta del Sud, 4 marzo 2011 "Ho accolto con vivo interesse l’invito dell’Ufficio del garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Reggio Calabria ad aprire un dibattito pubblico di sensibilizzazione sulle condizioni di vita all’interno degli istituti di pena del nostro Paese". È quanto afferma, in una nota, il segretario-questore del Consiglio regionale, Giovanni Nucera, facendo riferimento al convegno sul tema "Emergenza e carcere", che si è tenuto oggi nella sala Giuditta Levato di Palazzo Campanella. "È un dato acclarato, e non solo riscontrabile nella nostra città o in Calabria - aggiunge Nucera - che l’alto numero delle persone ristrette in carcere ha messo in crisi strutturale un sistema che ha forti significati sociali. Sui detenuti e sul personale di sorveglianza, che si vivono difficoltà oggettive, come il sovraffollamento, in parte mitigate grazie allo spirito di abnegazione con cui gli operatori lavorano, ho acceso più volte i riflettori. Tanti, infatti, sono stati i momenti in cui mi sono preoccupato di evidenziare una situazione che, nel tempo, è arrivata ai limiti della sopportazione fisica, che in alcuni casi è degenerata in violenza". "Il senso di responsabilità di ognuno di noi e delle istituzioni - dice ancora il consigliere regionale - deve dunque generare risposte quanto più possibile rapide non solo per questioni di sicurezza, ma soprattutto per quanto concerne i diritti e i doveri fondamentali di chi opera in quella realtà e di chi si trova ad espiare le proprie colpe". Il commento di Pamela Aroi, responsabile per la Calabria dell’Italia dei Diritti "La situazione delle carceri in Calabria si impone come un’emergenza e occorre adottare al più presto provvedimenti burocratici". Commenta con queste parole Pamela Aroi, responsabile per la Calabria dell’Italia dei Diritti, la condizione di sovraffollamento che regna all’interno del sistema carcerario calabrese. Il numero dei detenuti è stimato a 3.200, a fronte dei 1.900 posti di capienza previsti. Il contesto in cui si trovano a lavorare gli agenti di custodia non è dunque ottimale e ciò va a discapito della sicurezza stessa. "Tanto di lode alla polizia penitenziaria: lavorare in condizioni di stress non è facile e ha ripercussioni nella vita sia lavorativa che privata. Ma - prosegue l’esponente del movimento guidato da Antonello De Pierro, sono da tirare in ballo anche i diritti dei detenuti. Infatti, lungi dal perseguire la rieducazione di questi ultimi, di fatto vengono violati i loro diritti, non c’è privacy, non ci sono spazi, vengono a mancare le condizioni di tutela della persona. Il fenomeno ha due facciate, da una parte persiste la difficoltà di lavorare da parte degli operatori del carcere, dall’altra i detenuti versano in condizioni disagiate". Turni massacranti, straordinari non sempre pagati, aggressività dei carcerati e tentativi di sventare i suicidi degli stessi. Queste le conseguenze limite di un sistema su cui agire senza indugi. Pordenone: firmata l’intesa per la costruzione del nuovo istituto penitenziario Comunicato stampa, 4 marzo 2011 La nuova struttura ospiterà 450 detenuti e sostituirà l’attuale carcere del Castello. Ionta: l’Intesa raggiunta è un modello di concertazione istituzionale, risparmio di risorse ed efficienza pubblica Roma, 4 marzo 2011: il Commissario delegato per il Piano carceri, Franco Ionta, e il vicepresidente della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Luca Ciriani, hanno siglato oggi l’Intesa istituzionale per la localizzazione di una nuova struttura penitenziaria nella Città di Pordenone. La firma è stata siglata nella sede del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a Roma. Il nuovo carcere di Pordenone, che avrà un costo complessivo stimato di 40,5 milioni di euro, ospiterà 450 detenuti e sorgerà in località Comina. La Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, la Provincia di Pordenone e il Comune di Pordenone concorreranno finanziariamente alla realizzazione dell’istituto con 20 milioni di euro. Agli enti locali, come stabilito dall’Intesa, sarà trasferito il vecchio istituto penitenziario del Castello. L’area individuata per il nuovo carcere non necessita di varianti urbanistiche, è conforme dal punto di vista geologico e adatta anche da quello infrastrutturale, in quanto più idonea alla traduzione dei detenuti e agli spostamenti di parenti, legali e personale giudiziario. "La prima e necessaria risposta all’emergenza del sovraffollamento delle carceri - ha affermato il Commissario delegato - è aumentare nel più breve tempo possibile la capienza del sistema penitenziario. Il Piano carceri stabilisce la realizzazione, nei tempi rapidi previsti dalle disposizioni d’urgenza (legge 26 febbraio 2010, n. 26), di 9150 nuovi posti detentivi. Ma ha anche l’obiettivo ambizioso di determinare soluzioni innovative in merito alla complessa funzionalità dell’edilizia penitenziaria. A Pordenone la struttura esistente, costruita secondo vecchi canoni, non si adatta alle necessità di un carcere moderno, sia per quanto riguarda la dignità e l’attività di riabilitazione dei detenuti, sia per la sicurezza e il lavoro degli agenti di polizia penitenziaria. Per rendere la struttura funzionale sarebbe stato necessario demolirla e ricostruire tutto da zero. Grazie a questa Intesa, invece, sarà realizzato un istituto moderno ed efficiente, in una zona più idonea, e il vecchio carcere, in pieno centro cittadino, sarà ceduto agli enti locali che lo utilizzeranno per altre esigenze pubbliche. Un’operazione - ha concluso Franco Ionta - che rappresenta un modello di concertazione istituzionale, risparmio di risorse ed efficienza pubblica". "L’intesa firmata oggi a Roma - ha commentato il vicepresidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Luca Ciriani - permette di portare avanti con grande concretezza l’istanza locale della realizzazione del nuovo carcere. Si tratta di un passo importante verso il finanziamento dell’opera, per il quale questa firma rappresenta un prerequisito necessario. L’amministrazione regionale ha lavorato in stretta sinergia con il Comune e la Provincia di Pordenone per giungere a questo risultato: la localizzazione nella zona della Comina è il frutto non solo di una scelta politica, ma di una decisione condivisa, partita da un ordine del giorno votato all’unanimità dal consiglio comunale di Pordenone. Si apre ora una nuova fase, relativa alla tempistica per l’ottenimento dei finanziamenti necessari. La realizzazione del nuovo carcere di Pordenone è urgente e necessaria - ha detto ancora Luca Ciriani - e risponde a numerose necessità: oltre agli aspetti di sicurezza e di gestione, lo spostamento dei detenuti in una nuova struttura capace di garantire sistemazione adeguata, permette anche di liberare l’attuale struttura, il castello di Pordenone. La città si riapproprierà di un imponente e importante spazio pubblico, e spetterà alle amministrazioni locali, al Comune in particolare, individuare una nuova fruizione per l’intera area, a beneficio dell’economia locale e del turismo". Il Piano carceri, elaborato dal Governo per risolvere l’emergenza dovuta al sovraffollamento, prevede la realizzazione in tempi rapidi di 11 nuovi istituti penitenziari e di 20 padiglioni che garantiranno 9.150 nuovi posti detentivi, per un costo complessivo