Giustizia: nel 2010 l’Italia condannata 98 volte per violazioni dei diritti umani di Kenka Lekovich Il Piccolo, 27 marzo 2011 Quando si parla di diritti umani, forse sarebbe utile ricordarsi che si sta parlando di nient’altro che dei fondamentali bisogni di ogni individuo. Ebbene, tali bisogni, garantiti nel vecchio continente da una legge sovranazionale, la Convenzione Europea per i Diritti Umani (Cedu) del 1950 ratificata da 47 Stati, in molte di queste nazioni sono tuttora carta straccia. Lo confermano le 1.499 sentenze e relative condanne, tutt’altro che simboliche, emanate nel corso del 2010 dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo nei confronti dei paesi firmatari della Cedu, che l’ha istituita. Stando al rapporto per il 2010 dell’Osservatorio sulle sentenze Cedu presso la Camera dei deputati, in tema di diritti umani il Belpaese è tra gli ultimi della classe. Con 98 sentenze e rispettive condanne, l’Italia è preceduta da sole altre 5 maglie nere: la Turchia che figura in cima alla lista con 278 provvedimenti penali, seguita da Russia (217), Romania (143), Ucraina (109) e Polonia (107). Ben diversa la posizione delle nazioni vicine all’Italia e cioé Slovenia (6), Svizzera (11), Austria (19) e Francia (42). Per non dire della Danimarca che figura addirittura a quota zero. Oltre ai numeri, non meno degno di nota è il carattere delle violazioni che hanno portato l’Italia sul banco degli imputati a Strasburgo. Sul totale delle 98 sentenze con condanna, ben 61 accertano almeno una violazione delle norme Cedu, e di queste 50 riguardano l’inosservanza del diritto a un equo processo. Soltanto una invece è relativa alla violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, sancito dall’articolo 3 della Convenzione, che in sostanza proibisce la tortura. Ciò, nonostante che dal 2009 siano ormai centinaia i ricorsi giunti alla Corte europea che si appellano a detto articolo, in virtù di un precedente. Due anni fa infatti, l’Italia è stata condannata dai giudici di Strasburgo per aver costretto un detenuto a vivere in una cella che misurava meno di 3 metri quadri, il che costituirebbe un’ipotesi di tortura. Vista la situazione delle carceri italiane, dove si rileva nel complesso un tasso di sovraffollamento nella misura del 150%, ci sarebbe da aspettarsi una sequela pressoché interminabile di simili punizioni. Tutto questo pressoché agli antipodi peraltro della Germania, da dove proprio in questi giorni giunge la notizia di una sentenza definita epocale. Questa volta è stata emessa dalla Corte Costituzionale tedesca, che da oggi obbliga le istituzioni penitenziarie del Paese a liberare un detenuto, qualora la carcerazione non sia rispettosa dei diritti umani. Viene così anteposta la dignità della persona alla sicurezza, e si apre la strada alle “liste di attesa” per l’ingresso in carcere, già praticate in alcuni Paesi nordeuropei, Norvegia in testa. Senza dimenticare che nelle prigioni norvegesi e tedesche si parla addirittura di tasso di sotto affollamento, nel senso che nelle carceri di questi Paesi ci sono più posti letto che detenuti. Giustizia: Ionta (Dap); nelle carceri situazione difficile, ma lavoriamo per dare risposte Adnkronos, 27 marzo 2011 “In questo momento in carcere si vive una condizione di precarietà, affrontata con abnegazione da un personale di cui vado orgoglioso. Dal lato dei detenuti, ci sono situazioni difficili che stiamo affrontando: il problema di stare in troppi in una cella è una questione seria, cui dobbiamo dare una risposta”. Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Commissario delegato per il Piano carceri, fa il punto, all’Adnkronos, sulla situazione nei penitenziari italiani. “Al di là dei numeri, che indicano un surplus di 22.259 detenuti rispetto alla massima capienza, ci sono situazioni davvero molto complicate. Il piano carceri - spiega Ionta - sta cercando di deflazionare i detenuti distribuendo le unità sul territorio, in modo da non far gravare il peso dell’affollamento soltanto su alcune regioni. Tra quelle più in debito d’ossigeno - sottolinea il capo del Dap - ci sono Calabria, Sicilia, Emilia Romagna e Veneto”. “La situazione del sistema penitenziario - aggiunge Ionta - è all’attenzione del governo, del Guardasigilli Alfano e del Dipartimento. Per affrontare un problema che riguarda ormai 67.500 detenuti in tutte le carceri italiane, con una carenza di 6.000 agenti di polizia penitenziaria, si è programmata una strategia complessiva in vista di quella che definisco la stabilizzazione del sistema”. “Il governo - rimarca Ionta - mi ha conferito poteri straordinari per l’edilizia penitenziaria e ho elaborato un piano per la costruzione di 20 nuovi padiglioni nelle carceri esistenti e di 11 nuovi istituti penitenziari dislocati in diversi territori del paese, dove riteniamo ci sia maggior necessità di sicurezza. Sono state firmate una serie di intese con le regioni e il budget a disposizione è di 700 milioni di euro” che dovranno garantire 9.150 nuovi posti detentivi. “I tempi del piano - assicura Ionta - saranno più brevi rispetto al passato: dal momento in cui le gare vengono aggiudicate, i nuovi padiglioni verranno costruiti in 18 - 24 mesi. I tempi sono di 24 - 36 mesi, invece, per la costruzione dei nuovi istituti. Conto di poter fare le prime gare per i padiglioni prima dell’estate”. Questa è la prima direttrice del piano governativo. Accanto all’edilizia carceraria, “c’è la parte importante dell’assunzione del personale: dal lunedì 28 marzo - spiega il Commissario delegato per il Piano carceri - 760 persone cominceranno il corso di formazione della durata di 6 mesi e al termine avremo le unità a disposizione”. A queste “si aggiungerà, entro un anno, un’assunzione straordinaria di oltre 1.600 persone. E c’è un recupero del turn over che interessa la polizia penitenziaria, che consentirà un recupero di 1.100 persone, una parte delle quali saranno funzionari”. Il “terzo pilastro del piano carceri - rimarca Ionta - è la possibilità di far scontare alle persone l’ultimo anno di detenzione presso un domicilio e non in carcere. La legge, approvata a dicembre 2010, ha visto finora 1.600 persone godere di questa possibilità. È una misura che dipende dalla magistratura di sorveglianza - sottolinea il capo del Dap - e c’è una platea di circa 6.000 persone e relativi dossier da esaminare”. Uno dei problemi che la strategia incontra è però quello del domicilio, perché - conferma Ionta - vi sono persone che non hanno un domicilio congruo. Ho in corso degli incontri con enti locali per verificare la possibilità di mettere a disposizione alcune strutture per dare questa possibilità a persone non particolarmente pericolose, giunte al termine di un percorso positivo nelle strutture penitenziarie”. Per il capo del Dap, “il punto più difficile” rimane però “la gestione ordinaria della struttura carcere. In questo momento di transizione e costruzione, c’è da fare uno sforzo aggiuntivo rispetto al grande sacrificio profuso ogni giorno dal personale”. “Non a caso da un po’ di tempo visito gli istituti di pena per verificare le loro condizioni di lavoro”, aggiunge Ionta, per il quale le maggiori criticità si riscontrano “negli istituti datati, dove servono lavori di manutenzione e il sovraffollamento è elevato. Ma abbiamo anche strutture di eccellenza, come il carcere di Trento. Accanto a questi dati, si registrano esperienze positive, con prassi di lavoro all’esterno del carcere, dove i detenuti recuperano una professionalità per essere restituiti alla società civile. Dovrebbe essere questa - conclude Ionta - la finalità cui tende la pena”. Giustizia: Osapp; occorrono anche in Italia le “liste di attesa” per la detenzione Ansa, 27 marzo 2011 “Da tempo non condividiamo che rispetto al surplus di 22.259 detenuti nelle carceri italiane, come dichiarato ieri dal capo dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta, durante un convegno a Paliano nel Lazio, l’unica soluzione sia quella di costruire nei prossimi 2 anni, per una spesa molto vicina ai 700 milioni di euro, 20 padiglioni e 11 istituti di pena per 9.900 posti in più.” è quanto si legge in una nota a firma di Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) “Affrontare e risolvere l’emergenza penitenziaria - prosegue il sindacalista - dovrebbe significare l’adozione di interventi di più ampio respiro e durata e non necessariamente mediante spese così ingenti come quelle di carattere edilizio, anche prendendo spunto da ciò che accade negli altri Paesi, come in Germania la cui corte costituzionale ha sancito che, nel caso di una condanna da scontare in un carcere che ha superato la capienza massima, la finalità e la dignità della pena rendono indispensabile che il detenuto sia posto in una sorta di lista d’attesa”. “Più che ampliare la capienza detentiva delle carceri italiane, tra due anni e con il rischio che i posti in più si dimostrino insufficienti e di poliziotti penitenziari ce ne siano in servizio molti meno di adesso, si potrebbe immaginare, anche in Italia, per ridurre evasioni, sovraffollamento, suicidi e ottenere anche un notevole risparmio economico per la Collettività - indica ancora il leader dell’Osapp - di adottare identiche “liste d’attesa”, con obbligo di firma due volte al giorno comunque presso il carcere, ad esclusione dei soggetti ritenuti più pericolosi in quanto protagonisti e/o imputati per i reati di maggiore allarme”. “D’altra parte - conclude Beneduci - l’emergenza penitenziaria italiana non è tale solo per il sovraffollamento, ma anche per la crescente disorganizzazione e l’assenza di risultati negli istituti e nei servizi penitenziari, nonostante gli immani sforzi di chi vi opera e che da tempo non producono maggiore sicurezza per la società”. Giustizia: “Ragazzi dentro”, luci e ombre delle carceri minorili di Alessio Scandurra (Associazione Antigone) Il Manifesto, 27 marzo 2011 Nel 2008 l’associazione Antigone è stata per la prima volta autorizzata ed estendere la sua attività di monitoraggio delle