Giustizia: le carceri italiane della vergogna di Giuseppe Caputo (Associazione l’Altro Diritto) www.zeroviolenzadonne.it, 22 marzo 2011 Il nostro sistema penale e penitenziario è spesso accusato di buonismo ed eccessivo perdonismo, descritto come debole, lacunoso ed incapace di assicurare un giusta e certa punizione a chi ha commesso dei reati. Niente di più lontano dalla realtà dei fatti. I dati dimostrano che è diventato sempre più severo, tra i più duri d’Europa. Negli ultimi 20 anni, infatti, a fronte di un aumento di poco superiore al 10% del numero dei reati denunciati all’autorità giudiziaria, la popolazione detenuta in carcere è passata da 29.133 a 67.615 persone, un aumento del 130%. Il fatto che i reati siano rimasti sostanzialmente costanti mentre la popolazione detenuta è cresciuta in maniera vertiginosa è un indice incontestabile dell’aumento di severità del sistema penale. Questo inasprimento del potere punitivo dello Stato è in parte da ricondurre alla crisi delle istituzioni tradizionali dello stato sociale. Di pari passo con la crescente incapacità della politica di dare delle risposte a diverse forme di disagio sociale, si è cercata nel diritto penale e nel carcere la soluzione ad ogni problema, vecchio o nuovo che fosse: dall’imprigionare chi ruba, chi uccide, chi usa violenza, si è così arrivati ad imprigionare anche chi si droga, chi è senza fissa dimora o chi è straniero privo di documenti di soggiorno. La magistratura, dal canto suo, ha contribuito non poco a tale escalation di severità, attraverso un uso abnorme della custodia preventiva in carcere: oggi 28.692 detenuti (il 42% del totale) sono in attesa di una sentenza di condanna definitiva. In moltissimi casi si finisce in custodia preventiva per reati di lieve entità solo perché non si ha un domicilio fisso, un lavoro o i documenti in regola. In taluni casi si arriva a passare anche un anno in carcere senza che arrivi una condanna, anche solo in primo grado. Questa espansione senza precedenti del diritto penale è diretta conseguenza di un clima politico e culturale divenuto sempre più populista ed intollerante, che ci rende sempre meno disposti ad analizzare e comprendere le ragioni profonde dei fenomeni sociali e ci spinge, invece che a ricercare le risposte più efficaci, verso soluzioni semplicistiche e demagogiche. Uno degli esempi più lampanti di questo rapporto distorto tra politica e realtà è data dalla legislazione in materia di droga. Come è sostenuto dagli specialisti e dagli osservatori più attenti, le modalità di uso delle droghe sono oggi notevolmente diverse dal passato. I consumatori di droghe sono raramente degli emarginati, nella stragrande maggioranza dei casi conducono una vita normale: hanno una famiglia, lavorano, frequentano la scuola e sono perfettamente inseriti nel tessuto sociale. A fronte di tale realtà, la gran parte degli operatori del settore sostengono che la cura e prevenzione dell’abuso di droghe possa avvenire efficacemente solo attraverso programmi che accompagnino e seguano i pazienti nella vita di ogni giorno, senza che vengano strappati alla loro quotidianità per essere rinchiusi in luoghi di cura che hanno il solo effetto di produrre esclusione sociale laddove non ce n’è. La risposta della politica contraddice in pieno queste considerazioni, basti solo ricordare la Fini - Giovanardi che ha eliminato ogni distinzione tra droghe pesanti e leggere, diminuendo le pene per le prime ed aumentandole per le seconde, e punisce il consumatore di droga come fosse un criminale, costringendolo ad entrare nel girone infernale del penitenziario. Il risultato di queste scelte politiche scellerate è che oggi circa 1 su 3 dei 67.615 detenuti italiani è tossicodipendente. La distanza tra politica e realtà diventa abissale se si guarda al modo in cui si pretende di gestire il fenomeno dell’immigrazione. Qualsiasi famiglia italiana che abbia tentato di regolarizzare la propria badante o datore di lavoro che abbia provato ad assumente un lavoratore straniero, possono testimoniare quanto il sistema sia irrazionale e inefficiente. Secondo la legge si può assumere solo un lavoratore che al momento dell’assunzione si trovi nel suo paese d’origine e che sia iscritto in apposite liste presso l’ambasciata italiana. Chi di noi sarebbe disposto a mettersi in casa, per dare assistenza ad un proprio caro allettato, una badante che non ha mai visto? Quale imprenditore assumerebbe un lavoratore senza conoscerlo semplicemente scorrendo una lista di nomi? La risposta è ovvia: nessuno. Nella gran parte dei casi, infatti, si assumono stranieri che si trovano già in Italia, arrivati con visto turistico e rimasti illegalmente oltre il periodo consentito. Ma la politica come risponde? Invece di riformare il sistema di concessione dei permessi di soggiorno in modo da consentire l’emersione dall’illegalità di milioni di lavoratori stranieri, offre anche in questo caso risposte demagogiche e meramente repressive: si introducono nel nostro sistema penale nuove tipologie di reato, come quello di clandestinità o mancata esibizione del permesso di soggiorno, che hanno il solo effetto di scaricare ancora una volta sul carcere un fenomeno che non si è in grado o non si vuole gestire. Questa politica dello scaricabarile ha prodotto effetti devastanti sul nostro sistema penitenziario negli ultimi venti anni. In primo luogo in termini di sovraffollamento delle strutture carcerarie: a fronte di una capienza regolamentare di 45.284 detenuti ne sono presenti 67.615. Il sovraffollamento rende inumane le condizioni materiali di vita dei detenuti e impedisce l’organizzazione di qualsivoglia attività lavorativa e rieducativa. La quasi totalità delle detenute e dei detenuti italiani, trascorrono il loro tempo nell’ozio, rinchiusi 21 ore su 24 in tre o quattro in un cella di 10 - 12 metri quadrati, in condizioni igienico sanitarie inumane. I rapporti del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa hanno più volte denunciato le condizioni drammatiche in cui versano le nostre prigioni e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Sulejmanovic Vs. Italia, è arrivata a condannare l’Italia sostenendo che il livello di sovraffollamento è tale da integrare gli estremi della tortura. La politica dello scaricabarile ha trasformato i penitenziari italiani nelle più grosse strutture pubbliche di contenimento del disagio sanitario, psichico e sociale. Circa 1 su 3 è tossicodipendente e si trova in carcere per detenzione di droga, piccolo spaccio o per reati minori connessi allo stato di tossicodipendenza. Circa 4 detenuti su 10 sono affetti da epatite B o C e HIV. 1 detenuto su 2 assume psicofarmaci perché affetto da una qualche forma di disagio psichico o semplicemente perché tormentato da disturbi del sonno causati dall’ozio forzato. 1 detenuto su 10 compie atti di autolesionismo. Nel 2010 sono stati 66 i suicidi in carcere: una media venti volte superiore a quella nazionale. Tra i penitenziari italiani si nascondono i più grossi centri di contenimento della malattia mentale: nei 6 ospedali psichiatrici giudiziari italiani sono detenuti in condizioni vergognose e senza un fine pena certo 1.547 individui, in gran parte condannati per reati lievi, ma che il sistema carcerario spesso non rilascia solo perché non esistono strutture in grado di accoglierli o perché le famiglie non sono in grado di prendersene cura. I penitenziari italiani sono oggi i più grossi centri di detenzione per immigrati irregolari: costituiscono circa il 37% della popolazione detenuta complessiva. Uno straniero ha oltre il doppio di possibilità di un italiano di finire in custodia cautelare in carcere, non perché più pericoloso, ma solo perché privo di documenti e di un domicilio. Sono molti i detenuti stranieri che, pur di non restare in carcere, chiedono di essere espulsi: le espulsioni non vengono quasi mai eseguite perché il ministero non mette a disposizione fondi. Negli istituti penitenziari italiani sono reclusi insieme alle loro madri oltre 50 bambini sotto i tre anni, prevalentemente di etnia rom, perché non esistono strutture in grado di dare loro accoglienza e perché i magistrati non ritengono i campi rom domicili idonei, come se le prigioni lo fossero. La camera dei deputati ha approvato di recente all’unanimità un provvedimento che non solo non prevede nessun investimento per costruire strutture di accoglienza per detenute madri, ma avrebbe l’effetto di prolungare la detenzione in carcere dei bambini fino a sei