stimato di 675 milioni di euro. Il Piano stabilisce altre due linee d’intervento per stabilizzare il sistema penitenziario: misure giuridiche deflattive e l’implementazione dell’organico di Polizia Penitenziaria. Luigi Rossi Ufficio stampa del Commissario delegato per il Piano Carceri Verona: il Garante dei detenuti ha presentato la relazione sul primo anno di attività Ristretti Orizzonti, 4 marzo 2011 Il Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Verona, Margherita Forestan, ha presentato ieri, a Palazzo Barbieri, la relazione sul primo anno di attività. Presenti il presidente del Consiglio comunale Pieralfonso Fratta Pasini, il vicepresidente Fabio Segattini e la presidente della Commissione consiliare Servizi sociali Antonia Pavesi. "Il Consiglio comunale è orgoglioso di aver istituito questa importante figura - ha spiegato Fratta Pasini - che in poco più di un anno è riuscita a raggiungere risultati importanti e significativi per il carcere e le persone detenute ed è stata capace di coordinare gli obiettivi di associazioni e istituzioni che operano per il carcere. "Alla Garante va un ringraziamento particolare - ha detto Pavesi - per essersi messa a disposizione a titolo gratuito, allo scopo di mantenere vivi e costanti i rapporti tra la città di Verona e il mondo penitenziario". "Il lavoro svolto in questo anno all’interno della Casa circondariale di Montorio, ora anche di reclusione - ha spiegato Forestan - tenuto conto che le criticità sono quelle che troviamo in tutte le carceri del Paese, oltre che di mediazione continua, scopo primario, è stato finalizzato alla mitigazione, migliorando le condizioni igienico-sanitarie, intervenendo, grazie a contributi economici, sulle strutture e sugli impianti, promuovendo, per quanto possibile, una quotidianità più vivibile. Grazie al sostegno del Comune e di numerose realtà del territorio è stato possibile realizzare una serie di interventi indispensabili volti a migliorare l’informatizzazione dei servizi amministrativi, degli ambulatori interni dell’Ulss 20, alla miglior gestione e conservazione dei generi alimentari, all’igienizzazione del carcere con derattizzazione e ripulitura di alcune aree nonché l’imbiancatura di tutte le parti comuni, un lavoro svolto dagli stessi detenuti. Il mio obiettivo futuro - ha concluso la Garante - sarà quello di riuscire a coinvolgere tutte le Istituzioni presenti sul territorio, affinché considerino la popolazione del carcere di loro competenza, persone delle quali occuparsi e preoccuparsi. Attenzione, coinvolgimento, inclusione sociale, tutto ci deve portare alla possibilità di usufruire di pene alternative al carcere. Questi, in sintesi, i numeri che hanno caratterizzato l’attività del Garante all’interno del carcere di Montorio nel 2010: 550 colloqui individuali e 12 incontri di gruppo rivolti alle oltre 900 persone ospiti, tenuto conto che il 64% della popolazione è oggi di nazionalità straniera. Pavia: tra un anno sarà pronto il nuovo padiglione, il carcere raddoppia la capienza La Provincia Pavese, 4 marzo 2011 Entro un anno il carcere di Torre del Gallo raddoppia. Il cantiere che sarà chiuso nei primi mesi del 2012 permetterà di avere 300 nuovi posti. Ma non è assicurato che possa risolvere il problema cronico del sovraffollamento della struttura esistente: adesso i detenuti sono 490 e la casa circondariale è invece stata progettata per ospitarne 244. Sono dunque già quasi il doppio. E vivono in celle da due letti, a volte ne viene aggiunto un terzo e lo spazio vitale si riduce ulteriormente. Ieri, intanto, si sono incontrati il mondo del volontariato e i rappresentanti delle istituzioni: chiedono un coordinamento del loro lavoro. Lo spazio vitale è ridotto all’osso. Pochi metri quadrati occupati da due letti e, all’occorrenza, anche da una branda pieghevole. Il carcere di Torre del Gallo è sovraffollato: 490 detenuti, con punte recenti di 500. È "tarato" per accoglierne 244. Al cantiere aperto alle spalle del fabbricato principale i reclusi affidano molte aspettative: 300 nuovi posti, una valvola di sfogo. I lavori di costruzione della nuova ala di Torre del gallo dovrebbero essere consegnati dalla ditta appaltatrice all’amministrazione penitenziaria per l’inizio del 2012. "Ma allo stato attuale non siamo in grado di prevedere se i 300 nuovi posti permetteranno di dare ossigeno alla struttura già esistente e in debito di spazio o se verranno saturati in breve tempo" spiega Iolanda Vitale, direttore della struttura pavese. La popolazione carceraria è in crescita esponenziale, in tutta Italia. E Torre del gallo è un luogo di passaggio. Con sezioni per i detenuti comuni e 100 posti per l’alta sicurezza. Il 40 per cento parla un’altra lingua. "Le celle sono tutte uguali - spiega la direttrice. Noi cerchiamo di creare meno disagio possibile ma il problema è nei numeri. Sono strutturate con due letti ma quando serve ne viene aggiunto un terzo che poi si ripiega durante il giorno per fare spazio". E i numeri sono un problema anche per l’organico: gli agenti di polizia penitenziaria in servizio non bastano. Per mettere in funzione la nuova ala dovranno arrivare rinforzi. E servirebbe anche un mercato del lavoro più ricettivo per il reinserimento sociale e professionale dei detenuti. "Cerchiamo cooperative esterne disposte a gestire servizi dentro al carcere, come già si fa con il pane, e ad assumere, mettendoli in regola, i lavoratori" spiega Vitale. Una ricerca difficile. IL rientro in società, dopo aver scontato la pena è stato uno degli argomenti trattati ieri al Centro servizi formazione. In via Riviera 23, per la prima volta, si è riunito nello stesso luogo il mondo del volontariato che gravita attorno al carcere, dalle cooperative sociali di tipo B alla Caritas, ma anche i rappresentanti delle istituzioni (Asl, Ministero, Comuni). Persone che operano nello stesso luogo e non si erano mai incontrati prima. "Bisogna ricominciare a parlare e soprattutto creare una rete concreta tra tutti gli operatori - dice Riccardo Aduasio, del centro servizi. Serve più coordinamento ma anche un luogo fisico in cui trovarsi". Lucia Castellano, direttore del carcere di Bollate, ha portato la sua esperienza e offerto qualche suggerimento. Ma Bollate è una realtà innovativa, quasi unica nel panorama nazionale. Catania: Radicali; dubbi sulla reale capienza del carcere di Piazza Lanza Notizie Radicali, 4 marzo 2011 La casa circondariale di Catania Piazza Lanza avrebbe una capienza regolamentare di 361 posti: questo è il dato indicato in una statistica del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), che fotografa la situazione della capienza regolamentare degli istituti e dei detenuti presenti al 31 dicembre 2010. Questo dato - 361 posti - appare di gran lunga superiore rispetto a quello fornito dalla direzione del carcere in occasione della visita ispettiva effettuata dalla deputata radicale Rita Bernardini il 13 novembre scorso, quando la direzione ha dichiarato una capienza regolamentare di 155 posti e una capienza "tollerata" di 221 posti. O la capienza regolamentare dell’istituto di pena catanese è più che raddoppiata nel giro di poche settimane, oppure siamo dinanzi ad una sciatteria che getta un’ombra pesante sull’attendibilità delle statistiche del Dap. Inoltre, anche la capienza regolamentare del carcere