Giustizia: nelle carceri 22mila detenuti di troppo, in Calabria la situazione più grave Adnkronos, 25 marzo 2011 Alle ore 24.00 del 20 marzo negli istituti penitenziari italiani, circuito per adulti, erano ristretti 67.318 detenuti, 64.370 uomini e 2.948 donne, a fronte di una disponibilità reale di posti detentivi pari a 45.059. Un surplus di 22.259 detenuti in più rispetto alla massima capienza che determina un indice medio nazionale di affollamento pari al 54,2%”. A fotografare la situazione delle carceri italiane è la Uil Pa Penitenziari, attraverso il suo segretario generale, Eugenio Sarno. “In nove regioni italiane il tasso di affollamento varia dal 23 al 50%. In dieci dal 51 all’ 80%. Unica regione che non presenta, apparentemente, una situazione sovraffollata è il Trentino Alto Adige, ma - sottolinea Sarno - il dato è inquinato per il sottoutilizzo del nuovo carcere di Trento”. “Capofila, per sovraffollamento, la Calabria, 77,6 %, seguita da Puglia, 76,3%, Emilia Romagna, 73,7%, Marche, 72,1%, e Lombardia, 65,9%. L’istituto con il più alto tasso di affollamento si conferma - aggiunge Sarno - Lamezia Terme, 193,3%, seguito da Busto Arsizio, 164,7%, Vicenza, 155,5%, Brescia Canton Mombello, 152,5 %, e Mistretta, 137,5%”. Il Segretario generale della Uil Pa Penitenziari diffonde anche i dati relativi ai cosiddetti eventi critici: “Dal 1 gennaio al 20 marzo del 2011, si sono verificati 14 suicidi in cella - dettaglia Sarno - Nello stesso arco temporale in 91 istituti, sui 205 attivi, sono stati tentati 194 suicidi. I detenuti che debbono la vita a salvataggi in extremis da parte di poliziotti penitenziari assommano a 31”. “Il numero maggiore di tentati suicidi si è verificato a Venezia Santa M.M., 10, seguita da Como, Firenze Sollicciano e San Gimignano 7 ciascuno. In 134 istituti si sono verificati 1.025 episodi di autolesionismo. Il triste primato - rimarca Sarno - spetta a Lecce, 54, seguita da Bologna e Firenze Sollicciano, 33, nonché da Genova Marassi e dall’OPG di Napoli, 31”. “Ad aggravare il quadro complessivo concorrono i 59 episodi di aggressioni in danno di poliziotti penitenziari - ricorda Sarno - che contano 39 unità ferite che hanno riportato ferite giudicate guaribili oltre i sette giorni. A Genova Marassi il maggior numero di aggressioni ai baschi blu, 6, seguita da Opg Aversa, Opg Napoli e Como con 5”. Ma non mancano nemmeno le proteste. Dal 1 gennaio al 20 marzo 2011 le manifestazioni di protesta collettive all’interno dei penitenziari sono state 75: 1.153 gli scioperi della fame; 57 i rifiuti delle terapie mediche; 217 i rifiuti del vitto dell’amministrazione; 59 gli atti di turbamento dell’ordine e della sicurezza. “Questi numeri fotografano oltre ogni competente commento la realtà che connota i nostri penitenziari, sempre più città fantasma confinate nelle retrovie dell’attenzione di chi è deputato ad analizzare e risolvere le grandi questioni sociali: i politici”, continua Sarno. Il sindacato lancia anche l’allarme sovraffollamento: al 20 marzo negli istituti penitenziari italiani (circuito per adulti) erano ristretti 67.318 detenuti (64.370 uomini e 2.948 donne), a fronte di una disponibilità reale di posti pari a 45.059. Un surplus di 22.259 detenuti che determina un indice medio nazionale di affollamento del 54,2%. In nove regioni italiane il tasso di affollamento varia dal 23 al 50%, in dieci dal 51 all’80%. Unica regione che non presenta una situazione sovraffollata è il Trentino - Alto Adige. Maglia nera invece per sovraffollamento è la Calabria (77,6%), seguita da Puglia (76,3%), Emilia Romagna (73,7%), Marche (72,1%) e Lombardia (65,9%). L’istituto con il più alto tasso di affollamento è quello di Lametia Terme (193,3%), seguito da Busto Arsizio (164,7%), Vicenza (155,5%), Brescia Canton Mombello (152,5%) e Mistretta (137,5%). “Non mancano nemmeno le proteste - prosegue Sarno nel suo ‘bilaciò della situazione carceraria - Dal 1 gennaio al 20 marzo 2011 le manifestazioni di protesta collettive, all’interno dei penitenziari sono state 75. Gli scioperi della fame 1.153; i rifiuti delle terapie mediche 57; i rifiuti del vitto dell’Amministrazione 217 ; gli atti di turbamento dell’ordine e della sicurezza 59”. “Questi numeri fotografano oltre ogni competente commento la realtà che connota i nostri penitenziari, sempre più città fantasma confinate nelle retrovie dell’attenzione di chi è deputato ad analizzare e risolvere le grandi questioni sociali : i politici”, commenta Sarno, sottolineando poi gli effetti sul sistema della pubblica sicurezza di quello che la Uil Pa Penitenziari definisce “lo sfascio del sistema carcerario”. “La gravissima deficienza organica della polizia penitenziaria, stimata intorno alle 6.500 unità, non solo determina carichi di lavoro insostenibili e infami condizioni di lavoro - lamenta Sarno - ma produce effetti devastanti per l’ordine pubblico. I cinque evasi, nelle ultime settimane , da Augusta, Voghera e Roma, testimoniano, in modo significativo e indicativo, questa eventualità”. “Non poter garantire, per penuria d’organico, adeguata sorveglianza ai detenuti ristretti, persino a quelli classificati Alta Sicurezza, ed ai detenuti ricoverati nelle corsie ordinarie dei nostro ospedali e non poter effettuare i servizi di traduzione in canoni di sicurezza è un grave vulnus per l’ordine pubblico - ammonisce Sarno. Ne abbia consapevolezza il Ministro dell’Interno Maroni”. “Lo stesso Guardasigilli farebbe bene ad approfondire e vigilare sulla gestione dei detenuti sottoposti al 41-bis: per legge, questa tipologia di detenuti dovrebbe essere sorvegliata dal reparto specializzato della polizia penitenziaria Gom, Gruppo Operativo Mobile. Ma - sostiene Sarno - in più di una struttura, Parma su tutte, a seguire Milano Opera, Novara e altre, i detenuti al 41 - bis non sempre sono affidati al personale del Gom”. “Anche su questo, come per molto altro, il Ministro Alfano non trova il tempo per ascoltarci. Noi, però, non rinunciamo a parlarne. Lo faremo anche il 29 e 30 marzo a Roma nel corso del nostro Comitato Direttivo Nazionale”, conclude Sarno. Giustizia: processo Cucchi al via; verità e giustizia per Stefano di Peppino Caldarola Il Riformista, 25 marzo 2011 Ho letto che sarebbe bastato un bicchiere di acqua zuccherata per salvargli la vita. Invece Stefano Cucchi è morto di botte e di stenti nell’ala penitenziaria dell’Ospedale “Sandro Pertini” il 22 ottobre del 2009. Non fosse stato per la sua famiglia, e in particolare per la sorella Ilaria, la sua morte sarebbe passata inosservata. Era stato arrestato nella notte del 15 ottobre per possesso di una piccola quantità di sostanze stupefacenti e immediatamente rinchiuso in un cella del tribunale in attesa del processo per direttissima. Tre agenti carcerari nella notte lo riempirono di botte ma i medici del “Pertini” e gli infermieri che avrebbero dovuto curarlo ignorarono le sue condizioni e lo lasciarono morire. Da ieri sono tutti sotto processo. Tre agenti di custodia, sei medici e tre infermieri. Non fa più parte di questo drappello il funzionario del Dap, Claudio Marchiandi, che ha patteggiato la pena accettando così l’imputazione. Uno dei medici accusati, in una lettera aperta, ha sostenuto che Cucchi aveva rifiutato