Giustizia: Ucpi; nelle carceri ancora morti e violazioni del diritto alla salute dei detenuti Comunicato stampa, 3 marzo 2011 Ancora una volta assistiamo a gravissimi episodi di lesioni dei fondamentali diritti delle persone ristrette nelle carceri italiane, tanto da dover constatare il mantenimento di restrizioni in carcere di detenuti gravemente malati, fino alla loro morte. Forte presa di posizione della Giunta dell’Unione delle Camere Penali e dell’Osservatorio Carcere che denunciano da tempo, purtroppo inascoltati, i troppi casi di violazioni del diritto alla salute e alla integrità fisica. Al drammatico bollettino delle morti da suicidio che si consumano nelle carceri del nostro Paese con tragica e inarrestabile frequenza, si aggiungono nelle ultime ore le segnalazioni dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali, relative a casi di gravi violazioni del diritto alla salute. Nel carcere di Sollicciano è deceduto un uomo di 48 anni alla sua prima esperienza carceraria, reduce da ricovero ospedaliero per problemi polmonari. Non ricevendo più notizie, il 25 febbraio scorso il difensore si era recato in carcere e l’aveva trovato su una sedia a rotelle a causa della perdita di funzionalità d’un polmone che gli aveva anche impedito di telefonare ai familiari. Lo stesso giorno, a distanza di poche ore, il difensore ha ricevuto notizia della morte del detenuto dalla stessa Casa Circondariale. Altra segnalazione riferisce di un detenuto colpito da ictus cerebrale e ristretto nel carcere di Regina Coeli, nonostante sia stata accertata con perizia l’incompatibilità con il regime carcerario ed il difensore abbia indicato diverse strutture ospedaliere attrezzate per la terapia intensiva disponibili ad accoglierlo. Viceversa, il detenuto rimane in carcere, con grave rischio per la vita, in un rimpallo tra amministrazione giudiziaria che ne dispone il ricovero all’Ospedale Pertini, sebbene ne sia accertata l’inadeguatezza, e l’amministrazione penitenziaria che rimane inerte e muta. I casi segnalati, pur nella loro diversa gravità, costituiscono un esempio eloquente di come vengono gestiti i problemi di salute delle persone ristrette negli istituti penitenziari italiani e, dunque, del mancato rispetto dei diritti fondamentali di chi è privato della libertà, con il concorso di una magistratura sempre incline a considerare il carcere come la misura di ordinaria applicazione ed a sopravvalutare presunte esigenze di tutela sociale a scapito della previsione costituzionale del diritto alla salute. L’Unione delle Camere Penali Italiane denuncia, per l’ennesima volta, le responsabilità diffuse delle Istituzioni, incapaci di garantire la seppur minima tutela delle persone detenute ed abbandonate a se stesse, in violazione dei più elementari diritti posti a tutela della dignità prima ancora della salute. Evidentemente, ciò che per l’Avvocatura penalista è doveroso non lo è altrettanto per i responsabili della incolumità del detenuto, i quali assistono incuranti alle tragedie che si consumano con allarmante frequenza ed accettano che, in luogo di una persona, alla società ed alla famiglia venga restituito un cadavere. Contro tutto questo si leva forte la protesta degli avvocati penalisti che, più di altri vivono l’angoscia dei detenuti più deboli e dei loro familiari. Giustizia: Radicali; detenute madri, per l’8 marzo si approverà il nulla 9 Colonne, 3 marzo 2011 “Il testo unificato sulle detenute madri appena giunto dalla Camera, oggi è già passato all’esame della Commissione giustizia al Senato e già per martedì prossimo approderà in Aula. Una fretta assolutamente inopportuna, quella - anche stavolta bipartisan - di voler presentare in Aula il provvedimento forse simbolicamente per l’8 marzo, giorno della festa delle donne”. Lo sostengono i senatori radicali Donatella Poretti e Marco Perduca, e la segretaria dell’Associazione Il Detenuto Ignoto, Irene Testa secondo i quali per quella data simbolica sarà quindi approvato “poco più che il nulla”. Il testo, così come si presenta oggi, infatti, non introduce grandi novità rispetto alla normativa attuale, per via delle modifiche restrittive al testo originario che rischiano di vanificarne i contenuti innovativi e lasciare più o meno invariato il numero di bambini incarcerati con le loro mamme, motivi per cui già alla Camera i radicali hanno rinunciato a esprimere il proprio voto sul provvedimento. A questo punto si sarebbe auspicata un’analisi più approfondita del provvedimento, ma per la gran fretta di celebrarne l’approvazione salta ogni ipotesi di audizione degli operatori sociali impegnati ad alleviare la triste condizione dei bambini in carcere, per esempio, come ogni riflessione che sottende alla presentazione di emendamenti migliorativi. Per questo, anche al Senato la delegazione Radicale, pur facendo il possibile per cercare di migliorare il provvedimento in zona Cesarini, stando così le cose si asterrà probabilmente dal votarlo. Dispiace che si voglia utilizzare in questo modo la ricorrenza della festa delle donne per approvare in pompa magna il nulla, come dispiace dover constatare che durerà purtroppo ancora la consuetudine di ogni nuovo ministro di Giustizia che all’insediamento proclamerà “Mai più bambini in carcere”. Giustizia: Casellati; dai Radicali polemiche inutili sulla legge per le detenute madri Dire, 3 marzo 2011 “Spiace constatare che l’hobby della polemica a tutti i costi è duro a morire. Anche quando ad andarci di mezzo è un provvedimento su una materia delicata come quello sulle detenute madri”. Il sottosegretario alla Giustizia, Elisabetta Alberti Casellati, replica così ai senatori Radicali, Poretti e Perduca. “Vorrei ricordare - aggiunge la senatrice - che questa legge costituisce un passo in avanti rispetto alla normativa precedente, laddove, tra le molte novità, aumenta il tempo di permanenza dei bambini con le loro madri all’interno delle strutture detentive. È del tutto strumentale pure la discussione sulla tempistica di approdo in aula. La calendarizzazione del provvedimento per il prossimo 8 marzo non solo è stata fissata all’unanimità dai capigruppo del Senato - conclude Casellati, ma è stato anche motivo di esibito orgoglio da parte del centrosinistra proprio per la coincidenza con la festa della donna”. Giustizia: altro che pizzini e messaggi in codice, dal carcere ora si comunica con Facebook di Floriana Rullo Affari Italiani, 3 marzo 2011 “Ciro tieni duro che tra un po’ è finita”. E lui risponde: “Ho già fatto due anni e un mese e devo ancora scontare tre anni e sei mesi, ma c’è gente che sta peggio di me. Posso solo augurargli di avere tanta forza e di non mollare mai”. Vecchi cari pizzini e messaggi addio. Cancellati anche gli sms inviati col sistema delle dediche televisive come già accaduto. Ora il commento dai detenuti arriva direttamente da Facebook. Creato on - line il gruppo sul popolare social network “La mia vita rubata dalla giustizia” che registra complessivamente 30mila persone. Niente di nuovo, se non che il gruppo è formato da carcerati e non, tutti napoletani. La stranezza? I detenuti sono ospiti nelle loro celle del carcere di Napoli, non liberi cittadini quindi. E quindi con il divieto assoluto di usare internet. Le pagine dei carcerati - Otre cinquemila, le persone che hanno già cliccato su “mi piace”, undici i commenti. “Vi auguro un presto ritorno a casa. Vi vogliamo sempre bene, non sarete mai da soli”. In realtà le pagine sono due: la seconda si chiama “La mia vita rubata dalla giustizia 2”, perché la prima, considerata illegale, è già stata bloccata. E allora, per aggirare l’ostacolo, chi l’ha creata a deciso di aprirne una seconda: che si chiama, appunto, “La mia vita rubata dalla giustizia 2. Internet vietato in carcere - All’apparenza sembra solo un classico sistema di comunicazione fra parenti, amici e detenuti, al di fuori degli spazi previsti dai colloqui in carcere. Invece non è così. Soprattutto alla luce del fatto che la comunicazione via internet tra le mura degli istituti penitenziari e l’esterno è assolutamente vietata. Come anche questi messaggi clandestini che possono nascondere di tutto: dal pizzino alle disposizioni dei boss nelle celle. Pagina Facebook illegale - Ma come potuta accadere una cosa del genere? Come i detenuti siano riusciti nell’impresa di comunicare con il mondo esterno proprio non è dato saperlo. Almeno, non ancora. La cosa certa è che se una donna scrive un messaggio diretto ad detenuto, sicuramente dall’altra parte del monitor, si può facilmente intuire, c’è qualcuno che lo legge. Da un pc, da un cellulare o chissà cosa. Tutti metodi illegali ovviamente non utilizzabili in carcere. E che la pagina sia assolutamente illegale, lo sa anche lo stesso creatore del gruppo. Tanto che una è già chiusa dai moderatori di Facebook. I messaggi - Frasi e chat scambiate liberamente su Facebook. Come: “A me mancano sette mesi e c’ho ancora da fare cause. A una guardia l’ho menata ed è stato troppo bello, ma dopo non vi dico. Ciao grandi, e onore a noi”. Ma anche mogli che scrivono ai mariti: “ci vediamo martedì”. E poi frasi sulla durezza del carcere: “Non potrai mai capire un carcerato!!! E non potrai mai provare i loro dolori! Prova a rinchiuderti in un metro di stanza solo per una settimana, senza nessuno ma solo una piccola finestra che ti faccia prendere aria, una brandina e 4 mura! E voglio proprio vedere se ci resisti e se dopo dici chi sbaglia paga!”