carceri anche al sistema penitenziario dei minori. Ieri alla Camera, con la presentazione di “Ragazzi dentro”, il primo rapporto di Antigone sugli Istituti di pena per minori, abbiamo provato a raccontare il nostro sistema penitenziario minorile, individuandone punti di forza e criticità. Il primo e principale motivo di sollievo è stato scoprire che, nella stagione di massimo sovraffollamento del sistema penitenziario italiano, i minori in carcere non aumentano. Al 23 marzo 2011 negli Ipm italiani erano detenuti 426 ragazzi, un numero del tutto in media con gli ultimi 10 anni. 11 sistema dunque, con le molte alternative al carcere che offre, non cede alla deriva securitaria degli ultimi anni, e l’Italia resta uno dei paesi europei che incarcerano meno i minori. La criminalità minorile non per questo cresce, e i dati sulla recidiva sono confortanti. Il Rapporto però fotografa anche la popolazione che effettivamente in carcere minorile ci finisce. È uno dei principali nodi critici del sistema: circa la metà dei ragazzi sono stranieri, arrestati soprattutto al centro-nord. L’altra metà è costituita da italiani, ma si tratta quasi esclusivamente di ragazzi che provengono dalle periferie delle grandi città del sud. E le ragazze? Sono praticamente tutte straniere, quasi tutte rom. Apparentemente solo i più deboli dunque finiscono in carcere, e sono deboli tre volte: perché minori, perché talmente fragili da non riuscire a godere delle molte alternative al carcere, e perché del carcere porteranno, da subito, lo stigma. Quanto alle impressioni ricavate dalle nostre visite negli istituti, il clima ci è parso sostanzialmente buono, per fortuna non paragonabile agli istituti per adulti. Ci sono molte attività, e si cerca in ogni modo di riempire la giornata dei ragazzi, ma restano numerosi problemi. Anzitutto le condizioni materiali degli istituti, alcuni dei quali sono vecchi, malmessi o inadatti allo scopo. Alcuni sono ex istituti per gli adulti, altri ex conventi, non pochi poi sono del tutto o in parte in ristrutturazione, e la mancanza di spazio si fa sentire. Il sistema non è sovraffollato, ma per trovare spazio per tutti si trasferiscono i ragazzi dove c’è posto, e questo porta ad un secondo problema, quello appunto dei trasferimenti. Dei ragazzi stranieri arrestati al centro-nord, trasferiti verso gli Ipm del sud o delle isole, o al contrario dei ragazzi che dal sud “viaggiano” in direzione opposta. E ora delle ragazze, che da tutto il nord, dopo la chiusura dei reparti femminili di Milano e Torino, vengono portate a Pontremoli, in Lunigiana. Il principio di territorialità della pena imporrebbe di farla scontare vicino ai propri luoghi di provenienza, dei propri interessi e dei propri affetti, ed è d’altronde chiaro che il reinserimento sociale non è cosa facile quanto Io si tenta lontano da dove si vive. Infine c’è il problema della tutela della salute. In molti istituti sono state rilevate e segnalate carenze, ma è inaccettabile soprattutto la differenza che si registra tra aree diverse del paese. In Sicilia e Sardegna, regioni a statuto speciale dove la sanità penitenziaria non è ancora passata in carico alle Asl regionali, la situazione appare più grave. È forse questo l’aspetto più critico, che richiede interventi rapidi. L’altra riforma ormai improrogabile è l’adozione di un ordinamento penitenziario specifico per i minori. Dalla riforma del 1975 si applica, provvisoriamente, l’ordinamento penitenziario degli adulti. Da allora un ordinamento specifico è stato sollecitato molte volte, anche dalla Corte Costituzionale. È giunta l’ora di rispondere a questa sollecitazione. Giustizia: Provenzano ancora in attesa del trasferimento a Parma per essere curato Ansa, 27 marzo 2011 A distanza di una settimana dall’ ordinanza della Corte d’Assise di Palermo che, accogliendo le istanze del suo legale, ha disposto il trasferimento del boss Bernardo Provenzano dal carcere di Novara a quello di Parma, per consentire che fosse adeguatamente curato, il capomafia corleonese non ha ancora lasciato l’istituto di pena piemontese. “Siamo di fronte a un grave ritardo nell’esecuzione del provvedimento dell’autorità giudiziaria - denuncia il difensore, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, che, proprio per le gravi condizioni di salute del suo assistito, affetto da un tumore e colpito da diverse ischemie che gli hanno arrecato danni neurologici, ne aveva chiesto la scarcerazione. “Capisco le lungaggini burocratiche - dice la penalista - ma in questo caso è tutto un po’ incomprensibile, visto che il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria non doveva attendere il parere della corte d’assise per spostare Provenzano avendo, già dal 2009, gli esiti di una tac e di altri esami che dimostravano lo stato precario del carcerato”. La scelta di Parma, come nuova sede di detenzione, era stata dettata dal fatto che vicino al carcere in cui il boss dovrebbe essere trasferito c’è una struttura ospedaliera. Il legale di Provenzano, nei giorni scorsi, ha impugnato l’ordinanza della corte d’assise chiedendo al tribunale del riesame il trasferimento non in un istituto di pena, seppure vicino a un ospedale, ma proprio in una struttura sanitaria adeguata. Lettere: basta abusi negli ospedali psichiatrici giudiziari di Diego Baldini (Collettivo Antipsichiatrico A. Artaud Zone del silenzio) Il Tirreno, 27 marzo 2011 Trent’anni dopo la riforma che porta il nome di Franco Basaglia, non tutti i manicomi hanno chiuso i battenti. Vengono chiamati ospedali psichiatrici giudiziari ma sono i manicomi criminali di una volta. Per l’esattezza gli internati sono 1.535 (1.433 uomini e 102 donne) nei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani. Gli Opg sono inutili luoghi di soprusi, isolamento prolungato, condizioni igieniche indecenti, di contenzione abituale e di trattamenti totalmente lesivi della dignità umana. L’Opg è un limbo, un luogo di totale non diritto. In questi luoghi vige l’incertezza della pena e non esiste proporzionalità della pena rispetto al reato. In queste strutture vengono internate persone che, dopo aver commesso un reato, vengono dichiarate tramite una perizia totalmente o parzialmente incapaci di intendere o volere ma che a causa di una presunta pericolosità sociale vengono ugualmente rinchiuse e allontanate dalla società. Per le persone prosciolte per totale incapacità mentale l’Opg si presenta nella sua dimensione peggiore, l’ergastolo bianco: l’internamento viene stabilito dal giudice di due, cinque o 10 anni ma la durata effettiva del provvedimento è ad assoluta discrezionalità del magistrato, che può prorogarlo all’infinito ogni due, cinque o dieci anni. Diverso è il caso della seminfermità mentale: la capacità di intendere e di volere, per quanto ridotta, sussiste. La persona perciò è imputabile e viene sottoposta al processo. In caso di condanna vi sarà la diminuzione di un terzo della pena. Se riconosciuta anche socialmente pericolosa la persona verrà inviata in Opg, dopo aver scontato la pena detentiva in carcere, senza sapere quanto dovrà restarci. In Opg possono anche finire individui che vengono trasferiti dal carcere conseguentemente ad una misura disciplinare e per un tempo indefinito. In questi manicomi le persone continuano a morire così come nelle carceri vere e proprie. Toscana: stanziati 350mila euro per percorsi assistenziali ai detenuti tossicodipendenti Agi, 27 marzo 2011 “La Regione Toscana a settembre ha stanziato 350mila euro per supportare il percorso assistenziale dei detenuti tossicodipendenti sottoposti a misure alternative alla detenzione. Contemporaneamente sta lavorando con tutti i soggetti coinvolti per definire in tempi brevi un percorso assistenziale specifico che preveda approcci terapeutici diversi da quelli detentivi/cautelativi, con misure da effettuarsi in comunità terapeutiche o a livello ambulatoriale dai competenti servizi territoriali, cioè i Sert”. Lo ha dichiarato nel suo saluto l’assessore regionale al diritto alla salute Daniela Scaramuccia intervenendo stamani al seminario “Tossicodipendenti e Carcere” organizzato dall’Associazione La Società della Ragione in collaborazione con Forum Droghe, Fondazione Michelucci, Cnca Toscana, Magistratura Democratica, Camera Penale di Firenze, Antigone e Cgil. Proprio pochi giorni fa si è riunito di nuovo il tavolo di lavoro “Tossicodipendenze e carcere” istituito nella precedente legislatura e in questa riattivato, grazie anche al lavoro di tutte le parti coinvolte (Ceart, Cnca, Fondazione Michelucci, Garante dei Diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria per la Toscana, Centro Giustizia Minorile di Firenze, Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Firenze, Responsabile Cabina di Regia Intersettoriale Carceri della Regione Toscana, Rappresentanti dei Dipartimenti delle Dipendenze delle Aziende Usl toscane). Questo intervento si inquadra in una strategia complessiva sul tema dell’assistenza sanitaria dei cittadini detenuti che ha già visto il completamento di alcuni percorsi tra i quali il transito al sistema sanitario del personale medico presente nelle carceri, la presa in carico dei locali sanitari, e il coinvolgimento delle strutture regionali del rischio clinico nella valutazione di eventi avversi nelle carceri, così come avviene per tutte le strutture sanitarie regionali. Marche: Radicali; mancano direttori nelle carceri di Fossombrone e Camerino Adnkronos, 27 marzo 2011 “Sono 36 i detenuti del carcere di Barcaglione, a Falconara, costretti oggi in letti a castello a tre piani per la carenza di polizia penitenziaria in una struttura che potrebbe consentire il pieno rispetto della legge: 16 italiani e 20 stranieri, nella stragrande maggioranza dei casi internati per violazioni sulla legge Fini-Giovanardi”. Ad affermarlo è l’esponente dei Radicali Marco Perduca, che annuncia la presentazione di una interrogazione parlamentare per “chiedere lumi circa la mancanza dei direttori degli istituti Fossombrone e Camerino”, nelle