di Caltagirone, sempre secondo la stessa statistica, risulta fortemente sovradimensionata rispetto alle informazioni in nostro possesso. Si tratta di dati che incidono direttamente sul calcolo del sovraffollamento carcerario, in un momento di tragica emergenza del sistema penitenziario: il Dap faccia chiarezza ed eventualmente rettifichi i dati non corretti. Gianmarco Ciccarelli Segretario Radicali Catania Sanremo: carcere sovraffollato e carenze di personale, la Uil-Pa si appella al Sindaco www.sanremonews.it, 4 marzo 2011 È stato chiesto questa mattina, all’interno del carcere di Sanremo, un incontro tra il Sindaco Maurizio Zoccarato ed il vice Sindaco Claudia Lolli, con la Uil-Pa. Penitenziari. A fare gli onori di casa, dopo un breve saluto del direttore della casa circondariale, Francesco Frontirrè, sono stati Fabio Pagani, segretario del sindacato e Federico Filippo, vice segretario regionale. È stato il segretario Pagani ad accogliere la visita degli amministratori matuziani: "Sotto la nostra spinta il Sindaco ed il suo vice sono venuti per metterlo a conoscenza di quella che è la realtà del carcere di Sanremo. Voglio sottolineare che, in 13 anni di amministrazione del Dottor Frontirrè, nessun Sindaco è mai venuto a visitare la casa circondariale. Il primo cittadino dovrà vedere, sia di giorno che in altri orari, qual è la situazione, che vede un poliziotto che deve controllare 70/100 detenuti e, la notte, che circa 10 agenti devono controllarne 300/320. Ci sono celle da 20 metri quadri, dove vengono detenute 9/10 persone. Si tratta di un vero e proprio ammassamento che crea non pochi problemi al controllo degli agenti, che si trovano con celle dove ci sono letti a castello con tre brande una sopra l’altra. Solitamente l’organico dovrebbe vedere 2 agenti per un detenuto, in caso di trasporti degli stessi in altre case circondariali. Noi partiamo in svantaggio, visto che solitamente si portano 16 detenuti con 8/10 agenti. La carenza di Polizia Penitenziaria è conosciuta a tutti i livelli e non chiediamo ovviamente che il Sindaco sopperisca a questo e che non provveda certo ad un indulto. Ma chiediamo un intervento presso l’amministrazione penitenziaria anche sul controllo dei detenuti per il 41bis. Il 25 febbraio scorso, tra l’altro, siamo stati costretti a registrare un grave fatto per il quale è stato protagonista proprio un detenuto sottoposto a carcerazione per associazione a delinquere. Questo ha addirittura cercato di appropriarsi della pistola di un agente, all’interno del pronto soccorso di Sanremo. Secondo noi, quella odierna è una giornata di passaggio fondamentale, per concretizzarsi quel "facciamo qualcosa" perché siamo all’esasperazione. L’intervento del Sindaco è stato importante, questa mattina, perché noi siamo passati dalla denominazione di carcere a quella di casa circondariale e, stamani il primo cittadino l’ha addirittura ri-battezzata "azienda". Il Sindaco Zoccarato ha così risposto all’invito, evidenziando quelle che sono le problematiche del carcere matuziano: "Il carcere di Sanremo è anche una delle aziende della nostra provincia. Come personale, dopo il Comune e qualche altra partecipata è sicuramente un’azienda. Nelle parole del segretario della Uil-Pa ci sono sicuramente cose gravi. Noi possiamo cercare di collaborare con l’amministrazione penitenziaria, dando dei servizi. Ho notato la problematica della strada per arrivare al carcere e ne siamo consapevoli. Le strade spesso si rovinano perché sono sovrautilizzate per il passaggio di mezzi pesanti e le aziende che li usano non ne vogliono sapere di collaborare per fare in modo che le strade migliorino. Credo che, in questo caso, dobbiamo anche pensare alla dignità dell’uomo che è in carcere. Io credo che in tutte le aziende si lavora bene dove c’è un buon ambiente. I numeri snocciolati dal sindacato sono allarmanti e, vivendo da vicino le problematiche della Polizia Municipale, posso rendermi conto di quanto accade in carcere. Avere all’interno detenuti di 34 nazionalità diverse non aiuta certo gli agenti, così come i malati di Aids. Noi ci adopereremo e chiederemo alla direzione della casa circondariale se esistono le basi per collaborare. Io sono qui perché è dovere di un Sindaco accertarsi della situazione delle strutture presenti nella sua città. Io sono qui in rappresentanza del Consiglio e della città, ragionando in modo apartitico, pensando a fare squadra con tutti gli amministratori cittadini, provinciali e regionali per far valere la nostra voce a livello nazionale. Certo, uno dei problemi più grossi è la multi - etnia. Lo riscontriamo anche nella gestione della città, quando si ha a che fare con gruppi diversi. Con me c’è il vice Sindaco perché ha decisamente più esperienza di me, dopo aver visitato altre case circondariali. Il nostro compito è fare educazione civica, spiegando ai più giovani cosa è un istituto di pena, pensando a chi lavora all’interno e cosa succede dentro. Claudia Lolli ha confermato l’interesse e l’impegno dell’Amministrazione Comunale: "Qualcosa la stiamo già facendo, attivando i servizi sociali per l’occupazione di alcuni detenuti. Dopo aver visitato una serie di case circondariali negli anni ‘90, ho notato come i problemi siano aumentati anche in virtù della globalizzazione e dell’aumento dei detenuti stranieri. Spero che, dopo questo contatto con la parte sindacali, i rapporti tra Comune e casa circondariale possano migliorare ulteriormente". I responsabili della Uil-Pa hanno poi chiesto, visto che l’80% degli agenti sono del Sud, di trovare alloggi a cifre agevolate, per evitare che siano costretti a spendere la metà del loro stipendio per un affitto. La casa circondariale di Sanremo vede all’interno 170 agenti. Ne servirebbero 250/260 mentre 22 sono distaccati in altri posti. In Liguria sono 7 istituti e, a quello sanremese (il secondo per presenza di detenuti), è stata recentemente assegnata dall’associazione dei Radicali la ‘maglia nerà regionale. In questo modo è intervenuta l’esponente Claudia Bornico, presidente dell’associazione a Genova: "Il carcere di Sanremo è sovraffollato ed ha una forte carenza di personale. Ci sono anche problemi di carattere sanitario. Il 21 settembre scorso abbiamo fatto una proposta in parlamento, affinché Sindaci e Presidenti di Province e Regioni, possano visitare le case circondariali senza autorizzazione, come accade ad esempio per i parlamentari. Questo perché, secondo noi, sarebbe importante questo tipo di rapporto tra amministratori locali e responsabili delle carceri, per capire da vicino le problematiche dei detenuti e degli agenti penitenziari". Alla fine il Sindaco Zoccarato ha così risposto: "Non mi spaventa che a Sanremo sia stata assegnata la maglia nera e questo vuol dire che dobbiamo migliorare. I giudizi non mi spaventano e sono consapevole del lavoro che ci aspetta. Siamo qui per sottolineare le carenze ed apprendere con umiltà le problematiche e per metterci al lavoro, in modo da far diventare il carcere di Sanremo il migliore della Liguria. Zoccarato è stato poi accompagnato dal direttore del carcere, Francesco Frontirrè, ad una visita all’interno dell’istituto di pena. Venezia: la Lega distribuisce volantini contro la costruzione del nuovo carcere a Campalto La Nuova Venezia, 4 marzo 2011 A partire da oggi la Lega distribuisce