Giustizia: ipotesi e realtà sul “fine pena mai”… basta con l’ergastolo! di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 2 marzo 2011 Il Procuratore del Tribunale di Torino Bruno Tinti, come testimonia un suo articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 27 febbraio, giudica in maniera positiva la legge che impedisce il rito abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo. A dire il vero, sui mezzi di informazione non sembra ci siano state delle significative critiche a questa norma approvata il 17 febbraio alla Camera dalla maggioranza governativa (Lega e Pdl) e dall’Italia dei valori. Il diritto postmoderno assume così tanti e gravi aspetti neomedievali, sul piano interno e globale, che neppure riflettiamo a sufficienza sui presupposti politici e giuridici della suddetta norma. Ci siamo accorti che questa legge non è uguale per tutti? Ci siamo accorti che gli imputati di delitti punibili con l’ergastolo sarebbero i “peggiori delinquenti” - come li definisce Bruno Tinti stesso - anche prima della sentenza definitiva? Ci siamo accorti che per l’Italia l’ergastolo è considerato una pena necessaria anche nei prossimi anni mentre nei più civili paesi d’Europa e del mondo, Brasile compreso, il fine pena mai non esiste per niente? La norma sul rito abbreviato che esclude i potenziali ergastolani è di fatto in contraddizione con diversi e fondamentali articoli della Costituzione (articoli 3 e 27) e si mostra demagogica sul piano sociale e vendicativa nei confronti di una specifica categoria di imputati. Come hanno ricordato diversi parlamentari del Pd e dell’Udc, essa non contribuisce affatto alla certezza della pena e ad una ragionevole durata dei processi. È un costo in più per tutti, una maggiore incertezza della pena e un’ulteriore compressione dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Se n’è accorto qualcuno dei principali organi di informazione? Oppure il diritto consuetudinario e postmoderno ci ha già da decenni fatti entrare nel Nuovo Medio Evo e non ce ne siamo neanche accorti? È vero, come afferma Bruno Tinti, che “nel nostro ordinamento vi sono 4 straordinari istituti: la legge Gozzini, i permessi premio, la semilibertà e l’affidamento in prova al servizio sociale”. È vero che ci sono misure alternative al carcere ma queste ultime non risultano essere automatiche e, poiché negli ultimi tre decenni si è determinato un peggioramento del codice penale del 1930 a causa di svariate leggi dell’Emergenza, non è vero che il fine pena mai sia una stupidaggine o che “30 anni di prigione” siano in concreto “circa 8 anni e 7 mesi”. Se queste ultime affermazioni fossero vere, in Italia non ci sarebbe il sovraffollamento carcerario e nemmeno una persona detenuta da oltre 10, 20 e 30 anni. A smentire i calcoli di Bruno Tinti ci sono i dati statistici del Ministero della Giustizia, il passaggio dalle 31.053 persone detenute del 30.6.1991 alle 67.961 del 31.12.2010, il 41 bis (carcere duro introdotto dalla legge del 10.10.1986 n. 663, emendato dal decreto-legge 8.6.1992 n. 30 e poi convertito con la legge del 7.8.1992 n. 356), la presenza di decine di persone detenute da più di 26 anni di carcerazione effettiva (considerando solo quelle da me conosciute direttamente), l’esistenza dell’ergastolo ostativo rispetto a permessi, semilibertà e libertà condizionale nei riguardi dei condannati per associazione di stampo mafioso che non collaborino con la giustizia (art. 4 bis aggiunto alla legge 354/1975 dal d.l. 13.5.1991, n. 152, convertito nella legge 12.7.1991 n. 203) e, last but not least, i fine pena mai (passati dai 207 del 1982 ai 1512 del 2010) che, in quanto tali, non hanno mai usufruito di atti di clemenza come l’indulto e neanche dei benefici della riforma del codice di procedurale penale come il rito abbreviato e il patteggiamento. Vogliamo riprendere la discussione per abolire l’ergastolo? Nel 2007 il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Ettore Ferrara dichiarò che “l’ergastolo sembra porsi in una direzione diversa dal nostro sistema costituzionale che vincola la pena alla rieducazione”. Aveva ragione. L’Italia non sarà mai un paese in armonia con la propria Costituzione e con la maggior parte dell’Unione Europea fino a quando prevedrà il fine pena mai. L’ergastolo è davvero una cosa indegna di persone civili. Costituisce una forma particolare di tortura psico-fisica e un determinato invito al suicidio nel momento stesso in cui un tribunale nomina questa parola nell’ambito di una determinata sentenza! O lo capiamo o lo capiamo! Non c’è via di mezzo! Bisogna mettersi nei panni di chi subisce quella condanna per avere una pallida idea di cosa significhi sul piano concreto il fine pena mai! Smettiamola con i due pesi e le due misure dell’Italia che parla contro la pena di morte nel mondo e poi vuole mantenere l’ergastolo, quella pena sviluppata dall’Inquisizione e abolita dalla Rivoluzione francese perché ritenuto peggiore della pena capitale. Dire no alla pena di morte significa dire no anche all’ergastolo! Adesso, in ogni società del pianeta e sempre! A chi poi o volesse tornare all’epoca dell’Inquisizione dovremmo necessariamente ricordare che a quel tempo perfino le vittime dei reati, come la pittrice Artemisia Gentileschi, subivano delle vere e proprie torture! Ci conviene tornare all’Inquisizione? No? E allora diamoci una mossa per abolire l’ergastolo e per non fare più mostruose leggi, come quella approvata alla Camera il 17 febbraio con il decisivo contributo dell’Idv, che rendono ancor più disuguale, incerto ed opprimente il sistema giuridico italiano. Giustizia: Rutelli (Api), situazione carceri sempre più grave, premier pensa solo per sé Ansa, 2 marzo 2011 “Il progetto del governo sulle carceri va troppo per le lunghe mentre la situazione di chi sta dietro le sbarre si aggrava”. Lo ha detto Francesco Rutelli a margine di un convegno organizzato dall’Api sul tema “Una finestra sul cortile, un’altra idea di giustizia per un altro carcere”. “È indispensabile - ha aggiunto l’ex ministro dei Beni Culturali - restituire al più presto dignità alla detenzione e nello stesso tempo sicurezza ai cittadini. Troppi lasciano la vita nei luoghi di detenzione. Ci sono gravose condizioni di lavoro anche per gli agenti penitenziari. È evidente - ha concluso Rutelli - che questa disattenzione è anche dovuta al fatto che il premier invece di occuparsi delle emergenze del Paese pensa solo alle sue leggi ad personam”. Giustizia: affidamento dei bambini in carcere, un modo per renderli “capaci di futuro” Redattore Sociale, 2 marzo 2011 L’esperienza del piccolo Marco, di etnia rom, in carcere