Marche. “Nella struttura - aggiunge Perduca - si attende che vengano ultimati i lavori, che secondo l’amministrazione centrale dovrebbero essere terminati entro l’anno, per l’apertura di sezioni che potrebbero far arrivare la capienza regolamentare a 300 posti. Se e quando ciò accadrà, occorrerà che l’amministrazione garantisca gli alti standard di trattamento dignitoso che sono garantiti oggi, visto che i detenuti godono di un regime di porta aperta dalle 8 alle 20, e di attività lavorative dentro e fuori dalla struttura oltre che un minimo di attività formativa”. “In attesa che le promesse di assunzioni vadano in porto - continua Perduca - in tempo utile per riuscire a coprire i vuoti che verranno creati dai pensionamenti, occorre che venga trovata una soluzione al fatto che il direttore deve coprire anche il carcere di Fossombrone che presenta notevoli criticità. Vanno quindi salutati positivamente gli sforzi umani fatti dalla gestione del carcere in creativa economia per mantenere dignitoso quel carcere e farne tesoro per la gestione dello stesso istituto quando un domani aumenterà la capienza. Presenterò un’interrogazione parlamentare - conclude Perduca - per chiedere lumi circa la mancanza dei direttori di Fossombrone e Camerino, I due istituti marchigiani oggi scoperti”. Ancona: detenuto di 31 anni muore dopo ricovero all’ospedale, era malato da tempo Corriere Adriatico, 27 marzo 2011 Un detenuto del carcere di Montacuto ad Ancona, Giacomo Fabiani, 31 anni, nato a Fermo e vissuto a Monte Urano, accusato di concorso in omicidio per l’assassinio di un extracomunitario avvenuto a Porto Recanati, è morto ieri per cause naturali dopo due giorni di ricovero ospedaliero. Era malato da tempo. A darne notizia è stato il segretario nazionale del sindacato di polizia penitenziaria Sappe, Aldo Di Giacomo, sottolineando che si tratta del secondo decesso per malattia in dieci giorni una casa di reclusione delle Marche (un altro detenuto era morto a Pesaro per infarto), e dell’ennesima dimostrazione che “nelle condizioni attuali, il carcere non rieduca e non cura”. “Nel totale disinteresse dell’amministrazione penitenziaria e delle istituzioni - sostiene Di Giacomo - nel 2010 abbiamo contato ben 170 detenuti morti nelle carceri italiane o negli ospedali: 69 sono morti suicidi, gli altri per malattia o cure insufficienti, una percentuale altissima, scandalosa”. Fabiani, seppur con una posizione marginale, era finito nel mirino della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Macerata nell’ambito delle indagini sulla morte del tunisino Lotfy Dhraief. Stando alla ricostruzione dei carabinieri il giovane nordafricano è stato vittima di un’aggressione di inaudita violenza. La conferma è arrivata anche dalla perizia effettuata dal medico legale Mariano Cingolani, incaricato da parte della Procura. Sono stati riscontrati “un trauma cranico commotivo, un trauma facciale e numerose ferite da taglio”. Erano stati arrestati anche i tunisini Boumrani El Bechir, 30 anni; Taher Trabelsi, 22 anni e Dardori Wassim, 26 anni e l’ucraina Gianna Prokofyeva, 19 anni, residente a Porto San Giorgio. In manette finì anche Faycal Ben Alì, 33 anni, anche lui tunisino, che dopo l’assassinio era fuggito, facendo perdere le sue tracce. I militari dell’Arma lo acciuffarono a Mantova prima che riuscisse ad abbandonare l’Italia. Le indagini sono condotte dai carabinieri della stazione di Porto Recanati, del Nucleo operativo di Civitanova e del Reparto operativo di Macerata. Mantova: degrado e allarme sanitario, il carcere ridotto a discarica sociale di Giancarlo Oliani La Gazzetta di Matova, 27 marzo 2011 Più che un carcere, la Casa circondariale di via Poma sembra una discarica sociale. La rieducazione del detenuto è quasi impossibile. Prigionieri in aumento e polizia penitenziaria in calo. E c’è anche un allarme sanitario: la tubercolosi. Cent’anni fa esatti, a notte fonda e in gran segreto, decine di detenuti furono trasferiti in quello che fino a poco tempo prima era stato un monastero. Erano le nuove carceri. Le carceri di via Poma. A distanza di un secolo sono ancora lì, dove non dovrebbero essere, nel cuore della città, passaggio obbligato per chi ha sbagliato, dove la vita quella vera si ferma. Dove uomini e donne hanno quasi tutti lo stesso sguardo. Rassegnato. Incolore. Dove anche chi ci lavora ogni giorno deve fare i conti con la promiscuità, con le malattie gravi e contagiose, come l’Hiv (10 casi) e le epatiti (30 casi). E la tossicodipendenza: 123 tra uomini e donne su una popolazione di 193 detenuti. Per non parlare dei malumori, delle depressioni e delle rabbie improvvise di chi non ha e non può avere alternative, perché relegato in quella che molti considerano una discarica sociale, dove è meglio non metterci le mani. Altro che reinserimento sociale e lavorativo. Le risorse non ci sono. Mancano persino i soldi pe comprare la carta che serve agli uffici amministrativi, tanto preziosa da dover essere conservata a chiave nell’ufficio del direttore. Qui comincia il nostro viaggio, autorizzato dal ministero della giustizia che, inaspettatamente, ha risposto in tempi record alla nostra richiesta. Mentre si aprono i portoni per farci entrare, tornano in mente le parole del medico che da oltre vent’anni affronta quella che lui definisce una continua emergenza sanitaria. “Questo non è un luogo di detenzione, ma bensì di degradazione umana fisica e mentale”. Il grosso portone scivola sulla guida. Raggiungiamo il posto di guardia. Ad aspettarci c’è il direttore Enrico Baraniello. Con lui il comandante della polizia penitenziaria Raffaele Pierro e l’ispettore capo Mario Marino, coordinatore del nucleo traduzioni e piantonamenti. Varchiamo la soglia, mentre dietro di noi cominciano ad arrivare i parenti dei detenuti. Ci sono anche bambini. Per loro non c’è uno spazio, non c’è quel giardinetto che anche la legge prevede dove poter incontrare la madre o il padre. Percorso un breve corridoio e superato l’ufficio matricola dove i detenuti vengono schedati, arriviamo alla cosiddetta sezione protetti, vale a dire nel reparto di isolamento. In queste celle, dove anche tre persone vivono in otto metri quadrati, ci sono coloro che hanno commesso i reati più vergognosi: pedofili e violentatori. Non potrebbero stare con gli altri. Certi gesti si pagano fuori e dentro al carcere. S’affacciano alle sbarre per poi ritrarsi e raggiungere il fondo della cella. Non tutti. Qualcuno saluta, ti fissa. La nostra presenza, in fondo, è una novità. Lasciamo l’isolamento e accompagnati da Carlo Alberto Aitini che dirige la redazione del giornalino interno, entriamo nella sala colloqui dove si sta tenendo un corso di Arte terapia. Alcuni detenuti stanno lavorando con l’aiuto dei volontari. Bisogna far passare il tempo. Dipingere può essere un diversivo. Uno dei pochi, perché il problema di questo carcere sta proprio nel fatto che non si possono fare attività. Mancano spazi e volontà. Entriamo nelle cucine. Qui ci lavorano tre detenuti, tre extracomunitari. Da un pentolone sbuffante esce un forte odore. “Stiamo preparando pasta e salvia” sbotta uno dei tre. Sono 190 le persone che devono mettere a tavola. Ci spiega che alle sette e trenta del mattino devono essere pronti per ricevere le vettovaglie. “Perché sei in carcere. Cos’hai combinato?”. La domanda non lo sorprende. “Droga! Forse esco a Natale”. “Forse?” “Sì, ho un anno in ballo con la Cassazione”. Il marocchino ha l’occhio vispo. “Io quando esco cercherò lavoro, tu mi puoi trovare lavoro?”. Una promessa che non siamo in grado di mantenere. A casa, a Poggio Rusco, lo aspettano comunque moglie e figli. Proseguiamo il viaggio e ci ritroviamo nella prima aula scolastica, spartanamente attrezzata. Ci possono stare una quindicina di persone. Poche se si considera l’intera popolazione rinchiusa. Il blocco principale del carcere è ormai vicino. Intravediamo un lungo corridoio, ma prima che le porte blindate ci vengano aperte sostiamo in un ufficio. È quello dei conti correnti. Quello che gestisce il denaro dei detenuti. Un servizio affidato, ovviamente, a personale esterno. I soldi dei carcerati vengono versati su un libretto a loro intestato e nel caso volessero fare acquisti non hanno che da comunicarlo. L’ufficio provvederà all’acquisto. Di fronte a noi il braccio principale della prigione con ventidue celle. Un agente ci apre. Appena dentro troviamo il barbiere che si sta lavorando la testa di un uomo di colore. Saliamo le scale. Al primo piano il secondo braccio. Ci sono volti conosciuti e nomi già protagonisti delle cronache degli ultimi mesi. Compresi quei dieci indiani messi dentro per sequestro di persona. Al secondo piano il reparto femminile. Sono nove le donne rinchiuse e due di loro lavorano in lavanderia. Per quel lavoro sono pagate. Ad una rinnoviamo la domanda: “Perché sei dentro?”. “Sfruttamento”. “E quando esci che fai?”. “Troverò un uomo, bello e ricco che mi sposa”. L’amica nigeriana, che condivide con lei le fatiche della lavanderia, scoppia a ridere e batte la stecca, schioccando ripetutamente le dita a significare: “Sei proprio un’illusa”. Scendendo di nuovo le scale ci troviamo nella cosiddetta area ricreativa. Una lunga e stretta striscia di cemento, parzialmente coperta, dove i detenuti quando il caldo è torrido devono rasentare i muri per carpire l’ombra. L’attività prevalente è camminare. Sì, camminare avanti e indietro o giocare a bigliardino, unico gadget messo a disposizione da non si sa chi. Ha ragione il medico: una vergogna, ai cani non sarebbe mai successo. Mentre torniamo verso l’uscita il comandante delle guardie allarga le braccia: “Noi facciamo del nostro meglio con quello che c’hanno messo a disposizione. Qui mancano tante cose. Rieducare, reinserire? E com’è possibile in queste condizioni?”