in giro per la città, da Campalto a Mestre, volantini prestampati in migliaia di copie nei quali si ricorda il tempo scaduto per trovare un sito alternativo per la costruzione del nuovo carcere di Campalto. "Il Comune aveva a disposizione tre settimane concesse dalla Regione - spiega il consigliere comunale leghista Alessandro Vianello - per proporre un’altra collocazione: ora non c’è più margine". Nel volantino è anche riportata la lettera del sindaco, datata 17 dicembre, che ha per oggetto il protocollo d’intesa sul piano carceri. Lettera che, secondo il Carroccio mestrino, mette in evidenza il fatto che Orsoni sapeva cosa si andava a fare e quali erano le intenzioni. "Il sito l’ha scelto lui - prosegue il coordinatore leghista - come dimostra quanto è riportato nello scritto". La Lega nei giorni scorsi aveva proposto una destinazione diversa, indicando un sito dalle parti del Montiron. Padova: Sindacati Polpen polemici sul progetto di alloggiare detenuti nella Caserma agenti Il Gazzettino, 4 marzo 2011 Carcere sovraffollato, è polemica. Gli agenti della polizia penitenziaria protestano, temono infatti che dopo i lavori di ristrutturazione della caserma agenti, il primo piano, quello con camere e mensa, venga riservato ai detenuti in regime di semilibertà che non trovano posto altrove. Il direttore del carcere, Salvatore Pirruccio, non conferma l’ipotesi paventata dagli agenti, parla sì di lavori da effettuarsi al primo piano, sebbene - dice - non sia stato deciso nulla sulla futura destinazione dei locali. Giampietro Pegoraro, coordinatore regionale della polizia penitenziaria per la Cgil, commenta: "È davvero scandaloso. Hanno dato lo sfratto ad almeno una ventina di poliziotti che dovranno distribuirsi negli alloggi al piano superiore. Ma non è detto che trovino facile sistemazione. Molti agenti, che vengono da fuori e che sono impiegati nella traduzione dei detenuti, saranno costretti ad andare in albergo. Comunque, non oltre il 12 marzo tutto il personale che occupa le stanze del primo piano sarà obbligato a spostarsi per fare spazio ai detenuti in semilibertà. Appare quanto mai assurda questa situazione - continua Pegoraro - dopo che la direzione si è impegnata con non poche difficoltà a creare oltre 150 posti letto per i detenuti comuni, mettendo nelle celle, in più piani detentivi, la terza branda". Per il sindacalista è inconcepibile che i detenuti siano a stretto contatto con gli agenti, soprattutto le donne, che alloggiano nella palazzina adibita a caserma. "Il personale - attacca - è fermamente intenzionato a protestare già all’inizio del lavori". In ogni caso verrà chiesto un incontro con il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Felice Bocchino. "Situazione incandescente oggi come ieri - seguita Pegoraro - uno dei nostri agenti pochi giorni fa è stato aggredito e ferito da un detenuto. Molto probabilmente dovrà operarsi". Dello stesso avviso anche Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. "Sono sconcertato - ha detto - dalla decisione di destinare un piano della caserma agenti ai detenuti semiliberi: è assurdo e vergognoso". Parma: detenuto morì per overdose di eroina, la Procura chiede l'archiviazione Ansa, 4 marzo 2011 La Procura di Parma ha chiesto l'archiviazione per la morte di Giuseppe Saladino, 32 anni, che fu trovato senza vita nel carcere di Parma il 7 ottobre 2009. Ora toccherà al Gip decidere. L'indagine ha accertato che Saladino aveva assunto eroina quando era già in cella, ma a quanto pare senza alcuna responsabilità da parte della polizia penitenziaria né della ragazza che l'aveva acquistata insieme a lui prima del fermo del giovane. La quantità di droga era molto limitata e Saladino potrebbe averla nascosta riuscendo a passare i controlli che preludono alla carcerazione. Roma: presidente regionale Polverini a Rebibbia, per consegna diplomi a detenute Dire, 4 marzo 2011 Il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, ha consegnato stamani, nel carcere femminile di Rebibbia, i diplomi professionali conseguiti da 20 detenute che hanno frequentato i corsi finanziati dalla Regione. L’iniziativa, a cui ha preso parte anche l’assessore alla Sicurezza, Giuseppe Cangemi, fa parte del progetto "Sfide" che per l’anno 2010 è stato rifinanziato dalla Regione con 700 mila e ha formato 240 detenuti in tutto il Lazio. Polverini ha visitato l’area verde dove 10 detenute hanno svolto il corso di giardinaggio, e le aule dei laboratori multimediali dove si sono tenuti i corsi di informatica e alfabetizzazione, frequentati da altre 10 detenute. La delegazione della Regione ha visitato anche la sartoria, la scuola d’arte e le aule. "Credo molto nei progetti formativi - ha detto Polverini - e ancora di più per chi come voi potrà vedere passare il tempo più velocemente, ma soprattutto non sprecarlo. Imparando qualcosa, infatti, vi mettete nelle condizioni di essere veramente libere perché voi avete commesso un reato ma non sempre siete state libere di non commetterlo". La governatrice ha infine ricordato le iniziative della Regione svolte nelle carceri, come i concerti di Natale per i detenuti: "In questo campo abbiamo messo un grande impegno e anche un coinvolgimento personale perché le cose vanno fatte fino in fondo". Soddisfatto anche Cangemi: "c’è una grande collaborazione tra la Regione e le carceri, con progetti per le politiche penitenziarie. Quello di oggi è per noi un momento di emozione e gioia". Ristruttureremo parlatorio, finanziamento di 200mila euro "Parlando con la direttrice del carcere ho chiesto quale fosse l’esigenza principale, e con lei, e anche con voi, ho preso l’impegno di ristrutturare attraverso un finanziamento di 200mila euro il parlatorio per darvi la possibilità di avere colloqui con i vostri cari più intimi per avere un abbraccio". Lo ha detto stamattina nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia la presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, durante la cerimonia di consegna, a otto detenute, dei diplomi dei corsi di formazione finanziati dalla Regione. Trapani: detenuto tunisino a processo con l’accusa di aver violentato il compagno di cella La Sicilia, 4 marzo 2011 Avrebbe abusato di un compagno di cella. Un giovane tunisino, Ezzedine Missaoui, di 33 anni, è stato chiamato a rispondere dell’accusa di violenza sessuale. Il processo si è aperto ieri dinanzi il Tribunale. Le indagini erano state avviate 4 anni fa a seguito della denuncia di un detenuto recluso a San Giuliano. Il giovane riferì di essere stato violentato in due distinte occasioni da parte del suo compagno di cella. Ezzedine Missaoui, interpellato dagli investigatori, ammise di avere intrattenuto rapporti sessuali con la presunta vittima. Negò però ogni abuso sostenendo che il compagno di cella sarebbe stato consenziente. Circostanza negata dalla presunta vittima che si è costituita parte civile. Nel procedimento è coinvolto anche un altro ex detenuto, Liborio Davide Zarba, 29 anni, di Gela, chiamato a rispondere di violenza privata, accusato di essere intervenuto in favore dell’extracomunitario al fine di convincere la vittima a non denunciare i fatti. L’avv. Vita Ciotta ha chiesto ieri di stralciare la posizione di Liborio Davide Zarba e di disporre la trasmissione degli atti ad altro organo per la celebrazione di un separato processo