anni. Giustizia: donne in carcere; una condizione di marginalità tra i marginali di Silvia Giacomini (Associazione Antigone) www.zeroviolenzadonne.it, 22 marzo 2011 Tra le molteplici difficoltà in cui si trova impigliata la donna contemporanea, c’è anche quella di essere sempre in una condizione di marginalità tra i marginali, così le straniere richiuse nei Centri di Identificazione ed Espulsione, così le detenute ristrette in carcere. Da qui nasce il bisogno di parlare di detenzione femminile e al femminile, perché le donne rinchiuse negli istituti penitenziari in Italia e in Europa sono marginali per diversi motivi: numericamente non superano mai il 5% della popolazione detenuta totale; qualitativamente vivono in istituzioni create da uomini per rinchiudere uomini, e sostanzialmente affrontano problemi specifici del proprio genere con strumenti pensati per esigenze maschili. Il mese appena trascorso ha visto nascere diverse iniziative che hanno riacceso i riflettori su una questione sociale, antica e molto dibattuta: la questione di genere. Abbiamo assistito e partecipato a manifestazioni in ogni città italiana il 13 febbraio, unite dal motto: “Se non ora quando!”, abbiamo lottato per l’ennesimo 8 marzo con eventi più o meno riusciti… insomma, grazie o a causa delle ultime vicende giudiziarie del nostro premier, le luci si sono nuovamente posate sulle donne, tra tradizione e modernità. Infatti nell’affrontare le tematiche relative alle diseguaglianze di genere lo sguardo mediatico è spesso intriso di voyeurismo e si posa anziché affrontare quello che è la vita quotidiana di tutte noi. Tra le molteplici difficoltà in cui si trova impigliata la donna contemporanea, c’è anche quella di essere sempre in una condizione di marginalità tra i marginali, così le straniere richiuse nei Centri di Identificazione ed Espulsione, così le detenute ristrette in carcere. Da qui nasce il bisogno di parlare di detenzione femminile e al femminile, perché le donne rinchiuse negli istituti penitenziari in Italia e in Europa sono marginali per diversi motivi: numericamente non superano mai il 5% della popolazione detenuta totale; qualitativamente vivono in istituzioni create da uomini per rinchiudere uomini, e sostanzialmente affrontano problemi specifici del proprio genere con strumenti pensati per esigenze maschili. Dunque leggere la detenzione femminile con un approccio di genere significa partire dalla specificità propria del genere femminile. Specificità che presuppone una differenza tra uomini e donne anche nella detenzione. Infatti la privazione della libertà personale, bene primario per ogni essere umano, si declina con modalità ed effetti differenti se la persona in questione è una donna piuttosto che un uomo. Ma quali sono i numeri del fenomeno? Le donne in carcere in Italia rappresentano tra il 4% e il 4.5% del totale della popolazione detenuta, 2.951 su 67.615 in termini assoluti, su una popolazione libera che è rappresentata da donne per più del 50%. In Europa la situazione è molto simile perché la media si attesta sul 5% della popolazione detenuta totale. Ancora numeri: i reati commessi dal genere femminile sono per la maggioranza non di natura violenta e si configurano in atti contro la proprietà o infrazioni alla legge sugli stupefacenti. Per quanto riguarda gli istituti per donne in Italia sono solo 6, mentre ci sono ben 56 sezioni femminili all’interno di istituti maschili. Questo il quadro numerico, ma non vogliamo soffermarci solo sull’immagine “statistica” del fenomeno, bensì addentrarci qualitativamente in un mondo che risente anche della marginalità numerica. Infatti citando Maria Laura Fadda, Magistrato di Sorveglianza di Milano: “la domanda perché le donne delinquono meno degli uomini, è mal posta e risente di un’ottica androcentrica; forse la domanda potrebbe essere rovesciata, perché gli uomini infrangono in tale misura le regole che loro stessi si sono dati? Andrebbe, dunque, meglio approfondito, in criminologia e sociologia, lo specifico della criminalità femminile e in particolare la caratteristica per cui le donne commettono raramente reati, anche come un segno della diversità femminile non tanto in rapporto agli uomini, ma in rapporto alla norma e al suo valore, percepito come cogente”. Inoltre la tipologia di reato che le donne compiono generalmente porta un alto turnover, con detenzioni brevi e molta incidenza di recidiva. Considerando lo scarso numero di istituti e sezioni femminili presenti sul territorio, si può ben capire che spesso le donne vengono ristrette lontano da casa, situazione che rende difficile il mantenimento delle relazioni familiari a causa dei costi e dei tempi necessari per recarsi ai colloqui. Inoltre quali attività trattamentali, culturali e scolastiche possono essere progettate per sezioni dove si trovano al massimo 50 donne? Ma i numeri, nonostante la carenza di dati disaggregati per genere nelle statistiche, non ci rimandano la completezza della specificità della detenzione femminile. E sembra che anche a livello nazionale ed internazionale la specificità di genere sia un’acquisizione culturale recente. In riferimento all’elaborazione di strategie di intervento da parte dell’Amministrazione Penitenziaria (Pea 25/2005 Detenzione al femminile) differenziate per gli istituti femminili e per le sezioni femminili all’interno degli istituti maschili, si è ad esempio previsto l’approvazione di regolamenti specifici ex art 16 O.P., che tengano conto della peculiarità della detenzione delle donne. Il regolamento interno tipo per gli istituti e le sezioni femminili è stato elaborato e diffuso soltanto nel 2008, e qui per la prima volta vengono prese in considerazione esigenze specifiche, ad esempio che sia l’amministrazione a farsi carico della spesa per assorbenti intimi o l’introduzione di novità per quanto riguarda l’igiene intima, l’estetica, l’arredo della cella e il diritto di possedere oggetti di valore affettivo. Inoltre si introduce un principio importante che è quello delle aule scolastiche miste per le donne delle sezioni femminili dentro istituti maschili. L’Amministrazione ha dato anche vita a un progetto formativo per operatori penitenziari denominato P.I.A.F. (Pensare Insieme al Femminile). A livello internazionale facciamo riferimento al “Women in Prison and the Children of Imprisoned Mothers”, documento redatto dal Quaker Council for European Affairs e Quaker United Nations Office del 2007, che dà atto al fatto che “Women and man are different. Equal treatment of men and women does not result in equal outcomes” e che le prigioni sono organizzate in tutto il mondo con regole funzionali alla maggioranza degli uomini detenuti e non ai bisogni ed esigenze delle donne. Inoltre il Parlamento Europeo ha stilato un report nel 2008 della Commissione sui diritti delle donne e la differenza di genere sulla situazione delle donne detenute e le conseguenze della detenzione sulla vita familiare e sociale, e altresì il rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2009 sulla salute delle donne in carcere. “Tuttavia, le analisi e dichiarazioni di intenti sopra riportate, non appaiono ancora compiutamente assimilate nelle pratiche e nella modalità di approccio degli operatori tutti, magistrati, direttori di carcere, educatori, volontari, polizia penitenziaria che tendono a trattare i problemi e le difficoltà delle donne allo stesso modo in cui vengono trattati quegli degli uomini”. Senza inoltrarci nella tematica delle madri detenute, oggi le donne ristrette in Italia sono per quasi la metà straniere, con un’alta percentuale di etnia rom, e in grande maggioranza tossicodipendenti. Questo rispecchia una carenza delle politiche sociali offerte dal territorio, perché la programmazione delle questioni penitenziarie non può essere scissa dalle scelte economico - sociali e culturali di uno Stato. In questo senso farsi carico della detenzione di una donna vuol dire abbracciare tutte le aree del disagio perché le donne sono portatrici di problematiche trasversali e connesse tra loro: i figli, la violenza, la responsabilità della famiglia, la sudditanza economica e affettiva, la tossicodipendenza, la povertà, l’emarginazione, il disagio mentale. In poche parole, la donna è il connettore di una società come la nostra, sorretta da un’unica istituzione, la famiglia, di cui è la base silente. Giustizia: la sessualità rimossa nelle carceri italiane di Lucia Re (Associazione l’Altro Diritto) www.zeroviolenzadonne.it, 22 marzo 2011 Michel Foucault