. Indagine della Polposta - Intanto la Polizia postale campana, guidata dal dirigente Domenico Foglia, ha avviato un’indagine. “Inoltreremo un’informativa di reato in Procura chiedendo un decreto per rintracciare le connessioni a internet e capire da dove siano stati inviati i messaggi. In tal modo, faremo luce anche su eventuali responsabilità da parte delle strutture carcerarie, o di altre persone coinvolte”. Capece (Sappe): “caso grave” - Donato Capece, del sindacato Sappe ad Affari: “In carcere il computer possono usarlo. Ma non internet. Ora apriremo un’indagine interna e vedremo da dove e come sia potuto accadere. È un fatto molto grave. Può essere pericoloso sia per l’incolumità fisica del personale che per al sicurezza l’istituto. E ancora: “Sono allibito, è un fatto che ci preoccupa. Noi facciamo i controlli nei colloqui, visivi e non uditivi e poi invece i detenuti riescono a comunicare con l’esterno è una cosa molto grave. Possono essere anche fatte comunicazioni attinenti ad un altro reato, disposizioni dal carcere. È grave. Ora cercheremo di capire cosa sta succedendo”. Giustizia: Cuffaro; l’esperienza del carcere rafforza rispetto verso istituzioni Agi, 3 marzo 2011 L’ex presidente della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro, ha scritto una lettera - pubblicata sul settimanale Tempi - per raccontare come, “dopo i primi giorni di angoscia e di disperazione”, oggi, stia “riorganizzando le speranze”. Cuffaro, condannato con sentenza definitiva a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato alla mafia, detenuto nel carcere di Rebibbia a Roma, spiega come intenda “affrontare in carcere questi anni difficili. Voglio utilizzarli per riappropriarmi del mio tempo, quello che ho sempre con gioia e convinzione donato agli altri. Lo voglio ridare alla mia coscienza, alle mie riflessioni, senza l’affanno della corsa, senza fretta, senza adempimenti, per consentire alla mia anima di raggiungermi”. Nella missiva, l’ex governatore afferma di essere certo che “questa dura esperienza servirà per rafforzare il mio rispetto verso tutte le istituzioni e fortificare la fede che è stata per me di grande sostegno. La fede mi sta realmente dando tanta forza, Dio non mi abbandonerà“. Scrive ancora Cuffaro: “Cercherò anche qui dentro il carcere di essere utile per quelli che hanno più bisogno, io darò loro tutta quella che posso, per farli sentire uomini”. Riguardo alla sua condizione e al suo stato d’animo attuale: “Ho imparato che per il servizio della verità bisogna essere pronti ad affrontare e sopportare le avversità, e nel silenzio della mia cella mi sforzerò di trovare un po’ di serenità. Continuerò a essere quello che sono sempre stato; qui dentro la prigione ho capito che ho ancora la libertà più preziosa, quella di scegliere che uomo voglio essere”. Da ultimo un pensiero per la sua terra: “Ho lavorato e mi sono sacrificato tanto per la mia Sicilia, terra difficile e martoriata, ma proprio per questo meritevole e più bisognosa di essere amata e servita. La Madonna a cui ho affidato da Presidente della Regione la Sicilia mi proteggerà e mi aiuterà“. Toscana: Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo; che succede in Regione? Comunicato stampa, 3 marzo 2011 La situazione dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (da ora Opg) di Montelupo diventa ogni giorno più allarmante e non si vedono segnali concreti per la sua soluzione da parte della Regione che anzi colpisce per il suo immobilismo e silenzio operativo non conseguente alle più recenti affermazioni politiche. Stupisce questa inerzia da parte di una Regione che nel passato, anche recente, era stata protagonista con i propri atti della battaglia civile che ha portato nell’aprile 2008 all’approvazione del Decreto Presidente Consiglio Ministri (da ora Dpcm) di trasferimento delle competenze sanitarie degli Opg (e delle carceri) nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale di cui la Regione è titolare. Dall’approvazione del Dpcm ben poco è cambiato sul piano concreto per gli internati di Montelupo né sono servite le denunce della Commissione Parlamentare di Inchiesta sull’Efficienza del Servizio Sanitario Nazionale da ora Ssn) il cui Presidente Ignazio Marino aveva dichiarato, ancora nel luglio scorso: “...l’Opg di Montelupo è una struttura da chiudere, ma occorrerà trovare soluzioni alternative per gli internati che non sono più sottoposti a misure di sicurezza e, dunque, possono essere dimessi....C’è una situazione di sovraffollamento inimmaginabile: alcune celle accolgono nove internati con uno spazio di tre metri quadri a testa...Macchie di umidità sui muri e sui soffitti, intonaci scrostati, celle anguste...I servizi igienici di alcune celle sono risultati luridi, con urine sul pavimento, il cattivo odore si avverte in molti ambienti... sono presenti celle fino a 9 posti letto con un sovraffollamento che impedisce ogni movimento alle persone ospitate”. Questa denuncia è giunta diversi mesi dopo che la Regione, il 27.1.2010 aveva sottoscritto il protocollo di intesa col Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (da ora Dap) in cui allo specifico punto riguardante l’Opg di Montelupo testualmente si legge:” 2.c Opg - In riferimento agli internati in Opg, le parti si impegnano a individuare, sul territorio regionale, una struttura penitenziaria a custodia attenuata da destinare al trattamento sanitario degli internati toscani nella prospettiva indicata dal Dpcm del 1° aprile 2008, come definita nell’Allegato C, di superamento degli Opg. Tale struttura - previa decisione di competenza del Dap - può essere individuata nella CC di Firenze Solliccianino (Gozzini) che avrebbe una funzione prettamente sanitaria, gestita dal Servizio Sanitario Regionale, con una protezione penitenziaria esclusivamente perimetrale come indicato dal citato Dpcm.” Da allora nulla è successo se non registrare l’opposizione del Comune di Montelupo al progetto di chiusura dell’Opg se venisse sostituito da un carcere: “Nel protocollo - spiegano il sindaco Rossana Mori e l’assessore alle politiche sociali Giacomo Tizzanini - questa destinazione non è prevista e qualsiasi cambiamento va concordato con l’ente locale... Noi stiamo combattendo la destinazione di quelli spazi a celle e se non sono adatti agli internati dell’Opg di conseguenza non lo sarebbero neppure per dei detenuti normali”. Da allora questo problema, squisitamente politico, non ha trovato risposta da parte della Regione e tutto è bloccato: l’opposizione del Comune di Montelupo non è stata politicamente affrontata e la denuncia di Marino è rimasta un annuncio (come tanti altri dei suoi, per es. quello sull’impegno della Commissione per la dimissione di 300 internati entro il dicembre 2010, termine poi slittato a gennaio... ma destinato a slittare ulteriormente non essendosi realizzato alcun passo concreto verso la regionalizzazione degli Opg e non avendo la regione Sicilia, per quanto a noi noto, ancora recepito il