dinanzi il giudice monocratico competente per i reati violenza privata. L’istanza è stata però rigettata perché ritenuta tardiva. Il processo entrerà nel vivo il 17 maggio. Noto (Sr): Cgil; grave la situazione del carcere, anche il Provveditore è d’accordo La Sicilia, 4 marzo 2011 "Sui problemi della Casa di reclusione di Noto: la Cgil aveva ragione!", così si legge in un comunicato stampa diffuso da questo sindacato. Da tempo gli agenti di polizia penitenziaria sono in stato di agitazioni, per rendere più accettabile l’organizzazione del lavoro, e per il rispetto degli accordi sindacali raggiunti a tutela dei lavoratori. Proprio nel tentativo di fare chiarezza sulle lagnanze dei dipendenti, il provveditore regionale Faramo, ha disposto una visita nel penitenziario con l’ausilio di tecnici di fiducia per verificare quanto sostenuto dalla Cgil. "Gravissima la situazione presso la casa di reclusione di Noto, - si legge nel comunicato - a dirlo oramai non è solo il sindacato, ma anche il provveditore regionale dell’ amministrazione penitenziaria dottor Faramo che, dopo aver effettuato un sopralluogo con i propri tecnici, ha verificato quanto dalla Cgil era stato denunciato in presenza della direzione del carcere". Nel comunicato si mettono in evidenza gli atteggiamenti stranamente condiscendenti degli altri sindacati di categoria, che non si sarebbero mossi per niente per far migliorare le cose. "Quello che non riusciamo a comprendere - si afferma - è come le altre sigle abbiano chiesto l’effettuazione delle sei ore lavorative con il personale attualmente presente, quando non si riesce, e questo è ormai assodato, ad effettuare le otto ore lavorative. C’è personale che effettua giornalmente anche dodici ore di lavoro continuativo e la direzione non riesce ad assicurare i diritti soggettivi del personale. Riteniamo positivo che il provveditore Faramo abbia, giustamente, avanzato una richiesta per ottenere la disponibilità al distacco, senza oneri per l’Amministrazione, di personale da destinare alla casa di reclusione di Noto". Gli operatori si mostrano ottimisti e fiduciosi del fatto che le unità da distaccare potrebbero riuscire a far fronte alle necessità organizzative per la completa, e regolare attuazione del servizio su tre turni orari, in attesa che il dipartimento centrale possa trasferire unità di personale per consentire il servizio su quattro turni orari ovvero sei ore lavorative, come prevede la norma. "Riteniamo doveroso - conclude il comunicato della Cgil - segnalare la correttezza operativa con cui il provveditore Faramo ha affrontato la questione Noto. Egli ha operato oggettivamente nelle difficoltà derivanti dalla grave crisi di organico che non è solo della casa di reclusione di Noto ma di molti altri istituti penitenziari della Sicilia. Confidiamo sul fatto che la corretta operatività e responsabilità del provveditore Faramo, possa individuare dove stanno le condizioni di maggiore carenza, anche se questo non sarà un compito facile". Roma: "stuprata dai carabinieri in caserma"; la denuncia-shock di una donna di 32 anni di Carlo Bonini La Repubblica, 4 marzo 2011 Indaga la Procura. I militari: c’è stato sesso ma lei era consenziente. La 32enne era stata fermata per un furto di vestiti. Agli abusi hanno partecipato tre uomini dell’Arma e un vigile urbano. Il buio e il silenzio di una caserma deserta. Una donna priva della libertà. Un uomo in divisa da carabiniere e un vigile urbano che godono del suo corpo di detenuta. Altri due militari che ascoltano, capiscono, e tacciono. È storia della notte tra mercoledì 23 e giovedì 24 febbraio. Stazione dei carabinieri del Quadraro, periferia a est della città. Una madre di 32 anni, detenuta in una camera di sicurezza della caserma dopo un arresto in flagranza per furto, ha rapporti sessuali completi e ripetuti con almeno uno dei tre carabinieri che l’hanno in custodia e con un agente della polizia municipale che è in quegli uffici. "Una violenza", denuncia lei. "Un abuso" vigliacco consumato su chi è privato della libertà e dunque è di per sé in una condizione di "minorità fisica e psicologica", ipotizza il procuratore aggiunto Maria Monteleone che procede nei confronti dei tre militari. E della loro stupefacente giustificazione: "È vero il rapporto sessuale c’è stato, ma quella donna era consenziente". I fatti, dunque. Almeno per come è possibile in questo momento ricostruirli incrociando il racconto della donna (che trovate in queste pagine) e quello consegnato dai militari alla loro catena gerarchica prima, alla procura della Repubblica, poi. Mercoledì 23. S., 32 anni, nata a Crema e a Roma da qualche tempo, viene sorpresa in un magazzino dell’Oviesse del quartiere Casilino mentre ruba dei capi di abbigliamento. La donna è giovane, bella, e ha una vita complicata. Dice di essere ragazza madre, non ha una casa, non ha un lavoro, si appoggia nell’appartamento del suo compagno, un agente immobiliare. Il pomeriggio del 23, il suo verbale di arresto viene redatto nella caserma dei carabinieri del Casilino. "Andrai a giudizio per direttissima domani", le spiegano. "Stanotte la passi dentro". Nelle camere di sicurezza del Casilino non c’è posto. S. viene quindi trasferita alla stazione del Quadraro. Arriva che è notte. E di lei si "occupano" tre militari di turno ("un appuntato e due carabinieri - riferiscono fonti del Comando Generale - dal foglio disciplinare immacolato"). I tre arrivano in caserma quando S. è già nella sua cella. Hanno passato la serata fuori e si sono tirati dietro un amico, un vigile urbano. Hanno bevuto e fanno bere anche S. E qui - racconta lei - comincia il suo incubo. I quattro le aprono la porta della cella. Le dicono di seguirli in sala mensa. Il rapporto sessuale è ripetuto. E di almeno un carabiniere, S. memorizza i tatuaggi su una parte del corpo. La mattina dopo, giovedì 24 febbraio, S. è in tribunale per la convalida del suo arresto per furto. È stordita, umiliata. Ricorda il sesso, non ha memoria di violenza fisica. Al giudice monocratico e al pm di udienza non racconta nulla. Viene scarcerata e, convinta dal compagno, nel pomeriggio si presenta alla stazione dei carabinieri del Casilino per sporgere denuncia. I militari la accompagnano al Policlinico Casilino, dove viene sottoposta al tampone vaginale e, visitata, si certifica "l’assenza di segni visibili di violenza sul corpo". La Procura comincia a indagare a ritmo indiavolato. Gli atti vengono secretati. Il racconto dettagliato della ragazza (a cominciare dal dettaglio del tatuaggio sul corpo di uno dei militari) trova riscontro. Gli indagati afferrano quanto scivoloso sia per loro il terreno e scelgono una strada antica. Se non c’è violenza fisica - argomentano - è la prova che non c’è stata violenza sessuale. S. ha fatto sesso perché è quello che voleva. E poi, S. è una "sbandata". È un toppa peggiore del buco. Che, se possibile, rende ancora più determinato il procuratore, Maria Monteleone. Nella difesa dei carabinieri e del vigile urbano c’è infatti qualcosa che rende ancora più odioso quel che è accaduto. I quattro non capiscono - o fingono di non capire - che la violenza è nel presupposto della condizione in cui S. è precipitata la notte in cui i suoi carcerieri hanno goduto del suo corpo. Che diventa oltraggioso persino parlare di una "seratina" di alcool