La droga oggi riempie le carceri di ragazzi sempre più giovani Il Mattino di Padova, 28 marzo 2011 È iniziato in questi giorni il processo in cui sono imputati tre agenti, sei medici e tre infermieri per la morte di Stefano Cucchi, il ragazzo arrestato a Roma la notte del 15 ottobre del 2009 per detenzione di stupefacenti e morto il 22 ottobre successivo nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, dove non gli sarebbero state prestate le cure necessarie, nonostante il suo stato di totale debilitazione, dovuto forse a maltrattamenti subiti. Per capire il calvario di Stefano, ma anche di tanti tossicodipendenti che stanno in carcere, e invece avrebbero bisogno di stare in luoghi di cura, riportiamo una testimonianza della sorella di Stefano, Ilaria, e poi di un detenuto e di una detenuta, che in galera ci sono finiti per problemi legati alla droga. Vogliamo restituire dignità alla morte di mio fratello Si parla spesso di quanto la vita può cambiare quando in una famiglia qualcuno viene arrestato, la nostra vita è cambiata drasticamente, la vita mia e dei miei genitori in particolare, e allora alla difficoltà del lutto in questo caso si aggiunge la difficoltà a comprendere il non senso di quello che è accaduto a mio fratello Stefano. Al di la della giustizia che ci auguriamo possa arrivare, il nostro problema in questo momento è arrivare alla verità, perché ad oggi è tutto ancora molto confuso. Quindi per elaborare il dolore e riuscire in qualche modo ad andare avanti è indispensabile avere delle risposte. Sicuramente quello che ritengo abbia vissuto Stefano nei suoi ultimi sei giorni di vita è un grande senso di abbandono, di solitudine, e il non rispetto più totale di quelli che sono i diritti fondamentali dell’essere umano. In quelle condizioni Stefano ha concluso la sua vita e con quelle stesse modalità all’inizio hanno cercato di trattare noi famigliari, dicendoci solo “Stefano si è spento”, ma le cose non stanno cosi e noi abbiamo deciso di andare avanti, perché volevamo restituire dignità alla sua morte. Nel fare questo però ci rendiamo perfettamente conto che se c’è qualcuno che in questa situazione ha sbagliato, quel qualcuno è una persona, sono dei singoli, e non è sicuramente l’intera istituzione. Io ritengo che sia fondamentale che le istituzioni intervengano, proprio per una questione di rispetto nei confronti di tutti coloro che invece svolgono un lavoro cosi complicato, come la Polizia penitenziaria, come gli stessi medici, in maniera dignitosa, rispettando la vita umana, che è un concetto fondamentale che non deve mai venir meno. Intervengano magari individuando le responsabilità e non coprendole, perché coprire vuol dire che in qualche modo domani qualcun altro si sentirà legittimato ad agire nella stessa maniera. E allora se questa battaglia sicuramente non potrà restituirci Stefano, mi auguro potrà evitare che capiti in futuro, potrà forse essere modo per una presa di coscienza da parte di tutti. Per noi è importante anche semplicemente un gesto per dire “Non siamo tutti cosi”, dopo di che voglio aggiungere che quello che è accaduto a noi, a Stefano, può veramente succedere a chiunque, perché mai nella vita avrei potuto immaginare che potesse capitare a noi, si tende un pò tutti forse, anche per una sorta di autodifesa, a dire “Tanto se era in carcere, qualcosa aveva fatto, in qualche modo se l’era meritato”. Indubbiamente mio fratello aveva sbagliato, chiunque di noi può sbagliare, mio fratello però doveva pagare in maniera diversa, e io mi auguro e ho piena fiducia che, a questo punto, qualcuno se ne sia reso conto, e che alla fine ci arriverà una qualche giustizia. Ilaria Cucchi La droga allora mi sembrava l’unico rifugio Sono stata molto sola nella mia infanzia e adolescenza, ma forse queste sono solo scuse, l’ho capito col tempo. Erano gli anni 80 e 90, dove la gente lavorava tenacemente per dare un avvenire ai figli, invece io ho preso una strada sbagliata ma ero troppo piccola per capire realmente che la droga è una momentanea calma, che poi si scatena per farti entrare in una voragine dove non vedi oltre. Nel periodo in cui dovresti andare a scuola, avere i primi batticuori, a me aveva già tolto tutto. Vivevo per lei. Quante volte sono scappata di casa per aggregarmi ad altri sbandati come me! Ma non capivo, cercavo l’affetto in quella droga che allora mi sembrava l’unico rifugio. Ho rimosso tanti dolori che mi sono capitati, troppi. Ho iniziato molto presto a giocare con la mia vita, perché è realmente un vero suicidio mentale, spirituale, fisico, ma sono sopravvissuta, e di questo devo ringraziare la mia piccola grande figlia. Ho smesso quando sono rimasta incinta, immediatamente. Farsi male da soli è un conto, ma non puoi fare male a chi ti vive nel grembo. E così ho fatto un lungo periodo di vita tranquilla crescendo quella figlia tanto voluta e amata. Finché un cancro al colon ci portò via suo padre in 6 mesi. Dove rifugiarsi da un dolore così grande, da un lutto mai elaborato? L’inquietudine mi fece ricadere in quel vortice, anche se ormai ero grande e sapevo a cosa andavo incontro. Eppure per anni nessuno si è accorto di niente, avevo un buon lavoro, poi è crollato tutto perché ho commesso un reato legato alla mia dipendenza. Quanto soffro quando vedo entrare qui dentro delle ragazzine che vorrei consigliare, parlando loro della mia esperienza, ma come non ascoltavo io allora non ascoltano neanche loro. E spesso forse mi rispecchio in loro e vorrei tornare indietro col tempo. Quando prendi coscienza che hai fatto tanti errori nella tua vita, inizia il lungo cammino per risalire. Non voglio dire che il carcere mi ha rieducata, ma certamente non ci voglio tornare. La rieducazione viene dal dentro, da una figlia che piange ai colloqui, da una madre anziana che mi ha detto un giorno: “Se potessi la farei io al tuo posto la carcerazione, ma non posso”. Era la prima volta che ho sentito l’affetto che mia madre e la mia famiglia provano per me. Ho capito una cosa di tutta questa vita incasinata, per lenire i rimorsi, le sofferenze e gli errori dovrò sicuramente ripartire dal centro di me: quale figlia, quale madre, quale donna adesso realmente sono e voglio essere. Laura Nel corso degli anni “farmi” era per me l’unica ragione di vita Mi chiamo Nicolò, ho cominciato a fare uso di sostanze stupefacenti a 12 anni, non immaginando assolutamente le conseguenze che ne sarebbero potute derivare. Adesso, a 50 anni, posso fare un’analisi della mia vita e raccontare a chi ancora ha poca esperienza a che cosa si può andare incontro facendo uso di certe sostanze, che all’inizio vengono prese alla leggera, soprattutto perché il loro effetto è “molto piacevole”. La sensazione di piacevolezza è proprio la ragione per cui si entra in un vortice dal quale non si esce. Io, contrariamente alla convinzione comune per cui si pensa che uno passi per gradi dalle droghe leggere a quelle più