. Si aggrava l’emergenza sanitaria La maggioranza dei reclusi è tossicodipendente. Oltre ai casi di Hiv, si teme il ritorno della tubercolosi. A lanciare l’allarme è il medico del carcere. Ecco come si vive nella struttura di via Poma Sovraffollamento, emergenza sanitaria, spazi insufficenti e mancanza di attività alternative per tentare una rieducazione del detenuto. Sono questi i problemi che affliggono la casa circondariale di Mantova. Nel gennaio di quest’anno, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il dottor Massimo Bozzeda ha inviato una lettera al procuratore distrettuale. I detenuti (attualmente 193) in elevato e costante numero, sono tossicodipendenti (123 su 193) ed extracomunitari. Oltre ai numerosi casi di Hiv (10) e epatiti (55), si vive - dice il medico - nella costante incognita della tubercolosi. Da pochi mesi è stato scarcerato da questo istituto un paziente proveniente dalla Sierra Leone, affetto da Tbc tissutale, tra le più contagiose. È impossibile - continua il medico - programmare strategie e piani di intervento. Si lavora sull’emergenza. Il protrarsi della promiscuità e le condizioni sub umane in cui sono costretti a vivere i detenuti è vergognoso per una società che vuol dirsi civile. L’ambito di patologie psichiatriche, le parassitosi, senza escludere gravi patologie (tumori, leucemie, ecc.) rendono il carcere un luogo non di detenzione bensì di degradazione fisica e mentale”. I volontari provano a fare qualcosa nelle aule scolastiche, nella biblioteca fornita di 2500 volumi, ma se mancano le strutture, se mancano i soldi come loro stessi dicono, di miracoli non se ne possono fare. Il presidio sanitario del carcere dipende ora dall’Azienda ospedaliera Carlo Poma che ha individuato nel dottor Antonino Calogero la figura di supervisore e di raccordo tra ospedale e carcere. Oltre alle patologie già citate, sono in crescente aumento anche i problemi odontoiatrici che riguardano l’80 per cento dei detenuti. Aumentano inoltre il disagio psichico che si evidenzia con i disturbi dell’insonnia. Tra i farmaci più utilizzati gli antinfiammatori, gli antipiretici, i gastroprotettori e antidepressivi. Negli ultimi tempi non si registrano risse, aggressioni o ferimenti, anche se i tentativi di suicidio sono sempre incombenti. I reparti detentivi sono disposti su due piani. Al piano terra c’è una sorta di box che serve per parlare con gli avvocati e l’isolamento. In questo reparto ci sono otto celle per 24 detenuti, occupate da due fino a sei persone. Le celle da sei, di circa 25 metri quadrati, hanno letti a castello. Nel reparto per detenuti comuni, sempre al primo piano ci sono delle celle più piccole, in origine previste per una sola persona, ma che sono occupate anche da tre persone. Nelle celle c’è un box, isolato alla meno peggio con un Wc alla turca, dove tutti vedono tutto. Spesso chi dorme sul terzo letto a castello finisce per cadere rovinosamente sul pavimento. I muri sono scrostati e sulle finestre vengono accumulati i vuoti di plastica, stese calze e mutande. Gli spazi comuni sono un “affronto” alla decenza. Lo spazio ricreativo consiste in un’area pavimenata con cemento per metà scoperta al sole e alle intemperie. Al secondo piano c’è il reparto femminile che ospita, attualmente, nove detenute. Le celle hanno anche un bidet e acqua calda. Il reparto dispone di una saletta e di due minuscoli cortili per poter passeggiare. Veniamo ora alla popolazione incarcerata. Su 193 detenuti, 80 sono italiani di sesso maschile e una sola donna, 104 gli stranieri uomini e otto le donne. Soltanto in tre godono del regime di semilibertà. E veniamo alle etnie. Il maggior numero di detenuti è di origine marocchina (33), seguono gli indiani, i romeni, i tunisini e gli albanesi. Complessivamente gli uomini sono 99 e le donne 8. L’ora d’aria è prevista dalle 9 alle 11.30 e dalle 13 alle 15. In estate, di solito, viene prolungata fino alle 19.30. La cucina regge a fatica il carico di lavoro perché il numero dei detenuti è considerevolmente aumentato. La capienza sopportabile sarebbe di 180 posti, ma i detenuti sono 193. “Sono tanti è vero - osserva il direttore Enrico Baraniello - ma ci sono stati anni in cui abbiamo toccato quota 250”. Tagliati i fondi per pagare le ore di lavoro ai detenuti. Rimangono tuttora nel budget le due addette alla lavanderia. Fortunatamente sono in corso collaborazione con scuole ed enti. E molti degli strumenti in uso (come ad esempio i frigoriferi) sono frutto di donazioni. Ma tutto ciò non basta. (go) Sulmona (Aq): Uil-pa contro la trasformazione del carcere nella più grande Casa Lavoro d’Italia Il Centro, 27 marzo 2011 “La decisione da parte del ministero della Giustizia di trasformare il supercarcere di Sulmona nella più grande casa lavoro d’Italia può creare pesanti ripercussioni sulla sicurezza del territorio”. A lanciare l’allarme è la Uil Penitenziari che contesta la manovra del ministero della Giustizia di trasferire i detenuti comuni in altri carceri abruzzesi facendo restare a Sulmona gli internati, la tipologia più irrequieta e pericolosa. “Senza una struttura idonea e senza soprattutto la possibilità per queste persone di avere un lavoro che consenta un graduale reinserimento nella società”, afferma il segretario provinciale della Uil Penitenziari Mauro Nardella, “si creerebbe una situazione di estremo pericolo sia per gli agenti in servizio, sia per il comprensorio in quanto si tratta di elementi socialmente pericolosi che hanno una spiccata propensione a delinquere e che tendono a stabilirsi sul territorio”. Le preoccupazioni dei sindacati sono sorte dopo la decisione da parte del Dipartimento di amministrazione penitenziaria di trasferire 130 detenuti comuni nelle carceri di Avezzano e Pescara. A chiedere la separazione dei detenuti comuni dagli internati era stato il presidente del tribunale di sorveglianza, dopo un sopralluogo nel carcere di Sulmona in cui il giudice aveva constatato gravi problemi strutturali e di violazione dei diritti dei reclusi. Secondo il magistrato, infatti, gli spazi piccoli, la mancanza di lavoro, la presenza dei muri divisori nelle sale colloqui, la promiscuità tra detenuti comuni e internati, rendeva la loro reclusione anticostituzionale. Ora, anche alla luce del progetto che prevede la realizzazione a Sulmona di un nuovo padiglione che ospiterà altri 200 detenuti (l’avvio dei lavori è previsto entro la fine dell’estate), i sindacati temono che i nuovi che arriveranno, saranno tutti internati. “Per risolvere il problema del sovraffollamento del carcere”, insiste Nardella, “avevamo chiesto la chiusura della casa di lavoro di Sulmona e non l’allontanamento dei detenuti comuni”. Critica anche la posizione della Cgil che chiede che il provvedimento di trasferimento sia seguito da progetti trattamentali, lavorativi, sanitari e di assistenza psicologica nei confronti degli internati. “Esprimiamo preoccupazione per la costruzione di un padiglione”, spiega Gino Ciampa della Cgil, “una manovra che deve prevedere l’implementazione del personale penitenziario e la riorganizzazione generale degli agenti in servizio, anche in relazione a questo provvedimento di sfollamento”. Modena: Uil-pa; sovraffollamento ha superato il limite di guardia, a Saliceta è stata trovata droga La Gazzetta di Modena, 27 marzo 2011 È allarmante la fotografia scattata da Egenio Sarno, del sindacato Uil-Pa penitenziari, al sistema penitenziario italiano al 20 marzo 2011. Modena non si sottrae al’emergenza sovraffollamento delle carceri. Nella nostra casa circondariale ci sono 417 detenuti per 221 posti, con 196 persone in esubero e un indice di affollamento pari all’88%, tra i più alti in regione. Tre i tentati suicidi al carcere di Modena, 13 atti di autolesionismo e un’aggressione agli agenti. Situazione buona, invece, nelle case lavoro di Castelfranco e Saliceta dove non c’è sovraffollamento. MODENA. L’emergenza carcere fa rima con Modena. A fotografare la situazione delle carceri italiane è la Uil Penitenziari che, attraverso il segretario Eugenio Sarno ha diffuso i dati degli eventi critici nelle carceri italiane. Modena soffre, dopo Bologna, uno degli affollamenti più pericolosi: i 221 posti a capienza regolare sono ampiamente superati dalle 417 presenze, dato aggiornato al 20 marzo. Se a questo ci aggiungiamo i tre tentati suicidi e i tredici atti autolesionistici, oltre alle situazioni di Castelfranco e Saliceta San Giuliano, l’allarme è di quelli seri. “Questi numeri fotografano oltre ogni competente commento - aggiunge Sarno - la realtà che connota i nostri penitenziari, sempre più città fantasma confinate nelle retrovie dell’attenzione di chi è deputato ad analizzare e risolvere le grandi questioni sociali: i politici”. Oltre a denunciare le condizioni di estremo degrado e decadenza degli istituti penitenziari la Uil non manca di rimarcare le conseguenze, dirette, che lo sfascio del sistema carcerario riversa sulla pubblica sicurezza: “La gravissima deficienza organica della polizia penitenziaria, stimata intorno alle 6500 unità in tutta Italia, non solo determina carichi di lavoro insostenibili e infami condizioni di lavoro - conclude il Segretario Generale della Uil Penitenziari - ma produce effetti devastanti per l’ordine pubblico”. Intanto ieri un grammo di cannabis è stato trovato nella casa di lavoro di Saliceta San Giuliano durante una perquisizione compiuta dalla polizia penitenziaria nell’aula scolastica dove si svolgono i corsi dei detenuti La sostanza era nascosta in un libro. La notizia arriva dal Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che sottolinea come sia necessario una riorganizzazione della struttura, partendo dal vertice. Il Sappe chiede al Capo di dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria un’ispezione alla casa di lavoro di Saliceta San Giuliano. Venezia: Sindaco e direttrice della Casa Circondariale d’accordo nel chiedere un nuovo carcere La nuova Venezia, 27 marzo 2011 Quando un carcere, che ha una capienza regolamentare di 160 detenuti e una tolleranza di 245, ne ospita invece 363, significa che è superaffollato e la situazione è drammatica. A Santa Maria Maggiore è così e ieri lo ha spiegato Irene Iannucci, direttrice della Casa circondariale maschile, durante