le cure ma non ha spiegato come mai non si erano accorti che il loro paziente era al limite della vita. La morte di Cucchi è stato un episodio barbaro. Il compito del tribunale è di concludere con una sentenza giusta e severa una brutta storia. Comunque sia andata alcune cose sono chiare. Cucchi è stato malmenato a morte mentre era nella piena disponibilità dello Stato. La tutela della vita umana, e soprattutto quella di un cittadino privato di libertà, è una responsabilità primaria dei pubblici ufficiali. Non c’è più alcun dubbio sul fatto che Cucchi abbia ricevuto percosse mortali. Non è la prima volta che accade. Purtroppo. Le difficili condizioni di vita e di lavoro degli agenti della polizia penitenziaria non assolvono tre di loro che hanno infierito su un povero ragazzo che non aveva alcuna possibilità di difendersi e che era stato loro affidato. La viltà e la ferocia con cui è stato trattato Cucchi non ha alcuna giustificazione. Colpevole o innocente del reato che gli era stato imputato aveva diritto a difendersi e soprattutto all’incolumità. La scena che possiamo immaginare è degna di un lager non di una cella di detenzione di un paese civile. Altrettanto grave appare la situazione dei medici e degli infermieri del “Pertini”. Era nelle loro mani un giovane uomo ferito, incapace di difendersi e di far valere le proprie ragioni. Lo hanno abbandonato, sono persino accusati di aver falsificato le carte, e lo hanno lasciato morire. Si sono fatti anche loro carnefici e giustizieri mentre avrebbero dovuto spendersi per salvarlo dalla morte. Anche qui possiamo solo immaginare, con grande dolore, la sensazione di abbandono e di umiliazione di quel giovane che sentiva la vita sfuggirgli mentre tutto intorno quelli che avrebbero dovuto curarlo assistevano indifferenti ai suoi ultimi respiri. Una condanna a morte con la moltiplicazione del boia. Se il tribunale proverà la loro colpevolezza, e nel grado di responsabilità che appartiene a ciascuno di loro, è bene che la sentenza di condanna sia esemplare. Non violiamo il precetto della presunzione di innocenza se tifiamo per una sentenza severa. Poche cose sono chiare come questa volta. Cucchi è caduto nelle mani delle forze dell’ordine sano, ne è uscito ferito gravemente, è stato abbandonato e consegnato alla morte in un pubblico ospedale. Da questo circuito delinquenziale non si può scappare. Fra chi lo ha catturato e chi lo avrebbe dovuto curare vanno cercati i suoi assassini. Ogni violenza è deprecabile e sanzionabile dalla legge. Ogni sciatteria deontologica che porta i pazienti alla mercé di medici distratti o cinici va perseguita. Ma la violenza esercitata su una persona inerme è ancora più grave. In quelle ore terribili che hanno preceduto la morte Cucchi era solo al mondo. La sua famiglia ignorava il suo destino. Per quelli che lo avevano in custodia o che lo avrebbero dovuto curare era un essere umano anonimo. L’idea che l’assenza di protezione possa scatenare comportamenti di ordinario sadismo chiede una ribellione civile. L’esemplarità della sentenza non deve esprimere la vendetta tardiva dello Stato verso i suoi pubblici ufficiali infedeli. La sentenza esemplare deve riaffermare il primato del diritto e delle persona umana. Chiunque sia a contatto con cittadini privati della libertà o con pazienti privi di appoggi ha il dovere di tutelarne l’integrità. È una norma elementare del diritto moderno che è stata violata dagli agenti carcerari e dai medici e infermieri che sono responsabili della morte di Cucchi. Nella sua vicenda colpisce il disprezzo verso la persona umana e la sensazione di impunità che ha pervaso i protagonisti della sua tragica fine. Si è creata una solidarietà fra aguzzini, i carcerieri e i medici, che fa parte della letteratura concentrazionaria ma che dovrebbe essere bandita dalla vita normale dei nostri istituti di pena. Purtroppo spesso non è così. Purtroppo giriamo la testa dall’altra parte quando sentiamo raccontare storie di abusi nelle carceri, negli interrogatori, durante il trasporto degli accusati. Purtroppo non è la prima volta che sentiamo storie di medici che non vedono quel che dovrebbero vedere e non denunciano. Il ricatto che viene esercitato sulla pubblica opinione con l’esibizione dei tanti che fanno onestamente e con generosità il loro lavoro, nelle carceri e nelle infermerie penitenziarie, non può spingersi fino al punto da ignorare quelle volte che la legge e l’umanità sono violate. Il Tribunale deve accertare la verità ma deve anche spiegare come sia stato possibile che ciò sia accaduto. La sentenza deve portare alla luce la catena di comando per capire come e perché sia successo che un giovane abbia perso la vita in quel modo crudele. In modo che giustizia sia resa a Stefano Cucchi e alla sua famiglia e nessuno possa mai più azzardarsi a compiere un delitto così infame. Giustizia: dopo 18 mesi di carcere assolto Papini; non faceva parte delle nuove Br di Paolo Persichetti Liberazione, 25 marzo 2001 Crolla il teorema accusatorio costruito contro Massimo Papini. Per i giudici non apparteneva alle nuove Br, aveva solo tentato di assistere la sua amica, Diana Blefari Melazzi, durante la malattia in carcere. I pm Erminio Amelio e Luca Tescaroli avevano chiesto una condanna a sei anni di reclusione al termine di una requisitoria durata circa 14 ore. Per l’accusa era un appartenente alle cosiddette “nuove Brigate rosse”, referente di Diana Blefari Melazzi condannata all’ergastolo per l’attentato Biagi e suicidatasi nel carcere di Rebibbia il 31 ottobre del 2009. Massimo Papini aveva avuto in passato una relazione sentimentale con la donna. Poi le era rimasto vicino tentando in tutti i modi di aiutarla quando in carcere la Blefari cadde in preda a gravi crisi psichiatriche. Ieri pomeriggio la prima corte d’assise lo ha assolto, per non aver commesso il fatto. Una decisione molto netta che sbriciola il teorema dell’accusa. “Con l’assoluzione - hanno affermato gli avvocati difensori Francesco Romeo e Caterina Calia - termina l’atroce supplizio di Massimo Papini che ha subito 18 mesi di detenzione, gran parte della quale in regime di isolamento”. Per i legali “Papini è stato sottoposto ad un processo solo per l’accanimento ingiustificato di investigatori ed inquirenti di diversi uffici giudiziari”. La sua colpa? “essere rimasto accanto a Diana Blefari Melazzi, cui voleva bene e che ha cercato di far curare viste le terribili condizioni psichiche in cui versava”. Lettere: giustizia è fatta… in Germania di Valentina Ascione Gli Altri, 25 marzo 2011 Se per motivi di sovraffollamento non è possibile garantire una detenzione rispettosa della dignità umana, all’occorrenza i detenuti devono essere rilasciati. Così ha stabilito la corte. Il caso riguardava un ex detenuto, che per circa sei mesi ha vissuto 23 ore al giorno in una cella di 8 metri quadrati, con il gabinetto separato da un paravento ma senza aerazione. Con lui un secondo detenuto, sempre diverso e quasi sempre fumatore, il che lo costringeva a respirare un mix insopportabile di fumo e puzza di gabinetto. Senza contare quella di sudore, inevitabile quando la possibilità di fare una doccia è ridotta a sole due volte alla settimana. La richiesta del detenuto di essere trasferito