fino a 2 anni e 9 mesi e poi affidato a una coppia dell’associazione “A Roma insieme”. “I bambini non hanno paura di lasciare la mamma, capiscono che li riporterai e che la mamma da lì non si muove”. Marco faceva disegni tutti neri. Quando a 2 anni e 9 mesi è entrato in casa di Francesco e Paola non aveva mai visto un interruttore della luce. In carcere l’illuminazione era centralizzata, e dietro le sbarre anche il mondo naturalmente colorato della mente di un bambino diventa a tinte scure. Marco era a Rebibbia con sua madre fino a quando, poco prima dei tre anni, per lui è arrivato l’affidamento a Francesco e Paola. “Dopo qualche tempo, e con l’inizio della scuola materna e la frequentazione di altri bambini, i suoi disegni sono diventati colorati”. Capaci di futuro. Francesco, classe 1963 come sua moglie Paola, collabora con l’associazione ‘A Roma insiemè da 10 anni. Sono una di quelle famiglie che, oltre ogni ostacolo burocratico e oltre ogni fatica, hanno scelto di aiutare i bambini che vivono in carcere con le loro madri a essere capaci di futuro. Intessono speranza, gettano ogni giorno le basi per una società migliore. Con l’associazione di Leda Colombini, da anni prendono in affidamento nei week end e per altri periodi dell’anno come le festività di Natale e Pasqua i piccoli reclusi a Rebibbia. Il primo è stato Riccardo, che il venerdì sera apriva l’armadietto, in cella, e preparava il cambio per trascorrere fuori il week end. “I bambini, tutti, non hanno paura di lasciare la mamma, capiscono che li riporterai e che la mamma da lì non si muove”. Marco è il primo affidamento duraturo per Francesco e Paola: da 8 anni è con loro, oggi ne ha dieci e frequenta la quinta elementare. “I primi giorni di scuola materna diede un morso a un compagno e superò i bambini in fila con quattro spintoni, perché in carcere la sopravvivenza era questa”, racconta Francesco. Ma poi nessun problema, “Marco è stato sempre considerato un caso anomalo, un affidamento tranquillo”. Con “genitori naturali eccezionali” (anche il papà oggi è in carcere, ndr), che hanno chiesto loro stessi aiuto per il loro bambino. Marco è bosniaco, di etnia rom. È sesto di sette fratelli (il più piccolo è tuttora in carcere con la madre), capisce la lingua dei genitori ma non la parla. Quando il sabato i genitori affidatari lo portano, a 75 chilometri da Roma, a trovare fratelli e cugini, questi lo chiamano “l’italiano” perché ha imparato bene la lingua del Belpaese. Una volta a settimana - ma d’ora in poi una volta al mese perché i colloqui sono 4 e sono anche tra coniugi e con gli altri figli - Marco incontra la mamma. E a metà marzo trascorrerà 5 ore con il papà nell’area verde del carcere. È lui stesso a chiedere di incontrare i genitori. Marco è esigente nella sua richiesta continua di fiducia. Racconta Francesco: “Vuol sempre sentirsi spiegare chiaramente quando lo andrò a prendere, vuole conoscere gli orari e vuole che siano rispettati”. Spesso i bimbi restano in carcere perché le madri temono di perderli È la fiducia il filo d’oro che rende possibile l’alternativa al carcere per bambini come Marco, il piccolo bosniaco di etnia rom con padre e nadre in carcere e affidato a una coppia romana (vedi lancio precedente). È la fiducia che fa crescere. “È importante ciò che fa l’associazione “A Roma insieme” - spiega Francesco. Marco è con noi perché un giorno un’assistente sociale andò dalla mamma e le disse “Troveremo una famiglia affidataria” e lei rispose che gli unici a cui avrebbe dato il bambino erano Francesco e Paola. Li conosceva, portavano già fuori il loro bambino nei week end e con loro si era instaurata una sintonia. “Non si può arrivare all’improvviso e prendere i bambini, sono necessarie forme che avvicinino le detenute ai genitori affidatari e alla pratica dell’affidamento, vanno accorciate le distanze, le istituzioni devono fare in modo che i genitori si fidino di questo percorso: molto spesso i bimbi restano in carcere perché le madri hanno paura di perderli”. Racconta Francesco: “Quando abbiamo preso con noi per un week end il primo bambino, Leda Colombini (fondatrice dell’associazione A Roma insieme, centinaia di bambini sono usciti dal carcere grazie al suo lavoro e al suo impegno, ndr) ci disse: “Fatelo dormire e dategli amore, e se non mangia per tutto il week end non vi preoccupate”. Marco oggi sa anche chiedere la tenerezza di cui ha bisogno (“È da un po’ che non mi dai dei baci”). Francesco e Paola circa 11 anni fa frequentarono per un anno e mezzo un corso, presso il servizio sociale del territorio, condotto da giudici e psicologi (“Lo consiglierei a tutti i genitori”). Il percorso di Marco è seguito da un’assistente sociale e nel periodo iniziale dell’affidamento erano frequenti le visite a casa della psicologa, mentre ormai la sua consulenza è “su chiamata”. “Verrà nei prossimi giorni per vedere la stanza nuova di Marco, visto che abbiamo appena traslocato”. Per sostenere l’affidamento il Comune eroga un sussidio 220 euro mensili alle famiglie. “Un aspetto da tener presente - commenta Francesco - perché condiziona la scelta dell’affido: io sono libero professionista e mia moglie impiegata di banca, ma una famiglia di due operai, magari con già uno o due figli, non può permettersi di fare questa scelta”. Traguardi. Sulle difficoltà iniziali burocratiche legate all’affidamento, che pure ci sono state, Francesco preferisce non insistere. Quel che conta è che “l’affidamento in Italia è poco conosciuto dal punto di vista culturale”. Anzi, spesso non è proprio contemplato: “Un esempio: ogni anno sui moduli d’iscrizione a scuola devo aggiungere io la voce l’affidatario perché non è prevista”. Nel caso di Marco bisogna anche fare i conti con la “chiusura mentale nei confronti dell’etnia rom”, un aspetto su cui più di una volta a Francesco è toccato intervenire. Un giorno a Marco i compagni di classi dissero: “Ma quelli non sono i tuoi veri genitori”. “Allora io portai suo padre e sua madre a ritirare le pagelle. Da allora si tranquillizzò, aveva sancito davanti agli altri che anche lui aveva dei genitori”. Anche quando si trattò di togliere le adenoidi non fu facile: “Il medico ti guarda e poi chiama l’assistente sociale”. Per l’iscrizione di Marco alla scuola media Francesco non ha potuto seguire l’iter normale: è andato a parlare con il preside per esporre il caso, è andato in tribunale per un atto da allegare al modulo d’iscrizione. Tutto diventa burocraticamente più difficile, con un piccolo in affidamento, e di più se straniero, di più se rom. Ma i genitori, si sa, sanno guardare oltre: “La meta finale è un bambino che possa avere un