pesanti, ho iniziato con le pesanti, più che altro per la curiosità di provare. Le prime volte è stata un’esperienza di gruppo, poiché, essendo ben consapevoli di fare una cosa sia proibita che pericolosa, si vuole dimostrare al gruppo che si ha il coraggio di rischiare. Poi si diventa sempre più disinvolti e audaci e si aumenta la quantità delle dosi, e di conseguenza aumenta il piacere. In quell’esplodere di nuove sensazioni sempre più eccitanti, non ci si rende conto che il fisico si sta assuefacendo. Ci si accorge di questo solo quando si rimane per un pò di giorni senza. Allora iniziano i malesseri, dolori alle ossa, vomito, però uno pensa che si tratti di una forma di influenza o di qualcosa che si è mangiato. Nel caso mio, dopo circa una settimana che stavo male, incontrai dei ragazzi del mio vicinato e, parlando del mio stato di salute, loro mi dissero semplicemente che ero così perché ero “in bianca”. Solo allora ho capito che ero diventato dipendente della sostanza, ma tanta era la sofferenza che l’unica maniera per riprendere a stare bene era quella di “rifarmi”. E così ricominciai a fare uso delle sostanze anche più di prima. Nel corso degli anni “farmi” era la sola ragione di vita, come aprivo gli occhi la mattina pensavo a bucarmi, e l’unica maniera per procurarmi le dosi era rubare. La prima volta che sono finito dietro le sbarre avevo 14 anni compiuti da tre giorni. In totale sono stato arrestato e scarcerato una decina di volte, sempre per reati legati alla droga, collezionando oltre 23 anni di carcere. Adesso che ho 50 anni, la metà dei quali passati in carcere, mi rendo conto di aver sprecato la mia esistenza senza aver concluso niente o quasi di positivo. Penso che se solo avessi avuto la forza di smettere all’inizio avrei potuto fare tante cose, avrei potuto avere una famiglia mia e forse sarei stato un signore, perché a dire la verità le buone occasioni non mi sono mancate. Nicolò Giustizia: Ionta (Dap); la difficile situazione e l’orgoglio per l’abnegazione del personale La Repubblica, 28 marzo 2011 Il capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) traccia un quadro - peraltro già noto - della drammatica situazione negli istituti di pena italiani. Le regioni con maggiori difficoltà. Il Piano Carceri che prevede 20 nuovi padiglioni. Seimila dossier da esaminare per la detenzione domiciliare nell’ultimo anno. Il dottor Franco Ionta - direttore del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e Commissario delegato per il Piano Carceri - ha rilasciato all’Adnkronos un’intervista sulla attuale situazione nelle carceri, che pubblichiamo integralmente. La distribuzione sul territorio. “In questo momento in carcere si vive una condizione di precarietà, affrontata con abnegazione da un personale di cui vado orgoglioso. Dal lato dei detenuti, ci sono situazioni difficili che stiamo affrontando: il problema di stare in troppi in una cella è una questione seria, cui dobbiamo dare una risposta. Al di là dei numeri, che indicano un surplus di 22.259 detenuti rispetto alla massima capienza, ci sono situazioni davvero molto complicate. Il piano carceri - spiega Ionta - sta cercando di deflazionare i detenuti distribuendo le unità sul territorio, in modo da non far gravare il peso dell’affollamento soltanto su alcune regioni. Le situazioni più difficili. Tra quelle più in debito d’ossigeno - sottolinea il capo del Dap - ci sono Calabria, Sicilia, Emilia Romagna e Veneto. La situazione del sistema penitenziario - aggiunge Ionta - è all’attenzione del governo, del Guardasigilli Alfano e del Dipartimento. Per affrontare un problema che riguarda ormai 67.500 detenuti in tutte le carceri italiane, con una carenza di 6.000 agenti di polizia penitenziaria, si è programmata una strategia complessiva in vista di quella che definisco la stabilizzazione del sistema. Venti nuovi padiglioni. Il governo - rimarca Ionta - mi ha conferito poteri straordinari per l’edilizia penitenziaria e ho elaborato un piano per la costruzione di 20 nuovi padiglioni nelle carceri esistenti e di 11 nuovi istituti penitenziari dislocati in diversi territori del paese, dove riteniamo ci sia maggior necessità di sicurezza. Sono state firmate una serie di intese con le regioni e il budget a disposizione è di 700 milioni di euro” che dovranno garantire 9.150 nuovi posti detentivi. I tempi del piano - assicura Ionta - saranno più brevi rispetto al passato: dal momento in cui le gare vengono aggiudicate, i nuovi padiglioni verranno costruiti in 18 - 24 mesi. I tempi sono di 24 - 36 mesi, invece, per la costruzione dei nuovi istituti. Conto di poter fare le prime gare per i padiglioni prima dell’estate”. L’assunzione del personale. Questa è la prima direttrice del piano governativo. Accanto all’edilizia carceraria, “c’è la parte importante dell’assunzione del personale: dal lunedì 28 marzo - spiega il Commissario delegato per il Piano carceri - 760 persone cominceranno il corso di formazione della durata di 6 mesi e al termine avremo le unità a disposizione”. A queste “si aggiungerà, entro un anno, un’assunzione straordinaria di oltre 1.600 persone. E c’è un recupero del turn over che interessa la polizia penitenziaria, che consentirà un recupero di 1.100 persone, una parte delle quali saranno funzionari”. L’ultimo anno di detenzione. Il “terzo pilastro del piano carceri - rimarca Ionta - è la possibilità di far scontare alle persone l’ultimo anno di detenzione presso un domicilio e non in carcere. La legge, approvata a dicembre 2010, ha visto finora 1.600 persone godere di questa possibilità. È una misura che dipende dalla magistratura di sorveglianza - sottolinea il capo del Dap - e c’è una platea di circa 6.000 persone e relativi dossier da esaminare”. Il carcere a domicilio. Uno dei problemi che la strategia incontra è però quello del domicilio, perché - conferma Ionta - vi sono persone che non hanno un domicilio congruo. Ho in corso degli incontri con enti locali per verificare la possibilità di mettere a disposizione alcune strutture per dare questa possibilità a persone non particolarmente pericolose, giunte al termine di un percorso positivo nelle strutture penitenziarie”. Ma il problema resta la gestione ordinaria. Per il capo del Dap, “il punto più difficile” rimane però “la gestione ordinaria della struttura carcere. In questo momento di transizione e costruzione, c’è da fare uno sforzo aggiuntivo rispetto al grande sacrificio profuso ogni giorno dal personale. Non a caso da un pò di tempo visito gli istituti di pena per verificare le loro condizioni di lavoro”, aggiunge Ionta, per il quale le maggiori criticità si riscontrano “negli istituti datati, dove servono lavori di manutenzione e il sovraffollamento è elevato. Ma abbiamo anche strutture di eccellenza, come il carcere di Trento. Accanto a questi dati, si registrano esperienze positive, con prassi di lavoro all’esterno del carcere, dove i detenuti recuperano