in una cella singola venne respinta; e anche quella successivamente avanzata alla Regione di un risarcimento pecuniario per le condizioni detentive che gli erano state imposte. Ora, però, i giudici gli hanno dato ragione: le condizioni in cui ha vissuto giustificano la richiesta di un indennizzo, perché lesive della dignità umana. E in certi casi, hanno aggiunto, qualora non sia possibile garantire una sistemazione dignitosa, lo Stato ha il dovere “di rinunciare all’esecuzione della condanna”. C’è un giudice, dunque, a Berlino. Anzi, a Karlsruhe, città della Germania sud occidentale dove ha sede la Bundesverfassungsgericht: la Corte Costituzionale tedesca che il 9 marzo scorso ha emesso questa sentenza dal valore storico. La situazione della carceri in Germania è critica, ma non drammatica: il tasso di affollamento è inferiore al 90 per cento, cioè ci sono più posti che detenuti. Ma che impatto avrebbe una simile decisione in Italia, dove il sovraffollamento supera il 150 per cento e casi come questo rappresentano non l’eccezione, ma la regola? Dove la superficie minima di 6 - 7 metri quadrati per recluso - indicata dai giudici supremi tedeschi e dal Comitato per la prevenzione della tortura - è il più delle volte un miraggio? Dove ci sono istituti in cui le docce non funzionano e altri in cui d’estate manca perfino l’acqua? Dove le condizioni igieniche sono disastrose e quelle detentive al limite della sopravvivenza, perché il confine della dignità umana l’hanno superato ormai da tempo? Se i detenuti delle carceri italiane potessero chiedere l’interruzione della pena, sulla base delle motivazioni riconosciute dalla Corte Costituzionale tedesca, il risultato con tutta probabilità sarebbe simile a una grande amnistia generale. La soluzione che il nostro governo rifiuta di prendere in considerazione, benché sia l’unica oggettivamente in grado di risolvere l’emergenza. Sardegna: 500mila euro di fatturato con i cibi biologici prodotti dai detenuti Redattore Sociale, 25 marzo 2011 A Fà la cosa giusta, nell’ambito del convegno sull’economia carceraria, il bilancio del primo anno di attività del progetto “Colonia” promosso dal ministero della Giustizia, che coinvolge Is Arenas, Isili e Mamone in Sardegna. Un fatturato di 500 mila euro nel primo anno di attività. Un aumento del 300% della produzione di miele (22 quintali prodotti) e del 150% delle verdure (1.240 quintali). E ancora la produzione di 400 quintali di formaggi, 61 quintali di ricotte (più 20%). È il bilancio del primo anno di attività del progetto “Colonia” (Convertire organizzazioni di lavoro ottimale negli istituti aperti) promosso dal ministero della Giustizia e gestito dal Provveditorato della Sardegna. “Si tratta di un progetto finanziato dalla Cassa delle ammende - spiega Giampaolo Cassitta, provveditore regionale carceri della Sardegna - che, tra i vari obiettivi, si prefigge quello di riconvertire al biologico i prodotti delle tre colonie penali agricole dell’isola: Is Arenas, Isili e Mamone”. Un progetto che punta in maniera concreta sulla formazione lavorativa dei detenuti che stanno scontando la pena nelle colonie penali agricole sarde (circa 600 detenuti): “Abbiamo assunto 14 capi d’arte: potatori, allevatori, apicultori, agronomi - spiega Cassitta. Per favorire l’integrazione sociale del detenuto è fondamentale l’apprendimento di un lavoro vero”. Calabria: Uil; carceri sovraffollate, a Lamezia il primato Redattore Sociale, 25 marzo 2011 Sovraffollamento carceri Calabria: i dati della Uil Pa. In Calabria 1.446 detenuti in più rispetto alla capacità ricettiva massima. In tutti gli istituti (ad esclusione di Laureana di Borrello) si sono verificati tentati suicidi (in totale 48). A Lamezia spetta il primato in Italia per sovraffollamento carcerario (86 detenuti. Dovrebbero essere al massimo 50. Il 50% italiani, il 10% rom). A stabilirlo sono in dati della Uil Pa Penitenziari, diffusi dal segretario generale Eugenio Sarno. Sempre secondo i dati del sindacato, tra le regioni che detengono il maggior rapporto di sovraffollamento vi sono, la Calabria (77,6 %) seguita da Puglia (76,3%), Emilia Romagna (73,7%), Marche (72,1%) e Lombardia (65,9%)” . Con una presenza di 1446 detenuti in più rispetto alla capacità ricettiva massima degli istituti di pena, rilevata al 31 dicembre, la Uil Pa scatta una nitida fotografia del sistema penitenziario calabrese. Non meno preoccupanti i livelli di affollamento a Locri (124% ) al decimo posto nella classifica nera nazionale, Reggio Calabria (119,5 %) 14mo posto nella lista seguita da Castrovillari, in provincia di Cosenza (116,8%). Sarno aggiunge nella relazione, con riferimento al territorio calabrese, anche i casi in cui sono verificati tre suicidi (Palmi, Reggio Calabria e Vibo Valentia). In tutti gli istituti (ad esclusione di Laureana di Borrello) si sono verificati tentati suicidi, per un totale di 48 ( 14 a Reggio Calabria; 9 a Catanzaro; 8 a Cosenza; 4 a Locri e Castrovillari ; 2 a Lamezia Terme, Paola e Vibo Valentia; uno a Crotone, Palmi e Rossano ). Gli atti di autolesionismo - segnala il sindacato - ammontano a 160. I detenuti che hanno fatto ricorso a scioperi della fame sono risultati essere 340. Gli atti di aggressione perpetrarti in danno di poliziotti penitenziari sono 9 (2 a Castrovillari, Catanzaro e Reggio Calabria; 1 a Cosenza, Palmi e Rossano). Livorno: il Garante; il carcere delle Sughere è un luogo di ingiustizia Il Tirreno, 25 marzo 2011 “Lo stato attuale del penitenziario e le condizioni di vita dei detenuti sono completamente al di fuori della legalità”. Non usa mezzi termini Marco Solimano, il garante dei diritti dei detenuti. Il livello di sovraffollamento nel carcere delle Sughere supera del doppio il limite di capienza consentito. Un rapporto dell’Asl evidenzia servizi fatiscenti, infiltrazioni d’acqua, muffa, misure igieniche che scarseggiano, infissi malandati. E poi la questione degli spazi: “La Commissione europea contro la tortura vieta che lo spazio per ogni detenuto sia inferiore a 7 metri quadri - spiega Solimano - nel carcere di Livorno, in poco più di 8 metri quadri devono vivere tre persone”. Il rapporto Asl rivela che negli ambienti comuni é altissima la possibilità di diffusione di patologie come scabbia e tubercolosi. “Serve una presa di coscienza collettiva”, dicono all’unisono i garanti dei detenuti di Livorno, Pisa e Firenze, riuniti ieri alla Circoscrizione 4, per il dibattito “Carcere: diritti e giustizia sociale”. “Nelle carceri regnano condizioni di degrado fisico ma soprattutto esistenziale - conferma Franco Corleone, garante di Firenze - in un contesto così critico occuparsi dei diritti dei detenuti significa fare la qualità di una democrazia”. Non mancano le polemiche verso il sistema giudiziario. “In un clima di paura e insicurezza crescenti, la giustizia finisce per accanirsi sui piccoli criminali - continua Corleone - sui tossicodipendenti, su piccoli reati di spaccio, su chi turba la quiete e il decoro delle città”. E i numeri parlano chiaro: a fine 2010 nelle carceri toscane su 4516 detenuti totali, il 24% erano tossicodipendenti e più di 1900 stavano scontando una pena per spaccio di stupefacenti di lieve entità. Inoltre, un terzo dei detenuti sono cittadini