futuro. Il nostro obiettivo è che Marco arrivi a 18 anni con una buona scolarizzazione e con la possibilità di scegliere, perché la legge glielo consente, se essere cittadino italiano o no”. Un traguardo, quello della scolarizzazione, condiviso fortemente anche dai genitori naturali. “E poi il mio sogno è che Marco vada all’estero a studiare dopo i 18 anni - aggiunge Francesco - perché oggi qui i ragazzi sono messi male”. Giustizia: Sappe; Polizia Penitenziaria, chiudono le Scuole di Monastir e Portici Comunicato stampa, 2 marzo 2011 Presto potrebbero chiudere le Scuole di Formazione dell’Amministrazione Penitenziaria di Monastir (in provincia di Cagliari), Portici (in provincia di Napoli) mentre per quella di Verbania è prevista una riconversione ad altro utilizzo. Lo comunica Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione dei Baschi Azzurri. “Il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta” spiega “ci ha inviato copia della relazione inoltrata alla firma del Ministro della Giustizia Angelino Alfano congiuntamente ai decreti di soppressione delle Scuole, entrambe frutto di un approfondito studio sull’uso delle strutture destinate alla formazione del Personale. Le ragioni di questa decisione sono riferite a un poco utilizzo di queste Scuole e quindi a profili di economicità. A Portici, poi, ha sede anche la Banda Musicale del Corpo di Polizia Penitenziaria, per i cui componenti è previsto uno spostamento logistico a Roma. A nostro avviso si è arrivati a questa drastica decisione anche per colpa della stessa Amministrazione penitenziaria, che punta poco alla formazione ed all’aggiornamento professionale dei poliziotti. Peraltro, un loro più massiccio uso era un importante risorsa anche per gli operatori economici di Monastir, di Portici e di Verbania. La decisione di sopprimere le Scuole è ancora più incomprensibile ora che il Corpo di Polizia Penitenziaria assumerà ben 4mila e 500 nuove unità. Contro questa decisione il Sappe, primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, terrà un sit-in di protesta a Roma il prossimo 8 marzo, davanti alla sede del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. “Manifesteremo a Roma” aggiunge Capece “anche contro la nomenclatura e la dirigenza dell’Amministrazione penitenziaria che da vent’anni ostacola ogni evoluzione ed accrescimento professionale della Polizia penitenziaria e quindi condiziona l’operato di tutti i Capi Dipartimento che fino ad oggi si sono avvicendati alla guida del Dap. Sono i burocrati che si preoccupano solo della propria poltrona, sempre gli stessi, che hanno boicottato e boicottano subdolamente e costantemente una non più rinviabile, adeguata e funzionale organizzazione del Corpo di Polizia penitenziaria e l’istituzione della Direzione generale del Corpo, in seno al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, indispensabile e necessaria per raggruppare tutte le attività ed i servizi demandati alla quarta Forza di Polizia del Paese, come ad esempio la formazione e l’aggiornamento dei poliziotti. Contro questa dirigenza del Dap nemica dei Baschi Azzurri, contro la chiusura delle Scuole del Corpo e lo spostamento a Roma della Banda Musicale del Corpo, il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il SAPPE, scenderà dunque in piazza per un grande sit-in di protesta a Roma martedì 8 marzo, proprio davanti alla sede dell’Amministrazione Penitenziaria in Largo Daga. È arrivata l’ora che qualcuno se ne vada dal Dap. Ma certo non il Capo Dipartimento Franco Ionta”. Lettere: il Garante dei detenuti di Piacenza; il nuovo padiglione del carcere è inutile Ristretti Orizzonti, 2 marzo 2011 Che tristezza! Lunedì, alla presenza di un Ministro della Repubblica Italiana, si è dato l’avvio ufficiale ai lavori per la costruzione di un nuovo padiglione del carcere piacentino. 11 (undici!) milioni di euro (è la cifra ufficiale che trovo sulla rivista dell’Amministrazione Penitenziaria) per una struttura che non risolverà nessun problema e probabilmente ne creerà molti. La prima struttura, di 20 che saranno realizzate in tutta Italia, tutte al prezzo di 11 milioni di euro (22 per Roma e Milano). Totale: 242 milioni di euro. E Piacenza sarà ancora Primogenita, ma questa volta per uno scempio. E tutto questo quando l’Amministrazione penitenza manda circolari in cui sollecita l’intervento del volontariato per supplire alla carenza di risorse; quando io, nella mia veste di Garante, sono continuamente costretto a mendicare: per completare l’acquisto dei congelatori dove i detenuti possano conservare il cibo che portano i loro familiari; per le caldaie che sono rotte lasciando tutti, detenuti e personale, al freddo; per cercare di sistemare il campo di calcio ridotto in situazione tale che quando i detenuti ci giocano accadono continuamente infortuni. Un campo di calcio, unica struttura all’aperto dove i detenuti possano sfogare le energie che si accumulano in 20 ore di inoperosità in cella. Unica struttura per più di 400 persone, che probabilmente, con il nuovo padiglione, diventeranno 600. Altri spazi all’aperto sono i “passeggi”, vasconi di cemento dove più di 60 detenuti passeggiano senza nemmeno un appoggio dove sedersi. Meno muri e più interventi educativi. Questo dovrebbe essere il programma di un’Amministrazione attenta a rispettare il dettato costituzionale. E invece nel carcere di Piacenza gli educatori sono 2 (due!) per più di 400 persone. E l’appello del Cappellano sul lavoro e sulla necessità di strutture educative, che condivido in pieno, rimarrà totalmente inascoltato. Domani vorrei esserci, alle Novate, per poter gridare la mia impotenza e dare voce ai detenuti. Ma sono vecchio e quindi me ne starò a casa a pregare: “Perdona loro…”. Alberto Gromi Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Umbria: Zaffini (Fli); confronto tra Regione Prap per arginare l’emergenza carceri Ansa, 2 marzo 2011 “Avviare un confronto e una trattativa sia con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria sia con il Ministero degli Interni per arginare l’emergenza carceraria in Umbria”. È quello che sollecita Franco Zaffini, consigliere di Futuro e libertà, alla Governatrice Marini. “La notizia, riportata dalla stampa secondo cui starebbero arrivando nuovi detenuti nella struttura detentiva di Maiano - dice Zaffini - se confermata, porterebbe al collasso una situazione da tempo insostenibile e che si replica anche in altre realtà dell’Umbria. Criticità - prosegue il coordinatore di Fli - di cui il Governo regionale non può disinteressarsi, visti i disagi a cui sono sottoposti gli agenti di polizia penitenziaria, il cui organico non