e sesso con una detenuta. Che non esiste consenso in un rapporto tra un uomo libero e una donna dietro le sbarre. Ma tant’è. La difesa, ad oggi, resta questa. Nell’imbarazzo profondo, nella vergogna, che ora diventano dell’Arma intera e del suo Comando generale. Prima il whisky poi l’aggressione, così la notte è diventata un incubo "Ho ancora in mente un tatuaggio, quello dell’uomo che mi ha violentata. Sono sconvolta. Non riesco a pensarci. Come è accaduta una cosa del genere? Io stessa non ci volevo credere. E forse ho rimosso per un po’. Ora però sento tutto il dolore. In quella mensa ho avuto tanta paura...". Parla, parla senza fermarsi con i carabinieri di via In Selci ma sembra non riuscire a mettere a fuoco quello che le è capitato: racconta degli "abusi che ha subito" S. D. T, 32 anni, dice di essere stata la "vittima" di tre carabinieri e di un vigile urbano la notte tra mercoledì e giovedì nella camera di sicurezza della stazione dei carabinieri di Roma Quadraro. La donna, una ragazza madre, originaria di Crema ma residente nella Capitale, arrestata per aver rubato dei vestiti in un supermercato, quella notte dormiva nella cella della piccola stazione sulla Tuscolana in attesa del giudizio per direttissima. Dice di ricordare con chiarezza "quello che è accaduto". E racconta: "Durante la notte sono stata svegliata da quattro uomini che sono venuti da me con bottiglie di alcolici e mi hanno offerto da bere. Ho accettato, non immaginavo di non potermi fidare. Abbiamo bevuto whisky, poi ho chiesto qualcosa da mangiare, avevo fame, e loro mi hanno fatto uscire dalla cella e mi hanno portato in sala mensa". La donna interrompe il racconto e comincia a piangere. Poi riprende: "E stato lì che è successo il peggio. Mi hanno circondata e a turno hanno avuto con me rapporti sessuali. Anche loro avevano bevuto e molto". Gli investigatori del Nucleo investigativo di via In Selci hanno dato il via alle indagini, hanno fatto i rilievi nella cella e nella mensa, che ora è sotto sequestro. Le indagini sono partite appena dopo la denuncia. Poche ore dopo che S. D. T. si è presentata nell’aula di tribunale per essere processata per il furto. "Dopo l’udienza ho avuto il coraggio di denunciare, di raccontare della folle notte passata in caserma - afferma - quello che ho detto è vero. Sono pronta a descrivere i tatuaggi che aveva uno degli agenti che ha fatto sesso con me. Sono una ragazza madre, faccio lavori saltuari, ma non sono una di facili costumi". Ad aiutare la donna è stato un amico, un agente immobiliare che l’ha accompagnata a sporgere denuncia e l’ha poi portata al Policlinico Casilino, per gli test sanitari. "Era spaventata e sotto choc - ha sottolineato l’amico - le ho detto che non doveva avere paura, ma lei era intimorita perché doveva accusare dei carabinieri. Le ho detto che doveva dire la verità. Come avrebbe dovuto comportarsi altrimenti? Lasciar correre solo perché si tratta di uomini appartenenti alle forze dell’ordine?". I carabinieri accusati delle violenze, da quando la vicenda è stata resa pubblica, sono stati trasferiti in un’altra stazione, sul litorale romano. I colleghi sono sotto choc: "È un fulmine a ciel sereno - dicono i militari - non avremmo mai creduto potesse succedere una cosa del genere. Vogliamo chiarezza e soprattutto vogliamo sapere se quello che dice la donna è vero". E dei militari sui quali ora pende l’accusa di violenza sessuale tutti parlano bene: "Sono tre bravi ragazzi, benvoluti da tutti nella zona in cui operano, sia dai residenti che dai commercianti. Ma se sono colpevoli è giusto che paghino per quello che hanno fatto. Noi dobbiamo dare il buon esempio, sempre e comunque". Firenze: "Dei delitti e delle pene", una mostra su penitenziari e luoghi di omicidi Redattore Sociale, 4 marzo 2011 L’esposizione verrà inaugurata domani a Pelago (Fi). Passa in rassegna gli interni di alcuni penitenziari italiani e gli esterni di abitazioni diventate famose per essere state teatro di omicidi, tra cui Cogne, Garlasco e Novi Ligure. Si chiama "Dei delitti e delle pene" la mostra fotografica che passa in rassegna gli interni di alcune carceri italiane e gli esterni di abitazioni divenute famose per essere state teatro di omicidi. L’esposizione, che verrà inaugurata domani a Pelago (Fi), negli spazi della fondazione Lanfranco Baldi, è curata da Pierluigi Tazzi. La prima parte dell’esibizione sarà composta dalle immagini di Alessandro Mencarelli, avvocato penalista che da anni unisce la sua professione alla passione per la fotografia. Oggetto dell’obiettivo di Mencarelli sono i dettagli degli interni delle carceri. "Nelle mie foto - ha spiegato Mencarelli - ho ritratto i momenti di attesa prima del colloquio con i miei assistiti, andando a cercare i dettagli. Il carcere, infatti, è luogo di attesa". Lo stesso Mencarelli ha poi spiegato come, nella sua esperienza, abbia potuto constatare "l’abisso che separa i diritti sanciti dalla Costituzione e la realtà odierna delle carceri italiane. Ci sono casi - limite dove in una cella vivono sei persone in stanze di tre metri per quattro". La seconda parte della mostra, realizzata da Fulvio Guerrieri e Paola Dallavalle, ritrae le abitazioni in cui sono avvenuti alcuni tragici omicidi negli ultimi anni della cronaca nera italiana: un viaggio da Cogne a Montecchio di Crosara, da Garlasco a Limidi di Soliera, da Compignano a Novi Ligure e Brescia. La mostra resterà in allestimento fino al 23 aprile. In concomitanza con l’inaugurazione della mostra è stato organizzato un convegno con il patrocinio delle Camere Penali di Firenze, Prato e Pistoia, dal titolo "247 anni dopo", a cui parteciperanno figure diverse del mondo della "giustizia" con un duplice intento: da un lato creare un momento di incontro fra due mondi spesso separati ed estranei, quello della "giustizia" e quello dell’arte, in modo che operatori della giustizia e artisti possano incontrarsi, stare insieme e dialogare; dall’altro lato fare il punto, in termini certamente approssimativi ma non per questo meno appassionati, sullo stato presente della condizione carceraria in Italia, anche alla luce agli ideali illuministi di Cesare Beccaria. Tra i relatori presenti Roberto Bartoli, docente di Diritto Penale dell’Università Firenze, Emilio Santoro, docente di sociologia del diritto, Università di Firenze, Alessandro Margara, presidente fondazione Michelucci, Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate, Michele Passione, membro del direttivo della Camera Penale di Firenzee dell’Osservatorio Carceri dell’Unione delle Camere penali italiane. Roma: St22 di nuovo in scena, quando la danza sa farci vivere il corpo femminile recluso www.linkontro.info, 4 marzo 2011 Potremo rivedere a Roma, il prossimo lunedì 7 marzo alle ore 21.00 presso "L’emporio delle arti" in via Giacomo Costamagna 42 (Villa Lais), lo spettacolo di danza ideato e diretto da Rosaria Iovine, giovane danzatrice contemporanea formatasi presso l’Alter Studio di Napoli già con una lunga esperienza teatrale alle spalle. Lo spettacolo, che è stato presentato nel gennaio scorso presso il Teatro Studio Uno, è sostenuto dalla compagnia stabile di produzione coreografica Mda Produzioni Danza. Nella serata di lunedì l’ingresso sarà gratuito. St22, è questo il nome dello spettacolo, che sta per "stanza numero 22" - è