extracomunitari che spesso si trovano in cella per non avere ottemperato al decreto di espulsione. “La battaglia sul mondo carcerario che portiamo avanti - dichiara Andrea Callaioli, garante di Pisa - vuole riaffermare la funzione del sistema penitenziario. Vogliamo mandare un chiaro segnale affinché sia rinnovato l’impianto del sistema giuridico, che fa del carcere una vera e propria “discarica sociale”, mentre i grandi reati restano impuniti”. I tre garanti credono in misure alternative di qualità e efficacia, in percorsi di recupero per i tossicodipendenti, per i quali il clima carcerario non può che essere dannoso. “La percentuale di recidiva per chi ha affrontato il carcere - spiega Callaioli - è superiore rispetto a chi ha scontato la pena con misure alternative, senza contare che tutto ciò combatterebbe il sovraffollamento”. Del tema della tossicodipendenza si parla anche nel libro “Lotta alla droga, i danni collaterali”, presentato da Alessandro Margara, presidente Fondazione Michelucci. Milano: il sottosegretario Caliendo a S. Vittore; grave sovraffollamento, bene trattamento Ansa, 25 marzo 2011 C’è “una situazione di grave sovraffollamento” nel carcere milanese di San Vittore, al quale però, “come emerso dai colloqui con alcuni detenuti, si riesce a sopperire grazie all’alta professionalità del personale di polizia penitenziaria ed amministrativo in servizio presso l’Istituto”. Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, oggi in visita nell’istituto penitenziario accompagnato dal provveditore regionale per la Lombardia dell’Amministrazione penitenziaria dr. Mario Pagano. Caliendo ha partecipato anche ad un gruppo di lavoro di detenuti tossicodipendenti inseriti in un programma di recupero, raccogliendo da parte degli stessi grande disponibilità ed entusiasmo per l’iniziativa. “Auspico - ha dichiarato - che lo stesso modello trattamentale possa essere adottato anche da altre strutture penitenziarie ed esteso a tutti i detenuti con uguali problemi”. Paliano (Fr): convegno con Ionta e Marroni, per il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia Il Velino, 25 marzo 2011 “Oggi a Paliano, città che ha un’antica tradizione penitenziaria, si celebra una importante cerimonia per il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia. Allo stesso tempo questa giornata, proposta dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni che io ho personalmente sostenuto, è la conferma dello stretto rapporto che esiste tra carcere e territorio. Le dirigenze e la polizia penitenziaria svolgono un ruolo fondamentale perché questo rapporto sia sempre più stretto e fecondo di opportunità”. Lo ha detto il capo del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta nel corso del suo intervento al Convegno “Carcere e Unità d’Italia”. Il Convegno, organizzato dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e dal Prap sotto l’Alto Patrocinio del presidente della Repubblica, è in svolgimento nello storica casa di reclusione di Paliano (Fr). Al convegno sono intervenuti, fra gli altri, Antonello Iannarilli, presidente della Provincia di Frosinone, Aldo Fabozzi - Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria Lazio, Angiolo Marroni, Garante dei diritti dei detenuti della Regione, Franco Ionta, Capo del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Maurizio Sturvi, sindaco di Paliano Il convegno si inquadra nell’ambito delle iniziative organizzate dal Garante dei detenuti del Lazio per il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia. Nei giorni scorsi, sempre a cura del Garante, la cooperativa sociale “Infocarcere” e la Casa editrice “Herald” hanno distribuito nelle celle, negli uffici e negli spazi comuni di ognuna delle 14 carceri della Regione una copia della Costituzione della Repubblica e una Bandiera tricolore. “È giusto ricordare, in occasione del 150mo dell’Unità d’Italia, che i detenuti, gli agenti di polizia penitenziaria, le direzioni, gli operatori del trattamento e dell’area sanitaria sono parte integrante ed organica di questo nostro grande paese, che attraverso il Risorgimento e la Resistenza ha vissuto due momenti cardine della sua storia”, ha detto il Garante Angiolo Marroni che ha ricordato che, per tutti coloro che vivono quotidianamente il carcere, “resta sempre di grandissima attualità e da punto di riferimento lo spirito umanitario e rieducativo che il legislatore costituzionale ha voluto attribuire in termini inequivocabili alla detenzione”. La scelta di celebrare il 150mo è caduta sul carcere di Paliano per la storia ultracentenaria della struttura e per gli avvenimenti, a volte anche tragici, che vi sono accaduti. Qui, ad esempio, fu detenuto il brigante Carmine Crocco e sempre, qui, durante la seconda guerra mondiale, i nazisti trucidarono 17 persone che passarono alla storia come i Martiri di Paliano. “Sono onorato di ospitare questa iniziativa - ha detto il sindaco di Paliano Maurizio Sturvi - perché quello che lega il carcere alla città di Paliano è un rapporto strettissimo che dura da sempre”. Torino: Le Vallette raddoppiano; arriva un nuovo carcere, ospiterà fino a 450 detenuti La Stampa, 24 marzo 2011 A cavallo tra la fine dell’anno e l’inizio del 2012 partiranno i lavori per costruire quelle che potremmo chiamare le Vallette 2, una nuova struttura carceraria da 450 posti che sorgerà a fianco del penitenziario verso la parte Sud di Venaria. I soldi, 40 milioni e mezzo, li mette il governo nell’ambito del piano carceri. Ma lo stanziamento è stato reso possibile grazie all’intesa firmata ieri a Roma dalla Regione Piemonte e dal commissario delegato per il piano, Franco Ionta, che individua la localizzazione della nuova struttura. Il sito di quasi 9 ettari è stato scelto perché sorge “vicino all’uscita autostradale, funzionale alla traduzione dei detenuti e all’accesso di parenti, legali e personale giudiziario”. Nelle intenzioni del governo il piano carceri servirà per realizzare istituti adatti a migliorare le condizioni di vita dei detenuti, ampliando gli spazi e favorendo le attività riabilitative, nonché a garantire al tempo stesso un elevato livello di sicurezza, ottimizzando il lavoro degli agenti di polizia penitenziaria. Secondo Ionta il nuovo carcere dà una risposta immediata all’emergenza in atto legata al sovraffollamento”. La popolazione carceraria del Lorusso-Cotugno varia dai 1.500 ai 1.700 detenuti a fronte di una capienza ottimale di 900 posti e una “tollerabile” di 1300. Secondo l’assessore regionale al Bilancio, Giovanna Quaglia, che ieri ha firmato l’intesa per conto del governatore Roberto Cota, “l’ampliamento delle strutture, nonostante una carenza del personale operativo rispetto alle reali necessità, andrà a particolare beneficio della convivenza all’interno delle strutture e potrà migliorare seriamente le condizioni lavorative del personale di polizia penitenziaria, che svolge davvero un compito difficile e di grande importanza”. Per Maria Pia Brunato, garante dei detenuti per il Comune di Torino, resta invece “irrisolto il problema legato alla vita quotidiana dei detenuti. Mancano carta igienica, assorbenti, materiali per la pulizia che vengono forniti dalle associazioni di volontariato che operano all’interno del