ha “svelato” da tempo come la pena “dolce” della detenzione, affermatasi in epoca moderna in contrapposizione ai supplizi, non abbia eliminato né il carattere violento dei castighi, né la punizione dei corpi. Il sovraffollamento, la violenza diffusa, le condizioni igieniche precarie e l’assistenza sanitaria insufficiente - tutte esperienze che quotidianamente affliggono i detenuti e le detenute - sono lì a dimostrarlo ancora oggi. Nelle carceri italiane si sconta però anche una pena corporale che è quasi completamente ignorata: la pena della privazione della sessualità. L’astinenza sessuale forzata e il carattere unisessuale degli ambienti carcerari sono alla base del sistema penitenziario forgiatosi sul modello delle istituzioni monacali. Nei sistemi penitenziari moderni la repressione sessuale è stata uno dei principali strumenti impiegati per consentire alla pena di “fare presa sul corpo”. Il diniego della sessualità in carcere non è un effetto secondario della disciplina; esso è piuttosto il suo sostrato, la struttura inconscia dell’apparato repressivo. In molti paesi, europei e non, si è ritenuto necessario superare questo strumento disciplinare arcaico e fortemente afflittivo. In Italia si ha invece l’impressione che, se nella società dei “liberi” la sessualità è esibita e strumentalizzata al fine di depotenziarne la carica creativa e liberatrice, in carcere essa è direttamente taciuta e controllata. In una società dello spettacolo, fondata sul voyeurismo, la sessualità non pare avere niente a che fare con la salute psico-fisica delle persone, con le loro potenzialità e con la capacità di intrattenere relazioni affettive. Essa può semplicemente essere rimossa. In carcere, gli operatori sono chiamati a non tenerne conto, almeno finché non diviene un problema per l’ordine penitenziario. Per la maggioranza dei membri della classe politica e per gran parte l’opinione pubblica, poi, la questione neppure si pone. Il carcere è un luogo metaforico, un buco nero nel quale deve finire chi viola la legge. Ai corpi delle persone recluse nemmeno si pensa. E persino nella letteratura sociologica e giuridica il tema della sessualità dei detenuti e delle detenute è stato quasi completamente abbandonato. Questi ultimi, del resto, parlano di rado della propria sessualità, poiché essa appare loro come una dimensione privata inconciliabile con la carcerazione. Eppure, il diniego della sessualità non può considerarsi come un effetto trascurabile della reclusione. Si tratta piuttosto di una punizione aggiuntiva particolarmente afflittiva, tanto che si potrebbe ipotizzare che rientri in una definizione ampia del concetto di “trattamento degradante”. Come ha ricordato Adriano Sofri, la privazione della sessualità non è una semplice “privazione - vuoto”; è piuttosto una “distorsione” che porta con sé dolore e malattia. Nella castità forzata vi è una violenza istituzionale che nessuna legge ha formalmente autorizzato. Le testimonianze dei detenuti e delle detenute sono cariche di sofferenza: l’astinenza forzata e il carattere unisessuale del carcere sono descritti come una vera e propria “tortura mentale”. L’impossibilità di mantenere relazioni con l’altro sesso fa infatti nascere la paura di perdere non soltanto i legami affettivi istaurati prima dell’ingresso in carcere, ma anche la propria capacità emotiva e persino la propria identità sessuata. L’uccisione emotiva è frequente nelle carceri maschili. Molti detenuti dichiarano un’apatia sessuale e sentimentale che sembra essere il correlativo della più generale afflizione che il corpo incarcerato è costretto a subire: dalla progressiva deprivazione sensoriale alla fissazione su alcune funzioni corporee, come quella digerente, fino al rifiuto di se stessi e della vita. Per quanto riguarda le detenute, una diffusa visione sessista sostiene che la negazione della loro sessualità sia meno problematica rispetto ai maschi. E invece, la repressione sessuale nelle carceri femminili è particolarmente sentita, poiché essa non si sostanzia soltanto nell’impossibilità di intrattenere rapporti sessuali con uomini. La definizione e la gestione della sessualità, del rapporto fra questa e l’identità di genere, il controllo della riproduzione sono piuttosto da considerarsi per le donne come “le matrici dell’assoggettamento di sé all’altro”. L’immagine tipica della donna deviante è quella della prostituta: la donna incarcerata è, prima di tutto, una “cattiva madre”, una “cattiva moglie” e una “cattiva figlia” che il carcere deve rieducare, perché si adegui al ruolo assegnatole all’interno della famiglia. Nell’ambiente unisessuale del carcere, la donna ‘che non è riuscita ad adempiere il proprio ruolo di moglie e di madrè è spesso ricondotta proprio a questo ruolo dalle stesse attività trattamentali. In questo quadro, l’incapacità di svolgere le funzioni materne o, peggio ancora, la negazione della possibilità di divenire madre sono un grande motivo di preoccupazione per le detenute. Anche per questo l’espressione della femminilità in carcere appare preclusa persino in modo più netto rispetto all’espressione della virilità. Il diritto a non soffrire pene aggiuntive alla privazione della libertà - sancito dalla legislazione nazionale e internazionale - è del tutto ignorato nelle carceri italiane. Essere detenuti e detenute significa vedere gravemente limitate le proprie relazioni interpersonali e la possibilità stessa di esprimere le proprie emozioni. Come ha sostenuto un detenuto del penitenziario di Porto Azzurro: “l’amore in carcere è un privilegio indifendibile”. Giustizia: la violenza sessuale contro le detenute; nelle caserme, nelle carceri e nei Cie di Sonia Sabelli www.zeroviolenzadonne.it, 22 marzo 2011 Abbiamo sempre detto che “per ogni donna stuprata e offesa siamo tutte parte lesa”. Ma cosa cambia se chi subisce una violenza sessuale è una donna o una transessuale? Se è bianca o nera? Migrante o cittadina? Imprenditrice, operaia o disoccupata? Libera o detenuta? “Santa” o “puttana”? Vorrei suggerire qui alcuni spunti di riflessione sulla necessità di utilizzare le categorie di genere, razza e classe, per reagire alla violenza sessuale oggi in Italia. Nelle aule dei tribunali, le donne che denunciano uno stupro sono spesso trattate come imputate e i difensori degli stupratori si affannano a demolire la loro credibilità, facendo leva sulla loro presunta immoralità e disponibilità. Niente di più facile se la vittima eccede la norma morale ed eterosessuale, se attraversa i confini dell’identità nazionale o infrange la linea del colore. Meglio ancora - per distruggere la sua credibilità - se lei è una detenuta, una lavoratrice del sesso o una “clandestina”, e se lo stupratore è anche il suo carceriere. Infatti, sia che si trovi in carcere per aver commesso un reato, sia che si trovi in un Cie perché non ha i documenti in regola, lei è considerata “illegale” e rappresenta una “minaccia” per la sicurezza pubblica che lui, invece, dovrebbe tutelare. La donna che ha denunciato di essere stata violentata dai carabinieri che l’avevano in custodia, in una caserma a Roma, è stata subito dipinta dalla stampa come una ragazza madre, senza casa e lavoro: una ragazza giovane e bella ma “dalla vita complicata”. Mentre il comando generale dei carabinieri si affrettava a sottolineare che i militari coinvolti possono vantare un “foglio disciplinare immacolato”, loro si difendevano sostenendo che lei era “consenziente”. Come se una persona privata della propria libertà potesse essere libera di scegliere. Inoltre, il sindaco di Roma ha assicurato che le “eventuali mele marce” saranno immediatamente isolate; ma c’è chi si domanda se marce siano solo alcune mele, oppure tutta la piantagione. A partire da questo interrogativo, alcune femministe hanno compilato una lista dei più recenti episodi di violenze sessuali compiute dagli uomini delle forze dell’ordine, da distribuire l’8 marzo in diverse città. Nella maggior parte dei casi si tratta di violenze subite da donne e transessuali recluse nelle caserme, nelle carceri e nei Cie. Violenze che si consumano proprio a partire dalla relazione di potere che si instaura tra carcerate e carcerieri (così come nei secoli scorsi avveniva nelle colonie, tra colonizzate e colonizzatori, o nelle piantagioni, tra schiave e padroni). In particolare, sembra che le molestie e i ricatti sessuali nei confronti delle recluse nei Cie siano all’ordine del giorno: ogni necessità legata alla loro sopravvivenza quotidiana (dal pacchetto