una professionalità per essere restituiti alla società civile. Dovrebbe essere questa - conclude Ionta - la finalità cui tende la pena”. Giustizia: tortura; il Consiglio d’Europa accusa la Grecia… e l’Italia? di Susanna Marietti Carta, 28 marzo 2011 Lo scorso 15 marzo il Comitato Europea per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa ha emesso un public statement nei confronti della Grecia. È la prima volta che una procedura del genere coinvolge un Paese membro dell’Unione Europea. Si tratta di una procedura rarissima in generale: in 22 anni è solo la sesta volta che viene messa in piedi. In passato aveva coinvolto per due volte la Turchia e per tre volte la Russia in relazione alla Cecenia. Il public statement è una pubblica dichiarazione di biasimo per l’operato di un’autorità governativa, che il Comitato rende nota dopo aver sollecitato varie volte l’autorità in questione senza aver ricevuto adeguate reazioni. Oggi la Grecia è duramente criticata dal Consiglio d’Europa per quanto riguarda la situazione relativa al trattenimento dei migranti irregolari nonché la situazione penitenziaria. I migranti irregolari sono trattenuti dalle autorità greche, rende noto il Comitato, per settimane o anche mesi in condizioni degradanti, senza che venga loro offerta la possibilità nemmeno della quotidiana ora d’aria di carceraria memoria. Le ben quattro visite effettuate dall’organismo del Consiglio d’Europa tra il 2005 e il 2009, che hanno dato vita ad altrettanti rapporti, hanno dipinto invariabilmente il medesimo quadro. Come sempre, la procedura eccezionale messa in moto dal Comitato è passata in Italia sotto silenzio. Come sempre, non siamo molto interessati a quanto ci dicono gli organismi sovranazionali a protezione dei diritti umani. Smisuratamente convinti di non averne bisogno. Eppure, quei migranti sono anche i nostri. Respinti illegalmente mentre cercavano di raggiungere l’Italia, senza neanche che si valutasse la possibilità di un loro diritto d’asilo, i flussi migratori hanno deviato verso quella direzione. Ai troppi morti annegati al largo delle nostre scoste, sulle coscienze dei nostri governanti si aggiungono adesso i fatti drammatici che il Consiglio d’Europa ha oggi scoperchiato. Giustizia: Osapp; ennesimo detenuto suicida accresce frustrazione Polizia penitenziaria Adnkronos, 28 marzo 2011 “L’ennesimo suicidio in carcere avvenuto ieri, presso la casa circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia, di un detenuto non nuovo a simili tentativi e perciò sottoposto a specifici controlli, così come per tutte le morti in carcere, accresce il senso di frustrazione e l’inquietudine lavorativa dei poliziotti penitenziari, che anche da tali episodi avvertono l’incapacità del sistema penitenziario di realizzare in pieno il dettato costituzionale riguardo alle finalità della pena”. È quanto sottolinea Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. Secondo il sindacalista, “benché il numero dei detenuti oggi presenti nelle carceri italiane sia inferiore dell’1,2% rispetto a quello di fine 2010 e il numero dei suicidi in carcere sia addirittura inferiore del 30% rispetto allo stesso periodo nello scorso anno con 15 suicidi nel 2011 e 24 nel 2010, negli istituti di pena è sempre più evidente il difetto dell’attuale politica penitenziaria nazionale per quanto riguarda il pieno e responsabile coinvolgimento delle professionalità dei poliziotti penitenziari nelle pur obbligatorie attività di prevenzione e di recupero in favore dei detenuti”. Gruppi ascolto contro suicidi ora nell’oblio “Sono finite nel completo oblio le disposizioni, allora tanto propagandate dal capo del Dap Franco Ionta, per la costituzione di Gruppi di ascolto all’interno delle carceri contro il fenomeno dei suicidi nei reclusi e nel personale. Senza una nuova riforma e nuovi assetti - conclude il sindacato - la polizia penitenziaria resta la mano d’opera a basso costo del sistema e le morti il relativo effetto collaterale”. Giustizia: in 22 anni solo l’1% delle cause per ingiusta detenzione si è conclusa col risarcimento Il Giornale, 28 marzo 2011 Se si vuole parlare concretamente della responsabilità dei giudici e degli errori giudiziari partiamo dai numeri: solo l’l% dei giudizi ha visto lo Stato “pagare” i danni del lavoro del giudice. Insomma la “montagna” della cosiddetta legge Vassalli, che ha introdotto a partire dal 1988 la responsabilità dei magistrati come richiesto dalla stessa Costituzione (articolo 24), ha partorito un “topolino”. A offrire un bilancio dei primi 23 anni della legge è la relazione presentata in Commissione giustizia della Camera da Ignazio Caramazza, Avvocato generale dello Stato. In buona sostanza soltanto l’l% dei ricorsi contro magistrati per ingiusta detenzione si è risolto con una condanna della toga. “Dai dati raccolti dall’Avvocatura dello Stato - si legge nella relazione - risultano proposte poco più di 400 cause. Di queste 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità, 70 sono in fase di impugnazione di decisioni di inammissibilità e 34 sono state dichiarate ammissibili”. Solo in 4 di queste si è arrivati alla condanna dello Stato. Insomma la percentuale è veramente bassa. Quattro condanne su 406 casi. E con un grande lavoro del filtro dell’ammissibilità che ne ha rigettate subito 253 (62%). Secondo l’Avvocatura dello Stato “emerge una eccessiva operatività” di questo “filtro”. Questo “difettoso funzionamento della legge” porta, secondo Caramazza, a una abrogazione sostanziale di parti qualificanti della norma che ne stravolgono il senso. L’audizione dell’Avvocato generale dello Stato in Commissione giustizia porta quindi un nuovo punto di vista sulla legge Vassalli e sulla necessità di riformulare la normativa che dà un senso compiuto all’indirizzo proposto dalla stessa Carta costituzionale nell’articolo 24. Vale forse la pena di ricordare, a questo punto, quanto scritto nel comma 4: “La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”. E non solo per colpa grave o dolo. Quindi anche un errore di interpretazione normativa può recare danni a chi viene sottoposto a giudizio. E il senso dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini non solo intende rispondere ai desiderata della Costituzione ma anche ai diktat dell’Unione Europea. L’emendamento chiama i giudici a rispondere per “ogni manifesta violazione del diritto”. Lo stesso Caramazza auspica una riforma in tal senso e ricorda che il nodo a una equa applicabilità della legge Vassalli è proprio l’articolo 2 della stessa legge che spiega come “nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme”. Più prudente il parere espresso dai vertici del Consiglio nazionale forense nel corso di una conferenza stampa. Guido Apa, presidente del Cnf mette le mani avanti: “Dobbiamo ancora capire in che modo il principio dell’emendamento è conforme ai principi costituzionali e se il giudice possa in questo modo