la tavola rotonda organizzata dalla Camera penale veneziana “Antonio Pognici”. Cosa fare, dunque? La soluzione, per alcuni, è costruire un nuovo penitenziario, possibilmente in terraferma. C’è un altro dato che illustra la drammaticità della situazione, a fornirlo è la Uil: Santa Maria Maggiore è in Italia il carcere dove ci sono stati più tentati suicidi tra i detenuti, ben dieci dall’inizio del 2011. “A Santa Maria Maggiore sono stati fatti diversi lavori - ha spiegato ieri Giorgio Orsoni. Non è più un penitenziario in situazione di degrado. Ci vuole però un carcere più grande, da almeno 400 - 450 posti”. Dove farlo? Questo naturalmente resta il problema, dopo la “rivolta” dei cittadini di Campalto. La necessità di un nuovo carcere, però, appare evidente. L’attuale situazione di sovraffollamento a Santa Maria Maggiore è ben descritta dalla dottoressa Iannucci. Allo stato attuale i detenuti sono più del doppio della capienza regolare. Nella casa circondariale c’è il pienone e se arrivasse un solo detenuto in più, verrebbe sistemato per terra, su un materasso. Nel penitenziario veneziano il turn over è altissimo. Lo scorso anno ci sono stati 1.300 nuovi ingressi ma, di questi, 716 sono stati trattenuti solo tre giorni. Nei primi tre mesi del 2011 i nuovi arrivi sono stati 242 ma 95 detenuti hanno soggiornato per le solite 72 ore. Come la media nazionale, il 70 per percento dei carcerati maschili (e il 60 per cento di quelli femminili) è straniero, con tutte le problematiche che ne conseguono. Tanto più che le etnie presenti sono ben 34 e spaziano dell’Est Europa al Sud America, dai Balcani al Nord Africa. Va decisamente meglio nel carcere femminile della Giudecca con 80 detenute su una capienza tollerabile di 120. Nell’analisi svolta alla tavola rotonda, è emerso anche come la legge del 26 novembre 2010, meglio conosciuta come “svuota carceri”, abbia ottenuto in realtà risultati praticamente del tutto irrilevanti. “Il Comune - dice Orsoni - deve impegnarsi in tutti i modi per realizzare una struttura nuova. È sbagliato un no aprioristico, perché il problema del sovraffollamento è reale. Ma ovviamente bisogna tenere conto della popolazione residente nelle zone in cui si vuole fare il penitenziario, anche se sulla pericolosità di una casa circondariale ho i miei dubbi”. Il sindaco poi ripercorre le tappe che hanno aperto la discussione sul carcere e sulla sua collocazione. “Il Ministero ha messo a disposizione 40 milioni di euro, noi abbiamo detto che andava bene e loro hanno individuato una possibile area a Campalto che dal punto di vista urbanistico non presentava controindicazioni. C’è però parso strano che il Ministero suggerisse uno spazio da 180 ettari, quando per il carcere ne bastano la metà. Ed è così emersa la questione del Centro di identificazione ed espulsione, che ha fatto scoppiare il caos”. Pisa: interrogazione parlamentare sul caso di un detenuto malato Il Tirreno, 27 marzo 2011 Proteste e perfino un’interrogazione parlamentare della radicale Rita Bernardini su un detenuto ricoverato al centro clinico del carcere Don Bosco. Secondo un’amica di famiglia dell’uomo, Nicoletta Botti, il detenuto sarebbe in condizioni di grave prostrazione fisica e psichica. Celiaco, non avrebbe ricevuto la consegna di un pacco portato in carcere, contenente alimenti senza glutine e il cambio della biancheria pulita. L’uomo, che sta scontando un ergastolo e che per varie patologie è già stato ricoverato varie volte al centro clinico di Pisa, è stato quattro anni in differimento pena facendo volontariato e osservando un comportamento ligio in una comunità per disabili mentali, per l’Usl 12 di Viareggio. È tornato in carcere per sospensione del magistrato di sorveglianza di Firenze. Per l’amica di famiglia che ha protestato, per la figlia e secondo l’interrogazione dei radicali, il rientro in carcere, la mancata consegna di alimenti indispensabili, lo stato in cui versa sono “segni di inciviltà”. La replica del carcere racconta una storia diversa. “Il detenuto - spiegano al Don Bosco - è arrivato nel carcere di Pisa il 19 febbraio, e, data la sua malattia, per evitare contaminazioni dei cibi, sono stati comperati piatti, stoviglie e pentole (per un totale di 200 euro) da utilizzare solo per lui. Il pacco a lui destinato è arrivato il 14 ed è stato consegnato il 21: si tratta dei normali tempi di attesa di un carcere che ospita più del doppio della sua capienza, che ha carenza di personale e 415 reclusi: i pacchi vanno prelevati, catalogati, controllati e consegnati”. Agrigento: in 3 mesi quattro detenuti hanno tentato il suicidio La Sicilia, 27 marzo 2011 I numeri dicono sempre la verità e raramente prestano il fianco a interpretazioni. Quelli che emergono dalle tabelle stilate dal sindacato Uil penitenziari, sull’emergenza in atto nelle carceri siciliane, raccontano di una situazione sempre più insostenibile al Petrusa del capoluogo. Tre dati su tutti: la casa circondariale inaugurata nel 1997 per ospitare al massimo 260 persone, oggi ne “ospita” 475. Nel brevissimo arco di tempo che va dal primo gennaio al 20 marzo scorsi si sono registrati 4 tentativi di suicidio, per fortuna non andati a segno. Merito soprattutto degli agenti della polizia penitenziaria che con esperienza e grande dedizione hanno sventato in extremis tragedie figlie della disperazione. Agrigento in questo secondo dato della poco edificante graduatoria si erge al primo posto tra le carceri siciliane, in quanto a voglia di farla finita tra i detenuti. Terzo dato altrettanto rilevante e preoccupante riguarda gli atti di autolesionismo che, sempre dal primo gennaio al 20 marzo scorso sono stati 13, ponendo Agrigento al secondo posto immediatamente dopo l’Ucciardone di Palermo, in testa con 22 atti autolesionistici. A condire il tutto si possono aggiungere anche un paio di aggressioni agli agenti della polizia penitenziaria, “rei” a volte di fare troppo bene il loro mestiere, al cospetto di detenuti giunti ormai allo stremo delle forze, soprattutto psicologiche. L’aspetto psicologico per persone che “vivono” in condizioni di immane disagio, strette come sarde nella scatoletta è delicato. E dalla Uil penitenziari si evidenzia come “mentre in tutta Italia ed in particolar modo nella nostra Sicilia, diventa forte la denuncia della Uil penitenziari per l’attuale sovraffollamento delle carceri e la grandissima deficienza organica della polizia penitenziaria che costringe il personale della polizia penitenziaria a sobbarcarsi di carichi di lavoro. Si assiste come per paradosso che l’istituto di Agrigento è stato oggetto di attenzione da parte dell’ufficio superiore regionale per un’attuale verifica sulle condizioni gestionali del personale di polizia penitenziaria. Di fatto - continua la Uil - si è tenuto un incontro con il provveditore regionale che si e recato ad Agrigento il 22 marzo. I sindacati che costituiscono il cartello dell’attuale rappresentatività di maggioranza, Sappe, Cisl Fns, Uil Pen., Cnpp, Fsa, Ugl - hanno in quella occasione rivendicato una cattiva gestione del personale di polizia penitenziaria ed una inadempienza di praticabilità degli accordi con l’attuale dirigenza carceraria”. Come dire che anche tra sindacati e vertici penitenziari non tira aria di pace. Una situazione difficile dunque, sotto tutti i punti di vista. San Cataldo (Cl): Sappe; tre agenti aggrediti, segnale inquietante Ansa, 27 marzo 2011 “L’aggressione di un detenuto a tre appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, avvenuta stamattina nel carcere siciliano di San Cataldo (Cl), è l’ennesimo segnale inquietante della tensione che si registra nelle sovraffollate carceri italiane. I nostri colleghi, due sovrintendenti ed un agente scelto, ai quali va la nostra piena ed affettuosa solidarietà, sono stati aggrediti con violenza da un detenuto straniero che voleva fare la doccia fuori dagli orari previsti”. Lo scrive, in una nota, il Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, dopo il grave episodio che si è verificato nel carcere di San Cataldo. “A nulla è servita l’opera di persuasione dei poliziotti - aggiunge - il detenuto ha dato improvvisamente in escandescenza e li ha colpiti. L’aggressione, proditoria e particolarmente violenta, mette drammaticamente in evidenza le gravi condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari negli Istituti di pena italiani. Questi nostri agenti lavorano nelle oltre 200 carceri italiane sistematicamente a livelli minimi di sicurezza per le gravissime carenze del personale di polizia, oltre 6 mila agenti in meno rispetto agli organici previsti, e devono quindi fare fronte a carichi di lavoro particolarmente delicati e stressanti, aggravati da una popolazione detenuta ogni giorno sempre più in crescita esponenziale. Ma così non si può più andare avanti” - “La politica (quella con la P maiuscola) - conclude - deve prendere con urgenza provvedimenti. Quella della sicurezza penitenziaria è infatti una priorità per chi ha incarichi di governo ma anche per chi è all’opposizione parlamentare. La riforma penitenziaria è una priorità per tutti”. Oristano: pochi agenti, il nuovo carcere rischia di non aprire per mancanza di personale La Nuova Sardegna, 27 marzo 2011 Il nuovo carcere del capoluogo dovrebbe aprire i battenti nel prossimo mese di giugno ma rischia di non poter entrare in funzione per la mancanza di personale. Un paradosso, se si pensa che la struttura, realizzata alla periferia di Massama, in località “Is Argiolas”, è costata qualcosa come 40 milioni di euro. Con le nuove strutture penitenziarie in fase di realizzazione nell’isola, il nuovo carcere di Oristano dovrebbe dare una risposta al sovraffollamento, come previsto dal “Piano carceri del ministro Alfano”. Per poterne garantire l’apertura occorrerebbero almeno duecento agenti: attualmente quelli in servizio in Piazza Manno, sono meno di 100. La denuncia è partita dal coordinamento regionale della Uil penitenziari della Sardegna, a poche settimane dalla visita nell’isola del