figlio anche di un testo teatrale scritto da Carmen Iovine, sorella della regista. L’idea alla sua base è quella di mostrare percettivamente attraverso i movimenti del corpo la progressiva spoliazione cui i sensi sono sottoposti quando vivono un periodo di detenzione. Sono corpi femminili quelli che vedremo sul palcoscenico. Rosaria Iovine conduce un laboratorio di espressione corporea all’interno del carcere romano femminile di Rebibbia. Quattro i quadri che ha scelto di mettere in scena nel suo spettacolo: l’ora d’aria, il sacco, il gioco e l’opa cupa. Vista, udito, olfatto, tasto, gusto: ogni interfaccia tra la donna e il mondo si spunta e si sfilaccia all’interno del carcere. È qualcosa che molti studi hanno raccontato ed elaborato. È qualcosa che possiamo immaginare dai racconti che ci sono stati fatti dal mondo penitenziario. Ma vederlo danzare sulla scena è decisamente un’altra cosa. Da un’esperienza diretta la scelta del titolo - ST22 - ovvero stanza numero 22 Lo spettacolo vuole essere un percorso attraverso i sensi deteriorati dalla detenzione‚ un percorso regressivo perché il carcere elimina o riduce la forza dei sensi che trasmettono emozioni. Siamo in carcere ed è subito disagio‚ un disagio registrato dai sensi e dal corpo nel suo complesso. Con la detenzione ha inizio un processo di regressione‚ un deterioramento a livello infantile ed animale. In scena 5 donne e 5 sacchi neri dell’immondizia che simboleggiano il vuoto avvolgente‚ il nulla minaccioso‚ il baratro aspirante della morte (D. Gonin) e allo stesso tempo l’oppressione‚ la limitazione. Numerosi sono gli studi che dimostrano che chi entra in prigione viene colpito immediatamente da vertigini‚ i riferimenti abituali scompaiono velocemente‚ nulla più è rassicurante. La vista è penalizzata dai muri‚ dai cancelli‚ dalle porte. Gli spazi sono immancabilmente limitati da ostacoli e lo sguardo non ha alcuna possibilità di riposare sulla linea d’orizzonte. In carcere c’è chi osserva e chi è osservato. Lo sguardo perde la reciprocità e i detenuti diventano oggetti della vista. L’udito diventa pigro e si disabitua a ogni tipo di suono. I rumori del carcere sono ripetitivi‚ l’udito non è sollecitato. Col tempo l’olfatto viene amputato‚ ci si dimentica degli odori della vita‚ della terra‚ delle piante. Il tatto è limitato‚ eliminato‚ auto - eliminato‚ censurato. Ed infine il gusto anch’esso condannato a svanire. I sapori finiscono per assumere un gusto universale: un disgustoso non - gusto. 4 quadri principali 1° Quadro - Il cortile - Durante l’ingresso del pubblico le donne consumano l’ora d’aria. Si muovono lentamente‚ cercano di guardare il più lontano possibile. "Dondolandosi" attendono lo scorrere del tempo. 2° Quadro - Il Sacco - Inevitabilmente le 5 donne indossano il sacco (vuoto avvolgente‚ baratro aspirante). I corpi sono pericolanti‚ il gesto diventa precario e si perde la stabilità. La danza è un tentativo inutile di verticalità. Lo spazio limitato è privo di riferimenti. Si procede per linee perfettamente geometriche‚ il gruppo finisce per essere l’ unico riferimento. 3° Quadro - Il Gioco - Le donne raccontano della loro inadeguatezza. A volte fragili‚ a volte insicure e a volte dure raccontano del carcere. Il testo è poetico ed ironico allo stesso tempo. Un linguaggio semplice‚ ma colmo di metafore. Il movimento è ripetitivo‚ a volte lento‚ sospeso e a volte frenetico e fuori controllo. 4° Quadro - Opa Cupa - Inno alla danza‚ alla vita‚ alla libertà. L’attenzione dal corpo si sposta all’anima. Ma le sofferenze inflitte all’anima sono intrappolate nel corpo‚ nei tessuti muscolari‚ sotto la pelle. Un corpo che rivendica la sua libertà Immigrazione: il Sindaco di Lampedusa; ma quale razzismo? qui applichiamo la legge di Laura Anello La Stampa, 4 marzo 2011 Tutti dentro. Basta passeggiate per strada. Adesso gli immigrati approdati a Lampedusa e in attesa di essere trasferiti altrove sono chiusi nel Centro di identificazione dell’isola, con il diritto al letto, ai pasti caldi, a sette sigarette al giorno. Ma dai cancelli non si esce più. "Nei giorni dell’emergenza, quando ci siamo trovati ad accogliere oltre seimila persone in pochi giorni con un pugno di carabinieri, abbiamo acconsentito al libero transito nell’isola per problemi di ordine pubblico - dice il sindaco Bernardino De Rubeis. Adesso però il Centro ha deciso di far rispettare le leggi del pacchetto sicurezza. Leggi che dicono che un immigrato irregolare, a meno che non chieda asilo politico, va tenuto all’interno di un Centro di identificazione ed espulsione". Una svolta che matura proprio quando la Procura di Agrigento gioca una doppia carta: mette sotto inchiesta il sindaco per istigazione all’odio razziale e abuso d’autorità a causa dell’ordinanza anti - bivacco e anti - accattonaggio, e d’altro canto iscrive nel registro degli indagati per immigrazione clandestina, "come atto dovuto", i disperati approdati al molo di Punta Pavaloro. "Di tutto mi si può accusare tranne che di razzismo - si difende il sindaco. Di ordinanze come quella ne esistono a centinaia in tutte le città, e nessuna Procura ha mai pensato di aprire un’inchiesta. Lo si fa qui in un momento di emergenza epoca le, quando si bada a rispetta re i diritti umani ma anche a garantire igiene, sanità, or dine pubblico, sicurezza". L’indagine arriva pochi giorni dopo il proscioglimento di De Rubeis da analoga accusa per un’intervista in cui avrebbe detto che "i neri puzzano anche quando si lavano". Lui replica così: "Non potrei mai averlo detto, qui non usiamo la parola neri, li chiamiamo turchi". Quel che è sicuro è la doppia stretta sui tunisini che approdano qui, gran parte dei quali convinti di raggiungere al più presto Francia e Germania e per questo ignari che la domanda d’asilo è l’unico modo per trovare un canale alternativo all’espulsione. Niente più libero transito sull’isola, e riattivazione delle procedure di identificazione all’interno del Centro di Lampedusa. "Anche se qui - aggiunge il sindaco - stanno come in un albergo a cinque stelle, altro che detenuti". Germania: gas, solventi, detersivi e ammorbidenti; in carcere tutto serve per "sballo" di Christina Berndt, traduzione di Rosa a Marca Sueddeutsche Zeitung, 4 marzo 2011 In molti ammorbidenti per tessuti è contenuta una sostanza euforizzante, non però in quelli venduti in Germania. Eppure molti detenuti li inalano. Evidentemente, se ci si crede, si ottiene l’effetto sballo. Quando il cane poliziotto si mise ad abbaiare contro la bottiglietta di spray nasale, nell’agente di sicurezza del penitenziario Remscheid si accese la lampadina. Ecco perché negli ultimi tempi l’uso di questi spray è aumentato così tanto: le bottigliette vengono usate dai detenuti per drogarsi. Chi dipende da oppiacei riceve il metadone dal medico del carcere. Ma le droghe "party" sono molto più diffuse. E nel cercare sostitutivi, la creatività dei tossicodipendenti non ha confini, come dimostrano i recenti fatti scoperti a Remscheid e in altre prigioni. "Nel bisogno, i drogati si buttano in corpo qualsiasi cosa", afferma il tossicologo Volker Auwaerter dell’Università di Friburgo. "Sniffano collanti o il gas degli accendini". In realtà, ai detenuti di Remscheid non importava lo spray nasale; la boccettina serviva solo per inalare un eccitante: l’ammorbidente. Questa la conclusione cui è giunto il Dipartimento di Giustizia di Duesseldorf, dopo aver esaminato più da vicino il contenuto lattiginoso delle bottigliette. Dentro c’era un comune ammorbidente, distribuito agli "ospiti" dei penitenziari del Nordrhein - Westfalen quando lavano la biancheria. Ora è stato eliminato per decreto ministeriale. Il sospetto è che nell’ammorbidente ci siano dei componenti simili alle droghe. Analisi di laboratorio hanno rilevato nelle bottigliette manipolate la sostanza Gbl (gamma-butirrolattone). 