di sigarette alla scheda telefonica) può essere soddisfatta in cambio di una prestazione sessuale fornita ai rappresentanti delle forze dell’ordine o agli operatori degli enti gestori. Nel 2009 “Noi non siamo complici” - uno slogan con cui è stato avviato un percorso di donne, femministe e lesbiche contro i Cie, come luoghi privilegiati della violenza contro le migranti - ha diffuso un Dossier sulle violenze fuori e dentro i Cie contro le donne migranti, che fa risalire al 1999 le prime testimonianze di molestie sessuali nei confronti delle detenute. Emerge così una realtà in cui i carcerieri sono liberi di disporre dei corpi delle recluse, coperti dalla connivenza istituzionale, perché quello che avviene all’interno delle “gabbie” rimane confinato in questi luoghi remoti e invisibili, veri e propri campi di internamento in cui vige un perenne stato di eccezione. E se qualcuna reagisce, difficilmente trova ascolto e sostegno. L’esperienza di Joy - la donna nigeriana che ha denunciato un ispettore di polizia per la violenza subita mentre era detenuta nel Cie di via Corelli a Milano - dimostra che, in un’aula di tribunale, la parola di una “straniera” conta decisamente meno di quella di un uomo in divisa. Infatti, durante il processo, non solo il suo racconto non è stato ritenuto “attendibile”, ma per di più Joy è stata ripagata con una denuncia per calunnia. Le motivazioni dell’assoluzione dell’ispettore Vittorio Addesso sono una summa dei peggiori stereotipi razzisti, al servizio di una strategia che mira a demolire la credibilità di Joy. Come si legge nel documento, in un processo per stupro le dichiarazioni della vittima “possono costituire da sole prova sufficiente per l’affermazione della responsabilità penale” dello stupratore, ma ciò può avvenire “solo dopo avere doverosamente e rigorosamente vagliato l’attendibilità della persona offesa”. Ecco che allora - nella peggiore tradizione dei processi per stupro, in cui la vittima si trasforma in imputata - si sottolineano (anche graficamente) le “numerose incongruenze” delle dichiarazioni di Joy; la si dipinge come colei che capeggia la protesta delle recluse nigeriane, che nel Cie si distinguono per “comportamenti particolarmente violenti e scomposti”; e si fa notare che nessun’altra detenuta, né nigeriana, né di “razza bianca” (sì, sembra incredibile ma c’è scritto proprio così) ha testimoniato a suo favore. Dimenticando che le altre ragazze presenti sono state “deportate in Nigeria prima di poter parlare”. Inoltre Hellen, l’unica teste a suo favore, che però si esprimerebbe “in modo un po’ disordinato”, non sarebbe attendibile perché condivide con Joy la nazionalità, la condizione di “irregolarità” e l’accusa di aver partecipato alla rivolta contro la legge che ha prolungato la detenzione nei Cie fino a sei mesi. Così, dimostrata l’”inattendibilità delle dichiarazioni delle due donne”, e dimostrato che il loro racconto è illogico e inverosimile semplicemente perché descrive una situazione “assurda” (!), il giudice conclude con certezza che il fatto non sussiste. Sono invece considerate attendibili le dichiarazioni dell’ispettore Addesso, che respinge “con fermezza” le accuse, suggerendo che la denuncia è uno strumento per ottenere un permesso di soggiorno e sfuggire così all’espulsione, e quelle di Mauro Tavelli, l’altro ispettore in servizio a via Corelli, poi condannato a sette anni e due mesi di reclusione per aver violentato una transessuale brasiliana reclusa nello stesso Cie. Ma di questo non si fa cenno nel testo, così come non si accenna nemmeno al fatto che Joy, come tante altre ragazze nigeriane rinchiuse nei Cie, è una vittima di tratta e in quanto tale ha diritto a un permesso di soggiorno. Non è un caso che, a parte poche eccezioni, la stampa non abbia dedicato alcuna attenzione a questa vicenda: la reazione dei media e dell’opinione pubblica italiana di fronte alla violenza sessuale è fortemente condizionata dall’etnicità degli stupratori e delle vittime; le prime pagine della cronaca sono riservate allo “stupratore immigrato” e una donna nera violentata da un uomo bianco non fa notizia. Stupisce invece che - nonostante alcuni collettivi di femministe e lesbiche abbiano avviato un percorso di lotta con Joy, che è riuscito a bloccare i numerosi tentativi di chiuderle la bocca rispedendola in Nigeria - le donne non si siano mobilitate in massa al suo fianco. Se la grande manifestazione femminista del novembre 2007, all’indomani dell’omicidio di Giovanna Reggiani, era stata capace di denunciare la strumentalizzazione della violenza sessuale a fini razzisti, oggi non siamo state in grado di fare altrettanto. E invece, davanti al rischio che Joy si trovi ancora in un’aula di tribunale a dover fronteggiare, stavolta nel ruolo di imputata, un procedimento per calunnia, è necessario continuare a mantenere alta l’attenzione, allargando la mobilitazione e moltiplicando le iniziative a suo favore. Mentre le leggi che dovrebbero contrastare la violenza sessuale sembrano spesso orientate solo a proteggere i corpi delle donne bianche e di classe media dalla minaccia dello “straniero stupratore” (giustificando provvedimenti xenofobi e securitari), la lotta contro le violenze subite dalle migranti recluse nei Cie rimane confinata solo a una parte del movimento femminista e/o antirazzista. Invece dovrebbe essere una priorità per tutte noi. Una strategia efficace contro lo stupro non può prescindere, infatti, dal riconoscimento dell’intersezione di genere, razza, classe e dalla necessità di contrastare sia il sessismo che il razzismo, non solo sostenendo le donne migranti che subiscono la violenza sessuale, ma soprattutto lottando insieme per smascherare la manipolazione razzista e classista dello stupro. Giustizia: una detenzione “migliore” si può realizzare; parla la direttrice del carcere di Bollate a cura di Luca Cardin www.zeroviolenzadonne.it, 22 marzo 2011 Dott.ssa Castellano, il carcere di Bollate da lei diretto, è spesso citato come struttura modello per le pratiche rieducative che vengono praticate al suo interno. Quali sono le premesse alla base di questo modello? Le premesse del “modello Bollate” sono in primo luogo sancite dalla legge. Cerchiamo di applicare “in toto” quanto previsto dall’Ordinamento Penitenziario (L. 354/75) e dal Regolamento di Esecuzione (Dpr 230/00). L’esigenza da cui partiamo è, molto banalmente, quella del reinserimento socio-lavorativo dell’utenza e della prevenzione della recidiva. La premessa di fondo per il raggiungimento di questi obiettivi è quella di costruire, in primo luogo, un tempo detentivo che abbia un senso, che trasmetta ai detenuti il valore della convivenza (anche se forzata) basata su regole accettate e condivise, sulla responsabilità e sulla, (sia pur limitata), capacità di autodeterminarsi anche durante la detenzione. Preparare i cittadini detenuti, già durante la pena, ad affrontare l’esterno in modo libero e dignitoso non significa soltanto costruire “tout court” opportunità e soluzioni socio-abitative; vuol dire anche costruire un clima e un ambiente che non peggiorino gli individui, attenuando la morsa del controllo totale, sostituito progressivamente da un sistema di regole compreso, condiviso e rispettato. Il carcere viene dunque concepito come una piccola città, in cui la sicurezza è la custodia delle regole piuttosto che dei corpi reclusi degli abitanti. È un obiettivo ambizioso, ma l’unica strada indicata dal Costituente e dal Legislatore per dare un senso al carcere. Per realizzarlo si lavora su diversi livelli. Il primo è la progressiva perdita dell’autoreferenzialità dell’istituzione. Nel carcere di Bollate gli operatori del territorio (enti locali, terzo settore ecc.) lavorano quotidianamente al fianco della polizia penitenziaria e degli educatori per favorire i processi di reinserimento sociale dei detenuti. Il secondo è la responsabilizzazione del detenuto rispetto all’organizzazione della giornata detentiva e alle scelte sulle attività da impiantare all’interno. Le opportunità lavorative, ricreative e culturali non vanno calate dall’alto sulla popolazione detenuta, ma vanno progettate, organizzate e gestite dagli operatori e dagli ospiti, insieme. Lo svolgimento delle attività, la cura degli spazi e la partecipazione dei compagni vengono affidate ai detenuti, costantemente monitorati e seguiti dagli operatori. I detenuti imparano la fatica dell’organizzazione, la soddisfazione del risultato, e non sprecano risorse, come avviene, al contrario, quando non se ne percepisce il valore perché non si è partecipi dei processi decisionali. Il terzo livello è quello dell’organizzazione di opportunità lavorative e formative all’interno dell’istituto. Sono 5 le cooperative sociali attive dentro le mura (catering, giardinaggio, sartoria, falegnameria, grafica). 