viene implementato da anni, e che comportano gravi rischi in termini di sicurezza”. Zaffini esprime solidarietà agli agenti in servizio presso la casa di reclusione di Maiano auspicando che presto le autorità competenti pongano fina al dramma della carenza di personale all’interno delle carceri italiane. “Spero - conclude il consigliere - che sebbene i margini d’intervento sono risicati, l’esecutivo dell’Umbria abbandoni l’impostazione ideologica secondo cui a subire disagi siano i detenuti, e prenda a cuore le ragioni di chi serve lo Stato e la collettività tutta con un lavoro duro e paga sulla propria pelle le disfunzioni di un sistema che necessità di una totale riorganizzazione”. Piacenza: detenuto di 30 anni muore in cella, venerdì l’autopsia per accertare le cause del decesso Ristretti Orizzonti, 2 marzo 2011 Michele Trebbi, 30 anni, tossicodipendente, è morto ieri pomeriggio verso le 16:00 nel carcere di Piacenza. Le poche notizie al riguardo sono state raccolte da Riccardo Arena, direttore di Radio Carcere. Sulle cause della morte sono state avviate le indagini del caso: la prima ipotesi è quella di una overdose di droga, o di un mix letale di farmaci. Il giovane, che divideva la cella con un altro detenuto, si è accasciato improvvisamente sul pavimento ed ogni tentativo di soccorso è risultato vano. L’ultimo decesso di un detenuto nel carcere di Piacenza risaliva al 2 novembre 2009, quando si suicidò Isam Khaudri, tunisino di 22 anni. Detenuto morto alle Novate, venerdì l’autopsia Sarà eseguita venerdì mattina l’autopsia sul corpo del 30enne piacentino morto ieri all’interno della sua cella nel carcere delle Novate. L’esame dovrà fare luce sulle cause che hanno portato alla morte del giovane, trovato ieri pomeriggio senza vita dagli agenti di polizia penitenziaria in servizio nella struttura. A quanto si è appreso il ragazzo aveva da tempo problemi di tossicodipendenza: tra le ipotesi sulle cause del decesso anche la possibile assunzione di un cocktail di farmaci che potrebbe essergli stato fatale. La vittima era stata immediatamente soccorsa dagli agenti e dal personale del 118 che avevano tentato senza successo di rianimarlo. Avellino: il legale del detenuto suicida; il mio assistito aveva già tentato di uccidersi Ansa, 2 marzo 2011 Aveva già tentato il suicidio in carcere a Salerno Jean Jaques Olivier Esposito, che si è tolto la vita oggi presso la casa circondariale di Ariano Irpino. Lo rende noto il suo legale, l’avvocato Michele Sarno. “Esposito - spiega - era detenuto in forza di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per spaccio di droga; tale provvedimento era stato confermato dal Riesame. A seguito di ciò era intervenuto un interrogatorio sollecitato dalla difesa, nel quale l’uomo aveva offerto chiarimenti rispetto alla vicenda”. Dopo il tentativo di suicidio, ricorda l’avvocato Sarno, “la difesa il 18 febbraio 2011 aveva inoltrato istanza di scarcerazione o di concessione degli arresti domiciliari. Nelle more il detenuto era stato trasferito presso la casa circondariale di Ariano Irpino”. “Va ulteriormente precisato che nella istanza la difesa evidenziava l’opportunità dell’adozione di un provvedimento più attenuato, sotto il profilo cautelare, proprio in ragione delle condizioni dell’uomo - sottolinea il legale - o e del fatto che lo stesso, sulla base dei tentativi di suicidio, fosse sostanzialmente incompatibile con la struttura carceraria”. La difesa, conclude l’avvocato, “procederà alla nomina del dottor Tito De Marinis quale consulente medico legale relativamente alle operazioni peritali, riservandosi sin da ora di proporre tutte le azioni a tutela dei familiari del proprio patrocinato”. La Uil penitenziari, intanto, fa sapere che “con quello di oggi, salgono a quota dieci i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno ad oggi”. Cagliari: detenuto morì per broncopolmonite, medici carcere assolti da accusa omicidio colposo L’Unione Sarda, 2 marzo 2011 Non esiste un nesso di causalità tra la condotta dei medici e la morte di Giancarlo Monni, il capo Sconvolts del Cagliari morto in cella per una broncopolmonite. Ieri il gip Roberta Malavasi ha decretato l’archiviazione per tutti i medici indagati per la morte di Monni. I sanitari che l’ebbero in cura Francesco Moi, Aldo Casti, Paolo Scarparo, Mohammed Malak e Alessandra Sannia e, iscritto in un secondo momento, anche il responsabile del centro sanitario di Buoncammino, Matteo Papoff. A difendere i sanitari dall’accusa di omicidio colposo c’era un team di avvocati (Benedetto Ballero, Gian Mario Sechi, Renata Serci, Mauro Massa, Guido Manca Bitti e Ferrucio Melis). Determinante, ai fini dell’archiviazione, è stata dunque la perizia che a luglio il giudice aveva affidato ad un infettivologo sassarese che aveva escluso un nesso di causalità, pur confermando alcune carenze sull’adeguatezza delle cure. Giancarlo Monni era morto a 35 anni, dopo essere stato ricoverato in gravi condizioni al SS. Trinità il 24 febbraio 2010. Malato di aids, il paziente era rinchiuso a Buoncammino e l’autopsia disposta dalla Procura aveva parlato di una polmonite emorragica. I familiari, attraverso l’avvocato Antonio Carta, avevano presentato un esposto e chiesto l’apertura di un’inchiesta, ipotizzando ritardi che potevano aver influito pesantemente sulle condizioni di salute del detenuto. Chiusa l’inchiesta, era stato il pm Andrea Massidda a chiedere l’archiviazione ma i familiari si erano opposti: da qui la perizia del gip Malavasi e l’udienza di ieri dove il pm Alessandro Pili ha ribadito la richiesta di archiviazione, accolta dal giudice. Bologna: “Io sono qui”; sulle mura del Pratello i ritratti dei ragazzi detenuti Redattore Sociale, 2 marzo 2011 La mostra allestita dall’artista Paper Resistance all’esterno dell’Istituto penale minorile di Bologna in occasione del festival Bilbolbul. È il risultato del laboratorio di fumetto tenuto all’interno della struttura Anche il fumetto può servire a portare fuori dal carcere le storie di chi ci vive dentro, a dire “Io sono qui”. Ed è questo infatti il titolo della mostra che raccoglie nove disegni, nove ritratti dei ragazzi detenuti all’Istituto penale minorile di Bologna, che dal 4 marzo al 3 aprile saranno esposti sulle mura esterne dell’edificio. I disegni, stampati su stendardi alti due metri, sono opera di Paper Resistance, artista pugliese da anni a Bologna, e la mostra è realizzata nell’ambito di Bilbolbul, il festival internazionale di fumetto che la città ospita dal 2 al 6 marzo. I disegni di Paper Resistance si basano su autoritratti realizzati dagli stessi ragazzi dell’Istituto nell’ambito di un