Dpcm). In compenso anche la Regione Toscana si è data agli annunci non trovando seguito gli impegni assunti in Consiglio dagli Assessori Allocca e Scaramuccia, come si apprende dal Comunicato della Regione Toscana. n. 1336 del 09.12.2010: “...Allocca, alla cui risposta si è poi aggiunta quella dell’assessore al Diritto alla salute, Daniela Scaramuccia che ha integrato alcuni numeri e dati, ha ricordato che la normativa regionale prevede la dismissione degli ospedali psichiatrici giudiziari e il lavoro in questo senso, che è già cominciato, dovrebbe prevedibilmente concludersi entro il 2011. L’intesa stipulata prevede che Montelupo venga sostituito con una struttura a sorveglianza attenuata, che sarebbe stata identificata nell’attuale Solliccianino. La struttura di Scandicci verrebbe così a ricoprire una funzione prettamente sanitaria... La procedura prevede il rinvio dei non toscani alle regioni di origine, nonché la dimissione di coloro che possono essere presi in carico dal territorio, o possono essere seguiti dal sistema sanitario. Rimarrebbero in carico coloro che hanno bisogno di essere sottoposti a misure di stretto controllo. Per l’esattezza, i toscani sono 51, ma di questi 14 risultano già dimissibili”. Non una parola sulla situazione degli internati, sui ritardi nell’applicazione del Dpcm, su tempi certi per il superamento dell’Opg non risultando credibile il termine del 2011 in assenza di programmi concordati con le Aziende Sanitarie Locali nei tempi e nei modi di attuazione. Da dicembre, comunque, nulla è accaduto nella prospettiva della chiusura di Montelupo (fatte salve le eventuali dimissioni di routine): non una nuova struttura alternativa è stata realizzata (ne era prevista una per Area Vasta); non solo, non riuscendo a gestire politicamente l’opposizione del Comune di Montelupo, sembra che la Regione si stia orientando ad accettare che l’Opg continui ad essere utilizzato, sebbene solo per gli internati toscani (o meglio del bacino di pertinenza), il tutto senza fissare alcuna credibile scadenza per la sua chiusura. Psichiatria Democratica respinge decisamente questa ipotesi di chiaro stampo neo - manicomiale e contraria alla lettera e allo spirito del “graduale superamento” degli Opg previsto dal Dpcm. Riciclando l’Opg di Montelupo si confermerebbe, in assenza di alternative certe nei loro tempi di individuazione e di realizzazione, l’utilizzo a tempo indeterminato di una struttura la cui chiusura è necessaria non solo per le sue inaccettabili condizioni ambientali ma anche per non perpetuare la commistione tra aspetti carcerari e sanitari - assistenziali, mentre una discontinuità, anche logistica come previsto dal protocollo del gennaio 2010, aiuterebbe ad affermare il carattere innovativo della separazione tra aspetti di cura e di custodia previsti dal Dpcm, restituendo alla Regione la piena titolarità della gestione dei bisogni sanitari dei suoi cittadini internati. Psichiatria Democratica chiede alla Regione Toscana di recuperare quella capacità propositiva che l’ha contraddistinta anche in anni recenti e di impegnarsi a gestire politicamente in tempi certi, in tutte le sedi, il superamento dell’Opg di Montelupo nel rispetto dei protocolli sottoscritti ma soprattutto nel rispetto dei diritti degli internati, primo fra tutti quello alla salute, gravemente minacciato dall’internamento manicomiale e da condizioni ambientali degradate e incivili. Cesare Bondioli Responsabile Carceri e Opg di Psichiatria Democratica Calabria: sovraffollamento delle carceri, 3.200 detenuti per 1.900 posti Ansa, 3 marzo 2011 “La Calabria è la Regione d’Italia nella quale sono detenute complessivamente oltre 3.200 persone mentre la capienza regolamentare nei 12 penitenziari regionali non raggiunge i 1.900 posti”. A sostenerlo è Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), che in questi giorni è in Calabria con il segretario generale aggiunto Giovanni Battista Durante in visita nei penitenziari di Catanzaro, Laureana di Borrello e Reggio Calabria, città nella quale venerdì interverrà come relatore ad un convegno su giustizia, carcere e tossicodipendenza. “Questo pesante sovraffollamento - ha aggiunto Capece - fa fare ogni giorno alle donne e agli uomini della polizia penitenziaria i salti mortali per garantire la sicurezza. La mia presenza qui vuole essere testimonianza di vicinanza del primo sindacato della polizia penitenziaria ai disagi dei colleghi della Calabria”. “L’emergenza sovraffollamento in Calabria - ha proseguito - ha raggiunto cifre allarmanti. Fino ad oggi la drammatica situazione è stata contenuta principalmente grazie al senso di responsabilità, allo spirito di sacrificio ed alla grande professionalità del Corpo di polizia penitenziaria. Ma queste sono condizioni di logoramento che perdurano da mesi e continueranno a pesare sulle donne e gli uomini della polizia penitenziaria in servizio negli istituti di pena della Calabria per molti mesi ancora se non la si smette di nascondere la testa sotto la sabbia. Quanto si pensa possano resistere gli appartenenti alla polizia penitenziaria, che sono costrette a trascurare le proprie famiglie per garantire turni massacranti con straordinari talvolta nemmeno pagati, salvando la vita ai detenuti che tentano ogni giorno di suicidarsi in carcere o che reagiscono con l’aggressività nei confronti dei baschi azzurri al crescente sovraffollamento?”. Sicilia: da Messina a Palermo protesta unanime della Polpen, il 18 marzo mobilitazione La Sicilia, 3 marzo 2011 La protesta riunirà lavoratori e sigle sindacali di fronte al carcere dell’Ucciardone. Ieri nuova convocazione presso gli uffici della Capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta. È stato il Capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta ad accogliere le istanze dei rappresentanti sindacali del settore penitenziario che ieri si sono riuniti presso la Scuola di Formazione e Aggiornamento del Personale di Polizia Penitenziaria di San Pietro Clarenza, a Catania, per discutere ancora una volta dei tanti problemi che interessano il settore e che si ingigantiscono mese dopo mese, alimentati dall’insofferenza degli agenti. Un dissenso che culminerà con la manifestazione che si terrà il 18 marzo a Palermo, (inizio h 10), con concentramento presso il carcere Ucciardone e successivo corteo in via Albanese, via Libertà, via Maqueda, via Cavour, fino alla Prefettura. I disagi che i rappresentanti sindacali hanno posto all’attenzione di Ionta rimangono immutati: mancanza di Organici: oggi la regione Sicilia è carente di circa 510 unità di personale di Polizia Penitenziaria, con conseguenze negative sui turni di servizio che superano abbondantemente le dodici ore di lavoro; sovraffollamento negli Istituti, la presenza di circa 8000 detenuti comporta poco spazio per i ristretti e poche attività per il recupero e il reinserimento. Ciò spesso è stato causa di aggressioni nei confronti del Personale di Polizia Penitenziaria, di atti di autolesionismo, di suicidi e di risse; mancanza di Fondi che costringono il personale a lavorare senza percepire le indennità pari al 50% dello stipendio, precisamente non è corrisposto il lavoro straordinario e il saldo delle missioni espletate. E poi ancora, mancanza di Mezzi, insufficienti e inidonei, in uso ai Nuclei Traduzioni e Piantonamenti (parliamo di mezzi già in uso all’Arma dei Carabinieri prima ancora che il servizio traduzioni detenuti fosse affidato al Corpo di Polizia Penitenziaria) e che circolano in una Regione dove la scarsa viabilità aggrava ancora di più il loro utilizzo nell’espletamento del delicato servizio affidato; assenza di interventi Strutturali con alloggi e le caserme sono in stato di abbandono e, quindi, fatiscenti e inidonei per la scarsa assegnazione di fondi straordinari per compiere gli interventi di manutenzione. I sindacati chiedono inoltre la revisione delle modalità di appalto della mensa obbligatorio di servizio, poiché la quota pro - capite viene ritenuta insufficiente e denunciano l’assenza di idonee forniture di vestiario con divise sono indecorose e logore. Abruzzo: un Garante dei diritti dei detenuti per tamponare l’emergenza Il Centro, 3 marzo 2011 “La situazione carceraria - che