applicare serenamente la legge”. Situazione per così dire paradossale. Da un lato c’è l’Avvocatura generale dello Stato che, chiamata a esprimersi dalla Commissione giustizia, dà un suo pur prudente assenso. Dall’altro ci sono gli avvocati che, con il loro temporeggiare, sembrano ancora incerti sul valore dell’emendamento. Eppure sarà la prima a difendere i magistrati nelle cause mentre saranno i secondi ad assistere i singoli nelle azioni contro lo Stato. Giustizia: ddl detenute madri; domani sit-in di Radicali e Associazioni davanti al Senato Adnkronos, 28 marzo 2011 “Un sit-in davanti al Senato per contrastare l’approvazione dell’ennesima legge inutile sulla detenzione delle madri, che continuerà a non tirare fuori i bambini di età inferiore ai tre anni dal carcere”. È la protesta organizzata dal gruppo carceri di Radicali Italiani, insieme con l’Associazione Radicale “Il Detenuto Ignoto”, l’Associazione “A Roma Insieme” e l’Associazione “Antigone”, domani dalle 11 alle 16 davanti a Palazzo Madama, in contemporanea con i lavori dell’Aula. “Aver evitato l’approvazione della legge sulle detenute madri per la data dell’8 marzo, giorno della festa delle donne, sul quale maggioranza e opposizione avevano fatto affidamento per esporre come trofeo l’approvazione di una legge inutile, e il conseguente rinvio alla Commissione Giustizia del Senato, non è servito a nulla - spiega una nota dei Radicali - tant’è che la commissione non ha minimamente modificato il testo, decidendo di calendarizzare infine, per domani, l’approvazione in Aula”. “A nulla sono valsi finora gli sforzi della delegazione dei parlamentari Radicali, che hanno cercato in entrambi i rami del Parlamento di emendare il testo e renderlo davvero efficace per scongiurare che nessun bambino varcasse più la soglia di un carcere. Nonostante tutto, dopo un altro bagno in Commissione giustizia e la farsa di alcune altre audizioni di associazioni attive nel settore e non solo, anche queste, come le precedenti, rimaste inascoltate, non si registrano modifiche al testo - sottolineano i Radicali - che continuerà a conferire la facoltà ai giudici di prescrivere che i bambini di età inferiore ai tre anni rimangano in cella con le proprie madri detenute qualora non vi fossero possibilità legali e materiali per una diversa soluzione, ne si registrano migliorie sulla eventualità per queste madri di poter assistere i propri figli qualora si rendessero necessarie delle cure sanitarie in ospedale”. Associazione “A Roma Insieme”: Senato migliori legge minori Va anticipata al primo gennaio 2012 (e non al 2014 come previsto finora) l’entrata in vigore della legge che tutela il rapporto tra madri e minori in carcere. E, in caso di invio al Pronto Soccorso, visite specialistiche o ricovero ospedaliero di un bambino che vive recluso con la madre, deve essere consentito a questa di accompagnarlo e assisterlo per tutta la durata della visita o del ricovero. Sono le richieste imprescindibili avanzate dall’Associazione “A Roma Insieme” affinché il testo che domani sarà all’attenzione dell’aula del Senato abbia almeno un segno positivo. “Facciamo un appello ai senatori affinché recepiscano almeno questo - dice l’associazione - altrimenti la nuova legge è del tutto inutile”, dice la presidente dell’associazione, Leda Colombini che da 20 anni si occupa dei bambini in carcere con le madri. L’associazione si dice tuttavia consapevole che l’impianto della legge - per la quale non sono state sentite in audizione tutte le associazioni che si occupano del mondo del carcere, coordinate dalla Consulta per i problemi penitenziari del Comune di Roma - non risolve ancora il problema che nessun bambino varchi la soglia di una prigione. Solo a Rebibbia dietro le sbarre attualmente ci sono 13 bambini insieme a madri recluse. “Se l’introduzione della legge non avvenisse dal 2012 e in caso di visite mediche o ricovero il bambino non fosse accompagnato e assistito dalla madre - conclude Colombini - il tempo ottenuto dall’aula del Senato per approfondire l’esame del testo e far sì che la legge sia un primo passo avanti verso l’obiettivo da tutti auspicato, a cominciare dal ministro Alfano, sarebbe stato volutamente sprecato”. Giustizia: vivere l’adolescenza rinchiusi in una cella di Giacomo Russo Spena Il Riformista, 28 marzo 2011 Quasi uno su due è straniero. Il 30 per cento è rom. Gli italiani? La stragrande maggioranza è del Sud. Sono i numeri rilevati dall’associazione Antigone in un dossier sulla situazione degli Istituti penali per minori (Ipm). Emerge un quadro abbastanza confortante ma le falle non mancano. A partire dalla composizione sociale e da alcuni procedimenti penali contro gli agenti per abusi sui giovani detenuti. Andiamo per ordine con l’analizzare i numeri. I reclusi sono 450 e divisi in 19 istituti che assicurano l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria quali la custodia cautelare o l’espiazione di pena: Acireale, Airola, Bari, Bologna, Cagliari, Caltanisetta, Catania, Catanzaro, Firenze, Milano, Nisida, Palermo, Pontremoli, Poten-za,Roma, Torino e Treviso. A questi vanno aggiunti gli istituti di Lecce e L’Aquila, attualmente chiusi per ristrutturazioni. I giovani hanno tra i 14 e 18 anni anche se l’esecuzione della pena negli Ipm può prolungarsi, ed il caso è molto frequente, fino ai 21. È raro che i giovani siano reclusi per crimini efferati: quelli condannati per reati contro la persona (omicidi o violenza carnale) sono principalmente italiani. Eppure gli stranieri, rei soprattutto di reati di microcriminalità o contro il patrimonio, sono più del 30 per cento. Cifra scesa negli ultimi anni: i giovani immigrati arrivavano ad essere prima la metà esatta della popolazione carceraria. Nei penitenziari maschili il 28 per cento è rom mentre in quelli femminili si giunge al 70. I motivi? Principalmente, spiega il dossier, per le loro intemperanze, tendono a scappare dalle comunità, e per il mancato sostegno di legali “affermati”. I rom rappresentano così, in base ai dati del Dipartimento di Giustizia Minorile, solo io 12 per cento tra il numero totale dei giovani segnalati. Il 28, appunto, tra quelli detenuti. Per le ragazze rom poi c’è la questione della maternità: molte sono giovani mamme. A questo si aggiunge il problema dei trasferimenti, non sempre i minori detenuti scontano la pena vicino casa. “Il principio di territorialità dovrebbe valere soprattutto per i minori. In realtà, specie in questo momento in cui molti istituti sono del tutto o in parte chiusi, spesso i minori scontano la propria pena lontano dalla proprio casa - spiega Alessio Scandurra di Antigone -. Ci preoccupa soprattutto la situazione delle ragazze arrestate nel nord, da qualche mese tutte trasferite da Milano e Torino a Pontremoli, in Lunigiana”. Differenze tra italiani e stranieri si evidenziano inoltre sull’accesso alla “messa alla prova” (ex art. 28 Dpr 448/88), ovvero un percorso di