carcere oppure grazie a donazioni private possibili solo per l’attivismo del direttore”. Dunque, non basta garantire più spazio, perché “la maggioranza dei detenuti che incontro mi sottolinea la mancanza degli strumenti per la pulizia personale e della cella”. E l’ex ministro della Giustizia, Piero Fassino, candidato sindaco per il centrosinistra, aggiunge: “Per il buon funzionamento di un nuovo istituto di pena è indispensabile una adeguata dotazione di personale di custodia, di educatori capaci di far sì che il tempo della permanenza per un detenuto non sia solo punizione e isolamento, così come servono risorse finanziarie adeguate che garantiscano un buon funzionamento all’interno del carcere”. Ma secondo il commissario Ionta “le opere di edilizia carceraria sono solo un tassello, pur necessario e fondamentale, di un piano che prevede anche misure deflattive alla carcerazione e l’assunzione di agenti di polizia penitenziaria”. Un piano “predisposto dal governo con l’obiettivo di operare una transizione dall’emergenza cronica alla stabilizzazione del sistema penitenziario”. Il Piano carceri prevede la realizzazione in tempi rapidi di 11 nuovi istituti penitenziari e di 20 padiglioni (uno da 200 posti sorgerà ad Alessandria) che garantiranno 9150 nuovi posti detentivi, per un costo complessivo stimato di 675 milioni. Fassino; bene un nuovo istituto, ma serve personale adeguato “Con la costruzione di un nuovo istituto penitenziario a Torino, annunciato oggi, si potrà ridurre il sovraffollamento di cui soffre il carcere delle Vallette”. Così, in una nota, il candidato sindaco di Torino per il centro sinistra, Piero Fassino, commenta l’intesa siglata oggi. “Naturalmente so - aggiunge - per aver guidato il ministero della Giustizia, quanto sia indispensabile per il buon funzionamento di un nuovo istituto di pena una adeguata dotazione di personale di custodia, di educatori capaci di far sì che il tempo della permanenza per un detenuto non sia solo punizione e isolamento così come servono risorse finanziarie adeguate che garantiscano un buon funzionamento all’interno del carcere, risorse che in questi anni sono state invece costantemente ridotte e senza il loro ripristino si pregiudica il moderno ed efficace funzionamento del carcere”. “Restituire alla società - conclude Fassino - persone in grado di tornare ad una vita normale rispettando la legalità è, infatti, il modo più sicuro per garantire la sicurezza ai cittadini”. Sulmona: Carlino (Idv); senza fondi a rischio il progetto della Casa Lavoro 9Colonne, 25 marzo 2011 “Il carcere di Sulmona ha avviato una serie di progetti - lavoro che potrebbero trasformare un luogo detentivo in una grande casa lavoro, a partire da quello che prevede l’impiego dei detenuti nella coltivazione dell’aglio rosso di Sulmona. Una bella sfida, peccato però che per questo piano di lavoro non siano stati stanziati da parte del governo i fondi necessari”. Lo ha dichiarato la senatrice dell’Italia dei valori Giuliana Carlino che, questa mattina, si è recata in visita all’Istituto penitenziario di Sulmona. “Infatti - prosegue la senatrice - con soli 5 mila euro difficilmente si riesce a portare avanti un progetto di lavoro con fine rieducativo della pena, così come recita l’articolo 27 della Costituzione. Operare in assoluta assenza di risorse è difficile anche per chi mette nel proprio lavoro il massimo impegno. Purtroppo, nel viaggio che l’Idv ha intrapreso nella giustizia italiana abbiamo verificato quanto poco ha fatto il governo, non dico per risolvere, ma almeno per iniziare ad affrontare le problematiche più urgenti del mondo carcerario. Siamo stanchi delle dichiarazioni d’intenti del ministro Alfano - conclude Carlino - che si vanta per non aver fatto un bel niente”. Rieti: il nuovo carcere delle promesse mancate… di Gianfranco Paris Notizie Radicali, 25 marzo 2011 Il ritornello è sempre lo stesso: “per risolvere il problema della sicurezza costruiremo più carceri”. È una frase che ricorre dal 1994 tutte le volte che il ministero della Giustizia è stato in mano alla destra. Un ritornello ad uso e consumo dei “bempensanti” italiani, specie di quelli del nord, che, avendo raggiunto uno standard di benessere senza tanta fatica perché per la maggior parte frutto dello indebitamento stratosferico nazionale che oggi si ripercuote sui giovani che non intravedono più nessun tipo di futuro, pensano di difenderlo mettendo in carcere tutti coloro che in qualche modo possono mettere in discussione la loro pigra beatitudine. E la destra ci naviga di bolina, mentre la sinistra ci naviga di conserva incapace di elaborare una strategia carceraria adeguata alla sua matrice ideologica. Fu sull’onda di questo slogan che Rieti fu individuata come luogo dove costruire un nuovo complesso carcerario. Da allora sono passati quasi venti anni e da due anni il nuovo carcere è diventato una realtà “immobiliare”. Badate bene immobiliare, perché parlare di realtà carceraria è una vera sciocchezza, come vedremo più avanti. Il complesso carcerario reatino si compone di quattro reparti più una zona per i semiliberi ed una per gli isolamenti. Più un reparto degenza per 14 posti con 5 camere. Tutto il complesso è stato concepito per ospitare 306 detenuti. Secondo gli standard di affollamento oggi praticati l’attuale struttura organizzativa sarebbe capace di tollerare 437 detenuti, cioè circa il 35% in più. Tutti i dati da me citati sono desunti da fonti ministeriali. Rispetto alla situazione odierna delle carceri italiane il complesso reatino sembrerebbe una specie di luogo di villeggiatura per detenuti dove sarebbe possibile praticare al meglio il principio della rieducazione previsto dalla nostra costituzione. Ma se andiamo ad analizzare come il Ministero della Giustizia oggi utilizza la struttura realizzata ci accorgiamo che le cose stanno molto diversamente e come le promesse di risolvere il problema della sicurezza dei cittadini con il carcere siano una vera e propria chimera. La burocrazia ministeriale chiama il carcere reatino Casa circondariale, ma in realtà viene utilizzata come Casa di reclusione. La casa circondariale dovrebbe ospitare solo i reclusi del circondario del tribunale locale, mentre la casa di reclusione ospita tutti. A Rieti ci sono reclusi in attesa di primo giudizio, condannati in attesa di definitivo e detenuti in espiazione, cioè ogni tipo di carcerati. Essi sono ospitati tutti nel reparto F, l’unico oggi in funzione dopo due anni dalla messa a disposizione del complesso alla amministrazione carceraria ministeriale. Questo reparto secondo il regolamento dovrebbe ospitare 56 reclusi, mentre in realtà ne ospita 110/112/113 a seconda delle variazioni giornaliere. 