nel Paese ha ormai raggiunto livelli di vera e propria emergenza - è stata spesso, in questi anni, anche in Abruzzo, al centro di gravissimi episodi di cronaca”. Inizia così la lettera aperta ai consiglieri regionali abruzzesi inviata da Alessio Di Carlo, fondatore ed editore della testata Giustizia Giusta.info e Roberto Di Masci, segretario regionale dei Radicali abruzzesi, per sollecitare la nomina del Garante Regionale dei Detenuti. Nel rievocare a drammatica condizione del penitenziario di Sulmona - che vanta il non invidiabile primato dei suicidi avvenuti in carcere - e quella dell’Istituto di pena di Castrogno di Teramo, con i gravissimi episodi di pestaggio avvenuti nel 2009, Di Carlo e Di Masci hanno ricordato che la criticità del fenomeno carcerario non si limita al dramma del sovraffollamento ed alla carenza di organico Polizia penitenziaria ma anche alle conseguenze della drastica riduzione di fondi sui capitolo di bilancio che ha colpito pesantemente le attività lavorative, di studio e di sostegno, anche psicologico, previste dalla legge in favore delle persone detenute. “Una situazione esplosiva”, scrivono il responsabile di Giustizia Giusta e quello di Radicali Abruzzo, “che ha comportato l’aumento esponenziale di quelli che il Dap definisce (con formula a dir poco infelice) “eventi critici”, cioè suicidi, tentativi di suicidio, autolesionismo, aggressioni al personale”, tanto più grave in Abruzzo, se si pensa che solo Pescara si è dotata, a livello comunale, della figura del Garante. L’invito conclusivo rivolto ai consiglieri regionali di tutti gli schieramenti - ripartendo dalle proposte di legge presentate durante la legislatura in corso tanto da esponenti della maggioranza quanto da rappresentanti dell’opposizione - è quello di dare corso alle procedure necessarie per addivenire finalmente alla nomina della figura del Garante Regionale dei Detenuti e, al tempo stesso, concludono Di Carlo e Di Masci “a voler esercitare il potere - dovere di ispezione nei penitenziari, anche con il diretto coinvolgimento delle Associazioni scriventi, da sempre attente al fenomeno dell’emergenza carceraria in particolare ed alla tutela dei diritti umani in generale”. Sassari: Camera Penale; San Sebastiano è una polveriera, sei persone nella stessa cella L’Unione Sarda, 3 marzo 2011 Camere penali sul carcere: condizioni di vita impossibili. L’Unione dei penalisti italiani denuncia le condizioni di vita a volte insopportabili di chi sta dietro le sbarre, fino a rasentare il suicidio. Inferno San Sebastiano: i penalisti scendono in campo peri diritti dei carcerati. “Il penitenziario di Sassari è al collasso, cos’i come molti, altri in Italia. Non è possibile pensare che sei persone possano vivere, mangiare e dormire nella stessa cella, che i detenuti debbano faro i turni per scendere dalla branda e sgranchirsi le gambe. La struttura è fatiscente e le condizioni di vita sono insopportabili”. Giuseppe Conti, avvocato sassarese e vice presidente dell’Unione camere penali italiane, fa il punto della situazione sul pianeta carcerario in citta. “Il problema del sovraffollamento esiste, ma non può essere risolto con la costruzione di altre strutture. Il fatto fi che in carcere dovrebbero entrarci mono persone. Bisognerebbe studiare sanzioni alternative alla detenzione, almeno por i reati meno gravi”. La riflessione su San Sebastiano prende spunto da un documento reso noto ieri sera dall’Unione dei penalisti italiani nel quale si denunciano le condizioni di vita a volte insopportabili di chi sta dietro le sbarre. Condizioni di vita lauto difficili da spingere spesso al suicidio. ma non solo. “Al drammatico bollettino delle morti da suicidio che si consumano nelle carceri del nostro Paese con tragica e inarrestabile frequenza, si aggiungono, nelle ultime ore, alcuni casi di gravi violazioni del diritto alla salute. Nel carcere di Sollicciano è deceduto un uomo di 48 anni, reduce da ricovero ospedaliero per problemi polmonari, alla sua prima esperienza, carceraria. Altra segnalazione riferisce di mi cittadino detenuto nel carcere di Regina Coeli, gravemente invalido e a rischio vita secondo la stessa amministrazione penitenziaria. Condizione che renderebbe assolutamente incompatibile lo stato di salute con il regime custodiate in atto”. relazione choc. Inizia così la relaziono choc resa nota ieri dall’Unione delle camere penali italiane. Poche righe che, dopo aver ricostruito la storia dei due detenuti, si chiudono così: “l’Unione delle camere penali italiane - denuncia, per l’ennesima, volta, la. responsabilità diffusa delle istituzioni, incapaci di garantire la seppur minima tutela dei cittadini, privati della libertà e abbandonati al loro destino, in violazione dei più - elementari diritti posti a tutela della dignità prima. ancora che della salute. Contro tutto questo si leva, forte la protesta degli avvocati penalisti che più di altri vivono l’angoscia dei detenuti più deboli e dei loro familiari, illusi dì vivere in un paese civile”. Piacenza: Sappe; detenuto morto, suicidio da escludere Ansa, 3 marzo 2011 Sembra da escludere il suicidio per la morte del detenuto deceduto ieri pomeriggio nel carcere di Piacenza; ex tossicodipendente di circa 30 anni, era alle Novate dall’ottobre 2010 e sarebbe dovuto uscire a giugno. Lo ha riferito Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato di polizia penitenziaria Sappe. “L’uomo, dopo essere uscito dal bagno, è caduto a terra. Secondo quanto ci hanno riferito - ha spiegato Durante - respirava a fatica e i compagni di cella hanno avvisato gli agenti della polizia penitenziaria, che sono intervenuti immediatamente. Sono stati chiamati prima i sanitari del carcere e subito dopo il 118. I medici non sono però riusciti a salvare l’uomo, che sembra sia deceduto subito dopo per arresto cardiaco. Sono in corso gli accertamenti, per verificare le cause della morte. Sembra potersi comunque escludere ogni intento suicidario”. Lo scorso anno - ha ricordato il sindacalista del Sappe - i morti in carcere sono stati circa 180, di cui 66 per suicidio. E l’Emilia-Romagna continua ad essere una delle regioni dove ci sono i maggiori eventi critici: suicidi, tentativi di suicidio, morti naturali, aggressioni e danneggiamenti. Padova: Sappe; detenuti semiliberi alloggiati nella Caserma degli agenti? Una vergogna! Ansa, 3 marzo 2011 Sono sconcertato anche dalla decisione di destinare un piano della Caserma Agenti della Casa di Reclusione di Padova alla detenzione dei detenuti semiliberi: è una decisione assurda e vergognosa!”. È quanto dichiara Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - il primo e più rappresentativo della Categoria, a commento di quanto accade nel penitenziario di Padova. Questa è una vergogna inaccettabile contro la quale manifesteremo ovunque il nostro sdegno, a cominciare dalla protesta già in programma a Roma per l’8 marzo davanti alla sede di Roma del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria!”. Como: Sappe; poliziotto ferito da aggressione di un detenuto Agi, 3 marzo 2011 Un poliziotto penitenziario è rimasto ferito dopo che è stato aggredito da un detenuto straniero all’interno del carcere di Como. È quanto rende noto il Sappe, Sindacato autonomo polizia polizia penitenziaria in una nota, giudicando “gravissimo e inaccettabile” l’episodio. Qualche giorno fa c’è stata un’altra aggressione ai danni di due poliziotti penitenziari, sempre nel carcere di Como. “Bisogna contrastare con fermezza questa ingiustificata violenza in danno dei rappresentanti dello Stato in carcere - afferma nella nota Donato Capece, segretario del Sappe - e punire con pene esemplari chi li commette: penso ad un maggiore ricorso all’isolamento giudiziario fino a fine pena con esclusione delle attività in comune ai detenuti che aggrediscono gli agenti”. Roma: detenuto gravemente obeso e malato rischia il ritorno in carcere Leggo, 3 marzo 2011 Rischia di tornare in carcere il detenuto obeso e gravemente malato Aristide Angelillo, arrivato a pesare 318 chili. Per il suo stato incompatibile con il carcere, nel 2006 gli fu concessa la detenzione domiciliare. Oggi, per un cavillo burocratico, rischia di tornare in cella. Per protesta e far