reinserimento sociale e professionale alternativo al processo. Modello che sta dando i suoi frutti e che molti vorrebbero esportare al carcere degli adulti per porre un freno al problema del sovraffollamento. Tra i minori si è passati dai 788 provvedimenti di messa alla prova del 1992 ai 2.631 del 2009, con un incremento di quasi quattro volte. Ma tra i soggetti che hanno goduto di questo istituto nel 2009 gli stranieri erano appena il 16,8 per cento. Più in generale, il tempo medio di permanenza dei minori nei nostri istituti di pena è relativamente basso: solo un paio di mesi. Poi si tende ad introdurre i giovani in percorsi di reinserimento attraverso corsi professionali o attività affini. Tre sono le cose da segnalare per Antigone. La prima è che “in questa stagione di frenesia punitiva i minori sottoposti a controllo penale sono addirittura diminuiti”. La seconda è che sono cresciuti i numeri di quanti sono stati avviati verso percorsi alternativi al carcere. La terza è che alla fine nei penitenziari restano i soliti noti: stranieri, rom, ragazzi delle periferie degradate del sud. Insomma, “il sistema funziona, ma non per tutti”. Il fenomeno degli episodi di violenza non è estraneo alle carcere minorili. Niente a che vedere con suicidi, solo due casi in tutti questi anni negli Ipm, o con le numerose aggressioni dei penitenziari maggiori, ma l’istituto di Lecce è finito alla ribalta per un possibile episodio di abuso da parte di agenti penitenziari su 9 detenuti. Ancora adesso è in corso il procedimento. Secondo la magistratura, all’interno della struttura si sarebbe creata, dal 2003 al 2005, una “pseudo associazione di intenti” finalizzata a sopprimere con la violenza qualsiasi cenno di dissenso. Le testimonianze raccolte parlano di ragazzini denudati e pestati in cella, fino a far uscire sangue da entrambe le orecchie o spezzare tre denti. O ancora, di un ospite della struttura lasciato per un’intera notte completamente nudo a dormire in cella di isolamento senza materasso. E Lecce non è l’unico caso. È attualmente in corso anche il processo contro un agente di polizia penitenziaria dell’istituto penale minorile di Torino, imputato di lesioni gravissime ai danni di un ragazzo marocchino. I fatti risalgono al 6 aprile 2006. Il panorama degli Ipm è sicuramente più roseo delle carceri per adulti ma le lacune non mancano. Giustizia: Sappe; le criticità degli Opg sono il risultato di un diffuso e datato disinteresse politico Comunicato stampa, 28 marzo 2011 “La Commissione d’inchiesta sugli ospedali psichiatrici giudiziari, guidata dal senatore Ignazio Marino, ha riproposto con forza il problema della gestione di strutture di reclusione che hanno bisogno di una progettualità tale da garantire l’assistenza ai malati e la sicurezza degli operatori, quali appunto gli Ospedali psichiatrici giudiziari. Certo è che i buoni propositi delle Direzioni si scontrano sempre più spesso con una cronica carenza di fondi, dopo i tagli disposti dal Ministro della Giustizia e i ritardi nella gestione dell’assistenza medica al Servizio Sanitario Nazionale. E colpevole è anche una diffusa e radicata indifferenza della politica verso questa grave specificità penitenziaria”. È quanto scrive in una nota diretta al Ministro della Giustizia Angelino Alfano ed al Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta il Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece, il primo e più rappresentativo della Categoria, commentando alcune recenti dichiarazioni del presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, Ignazio Marino, sugli Ospedali psichiatrici giudiziari. “A subire le conseguenze di questo diffuso disinteresse verso gli Opg” aggiunge “sono gli agenti di Polizia Penitenziaria e gli stessi internati, che dovrebbero essere curati e non custoditi, tanto che la presenza della Polizia Penitenziaria mal si concilia con lo status di internato quale soggetto per lo più non imputabile e quindi incapace di intendere e di volere, poiché la pericolosità sociale non può precedere lo status mentale, come accade nell’articolo 203 del Codice penale, il quale disvela tutta la sua impostazione autoritaria, ben lontana dalle concezioni psichiatriche che si andavano sempre più affermando. L’attuale crisi degli Opg. è il punto di arrivo di una escalation negativa che ha portato all’aumento inversamente proporzionale del numero degli internati, rispetto a quello degli agenti di Polizia Penitenziaria. Dando attuazione alle direttive del Ministero della Giustizia, che ha disposto il blocco degli organici negli Opg, la dotazione organica degli agenti è scesa in cinque anni di circa 40 unità fino agli attuali 119, a fronte di un aumento esponenziale di internati, dai 178 nel 2008 agli attuali 357. In ogni reparto, infatti, a fronte di oltre 100 ricoverati, è presente un solo agente rispetto ai tre previsti fino a qualche anno fa per garantire la sorveglianza su due piani dell’immobile e all’interno del cortile. In queste condizioni è evidente come diventi impossibile la gestione dei reparti, con il rischio quotidiano di risse, aggressioni e gesti di autolesionismo, alimentati anche dagli spazi ristretti in cui sono costretti a vivere gli internati, incompatibili con il disagio psichiatrico. Occorre che i politici, a tutti i livelli, invece delle solite passerelle a cui si accompagnano puntualmente anatemi e demagogie quanto estemporanee soluzioni, si facciano carico del loro ruolo istituzionale, mettendo le strutture psichiatriche nelle condizioni di poter svolgere al meglio il loro lavoro, poiché le condizioni disumane in cui versano gli O.P.G. sono il frutto di una voluta indifferenza della società civile, dei politici, ma soprattutto dei vertici dell’Amministrazione che certamente aveva cognizione di quanto è emerso dalla Commissione parlamentare d’inchiesta. È giunto insomma il momento di rifuggire dalla logica del capro espiatorio”. Venezia: detenuto 34enne suicida; accusato di estorsione all’ex compagna, si proclamava innocente Ristretti Orizzonti, 28 marzo 2011 Nel solo mese di marzo 12 detenuti sono morti nelle carceri italiane, di cui almeno 5 per suicidio. Da inizio anno abbiamo registrato in totale 35 decessi in carcere, di cui 14 suicidi accertati. Ilie Nita, 34 anni, romeno residente a Vigonovo (Ve) si è impiccato ieri pomeriggio nella sua cella del carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia. Era detenuto dallo scorso 10 febbraio, dopo essere stato arrestato dai Carabinieri di Dolo con l’accusa di estorsione nei confronti della sua ex compagna, anch’essa romena, dalla quale con minacce e intimidazioni si sarebbe fatto consegnare 300 euro. Ma l’uomo si è sempre proclamato innocente e aveva già compiuto un gesto di grave autolesionismo, che aveva costretto gli agenti della Polizia penitenziaria a trasferirlo alcuni giorni in ospedale per le cure. Dopo il suo ritorno in cella, dunque, era tenuto particolarmente