3 le aziende “profit” che assumono detenuti (circa 200 in totale) con propri capannoni all’interno. L’offerta scolastica arriva fino alla scuola superiore. Ci sono circa 10 studenti universitari. La Regione Lombardia finanzia annualmente una serie di corsi di formazione, connessi per lo più alle attività lavorative interne. Il momento più delicato e importante del nostro progetto è quello dell’accompagnamento graduale delle persone detenute verso una definitiva libertà. È statisticamente provato che guadagnare la libertà in modo graduale, con un tutoraggio e un accompagnamento sul territorio da parte degli operatori, abbatte sensibilmente la recidiva. Per questo a Bollate si punta moltissimo sul lavoro all’esterno dell’istituto, (80 detenuti su 1030 beneficiano attualmente di questa misura). Il lavoro all’esterno rappresenta un modo concreto per sperimentare la volontà reale del detenuto di lavorare e di reinserirsi nella società civile, volontà, com’è noto, falsata della carcerazione. La gestione di tale misura è delicata e complessa: si lavora sul territorio, nella relazione con i datori di lavoro, accompagnando i detenuti e controllando il rispetto delle regole. Una squadra di polizia penitenziaria si occupa a tempo pieno di questo settore. Per vincere la scommessa e mettere in piedi un carcere “costituzionalmente legittimo” si è lavorato preliminarmente per creare un nuovo modello culturale? Creare un carcere “diverso dal solito” significa che tutti dobbiamo giocare un altro ruolo rispetto alla tradizionale cultura carceraria, che tocca tanto gli agenti di polizia penitenziaria quanto i detenuti. Non sarebbe stato possibile costruire il “carcere della resistenza” senza prima lavorare sulla squadra, passando da un’organizzazione militaresca verticale a una orizzontale, ovvero manageriale. L’aspetto più complesso è il cambiamento della professionalità del poliziotto, non più custode dei corpi ma chiamato a un lavoro di intelligence nell’osservazione del detenuto e a uno scambio continuo con gli operatori senza divisa. Per produrre questi nuovi modelli culturali abbiamo organizzato équipe multidisciplinari di reparto, conferenze di servizio e corsi di aggiornamento. e abbiamo dedicato particolare attenzione alla polizia penitenziaria. Una volta formata la squadra abbiamo impostato il rapporto col detenuto su basi nuove, riconoscendolo come persona alla quale offrire opportunità, ma dalla quale pretendere anche delle responsabilità, restituendogli la libertà di autodeterminazione normalmente negata dalle istituzioni totali e coinvolgendolo nella progettazione e nell’organizzazione di tutte le attività dell’istituto. Ad esempio, la direzione e lo staff educativo di Bollate non accettano il regime di “protezione” a cui sono sottoposti gli autori di reati sessuali e chiedono ai propri utenti di superare questo pregiudizio figlio della subcultura carceraria e accettare la convivenza con i sex offender, che vengono inseriti nei reparti comuni e vivono insieme agli altri. Il carcere che si è cercato di realizzare è un luogo in cui la mancanza di libertà si limita al muro di cinta e che al suo interno prevede una ragionevole libertà di movimento, con celle aperte dalla mattina alla sera, possibilità di raggiungere autonomamente (cioè senza l’accompagnamento di una divisa) i posti di lavoro, la scuola e i luoghi del tempo libero. In carcere si continua a morire - nel 2010 i morti in carcere sono stati 173, di cui 66 suicidi, e il 2011 è cominciato con lo stesso trend - e il sovraffollamento delle prigioni non fa che aggravare il problema. Come è possibile uscire da questa continua emergenza? I suicidi in carcere sono il primo, più grave dramma da affrontare. Credo che la ragione di tanti suicidi stia in primo luogo nella disperazione esistenziale in cui versano gli abitanti del carcere. Sono, in maggioranza, gli ultimi della terra, i diseredati, coloro che fuori spesso non hanno nemmeno un’identità. La durezza dell’impatto con il carcere li mette difronte al vuoto che hanno davanti. Molti non reggono. Le condizioni durissime (in termini di sovraffollamento, condizioni igieniche difficili, mancanza di spazi vitali) non fanno che peggiorare questa sensazione di vuoto e disperazione. Il sovraffollamento non è un’emergenza “naturale: “è il portato di precise scelte di politica criminale che vogliono che il carcere sia la prima risposta sanzionatoria, soprattutto per i reati definiti di “maggior allarme sociale” (furti, piccolo spaccio ecc.). Si pensi, ad esempio, alla legge “Ex Cirielli” che punisce più severamente la recidiva, ritardando inoltre l’accesso ai benefici penitenziari per i recidivi. Si favorisce la risposta carceraria rispetto alle misure alternative alla detenzione. Per questo il carcere è sovraffollato. I reati non aumentano, i detenuti si. In passato si è spesso occupata del problema dell’affettività e della sessualità in carcere. Qual è la situazione attuale nelle carceri italiane? Cosa bisognerebbe fare? Quanto al tema dell’affettività in carcere, va detto che il legislatore del 1975 ha preso un impegno davvero notevole con l’utenza detenuta che, manco a dirlo, non siamo riusciti a onorare. Pensiamo solo al disposto dell’art 28 dell’ordinamento penitenziario, che impone “ particolare cura a mantenere, migliorare e ristabilire le relazione dei detenuti e degli internati con le loro famiglia” Addirittura, ci si aspetta che il carcere non solo non tranci le relazioni affettive, ma le rinsaldi e le migliori. E qui, ovviamente, abbiamo le armi totalmente spuntate. Come si fa a tenere in piedi i legami con 6\8 ore di incontro al mese e 40 minuti di telefonate? Senza voler indagare sul “come” vengono organizzati gli incontri. In più, c’è il grande “omissis” della vita sessuale, o più in generale, dell’intimità della coppia, della fisicità degli incontri, di cui non si parla mai, nessun articolo ne fa menzione. Eppure il sesso in carcere c’è, omosessuale, rubato, ma c’è. In questo settore dobbiamo proprio concludere che già “a monte” ossia a livello legislativo, ci sono gravi lacune sul rispetto del diritto all’affettività e la prassi applicativa si discosta, come sempre, da una norma già piuttosto carente di contenuti. A Bollate, come dovunque, il diritto all’affettività è inesorabilmente travolto dalla compressione della libertà personale. Cerchiamo, per quanto possibile, di interpretare in modo estensivo le singole norme, partendo dalla disposizione che impone sull’amministrazione il dovere di migliorare i legami, ma i risultati non sono quelli sperati. In primo luogo si cerca di prestare la massima attenzione ai bambini dei detenuti che vengono a colloquio. L’associazione “Spazio Aperto Servizi” e “ Bambini senza sbarre” si occupano dell’accoglienza e dell’intrattenimento dei bambini, che aspettano il colloquio in uno spazio pieno di giochi, colori ecc..e con gli operatori delle associazioni Poi, nel periodo estivo i colloqui vengono svolti in un grande giardino, con la possibilità per i figli di giocare con i papà e la mamme reclusi. D’inverno, ci sono due ludoteche, una per il maschile e una per il femminile. Di più non è possibile fare. Bisognerebbe, a livello legislativo, aumentare le ore di colloquio visivo e telefonico. Il sovraffollamento, ovviamente, rende tutto più difficile. La maggior parte dei detenuti sono tossicodipendenti, persone con problemi psichiatrici e stranieri, gente che non dovrebbe stare in carcere. Ci sono esempi virtuosi, in Italia e all’estero, che “trattano” il detenuto partendo da politiche di “socialità”. Quanto è possibile nel quadro culturale attuale, una politica carceraria che tenda in questa direzione? Credo che nella situazione attuale (70.000 detenuti stipati in edifici che ne potrebbero contenere al massimo 43000) sia pressoché impossibile pensare che il carcere possa diventare il luogo del recupero, specialmente per soggetti con un problema, grave, in più, come la tossicodipendenza. Vedremo quanto aiuterà la realizzazione del “ piano carceri” e la costruzione di nuovi istituti. Esistono in Italia diversi istituti a custodia attenuata per tossicodipendenti, sono realtà efficaci su cui l’amministrazione investe