1/5 in attesa di primo giudizio, 1/3 definitivi e 60 o giù di lì in attesa di giudizio definitivo, con un indice di affollamento del 100%. Possiamo così subito dire che la villeggiatura per reclusi privilegiati che potrebbe consentire la struttura già si annuncia più che disagiata. Ma non è tutto. Manca ad esempio il reparto di degenza che, come abbiamo visto, potrebbe ospitare 14 reclusi in 5 camere. La direzione del carcere ha inoltrato la domanda per la sua attivazione. Ma questo reparto deve essere attivato per legge dalla Asl e la Asl deve attingere i fondi dal disastrato bilancio regionale oggi amministrato dalla Polverini che ha disposto la soppressione non solo degli ospedali periferici della regione, ma ha tagliato anche i fondi per altre opere infrastrutturali, figuratevi se il reparto degenza del carcere reatino riceverà mai i fondi per essere messo in funzione! Così intanto in quelle 5 stanze “ci corrono i sorci”. Mentre nel carcere oggi il 30% dei reclusi sono tossicodipendenti che sono coloro che hanno più bisogno di assistenza sanitaria e che per ora viaggiano tra il carcere e l’ospedale, aggravando il lavoro degli addetti alla sorveglianza e del servizio amministrativo. Il personale di Polizia penitenziaria a disposizione per la sorveglianza oggi ammonta a 112 unità, il rapporto tra personale e reclusi è quasi di 1/1, una vera rarità nel panorama nazionale. Tuttavia si registra una notevole turbolenza dei rapporti sindacali nei confronti della gerarchia, ma non per ragioni di disagio odierno. Infatti se spesso si ricorre a turni superiori a quelli previsti dalla norma, ci si lamenta per i riposi settimanali e i buchi da tappare, tutto viene assorbito dal fatto che il personale in maggioranza non risiede a Rieti e spesso preferisce lavorare di più in una sola volta per avere riposi più lunghi. Insomma, una mano lava l’altra nella più genuina prassi nazionale. Le lamentele riguardano il futuro, cioè l’apertura degli altri tre reparti che dovrebbero portare a Rieti altri 200/400 carcerati. E se ciò accadrà, come dovrebbe accadere, nulla lascia prevedere condizioni migliori di lavoro per tutti loro. In una recente visita della Polverini al carcere reatino la stessa ha solennemente annunciato che le celle sono state trasformate da due a quattro posti, con letti a castello,, e con ciò ha giustificato il raddoppio della popolazione carceraria come cosa normale. Per poter far fronte ai nuovi arrivi la Polizia penitenziaria dovrebbe aumentare di 2/3, cioè di altri 200 effettivi, o almeno di altre 150 unità. Se così non fosse il lavoro diventerebbe un inferno anche per loro e non si saprebbe più chi deve scontare qualche pena: i reclusi o i sorveglianti! Ma anche tutto ciò non basterebbe, perché per far fronte alla presenza di 450 reclusi occorre tutta una struttura amministrativa e di servizi potenziata almeno di 20 unità rispetto a quella odierna più 20 addetti ai servizi previsti dalla legge. Diciamo un totale di 240 dipendenti in più di quelli di oggi. Questa è la situazione reale rispetto al problema del funzionamento a pieno regime del carcere reatino. E per questo il personale è fortemente preoccupato e a buona ragione, anche perché, dati i tempi che corrono, non si vede dove saranno reperiti i fondi per una tale operazione. E certamente alla prima avvisaglia di giro di vite, per accontentare i forcaioli, vedrete che sarà aperto alla svelta qualcuno degli altri reparti senza inviare il personale necessario per farlo funzionare, e ciò a scapito dei detenuti e dei dipendenti che li debbono sorvegliare. Attualmente per il funzionamento amministrativo del carcere e per gli altri servizi elencati dalla legge sono previsti 35 dipendenti. I presenti sono 15, di cui 8 effettivi e 8 distaccati, mancano 20 unità: contabili, educatori, personale di segreteria. Il servizio di psicologia è affidato ad una consulente esterna. Mancano in sostanza tutte le figure professionali che dovrebbero rendere concreta la funzione costituzionale della rieducazione della pena. Qualche settimana fa tutti gli italiani hanno visto in tv in quale situazione sono le altre strutture carcerarie che in questi ultimi anni sono state iniziate e ancora da completare. Così di fronte al marasma generale della situazione carceraria italiana che registra una situazione insostenibile, il carcere reatino per la burocrazia ministeriale viene considerato una specie di “albergo”! A me pare invece che possano e debbano farsi alcune amare constatazioni che la dicono lunga sulla bontà della politica complessiva posta in essere dal Governo nazionale e dalla classe politica in generale rispetto al problema carcerario italiano. Una prima considerazione riguarda il perché la popolazione carceraria aumenta senza accenno a diminuire nemmeno un po’ o magari con momenti di rallentamento. Il carcere reatino per quanto riguarda i motivi per cui si finisce in carcere, marcia sulla media nazionale: un terzo provengono dalla legge Fini-Giovanardi sulla droga ed un altro terzo dalla legge Fini-Bossi sull’immigrazione clandestina. Se non ci fossero queste due leggi non ci sarebbe bisogno di nuove carceri e, come dice Angelino Alfano & soci, quelle esistenti sarebbero più che capaci di ospitare quel terzo che delinque in violazione del codice penale ordinario, non ci sarebbe bisogno di assumere nuovo personale e potrebbero funzionare tutti i servizi previsti per la rieducazione e l’assistenza dei detenuti. A monte quindi, a stare ai dati statistici, vi è un problema politico: per accontentare i cosiddetti “ben pensanti” spaventati dai drogatelli e dalla delinquenza amplificata degli extracomunitari e carpirne il consenso elettorale i parlamentari mantengono in vita le due leggi che sono la vera fonte primaria del sovraffollamento delle carceri italiane. La seconda considerazione è che la demagogia non paga mai quando non è fondata sulla soluzione reale dei problemi. È demagogico affermare che il problema può essere risolto con la costruzione di nuove carceri quando si sa bene che per farle ci vogliono molti anni e non ci sono i soldi per finanziarle. Per costruire il carcere reatino ci sono voluti, tra chiacchiere e fatti operativi, quasi dieci anni e, dopo due anni dalla consegna dell’immobile, ne funziona solo un quarto per mancanza di soldi per assumere personale. E quello che funziona, anche se rispetto alla situazione nazionale appare una specie di isola del benessere, è privo dei servizi essenziali previsti dalla costituzione a tutela della funzione rieducatrice della pena e del servizio di assistenza sanitaria, nelle cui camere ci corrono per ora i sorci e chissà fino a quando ci correranno! La terza considerazione è che chi paga le conseguenze di tutto questo sono i carcerati ed i loro carcerieri. I primi perché debbono vivere in condizione di sovraffollamento costante ed in mancanza di servizi essenziali per mancanza di strutture e di personale adeguato, i secondi perché sono costretti a lavorare in condizioni di continuo superlavoro dovuto alla mancanza cronica di organico e di precarietà. Una classe dirigente responsabile e pensosa dei problemi della collettività dovrebbe trarre le conseguenze logiche da questa situazione che a loro è ben nota, ma non è così, a loro interessa solo tirare a campare e mantenersi buono l’elettorato continuando a carpirne il voto. Infine c’è un aspetto che riguarda i reatini in particolare, ma è analogo in qualunque luogo dove c’è un carcere. Quando fu costruito il carcere a Rieti, per ottenere il consenso dei cittadini fu usata la solita arma di ricatto dell’indotto carcerario in volume di affari e posti di lavoro. Pertanto è comunque istruttivo oggi verificare a che punto siamo in ordine a questo aspetto della questione carceraria reatina per la quale Mondo