presidente del dipartimento nazionale della polizia penitenziaria, Franco Ionta. Il segretario regionale Uil penitenziaria ha preso carta e penna e scritto al responsabile del dipartimento nazionale: “Peccato che nel corso della sua visita a Badu e Carros non abbia trovato il tempo per dialogare con i rappresentanti di quei lavoratori della patrie galere che in una Sardegna penitenziaria disastrata avevano qualche messaggio da porgerle - ha scritto Roberto Mario Pichedda - , ha perso un’occasione per spiegare agli uomini che in quella realtà operano, cosa intenda fare per risolvere l’annoso problema degli organici di polizia penitenziaria a Nuoro come nel resto degli istituti sardi, dove il personale è stremato e alla disperazione. Lei conosce bene i dati aggiornati che registrano - si legge testualmente nella lettera - appena 1.063 presenze operative distribuito su 12 realtà. Oltre 160 sono assenti di lungo corso per malattia. Avrebbe dovuto dire che cosa intende fare per risolvere le carenze, non la notizia di 700 nuovi agenti che verranno assunti entro l’anno e che nel quadro nazionale disastroso ridicolizzano il problema. Si aspettavano anche altre risposte - ha aggiunto Roberto Mario Pichedda - , rispetto alla ridda di voci che vuole l’apertura entro giugno delle nuove strutture carcerarie di Cagliari e di Oristano. Ironia della sorte, senza prima avere individuato le piante organiche occorrenti per quelle strutture”. Attualmente la Casa circondariale di piazza Manno ha una disponibilità di 108 unità, per fare fronte a una popolazione di 110 detenuti. “Con queste cifre non si può certo prevedere l’apertura della nuova struttura di Massama - ha sottolineato Pichedda - secondo una stima occorrerebbero per il suo funzionamento non meno di 200 unità. Va detto infatti che rispetto all’attuale carcere, il nuovo ha una estensione maggiore ed una vasta area che necessità di adeguato personale. In questo caso i posti tendono ad aumentare e poi bisogna sempre garantire ferie e riposi. Una simile struttura ha quindi necessità di almeno un 33 per cento di personale in più”. Cremona: i detenuti sono il doppio della capienza, Cà del Ferro scoppia La Provincia, 27 marzo 2011 Quota quattrocento detenuti è lambita oramai da oltre un mese. La gran parte degli agenti della polizia penitenziaria che lavora nella casa circondariale di Cremona dà per scontato che prima dell’estate quella soglia sarà raggiunta e superata. Le celle dove sono reclusi tre detenuti crescono di settimana in settimana. Detto in altri termini: a Cà del Ferro la situazione peggiora di continuo. Lasciano poco spazio all’interpretazione i dati diffusi ieri dal coordinamento nazionale penitenziari di Uil - Pubblica amministrazione, che ha confrontato la situazione in tutti gli istituti di pena della regione. I numeri relativi al carcere di Cremona sono davvero poco rassicuranti. Alla data del 20 marzo scorso, a fronte di una capienza regolare disponibile di 196 detenuti, la struttura situata alle porte di Cremona ospitava 368 reclusi, vale a dire 172 oltre il limite previsto. In percentuale, l’affollamento è pari all’87,8 per cento. Un record che, secondo molti agenti penitenziari e vari sindacalisti, è destinato ad essere superato a breve. Che la situazione sia pesante lo conferma anche il raffronto con il dato medio relativo all’affollamento a livello regionale, che è pari al 66 per cento: ventuno punti sotto il livello registrato a Cà del Ferro. Giarre (Ct): 100 detenuti e 35 agenti in servizio, la situazione del carcere è esplosiva La Sicilia, 27 marzo 2011 Il penitenziario ospita circa 100 detenuti mentre le unità di personale - tra titolari e distaccati da altri istituti - sono solo 35. Risultato? Carichi di lavoro insostenibili e condizioni drammatiche per agenti e reclusi - con suicidi e malori - ma rimangono ancora senza risposte le segnalazioni dei sindacati e del garante dei diritti dei detenuti È sempre più critica la situazione scaturita dalla carenza di personale nella Casa Circondariale di Giarre. Anche quest’anno si ripropone il problema dell’impossibilità da parte degli agenti di usufruire dei congedi ordinari e dei riposi, con le conseguenze fisiche e psicologiche che questo comporta. Dopo la denuncia del sindacato Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), anche Armando Algozzino, segretario generale della Uil Pa penitenziari, è tornato nei giorni scorsi a segnalare la grave situazione in una nota indirizzata al Provveditore regionale Amministrazione penitenziaria e al Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) in cui chiede “l’incremento di almeno dieci unità per garantire la sicurezza dell’istituto e i diritti del personale che vi opera”. Aperto nel 1993, il carcere di Giarre è destinato ad un massimo di 100 detenuti a custodia attenuata per un organico di polizia penitenziaria di 75 unità. Oggi nell’Istituto sono presenti circa 100 detenuti di cui solo 22, quasi il 25 %, sono a custodia attenuata, 26 extracomunitari e 50 a media sicurezza. L’organico è insufficiente: sono solo 20 gli agenti titolari e 14 sono distaccati da altri istituti, per un totale di 35 unità compreso il Comandante di reparto. Il personale pertanto non può coprire i turni necessari a garantire tutti i servizi e la sicurezza della casa di detenzione. A oggi quasi tutti gli agenti devono ancora godere del congedo ordinario 2010, fruizione che dovrebbe essere completata entro il 30 giugno dell’anno in corso. E nonostante i posti di servizio siano stati ridotti al minimo, come durante il periodo estivo per poter far fruire al personale il congedo estivo, la situazione rimane drammatica. Nel servizio pomeridiano di sei ore vengono impegnate tre unità che svolgono due ore di servizio ciascuna, costringendo i poliziotti penitenziari ad allungare di due ore il proprio turno di servizio anticipando il turno serale o prolungando quello mattutino o a volte a recarsi in Istituto per due ore di lavoro, e nel servizio notturno sono impegnate al massimo tre unità. Già nel 2009 Algozzino aveva sollevato la questione inviando una nota nazionale in cui evidenziava quanto emerso durante l’ispezione svolta nel giugno 2009. Nella nota si denunciavano le difficoltà oggettive ed operative dovute alla carenza di organico e le cattive condizioni della struttura: muri pericolanti, infiltrazioni d’acqua, impianto di climatizzazione guasto, assenza del sistema di allarme e parziale funzionamento di quello di videosorveglianza (tre monitor funzionanti su dieci). Già all’epoca, Algozzino evidenziava l’impossibilità del personale di programmare la propria vita con la famiglia per la continua incertezza dei servizi. La vertenza è stata anche supportata dal Senatore Fleres, garante dei detenuti, che ha presentato una interpellanza parlamentare, anch’essa rimasta però senza risposta. “L’unico che ogni tanto ha cercato di mandare qualche unità - infatti ce ne sono 14 distaccate da altri istituti - è il Provveditore. L’Amministrazione centrale, nonostante anche l’interpellanza parlamentare del Senatore Fleres, non ha mai inviato unità attraverso l’interpello nazionale”, dice il segretario nazionale della Uil Pa. Come in molte carceri italiane, la situazione è difficile: lo scorso giugno un detenuto si è impiccato nella sua cella e diversi tentativi di suicidio o di autolesionismo da parte di altri carcerati sono stati sventati dagli agenti. Il personale, inoltre, a dicembre ha bloccato un detenuto che, con l’aiuto di un famigliare, stava cercando di introdurre della droga nell’istituto. Preoccupano le possibili conseguenze della pressione psicologica alla quale sono sottoposti gli agenti del carcere giarrese: “Il personale sta avendo crisi psicologiche e fisiche. Temiamo che a causa dello stress si possa verificare qualche brutto evento come già accaduto in passato”, dice il sindacalista. Qualche anno fa, infatti, a causa dello stress un poliziotto penitenziario si è suicidato nella sala regia della Casa Circondariale, recentemente un altro è morto per infarto e solo qualche giorno fa, il 9 marzo, un agente è svenuto durante il servizio. La Uil Pa penitenziari annuncia diverse azioni nelle quali si occuperà anche di problematiche di altri istituti della provincia. Nel frattempo Algozzino non nasconde la preoccupazione che le sue richieste possano rimanere inascoltate: “Ovviamente aspettiamo i tempi necessari perché l’Amministrazione possa rispondere e risolvere la situazione. Purtroppo l’invio di poche unità di polizia non è sufficiente a risolvere la carenza di organico della Casa Circondariale di Giarre. Sono molto preoccupato perché se l’Amministrazione sino ad ora non ha dato ascolto ai sindacati né al Senatore Fleres, garante dei diritti dei detenuti, a chi darà ascolto?”