d’occhio, ma gli organici a Santa Maria Maggiore sono all’osso e in questo momento di sovraffollamento spesso c’è un solo un agente che deve tenere d’occhio ben cento detenuti. Il giovane rumeno ha approfittato del fatto che i suoi compagni di cella, dopo il pranzo, erano usciti in cortile per l’ora d’aria e anche l’agente del piano si era spostato per controllare il cortile: lui si è appeso alle sbarre e, intorno alle 15,30, quando i suoi due compagni sono rientrati hanno visto quel corpo appeso. Era ancora vivo, le sue gambe hanno lanciato gli ultimi spasmi: uno di loro l’ha sollevato, l’altro ha chiesto aiuto, ma alla fine non c’è stato nulla da fare. Sono accorsi gli agenti, hanno sciolto il nodo che ormai era stretto al collo, però pochi minuti dopo è spirato. Informata dell’accaduto la magistratura, il pm Lucia D’Alessandro si è immediatamente recata in carcere per appurare quanto successo. Il magistrato vuole fare massima chiarezza sull’ennesimo caso di suicidio in carcere, dopo l’inchiesta sulla morte di un giovane tunisino, suicidatosi il 22 settembre dello scorso anno. Per fugare ogni dubbio è intervenuto anche il medico legale Antonello Cirnelli, che ha ispezionato il corpo. Dall’esame necroscopico gli inquirenti dovranno escludere infatti ogni altra conseguenza. Per questo ieri, fino a tarda ora, gli investigatori son rimasti a Santa Maria Maggiore, dove hanno ascoltato più persone. Pare che il rumeno avesse già tentato di farla finita in altre due occasioni. Nel 2009 ci furono ben tre suicidi a Santa Maria Maggiore ed un altro avvenne lo scorso 22 settembre, per il quale sono tuttora in corso indagini miranti ad accertare eventuali responsabilità. Tuttavia il caso che ha sollevato maggiore scalpore è stato quello del 26enne Mohamed P., marocchino, che si strangolò con un brandello di coperta il 6 marzo 2009 in una cosiddetta “cella liscia”, priva di ogni appiglio e suppellettile, utilizzata per i detenuti a rischio suicidario ma, sembra, anche come punizione per gli indisciplinati. Per quella morte furono indagate diverse persone, tra cui l’Ispettore di Polizia Penitenziaria Domenico Di Giglio, che quel giorno comandava gli agenti in servizio e che fu accusato di omicidio colposo. La vicenda finì con una ulteriore tragedia, poiché Di Giglio, nel frattempo messo in congedo per problemi psicologici, si toglie la vita il 27 settembre 2009 (a tre giorni dall’inizio del processo per la morte di Mohamed), dopo aver ucciso la moglie Emanuela Pettenò, 43 anni. Venezia: sulla costruzione del nuovo carcere a Campalto, tutti contro il Sindaco Orsoni La Nuova Venezia, 28 marzo 2011 “Abbiamo la parola delle forze politiche: Santa Maria Maggiore può essere ristrutturato. E allora il nuovo cambio di rotta del sindaco Orsoni ci lascia perplessi”. Le dichiarazioni del primo cittadino riaccendono la polemica sul nuovo carcere. “Il problema del sovraffollamento a Santa Maria Maggiore - ha sostenuto Orsoni - non permette al carcere di operare come si vorrebbe. Fare un carcere nuovo, ovunque si decida di realizzarlo, è un fatto di civiltà giuridica e sociale”. Il comitato Cittadini per Campalto non ci vede chiaro: “La maggioranza dello stesso sindaco - spiega Giorgio Lazzaro - è venuta a Campalto a spiegarci che c’è la possibilità di ristrutturare il carcere di Santa Maria Maggiore, adesso Orsoni ci sembra dica il contrario. Chi ha ragione? Non vorremmo pensare che il sindaco rappresenti il partito del fare, allo stesso modo di quanto accaduto con il By-pass: ci sono 40 milioni da spendere, quindi è meglio costruire. L’ultimo ordine del giorno votato in Consiglio chiedeva di azzerare il percorso, forse sarebbe bene che Orsoni comunicasse a noi “sudditi” che siamo oltre il Ponte della Libertà, che cosa intende fare. Alla fine appare evidente che tutti daranno la colpa a Zaia e alla Lega”. Anche il Pdl non ci vede chiaro: “Ancora una volta - attacca il vicepresidente del consiglio comunale, Saverio Centenaro - il sindaco dimostra che, nonostante la sua maggioranza la pensi diversamente, lui è d’accordo non solo sul carcere, ma anche sul carcere a Campalto: inutile che il consiglio comunale voti ordini del giorno se è lui il primo a non crederci e inutile che il Pd vada a Campalto a dire alla popolazione che non si farà un nuovo carcere. Da come è stata messa giù, sembrava che Santa Maria Maggiore fosse un hotel a quattro stelle: invece adesso ci viene spiegato che le carceri veneziane non versano in condizioni di criticità pesante, ma sono insufficienti rispetto alle esigenze del territorio e che c’è un problema di sovraffollamento”. Perplessità anche nel centrosinistra. “Il Consiglio ha detto altro rispetto alle dichiarazioni del sindaco - precisa il consigliere comunale del Pd Gabriele Scaramuzza - e io sono perché la volontà del Consiglio venga rispettata, quella cioè di attuare politiche di abbattimento del numero di detenuti di Santa Maria Maggiore tramite l’incremento di misure alternative. Se si verifica che non basta, beh si farà un’altra valutazione”. “A Campalto è stato detto il contrario di quanto abbiamo letto - dice Elettra Vivian (Comitato cittadini di Favaro) - A questo punto serve una commissione d’inchiesta”. Un “pasticcio” iniziato a dicembre La prima volta che si è sentito parlare di un carcere a Campalto era metà dicembre. Un’interrogazione del consigliere comunale del Pdl, Renato Boraso, sollevava il problema e metteva la pulce nell’orecchio ai cittadini. Tutti si erano affrettati a dire che si trattava solo di un’ ipotesi di progetto lontana e per nulla concreta. Sennonché neanche quindici giorni dopo, in data 27 dicembre, viene siglata un’intesa tra il Commissario delegato al piano carceri, Franco Ionta, e il vice presidente della Regione, Marino Zorzato. Sulla scorta delle proteste del territorio, scattate immediatamente perché i residenti si sentono “bersagliati” da infrastrutture che non vogliono (By-pass, Tav, tanto per dirne due), il Comune chiede più tempo per trovare siti alternativi. La Regione lo concede, il Ministero non risponde, se non per dire che non c’è alcun progetto di realizzare un Centro di identificazione ed espulsione degli immigrati clandestini, ipotesi nel frattempo emersa per bocca del ministro Roberto Maroni. L’assessorato all’Urbanistica propone 12 siti alternativi, ma il giorno successivo il consiglio comunale, al termine di una discussione fiume, vota un ordine del giorno che apre una “terza via”, quella cioè di ricominciare da zero e ripensare i modelli detentivi. Si apre anche alla possibilità di contrattare la ristrutturazione della struttura esistente sulla scorta di una valutazione più ampia. Gela (Ct): ispezione al cantiere del nuovo carcere; ok a rapida apertura… dopo 30 anni di lavori Dire, 28 marzo 2011 “Mentre le cronache riportano l’ennesimo caso di suicidio in carcere, il 15° dall’inizio dell’anno, avvenuto nel penitenziario Santa Maria Maggiore di