conoscere la sua tragica condizione ha scelto di pubblicare le foto del suo corpo nudo sul suo blog detenutobeso.myblog.it. “Angelillo ha passato in carcere molti anni in condizioni disumane, costretto a dormire seduto, altrimenti sarebbe morto soffocato, e a fare i bisogni sul pavimento perché il bagno della cella era troppo piccolo”, racconta Patrizio Gonnella, il presidente dell’associazione Antigone, che si batte per i diritti nelle carceri. “Oggi scadono i termini della detenzione domiciliare e per un disguido burocratico - aggiunge Gonnella - non è stata ancora fissata l’udienza di conferma dei domiciliari”. “Angelillo, dunque - dice ancora Gonnella - rischia di dover tornare in cella ed è pazzesco che un tragico disguido di burocrazia giudiziaria possa arrivare ad infliggere una sanzione carceraria che in questo caso tanto somiglia ad una tortura”. Inoltre, afferma Gonnella, “anche nell’ipotesi in cui Angelillo non finisca in carcere sarebbe necessario che i giudici gli consentissero di poter essere curato in un’apposita struttura ospedaliera”. Aristide Angelillo, 47 anni, napoletano, è entrato in carcere quando pesava 190 chili per scontare una condanna a sei anni per una vicenda legata alla droga. Ma su di lui pende una seconda pena a undici anni, con l’ accusa, sempre negata da Angelillo, di avere confezionato un pacco bomba esploso nel 2004 negli uffici della questura di Perugia. Bologna: “Professione docente e carcere…”, al via Corso di alta formazione Adnkronos, 3 marzo 2011 È ai nastri di partenza il corso di alta formazione “Professione docente e carcere: insegnare, apprendere, educare”, un progetto ideato e sviluppato da Fondazione Alma Mater e dalla facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Bologna insieme al “Centro per la Giustizia Minorile per l’Emilia Romagna”, all’Istituto Penale Minorle di Bologna e all’Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia Romagna. Si tratta di un percorso di formazione che vuole offrire una preparazione specifica a coloro che insegnano nelle realtà carcerarie. Il corso, che si realizza grazie al contributo della “Fondazione del Monte”, è rivolto agli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado con almeno 180 giorni di servizio nell’ultimo triennio e agli educatori presso le strutture carcerarie, il corso sarà di durata annuale e avrà inizio il 9 aprile; la scadenza per le iscrizioni è l’11 marzo. Obiettivo finale del corso, diretto dalla professoressa Roberta Caldin della facoltà di Scienze della Formazione dell’Alma Mater Studiorum, è costituire una esperienza eccellente a Bologna, che sia trasferibile ad altre realtà e possibilmente divenire poi, attraverso l’iter necessario, percorso formativo d’obbligo per i docenti delle carceri. Noto (Sr): raccolta di solidarietà di libri da donare ai detenuti La Sicilia, 3 marzo 2011 Oltre settanta libri, prevalentemente romanzi ed opere piuttosto note di altrettanti autori famosi, da Dostoevskij a Pablo Neruda, da Roberto Gervaso ad Andrea Camilleri passando per Goethe, Shakespeare e persino Nostradamus, saranno donati, nei prossimi giorni alla biblioteca del carcere di Noto. Trova così concretizzazione l’iniziativa del preside Corrado Dipietro che, nei mesi scorsi, aveva avviato una raccolta di solidarietà tra quelli che egli stesso definisce i “suoi amici” volta ad un piccolo ma significativo gesto: donare dei libri alla biblioteca dell’istituto penitenziario più vicino a Pachino, ossia quello della città barocca. “Sono stati raccolti circa 250 euro, - ha affermato Dipietro, una somma che, grazie anche alla generosità della libreria Urso di Avola che ha garantito un particolare sconto destinato proprio all’iniziativa, ha permesso di raccogliere settanta volumi nuovi di autori vari. Per questo ringrazio tutti coloro che hanno voluto aderire a questa iniziativa e che ho ricordato apponendo sulla copertina di ogni libro una scritta mediante un timbro con la dicitura “Gli amici del preside Dipietro”“. L’iniziativa prese le mosse qualche mese orsono e si è ben radicata tra diversi professionisti, avvisati dal semplice passaparola. L’idea incontro subito immediato consenso, e la raccolta fu avviata. “Abbiamo voluto inserire testi molto variegati, - ha affermato il preside Dipietro, ed ognuno con un significato particolare. Nessuno dei libri è stato inserito in modo casuale. Ovviamente non potevano mancare alcuni testi di autori pachinesi tra cui “Pachino tra passato e presente” e “Pachino nelle opere degli autori antichi” di Dipietro, “Indecifrabili mappe celesti”, “I giorni che precipitano” e “Circannu nun si sa chi” di Cagliola, “Pachino nel corso del tempo” di Drago, e “A cu seca seca” di Cultrera, oltre, ovviamente ad alcuni racconti di Vitaliano Brancati”. I volumi, nelle prossime settimane, saranno consegnati alla direzione carceraria che ha accolto l’iniziativa. Una delegazione formata dal sindaco Paolo Bonaiuto, dal poeta Dipietro, dal dottore Morana e dalla professoressa Angela Traversa si recherà all’interno del penitenziario netino per ufficializzare la donazione. Sempre in tema di libri, il primo cittadino pachinese Paolo Bonaiuto, il prossimo lunedì otto marzo donerà a tutte le dipendenti della casa municipale, il libro di Sara Favarò dall’emblematico titolo “Il coraggio delle donne”. Napoli: da sabato la mostra fotografica “Intra/Vedere”, nata a Poggioreale Il Mattino, 3 marzo 2011 Tre mesi in una stanza per immaginare la libertà. E per dare un contorno ai sogni attraverso la fotografia. Nasce a Poggioreale la mostra Intra/Vedere: tredici scatti in digitale, stampate su pannelli in forex di un metro per 70 centimetri, a colori. Fotografie di corpi e di movimenti, concettuali, evocative, mai banali: un braccio attraverso la grata, ombre di mani, collage di occhi, visi tagliati a metà dall’orlo di un tavolo. Tutte scattate e scelte in una stanza del Padiglione “Roma”, quello destinato ai reclusi per reati legati alle tossicodipendenze. Da sabato 5 marzo (vernissage ore 19) sono in esposizione alla galleria Giù Box di Via Bonito 21, sulla collina del Vomero. Oltre alle stampe giganti, anche un video - collage delle fotografie non selezionate, circa duecento scatti in tutto. La mostra è la prima del genere a Napoli, l’unica che è passata dal carcere all’esposizione in galleria. E, visto che nasce all’interno del penitenziario più affollato d’Europa (oltre 2mila e 500 detenuti stretti in una struttura che può ospitarne mille in meno), dove anche un’ora d’aria è una conquista, è già un successo averla realizzata. L’esposizione è l’evento finale del progetto “Identità sensibili”, curato dalla fotografa Antonella Padulano e dall’educatrice Patrizia Giordano che da anni lavora nell’istituto napoletano. Insieme hanno condotto un percorso didattico ma anche artistico, sociale e culturale: i detenuti hanno imparato cos’è un diaframma, quali sono i tempi della fotografia, l’esposizione e le caratteristiche di una foto tecnicamente corretta, e hanno osservato l’arte del Caravaggio e del grande fotoreporter Paolo Pellegrin, fino a realizzare, con una digitale professionale, le fotografie scelte per l’esposizione. In 102 ore di corso e incontri due volte a settimana - il venerdì e sabato - i ragazzi (età media 30 anni) hanno studiato e hanno imparato a usare la macchina fotografando tutto ciò che si può riprendere in una stanza di Poggioreale. “È stato bello vedere queste persone - spiega Patrizia Giordano - appassionarsi, prendere appunti, fare domande, mettere a frutto la loro intelligenza in una situazione distesa di accoglienza, come se fossero liberi. Si sono lasciati guidare, hanno giocato con le forme e con i corpi e quello che hanno realizzato rappresenta la loro capacità di creare immagini e di portarle fuori, lasciandosi guidare”. Loro si chiamano Antonio Coppola, Angelo Di Luca, Andrea Di Somma, Guglielmo Tare Eid Sayed, Massimo Forino, Gennaro Lanza, Ciro Perna, Ciro Pollicino, Domenico Sannino e Giuseppe Vigna, e da sabato per due settimane (il lunedì, mercoledì e venerdì dalle 17 alle 19) le loro fotografie saranno visibili a tutti. “Alla fine le fotografie - dice l’educatrice - sono il risultato delle loro scelte e della loro fantasia e non di