Sabino si spese molto contro, quando fu deliberato di concedere il terreno. Oggi funziona solo la mensa detenuti del reparto aperto. Ci lavorano i detenuti che sono retribuiti secondo le tariffe. Funziona inoltre la mensa agenti dove lavorano tre reatini esterni. Reatina è la psicologa a consulenza. Gli agenti che abitano a Rieti sono circa 40, gli altri 60 viaggiano, sono pendolari, che sono poi quelli che preferiscono i turni lunghi per avere più ore di riposo. La spesa alimentare è presumibile che venga fatta a Rieti con contratti di fornitura. Il reparto sanitario, la cui organizzazione spetta alla USL potrebbe far assumere qualche altro reatino, ma per ora non se ne parla e credo che in quelle 5 stanze ci correranno i sorci ancora per molto tempo. Questo è quanto. Ai lettori l’ardua sentenza! Spoleto: Zaffini (Fli); sempre più precaria la situazione nel carcere di Maiano Il Messaggero, 25 marzo 2011 “Al momento la notizia dell’arrivo di altri 80/90 detenuti presso la struttura detentiva di Maiano, annunciata più volte e ripresa dalla stampa locale, non trova fondamento, ciò che invece resta preoccupante è il sottodimensionamento dell’organico di polizia penitenziaria divenuto ormai insostenibile: mentre quattro anni fa, infatti, la proporzione era di due agenti per ogni recluso, oggi lo stesso dato è esattamente ribaltato per ogni agente sono presenti nella struttura due detenuti nonostante sia necessario garantire tre turni di vigilanza”. È quanto rende noto il consigliere regionale Franco Zaffini (Fli) che, insieme al consigliere comunale di Spoleto Carlo Petrini, ha visitato la casa di reclusione di Maiano, incontrando il personale, il direttore della struttura dott. Ernesto Padovani, e il comandante della polizia penitenziaria Klain Montecchiani. “Dal colloquio con il direttore - fa sapere Zaffini - è emerso che a breve sarà pronto un nuovo reparto del carcere dove potranno essere ospitati circa una quarantina di detenuti, una struttura per il cui funzionamento sono stati richiesti sia un adeguamento della dotazione finanziaria che del personale, in quanto - prosegue il consigliere - tutto si muove in un quadro generale di gravissima carenza di organico che determina difficoltà enormi sul livello di vita e le condizioni lavorative degli agenti e del personale in genere, malessere e disagi che inevitabilmente si ripercuotono sulla popolazione penitenziaria”. Zaffini, inoltre, sottolinea un ulteriore criticità causata dal mancato ‘turn over’ degli agenti: “il progressivo e graduale invecchiamento degli addetti peggiora le condizioni di detenzione per evidenti motivi. È solo grazie e alla professionalità e al grande spirito di squadra, messi in campo dal direttore e dal comandante ma da tutto il personale, con cui è gestito il penitenziario che si riesce a fare di necessità virtù, garantendo soluzioni a problemi di livello sicuramente emergenziale ma non ancora d’allarme”. “Grande importanza - afferma ancora il coordinatore di Fli - ha la sensibilità del territorio nei confronti della realtà carceraria, il quale sta reagendo con estrema collaborazione e buona volontà garantendo il reintegro, attraverso imprese e cooperative, delle risorse carenti e necessarie per assicurare le attività di reinserimento sociale dei detenuti”. “Continueremo - conclude Zaffini - a prestare grande attenzione e a visitare i penitenziari della regione che rappresentano una fetta importante del tessuto sociale, in particolare a Spoleto, dove la realtà è più delicata che altrove perché su una popolazione carceraria di circa seicento unità, ci sono 80 detenuti 41 bis e circa 300 in regime di alta sorveglianza. Tutte situazioni potenzialmente pericolose per le ricadute sul tessuto cittadino che vanno monitorate e tenute in sicurezza”. Nuoro: Sdr; dopo 11 anni detenuto-scrittore Annino Mele riabbraccia l’anziana mamma Agenparl, 25 marzo 2011 Due ore di permesso per riabbracciare l’anziana madre. Annino Mele ha potuto finalmente, dopo 11 anni incontrare Mariangela Meloni, 87 anni compiuti lo scorso 10 gennaio, in gravi condizioni di salute essendo stata ricoverata le scorse settimane per un prolungato malore. Lo ha appreso Maria Grazia Caligaris, presidente di “Socialismo Diritti Riforme” l’associazione onlus che venerdì scorso aveva presentato a Cagliari l’ultimo lavoro letterario dell’ergastolano di Mamoiada. Un incontro - afferma Caligaris - caratterizzato da un lunghissimo silenzio e dalla commozione che ha vinto l’anziana donna rassegnata a non poter più rivedere quel figlio attualmente detenuto a Fossombrone. Annino Mele, ormai sulla soglia dei 60 anni in carcere dal 1987, ha quindi ottenuto un permesso di necessità. Il Tribunale di Sorveglianza di Ancona, stavolta, ha deciso di accogliere la richiesta del detenuto, precedentemente più volte negata, in quanto l’anziana donna, affetta da varie patologie, ha attraversato una gravissima crisi. “Non vorrei andare a trovare mia madre morente - aveva scritto Annino Mele all’associazione “Socialismo Diritti Riforme” in occasione dell’ultima reiezione del Tribunale di Sorveglianza - vorrei continuare a immaginarla così com’è lucida e arzilla”. Stavolta quindi ce l’ha fatta. Alto il prezzo per poter raggiungere la casa dei familiari. Oltre al trasferimento da Fossombrone per raggiungere l’aeroporto, dopo il viaggio che lo ha portato in Sardegna, la lunga marcia è stata effettuata con un mezzo blindato, senza cinture di sicurezza, che avrebbero potuto garantirgli un po’ di stabilità e senza appigli, essendo ammanettato. “È arrivato - ha detto il fratello Raffaele - sconvolto dal viaggio ma, grazie all’umanità degli Agenti della scorta della Polizia Penitenziaria, è entrato a casa senza le manette. L’emozione è stata incontenibile e ovviamente non riuscivamo a credere ai nostri occhi. Annino è un po’ invecchiato, ma per mamma vederlo è stato davvero un regalo insperato. Per lei un toccasana che le ha ridato un po’ di energia e di vita. Successivamente abbiamo potuto avere anche un colloquio nel carcere di Badu ‘e Carros, grazie alla sensibilità della Direzione dell’Istituto di Pena”. “La speranza - sottolinea Caligaris - è che questa occasione possa ripetersi e che venga superata in senso umanitario la difficoltà nell’applicazione della norma che lascia totale discrezionalità ai Magistrati, dopo un accertamento attraverso il servizio sanitario delle condizioni di salute del congiunto del detenuto, di concedere o meno il beneficio. Il Magistrato infatti deve assumersi la responsabilità di un permesso prima che il parente abbia esalato l’ultimo respiro altrimenti la necessità cessa e subentra un altro comma dello stesso articolo. Certo appare assurdo che considerata la distanza e gli anni trascorsi da Annino Mele senza incontrare la madre, gli siano state concesse solo due ore. I permessi premio, a cui peraltro Annino Mele ha diritto, di necessità in particolare, costituiscono infatti - secondo la volontà del legislatore - uno degli aspetti di umanizzazione e di rieducazione della pena secondo il dettato costituzionale. Quando non vengono concessi con la motivazione rigida dell’applicazione della norma creano nel detenuto - conclude la presidente di Sdr - disorientamento e malessere che aggravano