Venezia, in provincia di Caltanissetta, presso il carcere di Gela, si è svolta un’ispezione del Dap guidata dal Provveditore dell’amministrazione penitenziaria siciliana, Orazio Faramo, coadiuvato da un pool di esperti, che ha accertato il buono stato della struttura carceraria e dunque certificato la possibilità di una rapida apertura della casa circondariale nissena”. Lo afferma in una nota Alessandro Pagano componente della Commissione finanze della Camera e capogruppo per il Pdl della Commissione bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza. “Il risultato dell’odierna ispezione, condotta personalmente dal provveditore regionale dott. Orazio Faramo, - prosegue l’esponente del Pdl - è il frutto di un convinto impegno personale, per contribuire alla risoluzione dell’emergenza carceraria, che risale al giugno dell’anno scorso. Diamo atto che hanno sollecitato l’avvio dell’iniziativa anche il Sindaco di Gela, Angelo Fasulo, e il deputato regionale del Pdl Raimondo Torregrossa”. Insomma, “grazie al sostegno del ministro Alfano, al quale abbiamo inoltrato il nostro appello - conclude - i lavori alla struttura penitenziaria sono stati svolti in modo che possa entrare presto in funzione, addirittura anche tra un mese, nonostante restino ancora da ultimare le vie d’accesso di Contrada Bolate, ma soprattutto il potenziamento dell’erogazione dell’acqua che ha rappresentato uno dei disagi più gravi per i detenuti specie nei mesi estivi”. L’Aquila: moglie detenuto, mio marito è gravemente ammalato e non viene curato Agi, 28 marzo 2011 Aurelia Strangio, moglie di Giuseppe Nirta, arrestato in Olanda nel 2009 per la faida di San Luca e detenuto in regime di 41-bis nel carcere dell’Aquila, in una lettera si dice “profondamente allarmata” per le condizioni di salute del marito, “che è gravemente ammalato - afferma la donna - ed abbandonato a se stesso”. Giuseppe Nirta, secondo l’accusa, sarebbe l’esecutore della strage di Duisburg del giorno di Ferragosto del 2007, in cui furono uccise sei persone, insieme al cognato Giovanni Strangio. “Mio marito - dice la donna - è sofferente da due anni e dai pochi accertamenti cui è stato sottoposto in carcere non è stata trovata la causa dei suoi malori. Da un anno è ridotto a non mangiare più cibo e ad assumere solo liquidi. Malgrado questo continua ad avere forti dolori che lo costringono a stare a letto con sofferenze atroci, nausea e continue perdite di sangue. Mio marito ha bisogno di controlli e di essere curato in una struttura adeguata. Ho scritto anche al direttore del carcere e mi ha risposto che hanno fatto tutti i passi necessari, compresa la richiesta di ricovero, che però fino ad oggi non è avvenuto”. “Aiutatemi ad evitare - conclude Aurelia Strangio - un’altra morte in carcere. Aiutatemi a fare valere la legge anche per i detenuti per problemi di salute affinché, come si è sempre detto, possano essere curati in strutture adeguate”. Bologna: Sappe; all’Ipm del Pratello un altro agente aggredito, ormai peggio che alla Dozza Dire, 28 marzo 2011 Continuano a verificarsi episodi di indisciplina e aggressioni nei confronti degli agenti che lavorano nel carcere minorile del Pratello di Bologna. Dopo la tentata evasione di una settimana fa, oggi il sindacato del Sappe riferisce di un nuovo fatto che sarebbe avvenuto in via del Pratello mercoledì scorso: un detenuto avrebbe colpito un agente con una pallonata in faccia, rompendogli gli occhiali e provocandogli una lesione sopra l’occhio sinistro. Il poliziotto, che ha fatto denuncia dell’accaduto, ha ricevuto un punto di sutura e una prognosi di otto giorni. Il minorenne responsabile di questa aggressione, sottolinea il Sappe, sarebbe uno dei due che solo due giorni prima avevano tentato la fuga segando le inferriate di una finestra. Insomma, nonostante il grave precedente, nei suoi confronti non sarebbe stato preso nessun provvedimento restrittivo. Il Sappe chiede quindi alle autorità di verificare se è andata così e, nel caso, prendano provvedimenti. “Ormai è un’escalation di fatti addirittura superiore a quelli che avvengono negli istituti per adulti” lancia l’allarme il segretario aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante. “Ci è stato riferito che l’autore dell’aggressione sarebbe uno dei detenuti coinvolti nel precedente tentativo di evasione - scrive in una nota Durante - se ciò fosse vero sarebbe ancora più grave, perché vorrebbe dire che il detenuto, nonostante il grave fatto già commesso, circolava ancora liberamente all’interno del carcere, senza che nessuno avesse assunto dei provvedimenti, anche d’urgenza, nei suoi confronti”. Durante è perentorio: “Chiediamo che le autorità preposte verifichino se ciò corrisponde al vero e adottino i conseguenti provvedimenti”. Il Sappe vuole che sia fatta luce su quanto accaduto e chiede una soluzione per il penitenziario minorile di via del Pratello, dove a quanto pare “i detenuti ristretti pensano di poter fare tutto ciò che vogliono, in barba a leggi e regolamenti che, probabilmente, dovrebbero essere applicati in maniera più rigida da chi è preposto a farlo”. Il Sappe, nel confermare lo stato di agitazione in Emilia-Romagna, ricorda la manifestazione di protesta indetta in tutti gli istituti penitenziari della regione per venerdì 1 aprile: gli agenti saranno in presidio a partire dalle ore 9.30. Genova: furgone della Polizia penitenziaria si ribalta in autostrada, feriti un detenuto e un agente Ansa, 28 marzo 2011 Secondo le prime ricostruzioni pare che, un autoarticolato, mentre si immetteva sull’autostrada uscendo dall’area di sosta, andava ad urtare il mezzo della Polizia Penitenziaria che a sua volta, dopo un testacoda, si ribaltava all’interno del tunnel. Un detenuto ed un agente della polizia penitenziaria feriti nell’incidente di un cellulare. È accaduto questa mattina verso le 8.30 sull’autostrada A10 in direzione Genova, vicino all’autogrill Conioli, all’interno della galleria Caravella. Secondo le prime ricostruzioni pare che, un auto articolato, mentre si immetteva sull’autostrada uscendo dall’area di sosta, andava ad urtare il mezzo della Polizia Penitenziaria che a sua volta, dopo un testacoda, si ribaltava all’interno del tunnel. dei tre occupanti del mezzo, ne rimanevano feriti solo due: un poliziotto ed un detenuto, quest’ultimo in maniera più grave, ma non tale da destare particolari preoccupazioni. Si è reso poi necessario l’intervento dei Vigili del fuoco di Sanremo che, con una fiamma ossidrica, hanno provveduto ad aprire il portellone posteriore del cellulare, rimasto bloccato in seguito agli urti. Sul posto è intervenuta anche l’automedica del 118, la Polstrada e l’ambulanza della Croce Verde di Taggia che, dopo aver immobilizzato e stabilizzato il detenuto, lo ha trasportato all’ospedale di Imperia. Roma: da domani Comitato direttivo nazionale della Uil-Pa Penitenziari Adnkronos, 28 marzo 2011 Si svolgerà a Roma, al Centro