progetto più ampio ideato dall’artista e dall’associazione culturale Hamelin. Un laboratorio di fumetto e fotografia basato “sulla possibilità del racconto di sé, sull’identità e sui modi con cui è possibile, attraverso uno strumento diverso dalla parola, rappresentarsi e raccontare la propria quotidianità”. La mostra “Io sono qui” è la tappa conclusiva del progetto, il momento in cui il lavoro dei ragazzi e soprattutto i loro volti vengono portati all’esterno del carcere, in via del Pratello: una delle vie più frequentate della città, grazie all’alta densità di locali e pub, ma contemporaneamente luogo di detenzione per i ragazzi dell’Istituto. I ritratti sono visibili anche su l sito web www.io-sono-qui.org. Catanzaro: i minori reclusi raccontati… da chi apre e chiude le celle di Salvatore Ferragina www.uscatanzaro.net, 2 marzo 2011 La diretta testimonianza di un agente penitenziario ai corsisti di “Le Ali al Futuro”. Un’ esperienza insolita ed in grado di arricchire coscienze e conoscenze di oltre un centinaio di corsisti. Ad animare, infatti, la settima lezione del Progetto interministeriale “Le Ali al futuro”, stavolta, non c’erano magistrati, direttori di istituti carcerari, psicologi o altri professionisti del settore; bensì Vincenzo Gigliotti, agente scelto di Polizia Penitenziaria presso il minorile “Silvio Paternostro” di Catanzaro, il quale ha rappresentato nell’auditorium dello stesso Istituto penale, uno spaccato quotidiano sulla vita, i pensieri, le attese e le considerazioni dei giovani reclusi e del loro rapporto con il personale in divisa. “Il carcere è un contenitore che racchiude molto più di quanto può scrivere qualsiasi trattato - ha detto Gigliotti - perché questa struttura comprende tutte le diversità e supera ogni teoria”. Come si pone un’agente penitenziario nei confronti dei giovani detenuti, dal punto di vista professionale ed umano? È ancora utile oggi la pena per rieducare e reinserire un ragazzo in società? Quale ruolo ha la scuola in tale processo di riadattamento? Quali modalità di approccio utilizzano gli operatori con i minori? Sono solo alcuni degli interrogativi posti dall’uditorio all’agente scelto Gigliotti il quale ha risposto riportando fatti di vita personali, episodi quotidiani di sentimenti o durezza d’animo che si riscontrano all’interno della struttura. “Faccio questo mestiere per caso - ha rivelato - ma ho imparato ad amarlo perché dietro ogni reato c’è una storia di cose tragiche, emarginazione, disagio. I ragazzi ci cercano perché siamo il tramite tra loro ed il resto della realtà; ci chiedono delle cose processuali ma ci tengono presenti anche per necessità personali”. Non sono mancati passaggi autocritici dell’agente, nei confronti della normativa che impone di rivolgersi con il “lei” al giovane recluso ma anche poi di contribuire al reinserimento tramite il dialogo ed un rapporto confidenziale; ed anche di una certa cultura mediatica che inquadra e descrive la figura dell’ex guardia carceraria come il depositario di un mazzo di chiavi che chiude ed apre ad orari preordinati. “No - ha incalzato Vincenzo Gigliotti - è bene precisare che sotto la divisa c’è una testa pensante, una persona che deve trasmettere con coerenza il senso della norme e delle regole, con competenza e preparazione”. Sul piano pragmatico e puramente didattico si è poi intrattenuto Massimo Martelli, funzionario di professionalità pedagogica presso il Minorile e di supporto al progetto, assieme assieme all’insegnante referente Francesca Tedesco. Molto intensa la testimonianza di un baby-camorrista tratta da un’intervista nel programma Tv “Le Iene”, in cui emergono ideali e conflitti ideologici dei minori costretti, malgrado l’apparente scelta volontaria, a delinquere. Il docente ha poi letto il brano “Tra assenza e presenza” tratto da uno studio di Maria Gabriella Nicotra e Giulia Maria d’Ambrosio, interagendo con i corsisti a far emergere situazioni in cui - come accade spesso ai minori reclusi - si è presenti con il fisico ma assenti con la mente ed i sensi. Riprendendo infine i contenuti della prima parte della lezione con l’agente Gigliotti, Martelli ha ricordato i momenti più “forti” per i giovani reclusi dopo aver riacquistato la libertà: gli spazi aperti, la massa di prodotti in un supermercato, il silenzio del mattino antitetici al risveglio con la “battitura” metallica. Il progetto “Le Ali al futuro” è promosso dal Miur e dal Ministero di Grazia e Giustizia ed affidato in Calabria all’Istituto comprensivo “Vincenzo Vivaldi” di Catanzaro Lido, da dove è coordinato dal dirigente scolastico Vitaliano Rotundo. Immigrazione: inchiesta sul Cie di Ponte Galeria… peggio di un carcere di Raffaella Cosentino La Repubblica, 2 marzo 2011 Nel Centro più grande d’Italia sono rinchiusi anche cittadini europei e vittime di tratta. Le testimonianze nelle illustrazioni che accompagnano un rapporto di Medici per i diritti umani. “Una storia sbagliata” racconta il Cie nel quale si impiccò Nabruka, mamma straniera che non voleva tornare nella Tunisia di Ben Ali. Cittadini europei, donne vittime di tratta, immigrati “nuovi italiani” da vent’anni nel nostro Paese con le famiglie, ex detenuti. Sono alcune delle persone rinchiuse fino a sei mesi nei centri di identificazione e di espulsione (Cie) che, sulla carta, dovrebbero essere destinati al rimpatrio degli stranieri non in regola con il permesso di soggiorno. Nel Cie più grande d’Italia, quello di Ponte Galeria, alla periferia sud ovest della capitale, sono questi i volti e le storie di molti reclusi. Ognuno di loro costa allo stato 42 euro al giorno, moltiplicato per una media di 270 persone trattenute nella struttura. Conti alla mano, oltre 4 milioni di euro l’anno per un solo centro su 13 esistenti sul territorio nazionale. A fare luce sulle storie e le testimonianze di Ponte Galeria è un rapporto di Medici per i diritti umani 1 che si intitola “Una storia sbagliata” diventato una graphic novel. Le illustrazioni realizzate da Guido Benedetti comunicano quello che gli operatori di Medu hanno visto nella loro ultima visita al Cie romano lo scorso ottobre. “Non abbiamo potuto riprendere o scattare fotografie, quindi siamo ricorsi ai disegni” spiega il coordinatore dei Medu, Alberto Barbieri. Peggio del carcere. La struttura, aperta nel 1998, ha cambiato gestione un anno fa, passando dalla Croce Rossa alla cooperativa Auxilium 2. Rivolte, proteste e atti di autolesionismo hanno costellato la storia del centro. “Spesso ci davano da mangiare il cibo scaduto il giorno prima. Nei bagni c’erano i topi e nel centro c’era sporcizia ovunque. Una volta un ragazzo africano ha provato