molto, ma purtroppo su piccoli numeri. La grande massa di detenuti tossicodipendenti non viene raggiunta da questi progetti. Il tema della detenzione è spesso percepito dalle persone “libere” come qualcosa che non le riguarda. Quanto sarebbe importante e in qualche modo preventivo promuovere una cultura della comprensione e della solidarietà con gli uomini e le donne detenute? Il problema non sta tanto nel provare solidarietà nei confronti delle persone detenute. I cittadini liberi dovrebbero porsi il problema del carcere in termini di sicurezza sociale. Infatti, è statisticamente provato che un carcere che offre opportunità lavorative e formative, che non mortifica la dignità, che considera l’utente come una risorsa futura per la società, è un carcere che abbatte la recidiva, quindi il rischio di commissione dei reati una volta fuori. È questo che dovrebbe interessare ai cittadini. Anzi, è questo che dovrebbero pretendere dallo Stato che custodisce gli autori di reato (con i soldi dei contribuenti). Due numeri a conforto di quanto affermato: il tasso di recidiva per chi “ si fa la galera” fino all’ultimo giorno di pena è del 67%, quello di chi usufruisce di misure alternative nell’ultimo periodo è del 19%. A Bollate, abbiamo calcolato su un campione di 100 casi, che la recidiva scende al 12%. Giustizia: il Senato verso l’approvazione del ddl sulle detenute madri Asca, 22 marzo 2011 Dopo un lungo e tormentato iter parlamentare, si attende il sì al testo unificato 2568 contenente modifiche al codice di procedura penale e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori puntando sulle misure alternative alla detenzione e, ove non possibile per la gravità dei reati commessi, su apposite “case famiglia protette” in modo da evitare che i bambini siano costretti a stare in penitenziario per essere vicini alle mamme. Ma i costi e i problemi relativi alla realizzazione delle case famiglia e vari altri aspetti della normativa, anche in riferimento a problemi di sicurezza, hanno reso complesso l’approfondimento anche a Palazzo Madama dopo la lunga discussione e le numerose modifiche al testo originario che hanno connotato la discussione alla Camera. Il Ddl, dopo la decisione presa nei giorni scorsi dall’Assemblea di un rapido ritorno in Commissione per approfondimenti, oggi sarà all’esame della Giustizia e nel pomeriggio è nuovamente all’ordine del giorno dei lavori dell’Aula. Giustizia: assolto tabaccaio che uccise un rapinatore in fuga; per la Lega è un “eroe” La Stampa, 22 marzo 2011 Prima lo hanno assolto per legittima difesa putativa. Poi gli hanno ridato la pistola, quell’arma con cui fece fuoco sette volte, anche alle spalle contro due rapinatori, uccidendone uno, per difendere l’incasso di una giornata. Mille trecento cinque euro costati la vita ad Alfredo Merlino che aveva 30 anni, un polmone ad Andrea Solaro di 19 e otto anni avanti e indietro dal Tribunale per Giovanni Petrali, tabaccaio di piazzale Baracca a Milano. Tabaccaio e assassino, tabaccaio ed eroe, a seconda di come la si guardi questa storia di ordinario Far West metropolitano. In aula Giovanni Petrali non c’è, ha quasi ottant’anni e forse il rimorso di come è andata a finire. Ci sono invece i suoi figli - uno che fa l’avvocato lo difende armato di codice penale - un altro negoziante che fece la stessa cosa e un manipolo di leghisti che avevano promesso di esserci in massa, dopo che in primo grado avevano chiesto per il “tabaccaio eroe” addirittura 9 anni di carcere per omicidio volontario. E invece fu legittima difesa dicono i giudici della corte d’Appello di Milano. Legittima difesa putativa perché dopo essere stato aggredito dai due rapinatori, Giovanni Petrali era “incorso in un errore di percezione, essendo sconvolto al momento della rapina”. L’errore fu quello di ritenersi in pericolo di vita per i pugni e i calci che i due balordi gli rifilarono quando erano le sette di sera di un giorno come tanti, la saracinesca quasi abbassata, l’incasso di mille trecento cinque euro quasi in saccoccia. Non fu errore invece ma legittima difesa impugnare la pistola e sparare sette volte, tre dentro il negozio, quattro in mezzo alla strada fino all’angolo della via. Il primo colpo frontale gli altri sei tutti alla schiena, tre a centro come se fosse il tirassegno. Marco Petrali, il figlio avvocato, tira le somme dopo otto anni di processo: “Oggi è stata scritta una bella pagina di giustizia”. Suo fratello Antonio, l’altro figlio del tabaccaio, tira un sospiro di sollievo per come è andata finire ma si capisce che questo processo mica chiude i conti con la coscienza: “Mio padre non farebbe più una scelta del genere, di detenere una pistola. Per evitare di prendere qualsiasi tipo di decisione in quegli istanti”. In quegli istanti i due rapinatori si sono giocati la vita. E un po’ pure questo tabaccaio dal grilletto nervoso che dopo quel giorno, ha voluto abbassare la saracinesca per sempre. Pietro De Petris, il sostituto procuratore generale che aveva chiesto una dura condanna adesso dice niente: “Le sentenze non si commentano. Dopo aver letto le motivazioni deciderò se fare ricorso”. L’avvocato Stefano Ardizzoia che difende gli interessi della sorella del rapinatore ucciso incassa il verdetto: “Siamo rimasti un po’ sconcertati. Vogliamo leggere bene le motivazioni”. Il plurale vale per Micaela Merlino, la sorella di Alfredo Merlino che non ha mai voluto parlare, se non con una lettera ai giornali: ‘Le vittime quel giorno furono più di una, non solo il tabaccaio rapinato. Mio fratello ha pagato un conto troppo salato per il suo pur ingiustificabile errore. Suo fratello non c’è tra le voci dei militanti della Lega assai soddisfatti della sentenza. Matteo Salvini eurodeputato con un piede a Palazzo Marino fa di più: “Candidiamo il figlio del tabaccaio, Antonio Petrali, alle prossime elezioni comunali. E con lui il gioielliere Giuseppe Maiocchi. Per alcuni mestieri bisognerebbe aumentare gli strumenti di difesa, basterebbe uno spray”. Il vicesindaco Riccardo De Corato segue a ruota: “Tutto è bene quel che finisce bene. I magistrati si concentrino di più sulla caccia ai criminali anziché accanirsi contro le vittime”. Luca Squeri di Confcommercio dice che la “sentenza è giusta ma certe situazioni sarebbe meglio prevenirle e non conviene tenere le armi perché può sempre venire il panico”. Al tabaccaio senza più negozio ne incasso da difendere dai rapinatori, la pistola gliela ridanno con la sentenza di oggi. E pure questa decisione fa piacere ad Antonio Petrali, suo figlio: “Siamo molto contenti perché quella pistola è un ricordo di guerra del nonno”. Lettere: Ministero di giustizia e di morte di Carmelo Musumeci (Carcere di Spoleto) www.linkontro.info, 22 marzo 2011 Il Ministro di giustizia è impegnato a difendere il Presidente del Consiglio e a urlare che ha firmato nuovi decreti di sottoposizione al regime di tortura del 41-bis, ma mai che in questi provvedimenti ci sia un politico, un corruttore, un notabile, un colletto bianco mafioso. Intanto in carcere si continua a morire e tutto tace. “Pescara: detenuto di 35 anni si impicca in cella, è il 33esimo morto di carcere dall’inizio dell’anno” (Il Messaggero, 21 marzo 2011). Nell’anno 2010 si sono tolti la vita in Italia 66 detenuti. Perché in Italia, sono molti i detenuti che si tolgono la vita? Credo perché il prigioniero in Italia sta tutto il giorno attorno al nulla sdraiato in una branda, se è fortunato ad averne una tutta per se, a guardare un mondo che non vede e non sente. Probabilmente perché da noi il carcere ha solo una funzione: quella punitiva, diseducativa e criminogena. Non ci si può opporre al male con altro male, con altra violenza. Il carcere, così com’è oggi, non solo ci punisce, ma ci fa soffrire, ci odia, ci isola, ci istiga e spesso ci convince a ucciderci. E i più deboli, o i più forti, a seconda dei punti di vista, scelgono di fuggire, di andarsene da questo mondo d’illegalità istituzionale. Il carcere così com’è, quando va bene, ti convince a ucciderti e quando invece va male distrugge i corpi e le menti, perché sempre e solo galera invece di risolvere i problemi li peggiora. Non solo quelli dei detenuti, ma anche quelli della società. In carcere in Italia non c’è solo il rischio che ti venga voglia di ucciderti, ma se non lo fai hai buone probabilità di diventare più criminale e più cattivo di quando sei entrato. Purtroppo l’uomo in gabbia o diventa violento o si lascia morire. E chi non ha il coraggio di farlo, come me, sente spesso