lo stato di tensione esistente nelle carceri per il sovraffollamento e per le difficili condizioni vita”. Modena: il arrivo il nuovo direttore del carcere, è Rosalba Casella La Gazzetta, 25 marzo 2011 Potrebbe arrivare già lunedì prossimo il nuovo direttore del carcere di S. Anna. Secondo alcune indiscrezioni trapelate da ambienti sindacali e ministeriali, a subentrare a Gianluca Candiano, direttore della casa circondariale di Castelfranco Emilia che ha assunto ad interim l’incarico per il penitenziario modenese dopo il trasferimento a Reggio Emilia dell’ex direttore Paolo Madonna, sarà la dott. Rosalba Casella. Un passato come direttrice nei penitenziari di Monza, Rovigo, Imperia e Forlì, la Casella potrebbe assumere l’incarico già ad inizio della settimana prossima. Per lei, il compito di dirigere uno dei penitenziari più sovraffollati d’Italia: secondo gli ultimi dati diffusi dal Sappe, che nei giorni scorsi ha lamentato la carenza di personale (168 agenti invece dei 228 previsti nelle piante organiche) nel carcere di Modena ci sono 417 detenuti, a fronte di una capienza di 200 posti. Pavia: gli studenti del Liceo classico “Foscolo” incontrano i detenuti La Provincia, 25 marzo 2011 Tra qualche anno saranno medici, avvocati, magistrati. E il mondo del carcere potrebbe intersecare la loro professione. Ieri mattina i 18 studenti della terza C del liceo classico “Foscolo” sono entrati a Torre del Gallo, insieme al loro insegnante di religione, don Franco Tassone, e al direttore della Caritas don Dario Crotti. Sono stati accompagnati dalla direttrice Iolanda Vitale, dalle educatrici e dalla polizia penitenziaria. Un viaggio nel carcere come luogo di recupero, non solo di pena. Un percorso scandito dal rumore dei chiavistelli e delle robuste grate di ferro tra una sezione e l’altra. Ma anche dalle storie dei detenuti incontrati strada facendo. “Abbiamo visitato il laboratorio del pane, gestito dalla cooperativa sociale Il Convoglio, ma è nell’aula della scuola interna che i ragazzi hanno potuto parlare con i detenuti - dice don Franco - e ricevere da loro la raccomandazione a studiare, a impegnarsi in qualcosa che possa dare frutti”. Rispetto umano e condivisione. “La scuola deve offrire anche una preparazione culturale e umana - dice don Franco - . Motivare chi dovrà scegliere la facoltà, permettere ai nostri studenti di diventare donne e uomini di scienza ma anche di coscienza”. Un’altra terza del Foscolo ha visitato la comunità Casa San Michele, che ospita molte ragazze che vengono dalla tratta della prostituzione. L’ultima terza ha invece chiesto di poter visitare l’ospedale. Ascoli: contro i pregiudizi verso gli ex detenuti, incontro per riflettere al Forte Malatesta Ansa, 25 marzo 2011 Riflettere sul reinserimento degli ex detenuti nella società: è questo il tema del convegno “Ingresso libero” in programma per sabato 26 marzo alle ore 17 presso il Forte Malatesta di Ascoli Piceno. L’iniziativa, promossa dall’associazione Betania e dalla Caritas Diocesana, con la collaborazione del Comune e della Fondazione Cassa di Risparmio, vedrà la partecipazione del direttore di Caritas Italiana Don Vittorio Nozza, della direttrice del carcere di Marino del Tronto Lucia Difeliciantonio, dei responsabili di “Prison Fellowship” Marcella Reni e Carlo Paris, di Mario Congiusta dell’associazione “gianlucacongiusta.org”. “Recenti ricerche sociologiche - spiegano gli organizzatori - fanno emergere un dato sconcertante: un ex detenuto torna a delinquere qualora, ad un mese dall’uscita dal carcere, non riesca a trovare una collocazione lavorativa. Occorre pertanto aprire un dibattito sul tema dell’integrazione sociale, sensibilizzare la collettività ed indurla a riflettere sui temi delle politiche del controllo e della sicurezza. Solo così si potrà far emergere i pregiudizi che portano a emarginazione, indifferenza e diffidenza, effettive difficoltà che debbono affrontare sia gli ex detenuti, sia coloro che sono chiamati a riaccoglierli come lavoratori, inquilini, utenti, liberi cittadini”. Il convegno, che non a caso si svolge al Forte Malatesta, carcere giudiziario di Ascoli dal 1828 al 1978, si rivolge alle istituzioni, agli operatori del sociale e del volontariato, alle associazioni di categoria, al mondo cattolico e scolastico, poiché il cammino del reinserimento ha bisogno del contributo di tutti in una logica di rete. In tal senso l’impegno costante della Caritas è testimoniato anche dalla Casa della Carità, una struttura di accoglienza aperta recentemente ad Ascoli Piceno, in grado di offrire una prima accoglienza agli ex detenuti. Spagna: Comitato prevenzione tortura chiede l’abolizione della “carcerazione segreta” Ansa, 25 marzo 2011 Incappucciato durante tutti gli interrogatori durati giorni, a volte usando una busta di plastica, che gli ha più volte procurato la sensazione di soffocamento, picchiato e minacciato: questa è la denuncia, suffragata da prove, di un detenuto che in Spagna avrebbe subito una sorta di “carcerazione segreta”. Il caso è contenuto nel rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) sulla visita che l’organo del Consiglio d’Europa ha effettuato in Spagna nel 2007, e che Madrid ha accettato di rendere pubblico solo ora. La detenzione applicata ai sospetti di terrorismo permette alle autorità spagnole di tenere in stato d’arresto una persona fino a 13 giorni, senza dover comunicare a terzi né il luogo della detenzione né le ragioni dell’arresto. Il Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) ha raccomandato alle autorità spagnole di riformare questa procedura sin dal 1991, anno della prima visita nella penisola iberica. Secondo il Cpt il sistema della detenzione definito “incommunicado” non offre sufficienti garanzie contro possibili abusi. Nel corso dell’anno il Cpt condurrà una nuova visita in Spagna anche per verificare se le autorità hanno messo in pratica le raccomandazioni. Nel rapporto il Consiglio d’Europa lancia un campanello di allarme e avverte il governo spagnolo della possibile apertura di un procedimento che porterebbe il Comitato per la prevenzione della tortura a fare una dichiarazione pubblica per denunciare le autorità spagnole per la loro inerzia e indisponibilità a rivedere questa pratica. Cina: dissidente Liu Xianbin condannato a 10 anni per avere pubblicato articoli sul web Adnkronos, 25 marzo 2011 Arrestato per sovversione il 30 giugno scorso nella sua casa di Suining, nella provincia sud occidentale del Sichuan, il dissidente cinese Liu Xianbin è stato condannato a 10 anni di carcere perché riconosciuto colpevole della pubblicazione di diversi articoli su website internazionali. Lo ha riferito la moglie di Liu, Chen Mingxian, spiegando che il tribunale le ha permesso, insieme al fratello di Liu, di essere presente alla lettura della sentenza. Il 42enne Liu era stato arrestato a meno di due anni dal suo ultimo rilascio, dopo un decennio passato dietro le sbarre. Il dissidente cinese era tra i 303 sostenitori della Charta 08, il documento che chiedeva la democrazia, firmato nel dicembre 2008. Tra i promotori della Charta vi è Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace lo scorso anno, che nel dicembre del 2009 è stato condannato a 11 anni di carcere.