a scappare sui tetti ma è stato raggiunto da venti poliziotti che lo hanno riempito di botte” racconta una giovane immigrata trattenuta per quattro mesi alla fine del 2009, dopo l’entrata in vigore del pacchetto sicurezza che ha esteso da due a sei mesi il tempo massimo di reclusione nei Cie. Un periodo di tempo “disumano” anche secondo il responsabile dell’ente gestore, citato nella storia illustrata dai Medu. La costante incertezza sulla propria sorte e sulla durata del trattenimento spinge la maggior parte di coloro che ne hanno fatto esperienza a considerare l’internamento in un centro di identificazione e di espulsione “peggiore della detenzione carceraria”. Abusi legislativi. Ponte Galeria ha 366 posti, di cui 176 per gli uomini e 190 per le donne. L’80% delle detenute sono vittime di tratta e, scrivono i Medu, “si trovano in un luogo del tutto inadatto a assicurare loro la dovuta assistenza”. L’80% degli uomini proviene dal carcere. Dopo avere scontato la pena per il reato commesso, queste persone finiscono nel centro per le procedure di identificazione e di rimpatrio, subendo “un’ingiusta estensione” della misura detentiva. Nel 2010 la nazionalità più numerosa è stata quella rumena, seguita da quella nigeriana, marocchina, algerina, ucraina e serba. La presenza di tanti cittadini appartenenti all’Unione Europea, i rumeni, ha suscitato allarme da parte dell’Ong. L’espulsione dei cittadini comunitari è consentita esclusivamente per motivi di sicurezza dello Stato e ordine pubblico. “Trattandosi di ipotesi eccezionali e circoscritte, un numero così alto di cittadini rumeni suscita dubbi circa possibili abusi dello strumento normativo”. In media un rumeno rimane a Ponte Galeria per 8 giorni, prima dell’espulsione. Violazioni dei diritti, situazione esplosiva. L’assistenza sanitaria fornita dall’ente gestore è solo quella di base, gli immigrati difficilmente hanno accesso alle cure specialistiche e il personale della Asl non ha accesso al centro. Psicofarmaci, ansiolitici e sedativi come gli antiepilettici sono assunti dal 50% dei reclusi. Il personale medico somministra i farmaci senza consulenza psichiatrica. Tagli multipli con le lamette da barba e simulazioni di impiccamento sono gli atti di autolesionismo più frequenti. Nel 2009 a Ponte Galeria ci sono stati tre decessi, fra cui un suicidio, su quattro in totale avvenuti in tutti i Cie. Secondo i Medu, sebbene “il nuovo ente gestore abbia assicurato che il clima all’interno del centro sia notevolmente migliorato negli ultimi mesi, il contesto permane esplosivo e imprevedibile”. Costosi e inutili. I Cie non servono a rimpatriare gli immigrati irregolari. Su una stima di 560mila stranieri senza permesso di soggiorno in Italia, nei Cie sono stati detenuti 10.913 stranieri nel 2009, di cui solo il 38% è stato rimandato nel paese d’origine. Da gennaio a settembre 2010 le persone transitate dalla struttura di Ponte Galeria sono state 1727, contro le 2667 dell’anno precedente, quando la detenzione era ancora di due mesi. Il numero è sceso, i rimpatri sono stati meno della metà, il 43% nel 2009 e nel 2010. Un’ulteriore prova che i sei mesi di reclusione non aumentano il numero di espulsioni. Nabruka, vittima dimenticata della legge sull’immigrazione. Il racconto illustrato di Ponte Galeria è dedicato alla donna che nella notte fra il 6 e il 7 maggio del 2009 si impiccò nel bagno del Cie più grande d’Italia. Nabruka Mimuni, tunisina, doveva essere rimpatriata il giorno dopo nel paese della dittatura di Ben Ali. Era una mamma straniera di 44 anni, con marito e un figlio in Italia. Aveva passato la metà della sua vita nel nostro paese. Era stata fermata proprio mentre stava facendo la fila in questura per provare a rinnovare il permesso di soggiorno, scaduto perché era rimasta momentaneamente senza lavoro. La sua storia è la dimostrazione che nei Cie finiscono molti ‘nuovi italianì, senza cittadinanza ma integrati da anni. Immigrazione: “Una storia sbagliata”, disegni per raccontare il Cie di Ponte Galeria La Repubblica, 2 marzo 2011 Iniziativa dell’Ong “Medici per i diritti umani”. Il racconto del centro di identificazione e di espulsione più grande d’Italia è dedicato a Nabruka Mimuni, la tunisina che si è impiccata nel bagno della struttura la notte fra il 6 e il 7 maggio del 2009 per non essere rimpatriata. Una graphic novel per raccontare il Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria. Si intitola “Una storia sbagliata” ed è stata realizzata dall’Ong Medici per i diritti umani (Medu). “È una memoria visiva, un racconto per immagini in occasione del primo marzo, un mezzo per divulgare le informazioni sul Cie arrivando a un numero più ampio di persone. Perché i disegni comunicano meglio”, spiega il coordinatore di Medu, Alberto Barbieri. Le illustrazioni di Guido Benedetti sono un modo per raccontare quello che gli esperti dell’Ong umanitaria hanno visto ma non hanno potuto riprendere o fotografare. I disegni permettono così di aggirare il divieto imposto nel Cie. Accanto a ogni illustrazione sono sintetizzati i dati del rapporto realizzato dai Medu dopo la visita a Ponte Galeria del 14 ottobre 2010. Il racconto illustrato del Cie più grande l’Italia con i suoi 366 posti, di cui 176 per uomini e 190 per donne, è dedicato a Nabruka Mimuni, la tunisina che si è impiccata nel bagno di Ponte Galeria la notte fra il 6 e il 7 maggio del 2009. Nabruka si è uccisa per non essere rimpatriata il giorno seguente. Aveva 44 anni, era sposata e con un figlio, dopo oltre vent’anni passati in Italia. Era stata fermata proprio mentre stava facendo la fila in questura per provare a rinnovare il permesso di soggiorno, scaduto con la perdita del lavoro. La sua storia è la dimostrazione che nei Cie finiscono molti “nuovi italiani”, senza cittadinanza ma con una vita normale e integrata nel nostro Paese da molti anni. La struttura di Ponte Galeria esiste dal 1998 ed è stata gestita dalla Croce rossa fino a un anno fa, quando è subentrata la Cooperativa Auxilium. Lo stato paga 42 euro al giorno per il mantenimento di ognuno dei 270 detenuti che ci sono in media. Benché le istituzioni si riferiscano con il termine “ospiti” ai detenuti nei Cie, la struttura appare come un carcere a tutti gli effetti. Un’illustrazione mostra le recinzioni costituite da sbarre alte 5 metri che dividono le camerate maschili e femminili con dormitori da otto posti letto per gli uomini e sei per le donne. Sono tante le violazioni dei diritti umani verificate dall’Ong. L’80% dei detenuti provengono dal carcere, dove non sono state completate le procedure di identificazione e di espulsione, per cui si trovano a