il desiderio di farlo. Voglio ricordare ai funzionari del Ministero di giustizia (e di morte) che molti detenuti scelgono di morire perché non hanno scelta. Loro invece la scelta per fare smettere queste morti l’avrebbero: umanizzare i carceri e renderli luoghi di legalità e di diritto istituzionale. In questo modo molti detenuti preferirebbero vivere che morire. Brescia: i Sindacati di Polpen; chiudere il carcere di Canton Mombello, è affollato e fatiscente Brescia Oggi, 22 marzo 2011 Chiudere Canton Mombello. Lo chiedono, con una richiesta scritta indirizzata al prefetto di Brescia Livia Narcisa Brassesco Pace, i sindacati, a causa del “grave sovraffollamento, alle pessime condizioni di detenzione dei detenuti, alla gravissima carenza strutturale”. La preoccupazione delle organizzazioni sindacali (Fp Cgil, Cisl, Fns Uil Pen. Sappe Ugl Cnpp Osapp) è che “questi problemi si riverberano negativamente nei confronti dei lavoratori della Polizia Penitenziaria ma anche su tutto il sistema penitenziario bresciano” e chiedono al prefetto “un impegno concreto nei confronti del Governo, del Ministro della Giustizia e del Capo Dipartimento Dell’Amministrazione Penitenziaria affinché pongano in essere un progetto immediato per l’ampliamento del Carcere di Verziano e quindi la chiusura di Canton Mombello”. Nel pomeriggio di lunedì le sigle sindacali hanno incontrato il prefetto Brassesco Pace e hanno consegnato il documento con le richieste, affinché il rappresentante del Governo a Brescia si faccia latore delle istanze contenute. Appurato che, come riferiscono i sindacati, la casa circondariale di Brescia risale alla fine dell’Ottocento, e che la capienza prevista per questo Istituto si attesta a poco più di 200 unità, ma che, alla data odierna, conta circa 550 detenuti, con il provvedimento dell’indulto (approvato nell’agosto del 2006 ) “la situazione detentiva è migliorata temporaneamente, riproponendosi in breve l’esubero della popolazione carceraria”. “L’inadeguatezza della struttura e il pregiudizio alle condizioni di vita dei reclusi hanno reso ormai impellente la ricerca di una soluzione a questi problemi, individuata da più parti dai vari ministri della Giustizia, succedutisi nelle varie legislature, in visita all’Istituto penitenziario, dai vari politici di ogni livello nonché dall’attuale Amministrazione Comunale, nell’ampliamento del più moderno e funzionale carcere di Verziano”, scrivono i sindacati. “Negli anni”, si legge nel documento, “sono stati impiegati diversi milioni di euro in opere di ristrutturazioni che non renderanno mai quella struttura un istituto moderno con spazi di vivibilità per le persone che si trovano nello stato di privazione della libertà ma anche condizioni di lavoro migliori per tutti gli operatori. Tutti i fondi spesi per tale struttura, a nostro avviso, sono soldi dei contribuenti spesi male in quanto non raggiungono nessun obbiettivo se non quello di abbellire qualche facciata perimetrale”. “Le condizioni di detenzione disumane, dovute al sovraffollamento, sono state più volte denunciate dalle scriventi OO.SS.”, prosegue la lettera, “ma anche da altri attori della vita sociale bresciana, condizioni quest’ultime che portano sovente a vari eventi critici come risse, atti di autolesionismo se non addirittura a gesti estremi come il suicidio, ma portano anche ad un imbarbarimento di tutto il sistema carcerario”. Condizioni pesanti che si ripercuotono anche sul lavoro della Polizia Penitenziaria. “Siamo pienamente convinti”, scrivono i rappresentanti sindacali, “che la problematica suddetta è di difficile soluzione, che subisce gli effetti negativi delle scelte legislative delle carenze del sistema giudiziario e più in generale dalla politica per come affronta il tema della sicurezza sociale”. Nel testo viene anche citato l’art. 27 comma 3 della Carta Costituzionale il quale prevede che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato ai fini del reinserimento sociale”. Una situazione che, allo stato attuale, denunciano i sindacati, non permette nessuna rieducazione, “anzi si rischia che il carcere diventi una vera e propria palestra del crimine e che le condizioni di detenzione diventino una pena suppletiva per i detenuti, crediamo, inoltre, che ogni detenuto recuperato e reinserito nel tessuto sociale sia un delinquente in meno per la comunità” . Nel documento indirizzato al prefetto viene ricordata, con amarezza, anche l’esclusione di Brescia dal Piano carceri appena varato da Regione Lombardia, “È impensabile”, si legge, “che il Governo, ma ancor più il Ministro della Giustizia e il Capo del Dap, non prendano coscienza dello stato di emergenza endemico che il Personale di Polizia Penitenziaria ma anche della popolazione detenuta sta vivendo “pagando” delle scelte, a nostro avviso, insensate” le cui conseguenze potrebbero, denunciano i sindacati, “generare conseguenze negative anche sul cittadino”. “Da anni”, concludono le sigle sindacali, “le scriventi OO.SS. hanno sollecitato l’Amministrazione Penitenziaria ma anche la classe politica l’avvio di un progetto per la costruzione di un nuovo carcere senza aver avuto riscontro”. Bergamo: Idv; nella Casa Circodariale 540 detenuti, solo 4 fuori con la "svuota carceri" Ansa, 22 marzo 2011 Un giro per le carceri italiane per monitorare la situazione e per verificare i servizi offerti. Lo stanno fecendo i deputati dell'Idv Sergio Piffari e Ivan Rota che hanno visitato il complesso del Gleno e, prima ancora, il carcere di Brescia e Mantova. "Nonostante l'affollamento, i servizi sono garantiti - dicono - e la situazione è migliore rispetto alla struttura di Brescia e Mantova. Ora bisogna però tenere monitorati i tempi della realizzazione del nuovo padiglione. Oltre agli spazi sarà necessario anche garantite nuove attività e servizi". Poi una considerazione sul decreto di legge che consente la detenzione domiciliare per chi deve scontare condanne inferiori a un anno. Il provvedimento, definito svuota carceri per tamponare la situazione di sovraffollamento nei penitenziari, a Bergamo non ha riscosso molto successo, utilizzato a oggi solo per quattro casi su una popolazione carceraria di 540 detenuti. La legge è stata definita come un "provvedimento ponte" fino all'approvazione del piano Alfano per la costruzione di nuovi penitenziari e in attesa di una riforma della disciplina complessiva delle norme sulle misure alternative alla detenzione. Genova: rissa tra detenuti albanesi e tunisini al carcere Marassi, contusi e un ferito grave Il Velino, 22 marzo 2011 Ieri mattina, intorno alle 9.30, all’interno dei passeggi della II sezione del carcere genovese di Marassi, “per ragioni in corso di accertamento, è scoppiata una rissa che ha visto contrapposti detenuti di nazionalità tunisina a quelli di origine albanese”. Lo rende noto Fabio Pagani, segretario regionale Uil penitenziari della Liguria. “Le violenze sono state replicate, intorno alle 13.30 - prosegue il segretario, nel medesimo luogo e tra le stesse etnie”. Il bilancio è di “una decina di detenuti contusi e feriti lievemente ed un detenuto gravemente ferito al volto, praticamente sfigurato. Nell’occasione sono state usate armi rudimentali, tra cui alcune lamette. Questa ennesima rissa preoccupa soprattutto per i livelli di violenza e per le conseguenze che potrà generare - continua il segretario Uil - . È possibile, infatti, che nonostante la divisione fisica, con allocazione in sezioni diverse, i detenuti possano sfruttare altre occasioni per confrontarsi e fronteggiarsi con brutalità. E la polizia penitenziaria non ha i mezzi e le risorse per fronteggiare e contenere queste violenze”. “Ancora una volta - continua Pagani, siamo costretti a denunciare il grave sovrappopolamento di Marassi che conta 780 detenuti, a fronte dei 450 che sarebbe possibile ospitare in condizioni di normalità. Tra l’altro l’annunciato ripristino di un piano in prima sezione e di un altro piano in quarta sezione, porterà l’istituto, entro due mesi, ad ospitare circa 850 detenuti. Marassi - chiude preoccupato il segretario regionale - è ormai un inferno per il personale di polizia penitenziaria, che con professionalità riesce a limitare i danni e contenere la deriva violenta. Ma fino a quando sarà in condizione di farlo? È ora che i vertici dipartimentali intervengano concretamente per fronteggiare l’emergenza, prima che accada qualche tragedia. A Marassi mancano 160 agenti penitenziari. Il personale in servizio è stanco, demotivato e sfiduciato. Nonostante