Congressi dell’Ergife Palace Hotel, da domani a giovedì, il Comitato Direttivo Nazionale della Uil Pa Penitenziari. “Si tratta di una convocazione ordinaria dell’organo statutario, che cade nell’ennesimo momento delicato dell’universo carcerario - spiega Giuseppe Sconza, componente della Segreteria Nazionale e responsabile organizzativo. Assieme ai 150 delegati che converranno a Roma rifletteremo e discuteremo, formuleremo proposte. È innegabile che nella situazione attuale, causa il drastico taglio dei fondi e l’assottigliamento sempre più evidente degli organici, non si riesce a garantire una detenzione in linea col dettato costituzionale, tantomeno a offrire livelli di sicurezza efficienti”. “Il personale, soprattutto la polizia penitenziaria, subisce gli effetti di questa congiuntura negativa. Non si può continuare ad annaspare e a lavorare perennemente con il cuore in gola. Occorrono scelte obiettive e condivise che deflazionino i carichi di lavoro e deresponsabilizzino gli operatori penitenziari - prosegue Sconza - Tutti, a ogni livello, sono chiamati ad assumersi le proprie responsabilità. Questo potrebbe essere utile a rompere quel senso di abbandono ed isolamento che attanaglia il personale. Noi cercheremo di favorire questa discussione”. Mercoledì terrà la sua relazione il segretario generale, Eugenio Sarno. A seguire sono previsti gli interventi del capo del Dap Franco Ionta, del Capo del Dgm Bruno Brattoli e di diversi Dirigenti Generali delle due amministrazioni. Saranno presenti, inoltre, anche rappresentanti di altre organizzazioni sindacali rappresentative della polizia penitenziaria. Chiuderà i lavoro della mattinata Benedetto Attili, segretario generale della Uil Pubblica Amministrazione. “Abbiamo voluto derogare alla consueta ritualità per offrire un contributo di analisi e di proposta. La presenza dei massimi livelli dell’Amministrazione Penitenziaria, della Giustizia Minorile e di altri Sindacati consentirà di articolare un ampio confronto sulle specifiche criticità - sottolinea il responsabile organizzativo Uil-Pa. Nei nostri banner e nello striscione che campeggerà nella sala abbiamo voluto racchiudere in una sintesi iconografica tutte queste criticità. Un messaggio crudo ed immediato, forse. Ma l’universo penitenziario ha bisogno di una scossa, di una iniezione di adrenalina rivitalizzante. Per questo non abbiamo voluto invitare nessun politico - precisa Sconza - Abbiamo consapevolezza che la politica, in questi momenti, è distratta da altri temi che riguardano la giustizia. Allora è meglio cominciare a cercare quelle soluzioni possibili al nostro interno, sperando di trovare ascolto e disponibilità da parte delle amministrazioni”. “Il futuro ci preoccupa molto. Prima che gli eventi possano sommergerci ancora di più, ci tiriamo su le maniche e cominciamo a ragionare in chiave preventiva, organizzativa ed operativa - conclude Sconza - D’altro canto il suicidio, il 15° del 2011, di un 28enne rumeno, ieri sera, a Santa Maria Maggiore (Venezia) ci dice che il tempo scorre inesorabile e tutto il sistema penitenziario si avvia, altrettanto inesorabilmente, verso il baratro”. Immigrazione: Legambiente; l’isola di Lampedusa trasformata in un carcere a cielo aperto Agi, 28 marzo 2011 Volontari di Legambiente sono arrivati oggi a Lampedusa per dare, assieme al circolo locale dell’associazione, assistenza umanitaria agli immigrati sbarcati sull’isola. “Come è nostra consuetudine”, ha detto Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, “non ci tiriamo indietro di fronte alle emergenze e vogliamo fare la nostra parte per aiutare gli immigrati e gli abitanti di Lampedusa, abbandonati dal governo e costretti a fronteggiare da soli uno scenario infernale. Lampedusa, un’isola accogliente cui Legambiente è legata da tempo, in quanto gestore della riserva naturale della Spiaggia dei Conigli, è diventata oggi una sorta di carcere a cielo aperto. Il modo vergognoso con il quale il governo ha gestito finora l’emergenza l’ha messa in ginocchio: il numero degli immigrati, circa 7.000 con gli arrivi di oggi, ha superato quello degli abitanti dell’isola, il Centro di Accoglienza è sovraffollato oltre ogni limite e attualmente la maggior parte degli stranieri è ammassata sulla banchina di Cavallo Bianco senza ricovero, cibo, servizi igienici, coperte. Hanno bisogno di tutto e la situazione peggiora di ora in ora. Per questo ci uniamo alle organizzazioni umanitarie, alla parrocchia e ai cittadini volenterosi che si stanno adoperando per rendere umana la condizione delle persone sbarcate sull’isola, fino a quando il Governo non troverà finalmente una soluzione”. Iran: presidente afghano Karzai fa da mediatore per 5.000 afghani detenuti per droga Ansa, 28 marzo 2011 Il presidente afghano Hamid Karzai ha concluso una visita di due giorni in Iran dove ha esaminato con il collega Mahmoud Ahmadinejad gli sviluppi del conflitto in Afghanistan e le sue implicazioni per la regione, nonché la situazione di circa 5.000 afghani che si trovano nelle carceri iraniane. Lo ha appreso l’Ansa oggi a Kabul. Prendendo la parola nella capitale iraniana nell’ambito dei festeggiamenti per il nuovo anno persiano (nowruz), Karzai ha sostenuto che l’Afghanistan sta uscendo lentamente da un lungo conflitto e che i paesi della regione, ed in particolare l’Iran, possono fare molto per contribuire a mettere fine a questa situazione di crisi. Per quanto riguarda invece la situazione dei detenuti afghani in Iran, il vice-ministro degli Esteri afghano, Jawed Ludin, ha indicato di aver ricevuto da Teheran documentazione riguardante la presenza nelle carceri iraniane di circa 5.000 afghani, 280 dei quali condannati a morte. Nella maggior parte dei casi, ha aggiunto, si tratta di persone coinvolte in traffici illeciti, particolarmente di stupefacenti. Una fonte del palazzo presidenziale a Kabul non ha fornito altri particolari sulla vicenda, chiarendo però che Karzai ha discusso con i suoi interlocutori iraniani il reperimento di un meccanismo per riportare in patria questi detenuti. Kirghizistan: morti per “tubercolosi” due detenuti in sciopero della fame da ieri Ansa, 28 marzo 2011 Due detenuti nella carceri del Kirghizistan sono morti oggi, alla vigilia del loro annuncio d’inizio d’uno sciopero della fame. L’hanno reso noto oggi le autorità del paese centro-asiatico. “Oggi due detenuti sono morti d’una forma grave di tubercolosi”, ha detto il portavoce dei servizi penitenziari kirghisi Erkin Konukulov. Oltre 40 detenuti hanno annunciato ieri l’inizio dello sciopero della fame denunciando un peggioramento del loro stato di salute in carcere. Un alto responsabile della procura kirghisa, Kubanichbek Mamakaev, dal canto suo, ha affermato che dietro lo sciopero della fame ci sarebbe la mano dell’ex presidente deposto un anno fa Kurmanbek Bakiev. La militante per i diritti dell’uomo Evgenya Krapivina ha chiesto l’autopsia dei due detenuti morti.