70 euro al litro Il Gbl è chimicamente simile al Ghb (gamma-idrossibutirrato) che in medicina è usato come narcotico. In piccole quantità il Gbl e il Ghb danno un effetto inebriante, euforico, disinibente. Ecco perché da anni il Gbl è consumato come droga da party, noto anche come ecstasy liquida o gocce K.o. Ma mentre il Gbh è soggetto alla legge sugli stupefacenti, il Gbl lo si trova quasi dappertutto. Il tossicologo Auwaerter: "Si è sempre dibattuto se non fosse il caso di limitare questa sostanza, visto che il suo consumo mette a repentaglio la salute e può uccidere". Il Gbl viene impiegato in molti processi di fabbricazione industriale. È contenuto soprattutto nei solventi - anche in alcuni diluenti per lacca da unghie, prima che fossero tolti dal mercato per sospetto uso improprio. In libertà, i tossicodipendenti comprano detergenti in Internet a "70 euro al litro", spiega Auwaerter. "Che basta per mille dosi singole". Sorprende che proprio gli ammorbidenti appaiano insospettabili. Il Gbl "non è contenuto negli ammorbidenti in commercio in Germania", sottolinea l’associazione dei produttori di detersivi. Una contraddizione che la portavoce del ministero Andrea Boegge non sa spiegare. L’ammorbidente in dotazione agli istituti di pena non è stato sottoposto a test, nemmeno la quantità di Gbl in quello contenuto nelle boccettine di spray nasale. È possibile che i detenuti abbiano reperito il Gbl in altri modi e poi mescolato all’ammorbidente - ciò che sorprende, vista la sua consistenza collosa. Auwaerter ritiene che negli ammorbidenti possano esserci tracce minime di Gbl, così come ci sono in molte cose, anche nei vini. Ed è probabile che siano quantità insufficienti a provocare un effetto euforizzante. "Ma se qualcuno ha cominciato a spargere la voce tra i detenuti che l’ammorbidente è una buona droga sostitutiva, può aver centrato il bersaglio". Gli interessati se ne convincono. E può bastare. Suggestione e allucinazione sono parenti stretti. Francia: la giustizia apre le porte delle carceri ai cappellani Testimoni di Geova La Stampa, 4 marzo 2011 Lunedì il tribunale amministrativo di Lille ha sentenziato contro l’amministrazione carceraria che si rifiutava di concedere ai cappellani Testimoni di Geova l’autorizzazione di visitare i detenuti che ne fanno richiesta. Nell’aprile 2008, la Direzione Interregionale dei Servizi Penitenziari (Disp) di Lille aveva respinto le domande di approvazione come volontari cappellani presentate dai ministri di culto geovisti per i centri di detenzione di Bapaume (Pas-de-Calais), Rouen (Seine-Maritime) e Laon (Aisne). L’amministrazione penitenziaria aveva giustificato il suo rifiuto con il fatto che i detenuti interessati a ricorrere ai cappellani Testimoni di Geova sono troppo pochi per giustificare un riconoscimento analogo a quello concesso ai rappresentanti delle principali confessioni. Il tribunale amministrativo ha ritenuto che tale argomentazione "non è sufficiente" per negare l’approvazione. "Conformemente alla legge sulla separazione tra Stato e Chiesa del 9 dicembre 1905 - "la Repubblica [...] garantisce la libertà di culto", i giudici hanno deciso di annullare le decisioni impugnate", ha indicato in un comunicato il tribunale. Decisioni simili sono state prese da altre giurisdizioni francesi, in particolare nel 2010 dal tribunale amministrativo di Parigi. L’Alta autorità per la lotta contro le discriminazioni e per l’uguaglianza (Halde) ha peraltro decretato nel 2010 a favore del detenuto che aveva presentato un’istanza a Rouen, ritenendo che la posizione dell’amministrazione penitenziaria "minacciasse il diritto alla libertà di coscienza e d’opinione dei detenuti". La Halde ha chiesto al ministro della giustizia "di organizzare le prassi cultuali in ambiente carcerario su criteri oggettivi e di attuarle in modo effettivo in seno agli istituti penitenziari". I Testimoni di Geova sono circa 150.000 in Francia. Molte delle loro sezioni locali godono dello status di "associazione cultuale". Stati Uniti: test farmacologici a Guantanamo, la denuncia di un ex detenuto Ansa, 4 marzo 2011 Test farmacologici sui prigionieri di Guantanamo: la denuncia arriva da un ex detenuto attualmente residente in Germania, Murat Kurnaz, che ha accusato il personale della base militare americana a Cuba di praticare. Intervistato dal quotidiano tedesco Berliner Zeitung, Kurnaz ha detto di essere stato costretto più volte a prendere farmaci durante i suoi quattro anni e mezzo di permanenza nella prigione, anche se non aveva alcun bisogno di cure mediche. L’accusa sembra confermare i risultati un’inchiesta realizzata dall’organizzazione americana Truthout e pubblicata lo scorso dicembre, secondo cui almeno tre ex detenuti di Guantanamo che si sono suicidati venivano sottoposti a test farmacologici contro la loro volontà. Bhutan: tre anni di carcere a un monaco per possesso di tabacco Ansa, 4 marzo 2011 Un monaco del Bhutan, arrestato oltre un mese fa per possesso illegale di un importante quantitativo di gomme da masticare al tabacco, è stato condannato a tre anni di carcere da un tribunale di Thimphu. Lo scrive oggi il quotidiano locale Kuensel. Sonam Tshering, 23 anni, è stato bloccato il 24 gennaio scorso ad un posto di frontiera mentre rientrava a piedi dall’India e trovato in possesso del prodotto, in violazione della Legge per il controllo del tabacco approvata nel 2010, che prevede durissime pene per i trasgressori. Dopo aver preso conoscenza della sentenza, la prima dall’adozione della nuova legge, il giovane monaco, trattenendo a stento le lacrime, ha detto che "se avessi saputo della sua esistenza, non l’avrei certo trasgredita. Dovevo essere punito, ma non in modo così pesante". Durante l’interrogatorio, Tshering ha sostenuto di non essere stato a conoscenza di una legislazione riguardante l’uso del tabacco e che comunque le gomme da masticare erano per il suo consumo personale di un anno. Pur avendo indicato la persona che gli ha venduto il prodotto sequestrato, il giudice gli ha inflitto tre anni di prigione, che sarebbero stati inferiori se fosse stato possibile catturare il fornitore. Nel 2005, nello spirito del suo piano denominato Prodotto nazionale della felicità (Gnh) (indice alternativo al più tradizionale Prodotto interno lordo, Pil), il governo bhutanese ha proibito la vendita di tabacco, ponendo rigide regole per i fumatori e stabilendo forti tasse per l’importazione di tabacco dall’estero. La Legge per il controllo del tabacco è stata considerata troppo draconiane dal leader dell’opposizione in Parlamento, Tshering Tobgay. Per lui, "l’obiettivo che si pone la legge è molto buono, ma essa impone pene esagerate per quanti violano le sue disposizioni, e questo a mio avviso non è in linea con i principi del nostro Prodotto nazionale di felicità".