. Trento: visite mediche esterne negate ai detenuti; il medico del carcere contro la direttrice Il Trentino, 27 marzo 2011 Visite mediche esterne al carcere negate dalla direttrice della nuova struttura di Spini senza adeguate motivazioni. Questa l’accusa contenuta in uno scritto che il medico del carcere ha inviato al magistrato di sorveglianza e per conoscenza anche all’assessore alla salute Ugo Rossi e al presidente della Quarta commissione Mattia Civico. Proprio quest’ultimo ha trasposto la lettera del medico carcerario e le critiche in essa contenute in una interrogazione nella quale espone e i fatti e chiede alla giunta adeguate spiegazioni, soprattutto alla luce della necessità di garantire ai detenuti il diritto alla salute. Civico spiega nell’interrogazione che i due casi per i quali sarebbe stata negata la visita esterna riguardano un detenuto affetto da scabbia e uno da diabete mellito. Civico scrive che se gli episodi descritti fossero veri “si dovrebbe aprire una discussione sugli strumenti che come Provincia dovremmo dotarci per garantire in tutti i luoghi il pieno accesso al diritto alla salute”. Civico pensa a quel “garante dei detenuti” che lo stesso consigliere ha già proposto in uno specifico disegno di legge ora in discussione davanti alla Prima commissione del Consiglio. Enna: Progetto Yoga in carcere, per aiutare le detenute e dare un senso alla vita La Sicilia, 27 marzo 2011 Da oltre un mese la pratica dello Yoga ha varcato la soglia del portone della casa circondariale di Enna. Un progetto, destinato alle sole detenute, promosso dall’International Inner Wheel di Enna, presieduta da Pieralisa Rizzo. Una disciplina che può aiutare le donne recluse non solo ad allentare la tensione che si accumula dietro le sbarre, ma anche ad intraprendere un cammino futuro sereno. Il carcere di Enna, diretto da Letizia Bellelli, è tra i pochi in Italia che ha accolto favorevolmente l’iniziativa. Un’ora di lezione alla settimana, il sabato mattina, che a partire dal prossimo mese di aprile diventeranno due, condotta dall’insegnante Anna Lo Grasso, presidente del Centro Yoga Atman di Enna che si è diplomata presso il centro internazionale di Yoga Sivananda Vedanta, in Austria, approfondendo, dal 2004, la pratica dell’Ashtanga Vinyasa Yoga con il maestro spagnolo Luis Fernandez. Nel raccontarci il progetto carcerario ci ha subito detto: “Ho accettato di portare lo Yoga in carcere, proprio perché in mente mi è venuta la frase dell’attuale mio maestro di Yoga, quando mi disse che aveva conosciuto questa disciplina, molti anni fa, in cella. Devo dire - continua l’insegnante Lo Grasso - che vedere per la prima volta l’interno di un carcere è stato un impatto forte. Alcune detenute hanno subito lavorato, qualche altra ha ascoltato e osservato in silenzio. L’esperienza più significativa, sin dal primo giorno, è stata nell’aver fatto rilassare profondamente le detenute”. “Un momento di felicità l’ho avuta quando, al termine della lezione, una detenuta mi ha detto testuali parole: “Stavo volando, mi sentivo bene, la sensazione era quella di trovarmi al di là delle mura del carcere”. Ecco, in quel momento mi sono sentita appagata, felice, perché ho capito di aver trasmesso qualcosa di positivo ad altre persone. Io penso - conclude la Lo Grasso - che mettere a disposizione l’amore per lo Yoga, ritagliare un pò di tempo per aiutare gli altri, significa dare un senso alla vita”. Insomma, sentirsi appagati nell’aiutare, in questo caso, chi sta attraversando un periodo di sofferenza è un sentimento che può trasmettere anche la pratica dello Yoga. Questo sentiero spirituale, che significa unione di corpo - mente e spirito - , come lo definiscono i grandi maestri, è stato introdotto in pochi carceri italiani solo da qualche anno. All’estero invece alcune esperienze sono già consolidate. In Inghilterra, a Oxford, è nata una scuola di formazione per insegnati che aspirano a lavorare nelle carceri. Gli effetti raggiunti sono stati di tipo educativo e psicologico. Per la Lo Grasso, quella di insegnare Yoga in carcere, può essere definita una nuova sfida, il cui fine è anche quello di permettere alle detenute di Enna di acquistare maggior fiducia, per avere un futuro oltre le sbarre. Napoli: l’assessore provinciale Del Giudice visita carcere femminile di Pozzuoli Il Velino, 27 marzo 2011 “Una giornata particolare, che ho voluta dedicare alle detenute di Pozzuoli, in un periodo durante il quale cresce la voglia conoscere e cercare di risolvere i problemi sociali: ho potuto constatare con piacere le innumerevoli iniziative intraprese dalla dirigenza della Casa circondariale, visitando il laboratorio di torrefazione dell’ormai conosciuto e apprezzato caffè Lazzarelle, prodotto dalle ospiti della struttura e in vendita in città e in provincia, che non si limitano solo a iniziative lavorative come quella del corso di cucina fatto con l’aiuto di cuochi professionisti, ma anche attività artistiche, come spettacoli teatrali e musicali”. Così l’assessore provinciale alle pari opportunità, Giovanna Del Giudice, ha spiegato la sua visita alla casa circondariale femminile di Pozzuoli. “A queste donne, che stanno attraversando un periodo difficile della loro vita, con l’aiuto e la professionalità di chi ha la loro temporanea responsabilità, mostrando la voglia e la forza per riscattarsi, - ha aggiunto la Del Giudice - va tutta la mia comprensione, e per questo voglio perorare la loro causa con aiuti concreti cercando di interessarmi per provare a risolvere quelle problematiche che, purtroppo, sono presenti oggi nelle carceri - ha aggiunto l’esponente Pdl. Ho raccolto alcune necessità espostemi, per le quali vorrei lanciare un appello, dando seguito all’ultima iniziativa realizzata nella Casa, quella di raccogliere, attraverso la Caritas di Pozzuoli e Padre Fernando, tutto ciò di cui le detenute necessitano e di cui hanno fatto richiesta alla struttura di aiuti sociali”. Del Giudice ha infine assicurato che ritornerà al prossimo evento realizzato nel mese di aprile. Immigrazione: aperto un nuovo Cie in Puglia; la protesta del Governatore Vendola La Repubblica, 27 marzo 2011 “Il Governo ha barato, la nostra reazione sarà molto dura”. La notizia dell’apertura del nuovo Cie di Manduria ha colto Nichi Vendola nella tarda mattinata di ieri quando, nell’ex aeroporto militare, già da alcune ore fervevano i lavori per allestire il centro di identificazione ed espulsione dei profughi in arrivo da Libia e Tunisia. “Un atteggiamento provocatorio da parte del ministro Maroni e di tutto il governo” ha tuonato il governatore che mercoledì scorso, partecipando a un vertice organizzato dal ministero dell’Interno, aveva dato la disponibilità della Puglia a fare la sua parte. “In Puglia si accoglie e non si fa razzismo - ha ricordato ieri - ma non accettiamo di essere presi in giro. La nostra regione ha già tre Cara e due Cie”. “Restiamo stupefatti dalla notevole quantità di improvvisazione che il Governo nazionale pone a presidio della grave emergenza migratoria in corso nelle ultime settimane” hanno rincarato la dose gli assessori regionali alla Protezione civile Fabiano Amati e alle Politiche di inclusione dei migranti, Nicola Fratoianni. “Assistiamo increduli allo svolgimento di azioni che paiono dirette a organizzare soluzioni in violazione della dignità delle persone e quindi della volontà della Regione, negando quindi quanto con chiarezza e senza tentennamenti il presidente Vendola ha avuto cura di richiedere: la Puglia - concludono - ostacolerà in ogni modo qualsiasi operazione di incivile ordine pubblico camuffata con volute di amorevole accoglienza”. “A cose fatte - accusa il capogruppo di Sel, Michele Losappio - il ministro Maroni fa trapelare la notizia dell’apertura della tendopoli di Manduria. Ma la nostra ospitalità non può essere confusa con l’apertura di nuovi carceri come sono i Cie”. Ma alle critiche politiche si è aggiunto presto la dichiarazione allarmata del presidente della Provincia di Brindisi, Massimo Ferrarese. Il sito dell’ex aeroporto militare, infatti, sorge al confine tra le provincie di Taranto e Brindisi a poche centinaia di metri dal centro abitato di Oria. “I problemi che il Governoè chiamato a risolvere non possono più essere scaricati a cascata sulla periferia con decisioni assunte senza la minima concertazione territoriale, a tal punto da aver ignorato finanche la Regione Puglia”. Ferrarese si scaglia contro la scelta di questa area militare. “Leggiamo che questo sito sarebbe stato scelto perché ospitava un vecchio aeroporto militare e perché si troverebbe nelle condizioni più adatte per un ripristino rapido. E invece sanno tutti che non è così. È semplicemente un’area che versa da decenni in uno stato di completo abbandono, non recintata, peraltro a ridosso della strada provinciale Oria - Manduria. All’interno vogliono localizzare un Centro di identificazione ed espulsione. La stessa struttura che viene costantemente vandalizzata nel centro di Restinco, nonostante lo stesso sia blindato come un carcere”. Immigrazione: Radicali; il Cie di Bologna è strapieno, occorre vigilare per evitare tensioni Dire, 27 marzo 2011 Il Cie di Bologna può ospitare al massimo 10-15 persone in più rispetto alle attuali presenze. A fare il calcolo è il senatore dei Radicali Marco Perduca, che oggi ha iniziato proprio dal centro di via Mattei il suo tour per i Cie del nord Italia all’indomani dell’accordo firmato tra il ministero degli Interni e le Regioni sulla distribuzione dei profughi attesi dal nord Africa. Nel Cie di Bologna “si possono ospitare al massimo 10-15 persone in più - spiega Perduca - senza mettere a rischio la sicurezza e le condizioni igieniche della struttura”. I Radicali si raccomandano anche alle istituzioni locali perché “vigilino per evitare che si creino tensioni con i nuovi arrivi”. Il Cie di Bologna ospita al momento 50 uomini e 40 donne, riferisce Perduca, “il 25% dei quali ha problemi di tossicodipendenza”. Vivono in stanze (“Che si possono anche definire celle”) ognuna con cinque letti, fatti in cemento armato per motivi di sicurezza, con un armadio e un tavolo. Fuori dalle stanze una sala bagno, dove è possibile lavare i vestiti, e una sala docce, dove però gli immigrati “lamentano di prendere delle infezioni”, oltre al fatto che “sono intasate”, fa sapere Perduca. La vita nel Cie “assomiglia molto al carcere”, spiega ancora il senatore dei Radicali, e proprio per questo gli immigrati “non capiscono perché sono privati della libertà personale”. Sono angosciati, afferma Perduca, perché “non c’è mai certezza sui tempi di permanenza”, che in media è comunque di 23 giorni. “Non c’è neanche la volontà di condividere i pasti - aggiunge il radicale - ognuno mangia nella propria stanza”. L’unica “valvola di sfogo” per gli immigrati rinchiusi nel Cie sono le varie attività organizzate, che “servono anche a ridurre i casi di autolesionismo”, spiega Perduca. Purtroppo però alcuni progetti, come lo sportello di informazione legale, sono stati sospesi per il mancato rinnovo della convenzione con il Comune commissariato. Rispetto agli scontri dell’1 marzo, rileva il senatore radicale, la situazione sembra tornata normale. “È stata più che altro una combustione provocata dalle proteste esterne e da