scontare nel Cie un’estensione della pena. L’80% delle detenute sono vittime di tratta della prostituzione e si trovano quindi in un luogo del tutto inadatto ad assicurare loro la dovuta assistenza. Dalle testimonianze raccolte, molti ex detenuti definiscono il Cie “peggiore del carcere”. Nel 2010 le nazionalità più presenti a Ponte Galeria sono state: Romania, Nigeria, Marocco, Algeria, Ucraina e Serbia. La detenzione di cittadini comunitari, secondo l’Ong, è un abuso della normativa che consente l’espulsione dei rumeni per pericolosità sociale. L’assistenza sanitaria è solo di primo livello, perché il personale della Asl non ha accesso al centro. Gli atti di autolesionismo sono frequenti. Psicofarmaci e sedativi sono somministrati senza consulenza psichiatrica. I sei mesi di detenzione decisi con il pacchetto sicurezza, sono un periodo troppo lungo e “inumano”. Inoltre Ponte Galeria, come altri Cie, cifre alla mano, non serve ad espellere. Da gennaio a settembre 2010 le persone transitate dalla struttura romana sono state 1727, contro le 2667 dell’anno precedente quando la detenzione era al massimo di due mesi. Il numero è diminuito e i rimpatri sono stati meno della metà, il 43% in entrambi gli anni. Un’ulteriore prova dell’inutilità della detenzione a sei mesi, secondo l’Ong. A livello nazionale nel 2009 gli stranieri nei Cie sono stati 10.913 (su stime di 560mila irregolari in Italia) di cui sono stati rimpatriati solo il 38%. Libia: sepolti vivi del carcere di Bengasi, così sono morti i detenuti politici di Pietro Del Re La Repubblica, 2 marzo 2011 Nel ventre della città, la prigione segreta degli oppositori del regime. Trovati almeno 40 cadaveri, ma nessuno cerca più: solo i fedelissimi di Gheddafi potevano accedere a quelle galere e non si saprà mai quante persone sono rimaste intrappolate nei tunnel. Non li cerca più nessuno, i prigionieri sepolti vivi del colonnello Gheddafi. Nei giorni scorsi, dalle carceri sotterranee dove erano stati rinchiusi, avevano spedito segnali che s’erano fatti sempre più flebili, fino a scomparire del tutto. Mosso da cialtronesca pietà, prima di scappare un secondino aveva lasciato loro un cellulare. Ma senza caricatore. “L’ultimo messaggio di sms è arrivato cinque giorni fa”, dice l’ingegnere elettronico Salim Abdullah, mostrandoci come prova il display del suo telefonino. “Chiedevano aiuto, dicendo che non avevano più acqua, e che stavano morendo di sete. Poi più nulla”. Decine di volontari li hanno dunque cercati, in quella città sotto la città fatta di gallerie, vie di fughe per il colonnello Gheddafi, bunker, depositi di munizioni e, appunto, prigioni segrete. Ma nessuno è stato in grado di localizzarli, perché solo i fedelissimi del Colonnello potevano accedere alla Bengasi ipogea, di cui nei giorni della rivolta le mappe sono andate perdute, o sono state bruciate. I carcerieri che ne conoscevano gli ingressi sono fuggiti, o morti durante gli aspri combattimenti che hanno consegnato la città nelle mani degli insorti. Intanto, i prigionieri politici si sono spenti lentamente, uno dopo l’altro, come sotto una montagna di macerie dopo essere sopravvissuti a un tremendo terremoto. Incontriamo Salim sulle rovine del “Castello”, come i libici chiamano la roccaforte che l’uomo forte di Tripoli aveva fatto costruire per sé a Bengasi e che, come una volta l’enorme residenza di Saddam Hussein a Bagdad, aveva la pretesa di essere inespugnabile. Spiega ancora l’ingegnere: “Nell’ultimo messaggio dicevano anche che in lontananza potevano sentire il canto di un muezzin, ma qui, sotto i nostri piedi, ci sono chilometri di tunnel. Voi europei disponete forse dei mezzi tecnici per individuarli. Qui da noi, purtroppo, possiamo solo scavare”. Sempre nell’enclave del “Castello”, una squadra di volontari ha scoperto un altro carcere sotterraneo. Per accedervi, dopo aver valicato una porta blindata spessa due spanne, è necessario infilarsi in un budello stretto meno un metro che scende a strapiombo nelle viscere del terreno. Le pareti della prima sala sono sporche di sbaffi di sangue rappreso. Proseguendo, si arriva al muro dei condannati, crivellato fino all’inverosimile di colpi di kalashnikov. I molti libici che adesso scendono in fila indiana a visitare quel luogo di detenzione e massacri, ne escono allibiti dalla ferocia di chi li ha comandati per 42 anni. Andiamo al quartier generale dei padroni della nuova Bengasi, per chiedere dei detenuti abbandonati nelle loro celle sotterranee. “Diverse squadre li hanno cercati, giorno e notte, scavando, abbattendo muri, testando il terreno alla ricerca di un possibile nascondiglio segreto”, dice Ali El Sadara, coordinatore per i numerosi giornalisti accorsi nella Libia liberata. “Abbiamo anche chiesto aiuto a una compagnia petrolifera locale, la quale invece di cercare nuovi giacimenti di petrolio avrebbe dovuto trovare i nostri fratelli e i nostri padri incarcerati chissà dove dal Colonnello”. Pochi giorni fa, una ventina di metri sottoterra, i volontari hanno trovato un’altra segreta: dopo la gioia per la liberazione di una decina di prigionieri ancora in vita, gli uomini della squadra hanno fatto una scoperta raccapricciante. “Ammonticchiati uno sull’altro c’erano quaranta cadaveri, alcuni carbonizzati, altri uccisi da proiettili, altri ancora atrocemente mutilati”, racconta Ali El Sadara. Erano i soldati che si erano rifiutati di sparare sui manifestanti. Mondo: italiani detenuti all’estero; sulla risposta dell’Onorevole Mantica all’On. Zacchera Secondo Protocollo, 2 marzo 2011 Nelle scorse settimane, a seguito di una interrogazione parlamentare proposta dall’On. Marco Zacchera (Pdl) che chiedeva se la riduzione della dotazione finanziaria non avesse determinato un abbassamento del livello dell’assistenza consolare fornita ai detenuti italiani all’estero, l’On. Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri con delega agli Italiani nel mondo, rispondeva con una comunicazione in Parlamento che, francamente, ci sembra leggermente riduttiva se non addirittura omissiva. Urbania, 02.03.2011 (informazione.it - comunicati stampa) Nelle scorse settimane, a seguito di una interrogazione parlamentare proposta dall’On. Marco Zacchera (Pdl) che chiedeva se la riduzione della dotazione finanziaria non avesse determinato un abbassamento del livello dell’assistenza consolare fornita ai detenuti italiani all’estero, l’On. Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri con delega agli Italiani nel mondo, rispondeva con una comunicazione in Parlamento che, francamente, ci sembra leggermente riduttiva se non addirittura omissiva. Fatto salvo il principio che l’Italia non può interferire o intervenire direttamente sulla legislazione di altri Stati, resta comunque il dovere per le autorità italiane di garantire ai cittadini italiani, ovunque si trovino nel mondo, i loro Diritti Costituzionali e Umani. La risposta data dall’On. Mantica all’interrogazione dell’On. Zacchera ci sembra abbastanza lacunosa proprio su questo aspetto e a dimostrarlo ci sono i fatti. Ma andiamo con calma. Cosa risponde il Sottosegretario Mantica all’On. Zacchera? In sostanza Mantica ricorda che, nell’ambito della protezione e dell’assistenza consolare, gli interventi che possono essere prestati da una rappresentanza diplomatico-consolare in favore di un connazionale detenuto in un Paese straniero, sono le visite consolari; le indicazione di un legale; la cura dei contatti con i familiari in Italia; la fornitura di assistenza medica, farmaci, alimenti, libri, giornali ed eventuali pacchi dono; l’erogazione di sussidi che possono variare a seconda delle situazioni contingenti e delle specifiche necessità individuali; la collaborazione con le autorità competenti per il trasferimento in Italia, qualora il connazionale sia detenuto in Paesi aderenti alla Convenzione di Strasburgo sul trasferimento dei detenuti o ad accordi bilaterali ad hoc; l’ intervento in casi particolari per sostenere domande di grazia per ragioni umanitarie. Infine fa presente che un ufficio consolare non può intervenire in giudizio per conto del connazionale. Se la sede non dispone di fondi sufficienti, in casi eccezionali, può chiedere al Ministero un finanziamento integrativo per far fronte a specifiche esigenze di assistenza ai connazionali detenuti nella propria circoscrizione. Abbiamo evidenziato alcuni punti che ci sembrano particolarmente indicativi e che dimostrano come, spesso, chi sta a Roma non sa cosa succede in quei Paesi dove i nostri connazionali sono detenuti in condizioni drammatiche. Le visite consolari, azione indispensabile per accertarsi con tempestività le condizioni di salute e di detenzione dei nostri connazionali, dovrebbero essere fatte nel giro di pochi giorni dall’arresto. Questo non avviene mai. Addirittura, come nel caso Nobili-Falcone (India), sono avvenute sei mesi dopo e solo dopo molte pressioni. Le indicazioni di un legale non sono assolutamente adeguate in quanto i Consolati non hanno una lista di avvocati verificati. L’esempio lampante è quello che avviene in diversi Paesi del terzo mondo dove gli avvocati consigliati dal Consolato hanno truffato per molte migliaia di euro le famiglie dei detenuti. La cura dei contatti con i famigliari in Italia non avviene quasi mai e, quando avviene dopo ore e ore di tentativi al telefono con enormi esborsi per le famiglie, non viene fornita nessuna assistenza degna di questo nome. La fornitura di assistenza medica, farmaci, alimenti, libri, giornali ecc. ecc. è assolutamente inesistenze in moltissimi consolati. Un esempio per tutti è quello di Santo Domingo dove alcuni detenuti aspettano da oltre tre mesi la consegna di medicine indispensabili e analisi mediche improrogabili (sospetto tumore). L’erogazione di sussidi non avviene quasi mai, forse perché i consolati si guardano bene dall’avvisare i detenuti di questa possibilità e, quando avvengono, si parla di briciole date una volta ogni sei mesi (quando va bene). L’unica cosa che al momento sembra funzionare abbastanza bene è l’assistenza la trasferimento dei detenuti in Italia che, oltretutto, è competenza del Ministero della Giustizia e non del Mae. Ora, noi ci rendiamo conto che il Sottosegretario Mantica ha dato una risposta di circostanza, diciamo ciclostilata, ma ci rendiamo conto anche che è l’unica risposta che poteva dare (questo a sua discolpa). Ci rendiamo anche conto che, pur rispettando l’impegno dei parlamentari, queste interrogazioni parlamentari non servono a niente se muoiono con la risposta dell’autorità chiamata a rispondere senza essere minimamente contestate. Purtroppo riteniamo che, a parte gli addetti ai lavori, in pochissimi a Roma conoscano veramente la situazione drammatica in cui versano moltissimi nostri connazionali detenuti all’estero. In pochi si rendono conto di come i loro Diritti vengano sistematicamente calpestati senza che nessuno alzi un filo di voce. È una situazione che denunciamo da anni (vedere i nostri rapporti annuali) senza però che nessuno ci dia ascolto o che cerchi di migliorare la situazione. Per una famiglia italiana avere un congiunto detenuto all’estero significa in molti casi finire sul lastrico proprio perché non viene fornita la necessaria assistenza. In alcuni casi (vedi Falcone o Sparti) i nostri connazionali sono stati detenuti o trattenuti per anni prima di essere scarcerati perché innocenti. Come si pensa che una famiglia possa reggere a una cosa del genere senza assistenza da parte delle autorità consolari? In questo momento ci sono decine di italiani in carcere da molti mesi (in alcuni casi anni) in attesa di giudizio, magari perché si sono rifiutati di dare una tangente alla polizia locale. Cosa fanno le nostre autorità? Oltre 3000 italiani detenuti all’estero non sono uno scherzo o un fattore sul quale si possa sorvolare o prendere alla leggera. È un problema sociale che riguarda tremila famiglie. E allora chiediamo che quando si danno risposte ufficiali a legittime interrogazioni, si diano risposte ragionate e coadiuvate da una seria ricerca e non risposte ciclostilate non basate sulla realtà dei fatti. Chiediamo agli Onorevoli che propongono le loro interrogazioni di non fermarsi alla risposta che gli viene data perché a quel punto è inutile fare domande se per risposta si ottiene una “non risposta”. Non è così che si risolve (o si allieva) questo problema sociale. Precisiamo infine che non tutti i Consolati si comportano in maniera inappropriata e che anzi forniscono tutta l’assistenza che possono (poca, ma è qualcosa), ma è altresì vero che il problema rimane e che quando ci si trova di fronte a un Consolato inadempiente non esiste da parte degli organi competenti alcuna assistenza e/o sostegno verso coloro che rimarcano tali inadempienze, che siano essi famigliari o amici. Per le associazioni come la nostra il discorso cambia un po’ grazie all’impegno dell’ufficio IV della Direzione Generale per gli Italiani all’Estero che fa quello che può considerando però che parliamo di pochissime persone che devono gestire problematiche immense. Il problema degli italiani detenuti o in difficoltà all’estero è un vero e proprio problema sociale incompreso. È ora che qualcuno lo comprenda. Secondo Protocollo Associazione no profit per la difesa dei Diritti Umani