una situazione di costrizione. Sono senza didascalie perché abbiamo preferito che avessero un senso in sé e lasciassero vedere allo spettatore quello che è l’essere “dentro” dei loro autori. Mi piacerebbe che ci fossero alla mostra: spero che almeno uno di loro, che ora è libero, si ricordi di venire”. “Dobbiamo ringraziare il direttore di Poggioreale Cosimo Giordano - dice Antonella Padulano - che ha sposato il progetto con grande entusiasmo e ci ha dato la possibilità di portarlo avanti, e anche Michele Del Vecchio e Vincenzo Chirichella di Giù Box che ci offrono lo spazio per esporre le fotografie. Abbiamo lavorato con grande solidarietà, creando un gruppo in cui la macchina fotografica era un mezzo da sfruttare in modo artistico ma anche uno strumento per confrontarsi e mettersi in gioco”. “Tre mesi di corso non sono tantissimi - conclude la Padulano - ma sono stati sufficienti per apprendere le diverse esposizioni e incominciare a giocare con le ombre. Come ha detto qualcuno, “loro c’erano” e, tra di loro, anche persone con molto talento”. Droghe: Cassazione; non punibile chi compra ecstasy per uso di gruppo di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2011 Acquistare ecstasy per un “uso di gruppo” resta un comportamento penalmente irrilevante, anche dopo la riforma Fini-Giovanardi (legge 46/2006), a condizione che risulti in modo chiaro e incontestato il “mandato ad acquistare” lo stupefacente. In sostanza, consumare droga “in gruppo” non comporta la denuncia penale (ma solo l’inevitabile segnalazione al prefetto) se la sostanza era stata acquistata per decisione comune di tutti i partecipanti. Se invece qualcuno mette a disposizione di terzi la droga di cui aveva già disponibilità, c’è ragione per l’intervento repressivo del giudice. La Sesta sezione della Cassazione è tornata ieri (8366/11) a occuparsi dei limiti della non perseguibilità previsti dal Dpr 309/90 anche dopo la novella del 2006. A complicare l’applicazione del nuovo articolo 73 è l’avverbio “esclusivamente”, aggiunto al “vecchio” uso personale: secondo il procuratore generale dell’Aquila, che aveva impugnato un proscioglimento con la formula del “fatto non previsto dalla legge come reato”, la Fini - Giovanardi troverebbe applicazione in tutti quei casi in cui la quantità, le modalità di presentazione o altre circostanze facciano apparire la droga sequestrata “destinata a un uso non esclusivamente personale”. Sotto questa prospettiva, ogni acquisto “eccessivo” “pone in essere un fatto pericoloso e allarmante, in quanto contribuisce alla diffusione” degli stupefacenti “aumentando il vizio” dei destinatari, annichilendo così le finalità socio-sanitarie del legislatore del 2006. Ma i giudici della Sesta hanno ribadito che il consumo di gruppo “si appalesa come una particolare specie del più ampio genus configurante il concetto di detenzione” per uso personale: la specificità decisiva e scriminante è “il raggiungimento della prova positiva di una comune e originaria finalità che unisce e dà forma alla partecipazione dei singoli”, caratterizzandosi “nel denominatore comune di un uso esclusivamente personale”. Quindi, se c’è l’accordo preventivo per l’acquisto e il consumo, continua a valere l’area di non perseguibilità dell’articolo 73 anche per i gruppi. Ma ciò significa per converso - conclude la Cassazione - che la non punibilità cessa se un gruppo decide di utilizzare lo stupefacente “già detenuto da uno di loro”: il cedente “estraneo” è alla fine dei conti equiparabile a uno spacciatore. Immigrazione: Giovanardi; sistematico ricorso a violenza rende Cie invivibili Dire, 3 marzo 2011 “Il sistematico ricorso alla violenza e le deliranti campagne diffamatorie di gruppi antagonisti stanno alimentando un clima che rende invivibili i centri di identificazione, i cui ospiti vengono di continuo istigati alla rivolta, con vandalismi e danneggiamenti che costano centinaia di migliaia di euro alla collettività”. Così Carlo Giovanardi, sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri. “È chiaro l’obiettivo di impedire l’identificazione e l’espulsione dei criminali fuggiti dalle carceri tunisine, che si sono mischiati alla folla dei rifugiati in Italia. È un miscela esplosiva sulla quale spero la magistratura voglia intervenire prima che i violenti impuniti ricorrano ad azioni ancora più gravi”. Immigrazione: tensione al Cie di Torino. Tunisini: non potete rinchiuderci Redattore Sociale, 3 marzo 2011 Visita al centro espulsioni piemontese. Domenica scorsa l’incendio che ha reso inagibili 30 posti, poi lo sciopero della fame, che oggi entra nel suo terzo giorno. Anche un minorenne tra i reclusi. Tensione alle stelle al Cie di Torino. Anche qui come a Gradisca e a Modena, protestano i tunisini trasferiti da Lampedusa. Sono 104 su un totale di 144 trattenuti, di cui 70 arrivati direttamente dall’isola siciliana. Dall’Italia non chiedono documenti, ma soltanto un foglio di via per continuare il loro viaggio verso la Francia, dove la maggior parte di loro ha dei parenti pronti a ospitarli e a farsi carico di loro. Alla base delle proteste c’è la mancanza di chiarezza sul loro futuro. Mentre infatti la maggior parte dei seimila tunisini sbarcati in Sicilia sono oggi liberi, accolti nei centri per richiedenti asilo oppure in viaggio per la Francia, a loro è toccato in sorte il trattenimento nei cie, dove si prospettano sei mesi di detenzione e il rischio del rimpatrio forzato. Contro questa evenienza, domenica scorsa, il 27 febbraio, un gruppo di loro ha appiccato il fuoco nell’area gialla, incendiando materassi e lenzuola dentro le camerate. Per spegnere le fiamme sono dovuti intervenire i vigili del fuoco, dopodiché l’intera area è stata dichiarata inagibile e chiusa in attesa dei lavori di ristrutturazione, costringendo le autorità a fare a meno dei 30 posti della sezione. E adesso è la volta dello sciopero della fame. Hanno iniziato a rifiutare il cibo due giorni fa e oggi entrano nel terzo giorno di sciopero. Sono una trentina di tunisini, quasi tutti di Zarzis, della sezione verde. Dicono che continueranno lo sciopero fino alla loro liberazione. Salvo rare eccezioni, per tutti loro è la prima volta che si trovano in carcere. Sono tutti ragazzi della costa tra Zarzis, Gabes e Ben Guerdane. Ex camerieri negli alberghi dei turisti, meccanici ed elettricisti. Lavoratori partiti per guadagnarsi un futuro appoggiandosi alla comunità della diaspora delle proprie città tra Parigi e Lione. E non riescono ad accettare l’idea di essere detenuti. “Non siamo dei cani, cos’è questa gabbia, non siamo dei pitbull! Siamo uomini, abbiamo un onore, una dignità, non potete rinchiuderci in questa prigione per sei mesi. Anche in Tunisia stanno arrivando migliaia di stranieri dalla Libia, ma non li abbiamo arrestati! Ridateci la libertà“. Tra di loro c’è anche un minorenne. Si chiama Basam e dice di essere nato il 31 luglio del 1994. Tra qualche mese compirà 17 anni. Per legge non può essere trattenuto in un centro di identificazione e espulsione. Il problema è che fino ad oggi non lo aveva dichiarato a nessuno. Dice che aveva paura che lo portassero via da solo, si sentiva più sicuro con gli amici della sua città. Ma se l’alternativa è rimanere detenuto per sei mesi, ha cambiato idea. Il problema è che non ha documenti di identità, e non li ha per lui neanche il fratello che vive a Milano, sposato con una donna con la cittadinanza italiana. E allora adesso non gli rimane che la radiografia del polso, usata nei casi dubbi come questo per stabilire l’età di una persona, per capire quale sarà il suo destino. Immigrazione: tunisini nel Cie di Modena; storie di chi non è riuscito a arrivare in Francia Redattore Sociale, 3 marzo 2011 Chi sono e cosa chiedono i reclusi che domenica scorsa hanno protestato bruciando i materassi al grido di “Libertà!”