chi, dentro, ne ha approfittato”, valuta Perduca. I segni però sono ancora visibili. “Abbiamo visto i cumuli di arredi bruciati e il cancello sfondato - riferisce il radicale - ma non ci sono danni alle strutture. Solamente nella parte maschile non ci sono più le tv”. Inoltre, sottolinea Perduca, “non sono state prese misure particolari nei confronti di chi ha partecipato agli scontri”. La Confraternita della misericordia, che gestisce il Cie, è presente con 40 persone. “Nessuno ci ha manifestato stress particolari - riferisce ancora il senatore dei Radicali - e anzi sono fiduciosi che non arrivino nuovi immigrati in grandi quantità”. Siria: carceri speciali e tortura, pilastri del regime La Stampa, 27 marzo 2011 La polizia segreta controlla tutto. L’esercito è composto maggiormente dalla setta di Assad. Il governo ha liberato 200 detenuti legati ad Al Qaeda. Vittime a Daraa nel sud della Siria Sednaya, il suo nome viene pronunciato sottovoce dai siriani. È la prigione di Damasco dove finiscono gli oppositori del regime. Un carcere di massima sicurezza che si trova nei pressi di una nota località cristiana sede di uno dei monasteri più antichi e luogo di pellegrinaggio dei cristiani di tutto il Medio Oriente, ma il cui nome è drammaticamente legato al penitenziario. Tanto che il termine “prigione di Sednaya” evoca, appunto, terrore in tutti i siriani. È stata edificata nel 1987 per volere di Hazif Assad e doveva accogliere normalmente 5.000 detenuti che però salgono fino a 10.000 quando è gremita all’inverosimile. La maggioranza dei prigionieri è costituita da fondamentalisti islamici. Da qui, ieri, Assad ha fatto liberare 200 detenuti sospettati di appartenere ad Al Qaeda. Una mossa simile a quella fatta da Gheddafi all’inizio delle proteste. Ma poi una fonte del governo ha smentito. Ma Sednaya non è l’unica prigione dove “spariscono” gli oppositori. Sul finire degli anni Ottanta il regime fece costruire tutta una serie di carceri di massima sicurezza. A riempirle ci pensa l’apparato di sicurezza messo in piedi dal vecchio Assad e mai smantellato. Tutt’altro. Sono quattro agenzie di intelligence. L’Idarat al-Amn al-Siyasi la polizia politica vera e propria che scheda oppositori. C’è, poi, l’Idarat al-Amn al-Amm: divisa in tre branche è responsabile della sorveglianza interna della popolazione in generale; un’altra divisione si occupa della sicurezza esterna. La terza tiene d’occhio l’attività dei gruppi palestinesi in Siria e Libano. Il Shùbat al-Mukhabarat al-Askariyya è il servizio segreto militare propriamente detto, ma anche questo è utilizzato per tenere sotto pressione la popolazione. Il vecchio Hafiz Assad aveva, poi, affidato al servizio segreto dell’Aeronautica, arma alla quale apparteneva, i compiti più delicati. All’Idaratal-Mukhabarat al Jawiyya è da sempre delegato il ruolo di infiltrare i gruppi islamisti e dell’opposizione. I servizi occidentali ritengono che agli 007 della Al Jawiyya siano affidati anche i contatti con il terrorismo internazionale. A fianco di questi opera la polizia che fa largo uso della tortura e degli arresti arbitrari per mantenere l’ordine del regime. L’esercito, poi, nonostante le speranze di Washington, è molto legato ad Assad perché sia i militari sia gli uomini di regime appartengono alla minoranza alawita, dunque sciita, che governa un Paese a maggioranza sunnita. Dal Monte Kassioun, la famiglia Assad domina Damasco, rinchiuso nel suo palazzo fortezza, protetto da un apparato che è stato colto alla sprovvista dalle proteste ed è stato costretto a ricorrere alla violenza più cieca. Arrestando bambini e poi sparando sulla folla. La colpa è finita sulla polizia. I vari Mukhabrat sono troppo impegnati a spiarsi l’un l’altro in una guerra di nomine e di favori senza fine. Il presidente, lassù nel castello di Kassioun, appassionato di internet, spia sui blog le proteste. Ascolta i rapporti e forse spera nel cambiamento, ostaggio com’è, anche lui, di un regime costruito dal padre. Carcere di massima sicurezza di Sednaya, il solo nome evoca paura Erano i primi di luglio del 2008 quando una rivolta, duramente repressa, scoppiò nella prigione di Sednaya, nei pressi di Damasco, la stessa da cui oggi sono stati liberati oltre 200 detenuti politici secondo una Ong, in quello che è parso un gesto altamente significativo mentre nel Paese divampa la rivolta, poi però smentito dalle autorità. Immediatamente si mobilitarono Ong e organizzazioni per la difesa dei diritti umani denunciando le violenze, tanto che il governo di Damasco fu costretto ad ammettere l’intervento delle forze dell’ordine per reprimere i disordini che, secondo la versione dell’agenzia ufficiale Sana, erano stati innescati da “un numero di detenuti condannati per crimini di estremismo e terrorismo”. Le richieste per un’indagine indipendente si susseguirono ma senza esito. La prigione, un carcere di massima sicurezza, si trova nei pressi di Sednaya, nota località cristiana sede di uno dei monasteri più antichi e luogo di pellegrinaggio dei cristiani di tutto il medio oriente il cui nome è drammaticamente legato al penitenziario, tanto che il termine “prigione di Sednaya” evoca terrore in tutti i siriani. A guardarla da Google Earth la prigione ha la forma di una stella, con i vari bracci del penitenziario che sono le sue punte. È stata edificata nel 1987 per accogliere normalmente 5.000 detenuti, che però salgono fino a 10.000 quando è gremita all’eccesso. La maggioranza dei prigionieri sono presunti fondamentalisti islamici, denunciano ancora le Ong. Egitto: rivolta nel carcere di suez, scontri tra polizia e detenuti Adnkronos, 27 marzo 2011 Si sono verificati scontri tra polizia e detenuti nel carcere di Attaqa, a Suez, in seguito a una rivolta scoppiata nel centro e il tentativo di fuga da parte di diversi carcerati. Secondo quanto riferisce una fonte della sicurezza al quotidiano Ahram online, la sicurezza di Suez ha chiesto il sostegno delle forze dell’esercito e della polizia per controllare la prigione. Arabia Saudita: centinaia di manifestanti in piazza per rilascio detenuti e ritiro da Bahrein Aki, 27 marzo 2011 Centinaia di cittadini sciiti hanno manifestato venerdì nella zona orientale dell’Arabia Saudita chiedendo il rilascio di detenuti politici e il ritiro delle forze saudite dal Bahrein. Il primo produttore al mondo di petrolio e alleato degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita è stata quindi interessata dall’effetto domino delle manifestazioni che stanno interessando il mondo arabo. Manifestazioni di protesta anti - governative si sono svolte nei Paesi vicini, come Yemen, Bahrain e Oman. Le manifestazioni di venerdì si sono svolte dopo le preghiere di mezzogiorno e del pomeriggio nella principale città sciita di Qatif. “Ci sono circa 400 manifestanti qui al momento e alcuni sventolano bandiere bahranitè, ha detto uno dei manifestanti che non chiede di rimanere anonimo. “I manifestanti sono pacifici e la polizia anti-sommossa è rimasta lontana dai cortei”, ha aggiunto. I manifestanti chiedono riforme politiche e la fine della discriminazione settaria contro la maggioranza sciita in Arabia Saudita da parte della monarchia assoluta sunnita. Mercoledì le autorità hanno arrestato un centinaio di manifestanti nelle zone di Safwa, Qatif e ad Hasa. Pakistan: Asia Bibi parla dalla cella; io cristiana in carcere per la fede, salvatemi Adnkronos, 27 marzo 2011 "Sto male. Mi sento soffocare fra queste quattro mura in ogni momento. Ogni minuto che passa mi sembra essere l'ultimo. Mi sveglio tutte le mattine pensando che quello sarà il mio ultimo giorno". è un grido disperato quello che Asia Bibi lancia dalla cella di isolamento del carcere di Sheikpura, nel Punjab pachistano, dove è rinchiusa, condannata a morte per blasfemia, in un'intervista a 'la Repubblicà, la prima concessa dall'inizio della sua vicenda. La donna, madre di 5 figli, è stata arrestata nel 2009 e condannata nel 2010: la sua colpa, secondo le vicine di casa, sarebbe quella di aver insultato Maometto e di essersi rifiutata di convertirsi all'Islam. Il caso si è trasformato in una questione internazionale quando la proposta di modificare la legge sulla blasfemia sull'onda della sua vicenda, ha generato un'ondata di violenze in Pakistan: una rabbia culminata negli assassinii, a gennaio e marzo, del governatore del Punjab Salmaar Tasmeer e del ministro delle Minoranze religiose Shahbaz Bhatti, che si erano battuti per la modifica. "La notizia della morte di Shahbaz Bhatti mi ha devastato e non riesco a riprendermi - prosegue Asia Bibi - Mi sento soffocare in queste quattro mura in ogni momento. Ogni minuto che passa mi sembra essere l'ultimo. Mi sveglio ogni mattina pensando che forse quello sarà il mio ultimo giorno: e allora piango. Piango per i miei figli e per mio marito". "Sarei felice se solo sapessi che la mia famiglia è al sicuro. Ma so per certo che se anche io uscissi di prigione, se anche la corte decidesse che sono innocente, qui non sopravviverei: nè io nè la mia famiglia - continua Asia Bibi - Gli estremisti non ci lasceranno mai in pace: sono una donna segnata. Ma la mia fede è forte e credo che Dio misericordioso risponderà alla mie preghiere". Quanto alla mobilitazione internazionale, dibattiti e polemiche che sono scaturiti dalla sua vicenda, Asia Bibi aggiunge: "Il mio mondo è chiuso dentro a queste quattro mura. Ho sentito molte cose su questi dibattiti, me le hanno raccontate: ma tanto rumore non ha portato a nessuno cambiamento nelle mie condizioni di vita. Due delle persone che mi hanno più appoggiato in Pakistan, che hanno fatto sentire la loro voce per me, sono morte". "Sono terrorizzata per chiunque lì fuori sta rischiando la sua vita per me e per le tante altre persone che stanno soffrendo per me - aggiunge - Ho paura non solo per la mia famiglia, ma anche per i miei legali e per la Masihi foundation, che con tanta generosità sta aiutando la mia famiglia. Prego Dio ogni giorno perchè alle persone che sono dalla mia parte non accada nulla".