. Quello che non capiscono è perché sono finiti dietro le sbarre a differenza dei loro compagni di viaggio Chiedono la libertà i 42 tunisini trasferiti da Lampedusa al centro di identificazione e espulsione (Cie) di Modena che hanno protestato domenica scorsa, 27 febbraio, al grido di “Libertà!” mentre incendiavano i materassi buttati fuori dalle camerate nel cortile dove le gabbie di ferro separano i moduli uno dall’altro. Per quasi tutti è la prima volta che si trovano in detenzione. E quello che non riescono a capire, è perché loro sono finiti dietro le sbarre mentre i loro compagni di viaggio con cui sono sbarcati in Italia, a quest’ora sono già arrivati in Francia. Abdelshafi ad esempio ha degli amici di Zarzis che hanno viaggiato con lui, sulla stessa barca, e che da Lampedusa erano stati trasferiti al centro espulsioni di Bologna, da dove però nel frattempo sono stati rilasciati con un foglio di via. L’ultima volta che li ha chiamati gli hanno detto di essere già arrivati a Parigi. Perché loro sì e lui no? Lui che prima di imbarcarsi senza documenti aveva pure provato la strada legale, chiedendo un visto turistico all’ambasciata della Polonia a Tunisi. Pensava sarebbe stato più facile, da Varsavia avrebbe poi raggiunto in auto la Francia. Ma il visto glielo hanno rifiutato e oggi si ritrova rinchiuso qua dentro. Jed invece è del nord della Tunisia, di Cap Bon, ed è sbarcato a Pantelleria a metà gennaio. A bordo erano in sei, tutti amici. E tutti e sei sono stati portati al centro espulsioni di Modena. Poi però in tre sono stati rilasciati, per fare posto ai nuovi arrivati. E gli altri tre ancora si chiedono perché la loro libertà valga di meno. La stessa domanda se la pone da giorni Karim. Un uomo di quarant’anni. Una brava persona che per la prima volta si trova detenuto e non riesce a farsene una ragione. Lui che era partito pensando che avrebbe facilmente trovato un lavoro per curare il figlio. Un bambino di 9 anni, con una malattia genetica al sistema nervoso, che necessita di cure e assistenze continue, e che invece adesso è ancora più solo. L’altra notte suo padre si è messo a piangere pensando alla situazione in cui è finito e pensando che lo aspettano sei mesi rinchiuso qua dentro. Ayadi invece padre lo diventerà presto. La sua compagna lo aspetta in Belgio. È marocchina e vive a Bruxelles. È incinta da cinque mesi. Lui era appena stato espulso, e appena sono ripresi gli sbarchi ha colto la palla al balzo per tornare in Europa dalla sua famiglia. 42 reclusi su 59 sono tunisini arrivati da Lampedusa Molti vengono da Zarzis, e adesso chiedono di essere rilasciati per continuare il viaggio verso la Francia. Ali: “Qui è a posto, ma perché ci devono tenere rinchiusi come animali?”. “Non è per le condizioni del centro, è per la libertà. Che me ne importa di come si mangia, lo vedi qui è a posto, ma perché ci devono tenere rinchiusi come animali?”. Ali è un elettricista di Zarzis, suo zio l’aspettava a Parigi. Ma a questo punto non sa più neanche lui se e quando arriverà. “Non si capisce niente. C’è chi dice che ti tengono dentro sei mesi, chi dice che ti rimandano in Tunisia”. Centro di identificazione e espulsione di Modena. È la mattina di venerdì 25 febbraio. Mancano ancora due giorni alla rivolta di domenica. E la prefettura mi ha autorizzato a visitare il centro. Con un pò di insistenza ho ottenuto l’ok per l’ingresso nei moduli dove sono reclusi i tunisini trasferiti da Lampedusa nelle settimane scorse. Sono 42 su un totale di 59 uomini rinchiusi qua dentro. E vengono quasi tutti dalla città di Zarzis, a parte qualcuno di Sfax e di Ben Guerdane. Per capirlo basta dare uno sguardo alle pareti della sala comune. Le avevano da poco riverniciate di bianco. Ma sono bastati pochi giorni perché tornassero di nuovo tutte un graffito. “Zarzis” è la parola più frequente. È scritta in arabo e in italiano. Alternata alla rabbia di chi ha scritto in un italiano sgrammaticato spergiuri di vario genere contro il governo, alla nostalgia di chi ha inciso dichiarazioni d’amore per una tale Maria, alla speranza di chi ha ripetuto “Allahu Akbar”, dio è il più grande, e al cocktail di tutte queste emozioni raccolte nel disegno di un grande cuore incendiato. Ali mi mostra la camera. Ci sono due letti. È tutto pulito. Il muro è un collage di fotografie di nudi femminili degno di un collezionista di Playboy. Al centro dei due letti però, su quello stesso muro c’è appeso un cartone bianco con su scritto con cura, a pennarello verde, la prima sura del Corano. Indica la direzione della preghiera, verso Mecca. “Inshàallah nakhruju”, mi dice. Se dio vuole usciremo. Solo in quel momento mi accorgo che dietro di lui, nel corridoio, sul muro c’è un’altra scritta che prima non avevo notato. È in italiano, dice: “La cosa più bella al mondo è la libertà”. Abaziyad: in Italia da una vita, lotta contro il rimpatrio forzato Marocchino, ha trent’anni e vive in Italia da quando era bambino. Tutta la sua famiglia sta all’Aquila. Da un mese si ritrova rinchiuso nel centro di espulsione di Modena perché è stato trovato senza documenti. Non tutti i 59 uomini reclusi nel Centro di identificazione e espulsione (Cie) di Modena sono tunisini. Diciassette di loro erano giù al Cie prima dell’arrivo dei 42 tunisini da Lampedusa. Per la maggior parte dei casi si tratta di persone residenti in Italia da una vita, e che per un documento scaduto sono finiti qua dentro, con il rischio di passare sei mesi in detenzione fino e subire un rimpatrio forzato. Gente come Ben Hajj che in Italia vive da 10 anni, da quando arrivò dalla cittadina di Mahdia, in Tunisia, nell’ormai lontano 2001. Lavora in nero come corriere per una ditta di Carpi, in provincia di Modena, dove vive insieme alla compagna italiana. Viveva anzi, prima che lo scorso 18 febbraio dalla questura di Modena lo portassero direttamente al centro di espulsione. Il tutto per un precedente penale di tre anni prima. Un’aggressione a un poliziotto, nel 2008, una sera che, ammette, aveva bevuto un pò troppo. Ma d’altronde si sa, mentre a chi ha la cittadinanza italiana il reato si estingue con l’espiazione della pena, per chi è nato fuori dai confini europei, un precedente penale ti rovina la vita per sempre. In questo senso la storia di Abaziyad è allucinante. Perché davvero se lo dovessero rimpatriare in Marocco non saprebbe a che porta bussare. Qui in Italia infatti ha tutta la famiglia. Il padre, la madre, quattro sorelle e due figli. Sì perché Abaziyad, classe 1981, in Italia è arrivato quando era ancora bambino. Era il 1993 e di anni ne aveva 12. Nessuna storia tragica, arrivò qui con un banalissimo ricongiungimento familiare con cui suo padre si portò in Italia tutta la famiglia. Ha sempre vissuto nella provincia di L’Aquila, dove ha studiato e lavorato. Aveva una bancarella, con tutte le carte in regola. Finché un giorno lo hanno beccato mentre vendeva dei pericolosissimi cd masterizzati. E gli hanno dato 6 mesi di carcere per contraffazione. Era il 2006. Quando è uscito si è ritrovato senza documenti. A fare il resto è bastato un banale controllo di identità. Da un mese ormai si ritrova rinchiuso nel centro di espulsione di Modena. Il suo avvocato segue il ricorso contro l’espulsione. Ma il rischio di rimpatrio è sempre alto. Intanto Adil e Tareq, i suoi due bambini, di tre anni e quattro anni e mezzo, continuano a chiedere alla mamma quando torna papà. Loro che sono più intelligenti dei grandi, davvero non riescono a capire come mai papà non torna più. Immigrazione: Cie Modena; ogni “recluso” costa 75 euro al giorno Redattore Sociale, 3 marzo 2011 Ci sono 59 persone oggi nel centro di identificazione e espulsione gestito dal 2002 dalle locali Misericordie. Per lo Stato un costo triplo del Cie di Crotone (chiuso l’anno scorso): “Ma qui gli operatori sono assunti a tempo indeterminato”. Costruito appositamente nel 2002, a fianco del carcere, dall’esterno ha l’aspetto di un albergo. Niente filo spinato, niente mura di cinta. Il colore arancione delle pareti rassicura. Ma le gabbie all’interno riportano subito alla realtà. Benvenuti al Centro di identificazione e espulsione (Cie) di Modena. Sei moduli affacciati a ferro di cavallo su un cortile diviso in quattro aree da una serie di recinzioni metalliche altre quattro metri. Gabbie che servono a isolare i detenuti di un settore da quelli dell’altro. I reclusi sono tutti uomini, la sezione femminile è stata chiusa la scorsa estate. I posti a disposizione sono 60, dieci per modulo. Al momento della nostra visita erano presenti 59 persone, di cui 42 tunisini trasferiti da Lampedusa nelle settimane scorse. In ogni modulo ci sono quattro camere, due da tre posti, e due da due. E due bagni. Al centro del modulo, una sala pranzo con due tavoli di metallo fissati al pavimento insieme alle panche. In alto, una televisione collegata alla parabola, incastonata nel muro e protetta da un vetro infrangibile. Ogni detenuto ha diritto a un menù personalizzato, a un kit di indumenti, e a una serie di accessori quotidiani, che gli vengono scalati da un bonus di 2,50 euro che matura per ogni giorno di detenzione. Al primo piano c’è una specie di “banca” dove si aggiorna un registro contabile delle entrate e delle uscite per ogni ospite. A disposizione ci sono sigarette, schede telefoniche, merendine, coca cola, shampoo antiforfora e quant’altro. Il servizio di lavanderia è gratuito. Gli indumenti sono igienizzati e sterilizzati a ogni lavaggio. E poi c’è un servizio di assistenza sociale e medica e la possibilità di ottenere prestazioni specialistiche al policlinico. Tutte attenzioni che “servono a diminuire le tensioni” ripete più volte la direttrice del Cie, Anna Maria Lombardo. Già, perché la qualità della struttura detentiva non cambia la questione di fondo: la privazione della libertà per sei mesi di persone che non hanno commesso nessun reato, e il conflitto sociale che ciò rappresenta. Un conflitto che ogni tanto riesplode nonostante i menu personalizzati e la “banca”. L’ultima rivolta è stata domenica scorsa, 27 febbraio, quando i reclusi hanno buttato materassi e vestiti nel cortile dandogli fuoco. E probabilmente altre sono avvenute prima senza che nessuno ne abbia notizia, visto che a differenza degli altri Cie, qui la Prefettura ha disposto che i reclusi non possano utilizzare i propri telefoni cellulari per essere contattati dall’esterno da stampa e associazioni. Per quanto riguarda la gestione, sin dalla sua inaugurazione nel 2002, il Cie di Modena è affidato alla Misericordia di Modena, diretta da Daniele Giovanardi. A gennaio 2009 hanno vinto l’ultima gara, valida fino a fine 2011. Dal 2005 inoltre, la Misericordia di Modena gestisce anche il Cie di Bologna, la cui direttrice è la stessa Anna Maria Lombardo. Per ogni persona detenuta presso il Cie di Modena, lo Stato paga 75 euro al giorno. Il triplo della diaria di 26 euro che lo Stato pagava al Cie di Crotone, chiuso dopo le rivolte dello scorso anno. Lombardo si difende dalle facili accuse: “Innanzitutto - dice - c’è una differenza di costo della vita tra il nord e il sud. E poi noi i nostri operatori li teniamo tutti a tempo indeterminato. E poi c’è la qualità del cibo, il kit di ingresso, i servizi, il pocket money. E comunque abbiamo vinto una gara pubblica”. E poi c’è il numero di operatori. In una struttura per 60 detenuti lavorano: 23 operatori sociali, 5 medici, 32 infermieri, 6 mediatori culturali e 4 amministratori. Senza contare i servizi di pulizia e il catering, appaltati a ditte esterne. Libia: non si fa giustizia con la pena di morte di Alessandro Rinnaudo L’Opinione, 3 marzo 2011 Il regime di Gheddafi è ormai agli sgoccioli, nonostante gli ultimi disperati, farneticanti tentativi di resistere, con rappresaglie e relativo spargimento di sangue, da parte del despota libico. La diplomazia internazionale, inerte in un primo momento, si sta scervellando su come risolvere la situazione libica nel modo più incruento possibile. Si parla di Tribunale dell’Aia per il Colonnello, Obama paventa l’ipotesi di esilio, non specifica però in quale paese. È evidente che Gheddafi vada processato per i crimini perpetrati ai danni del popolo libico e, detto fra noi, a sorta di risarcimento morale per come ha cacciato via gli italiani nel corso della rivoluzione che lo ha portato al potere. Il rischio di questi momenti è il fondamentalismo giustizialista, ovvero che in Libia prenda il comando una formazione politica che voglia rendere la pariglia al tiranno, processandolo nel proprio paese dove, si sa, vige la condanna a morte. Il rischio è molto forte che Gheddafi faccia la fine di Saddam se la diplomazia internazionale non si muoverà velocemente per risolvere la situazione. Il sangue versato dalla morte di un dittatore non lava le coscienze e non risarcisce le vittime dell’aguzzino. Nel corso della storia abbiamo dovuto assistere alla vergogna di Piazzale Loreto, episodio caro solo a certa sinistra forcaiola, e l’uccisione da far west di Saddam Hussein. Alla tirannia non si risponde con la violenza ma con la civiltà, infliggendo al despota la durezza del carcere a vita, costringendolo a pensare ogni giorno ai propri crimini. Nel caso di Saddam venne fatta la proposta di esilio, sostenuta a gran voce da Marco Pannella, ma con l’esito che conosciamo. Auspichiamo con forza una pacifica risoluzione della situazione libica, sostenendo ogni tesi che non preveda il processo in Libia per il Colonnello Gheddafi, non faremmo che continuare a scrivere pagine di storia macchiate di sangue, sebbene di tiranno, ma comunque sangue che rimarrebbe indelebile nella memoria di tutti. Tunisia: amnistia generale, liberati tutti gli 800 prigionieri politici Agi, 3 marzo 2011 La Tunisia ha liberato tutti gli 800 prigionieri politici. Lo ha reso noto Samir Ben Omar, avvocato e segretario generale dell’Associazione internazionale per il sostegno ai prigionieri politici. La decisione di liberare tutti i detenuti politici del Paese, è il frutto dell’amnistia generale decisa il 20 gennaio dal governo provvisorio e ratificata il 19 febbraio dal Presidente ad interim Fouad Mebazaa. “È un passo positivo dal governo provvisorio” che ha risposto “alle nostre richieste di liberare coloro che sono stati vittime della legge anti - terrorismo applicata dall’ex presidente Ben Ali che era all’avanguardia della lotta contro il terrorismo” ha affermato l’attivista. Anche membri del gruppo di salafisti tra i quali Saber Ragoubi, condannati a morte per terrorismo in seguito ad un processo denunciato da varie organizzazioni internazionali per i diritti umani sono stati rilasciati. A piccoli gruppi hanno iniziato tutti a lasciare il carcere. Libia: Gheddafi; da noi non ci sono prigionieri politici… venite a vedere! Aki, 3 marzo 2011 “In Libia non ci sono detenuti politici”. È quanto ha affermato Muammar Gheddafi parlando ai suoi sostenitori a Tripoli, in occasione del 34esimo anniversario della nascita dei Comitati popolari in Libia. Il colonnello ha invitato la comunità internazionale “a inviare nel paese una commissione d’inchiesta per constatare che non ci sono state manifestazioni, ma solo alcuni terroristi che sparavano sui civili”. Ha inoltre aggiunto che “la Nato annuncia ogni giorno di uccidere miliziani in Pakistan e Afghanistan, poi accusa noi di farlo. Anche Israele ammette di uccidere miliziani a Gaza”. Iran: nuova ondata di esecuzioni, almeno 20 negli ultimi 3 giorni Aki, 3 marzo 2011 Nuova ondata di condanne a morte nella Repubblica Islamica. Secondo l’Ong Iran Human Rights, che si batte contro la pena capitale, almeno 20 condanne a morte sono state eseguite in Iran negli ultimi tre giorni. Tutti i detenuti saliti al patibolo sono stati condannati per traffico di droga. Sette persone sono state condannate a morte nella provincia di Kerman, nell’Iran centro - meridionale. Le impiccagioni sono avvenute nelle carceri di Jiroft e Bam, stando a quanto ha riferito il sito web della Magistratura provinciale che fornisce i nomi delle persone condannate. Secondo Ihr, altre tre persone sono state impiccate a Shiraz per traffico di oppio ed eroina nel carcere di Adelabad, mentre un uomo è stato frustato a piazza Khomeini a Lamerd, nella provincia del Fars. Il sito web che si occupa di diritti umani Hrana, inoltre, ha riferito che tra 8 e 11 persone sono state impiccate nella prigione di Oroumieh, nel nordovest dell’Iran. Più fonti hanno riferito che tra le condannate a morte figurano anche due donne. Sono state 546 le sentenze capitali eseguite in Iran lo scorso anno, mentre dall’inizio del 2011 sono già oltre 200. Questi i numeri forniti dal rapporto annuale di Ihr sulla pena di morte. Mahmood Amiry - Moghaddam, portavoce dell’Ong, ha dichiarato che “il regime iraniano utilizza le impiccagioni come strumento per estendere il suo dominio nel paese”.