questo continua ad assicurare i servizi con sacrifici e carichi di lavoro insostenibili. Ma non sarà sempre possibile. Di questo sia consapevole il Dap, perché siamo prossimi ad alzare bandiera bianca. E la resa della polizia penitenziaria di Marassi è la resa dello Stato alla protervia ed alla violenza criminale”. Cassinelli (Pdl): situazione Marassi insostenibile La situazione del carcere di Marassi è “critica da parecchio tempo”. Lo sostiene il deputato ligure del Pdl, Roberto Cassinelli, che ha presentato un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia per chiedere di ripristinare i livelli di tollerabilità e sicurezza. Le risse di ieri - aggiunge il parlamentare - sono solo l’ultimo caso di una situazione ormai critica. È palese che i provvedimenti presi fino ad oggi non sono serviti e non sono adeguati. Secondo Cassinelli, la situazione ormai è insostenibile. Il numero dei detenuti - sostiene - è aumentato del 50% rispetto al 2006, sono 1782 quelli rinchiusi oggi nelle sette carceri della nostra regione e solo il penitenziario di Marassi conta 780 detenuti, a fronte dei 450 che sarebbe possibile ospitare in condizioni di normalità. Da non sottovalutare, inoltre, la grave carenza di organico. La situazione fino ad ora non è degenerata - conclude Cassinelli - solo grazie alla grande professionalità dimostrata dagli agenti di Polizia penitenziaria che riescono a gestire situazioni spesso pericolose per l’incolumità loro ed anche dei detenuti. Rieti, Uil-Pa Penitenziari; contrari apertura Reparto G, possono arrivare altri 300 detenuti Dire, 22 marzo 2011 “La casa circondariale di Rieti, aperta nell’ottobre 2009 con 100 agenti di Polizia Penitenziaria per un solo reparto che poteva contenere circa 60 detenuti, oggi ne contiene oltre 100. Da domani la direzione del carcere ha stabilito l’apertura del reparto più grande, dove possono essere ubicati altri 300 detenuti”. È quanto si legge in una nota a firma di Daniele Nicastrini, segretario Uil-pa Penitenziari di Roma e Lazio. “La stessa direzione nell’incontro con le organizzazioni sindacali del 21 febbraio scorso, ha voluto precisare che tale apertura dovrebbe essere parziale per 150 detenuti - spiega il comunicato - in realtà tale apertura porterà inevitabilmente (per il più grande sovraffollamento della storia penitenziaria della Repubblica italiana) ad avere in breve tempo i livelli massimi di detenuti, ma rimanendo con solo i 100 agenti distribuiti su tre turni più uno destinato al rispetto dei diritti contrattuali”. Per questi motivi la Uil-pa Penitenziari, “dopo aver chiesto al Dap di sospendere tale apertura e aver avuto rassicurazioni dal vicecapo, Emilio Di Somma, dobbiamo prendere atto negativamente che questa promessa non sarà mantenuta e quindi la città di Rieti si ritroverà entro breve tempo con tanti detenuti che nella sua storia non ha mai avuto e con pochi agenti penitenziari, insufficienti a garantire sicurezza al suo interno”, continua la nota. Messina: la scuola entra nel carcere; gli studenti incontrano operatori penitenziari e detenuti Gazzetta del Sud, 22 marzo 2011 Legalità, sicurezza, libertà. Elementi fondamentali per la società e il singolo individuo, che vanno difesi e promossi, puntando non solo sull’opera di prevenzione sul territorio, ma anche sull’educazione dei giovani al rispetto delle regole. Un messaggio che l’Istituto tecnico Minutoli ha deciso di lanciare attraverso il progetto “Il carcere va a scuola - La scuola va in carcere”. L’iniziativa comprende alcuni incontri volti a far comprendere agli studenti la gravità e le conseguenze dei reati, purtroppo sempre più diffusi anche tra gli stessi ragazzi, e per dar loro una conoscenza diretta della realtà penitenziaria, nella fattispecie della Casa circondariale di Gazzi. Struttura detentiva in cui lo stesso Minutoli è presente con tre classi nella sezione di alta sicurezza. Il primo di questi incontri si è svolto ieri all’istituto di Fondo Fucile, occasione in cui sono state le istituzioni a far visita agli studenti (la prossima volta saranno invece i ragazzi a recarsi a Gazzi). Ad intervenire, infatti, sono stati il direttore della Casa circondariale, Calogero Tessitore, il comandante della Polizia penitenziaria Antonella Machì, il magistrato Maria Pellegrino e il dirigente dell’Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico, il vicequestore Carmelo Castrogiovanni. Hanno partecipato inoltre il preside del Minutoli, il prof. Pietro La Tona, e la prof. Giuseppa Lupo, coordinatrice del progetto. Ai ragazzi sono state illustrate innanzitutto le attività di controllo che vengono quotidianamente messe in campo dalla Polizia, impegnata anche in un’importante opera educativa nelle scuole. Ma oltre a questa essenziale azione di prevenzione, ampio spazio è stato dato alle altre fasi della lotta dello Stato all’illegalità: la repressione dei crimini, prendendo principalmente in considerazione reati che vedono protagonisti i giovanissimi, e la misura detentiva. A proposito di quest’ultimo aspetto, è stato più volte sottolineato il significato di privazione della libertà e gli studenti sono stati esortati a considerare la fortuna dell’essere e pensare da persone libere. Il carcere, tuttavia, è anche opportunità di riscatto e la Casa circondariale di Gazzi, con circa 400 detenuti, offre diverse possibilità utili al reinserimento sociale: istruzione scolastica, formazione professionale e attività lavorative, esterne e al di fuori della struttura. A.S.C., un detenuto in semilibertà, di cui riportiamo solo le iniziali, ha dato ieri testimonianza di questo possibile percorso di rinascita. In carcere da 18 anni, adesso ha un lavoro e studia all’università: “In cella mi sono reso conto di non sapere nulla della realtà, vivevo nel mio mondo e non riuscivo ad esprimermi e dialogare con gli altri. Limiti che ho superato grazie alla scuola frequentata durante la detenzione - ha raccontato - , che mi ha fatto capire che potevo recuperare. Ragazzi - ha aggiunto A.S.C., rivolgendosi agli studenti - , ricordate che la scuola è libertà”. A conclusione dell’incontro, il preside La Tona ha voluto ricordare le vittime della mafia, sacrifici cui gli allievi hanno reso omaggio attraverso “Arcipelago della memoria”, un progetto per la legalità che sarà presentato oggi alla Provincia. Nuoro: droga e schede telefoniche a detenuti; 4 arresti tra cui 1 avvocato e 1 agente penitenziario Ansa, 22 marzo 2011 Un traffico di sostanze stupefacenti, denaro e di schede telefoniche che venivano cedute a detenuti in varie carceri italiane è stato scoperto dalla Procura della Repubblica di Nuoro che, al termine di alcuni mesi di indagini, ha fatto scattare un’operazione, ancora in corso che ha portato all’arresto di un avvocato di Perugia, di un poliziotto penitenziario e un detenuto a Nuoro e di una quarta persona nel Lazio. Secondo le poche informazioni trapelate dal palazzo di giustizia nuorese, le persone arrestate avrebbero fatto entrare negli istituti di pena droga e schede telefoniche. Il traffico sarebbe stato scoperto nel carcere Badu ‘e Carros di Nuoro, dove un detenuto è stato trovato in possesso di numerose schede sim. Le accuse mosse agli arrestati sarebbero quelle di concorso in corruzione, traffico di droga e detenzione di armi di genere proibito. È Stefano Bagianti l’avvocato di Perugia arrestato nell’ambito dell’inchiesta del pubblico ministero nuorese Luca Forteleoni su un presunto traffico di droga, cellulari e schede telefoniche che sarebbero state fornite a detenuti sottoposti a particolari misure di prevenzione a Badu ‘e Carros. Con l’avv. Bagianti sono stati arrestati il poliziotto penitenziario Pietro Puggioni, in servizio nel carcere nuorese, un detenuto a Badu ‘e Carros, Gianluca Di Giovanni, e Gianluca Peddio. Bagianti, Peddio e Di Giovanni devono rispondere di concorso continuato in corruzione, mentre l’agente carcerario di concorso in spaccio di droga. Secondo la ricostruzione dell’accusa, i quattro riuscivano a far entrare a Badu ‘e Carros droga, cellulari e schede telefoniche che venivano forniti a Gianluca Di Giovanni. Considerato il tenore di vita del poliziotto è partita dapprima un’indagine interna, poi coordinata dalla Procura della Repubblica di Nuoro, che è riuscita a ricostruire il traffico. Di Giovanni sarebbe stato trovato in possesso di una consistente somma di danaro che, sempre secondo la ricostruzione dell’accusa, aveva intenzione di reinvestire attraverso l’acquisto di pietre preziose. Questo con l’aiuto di altri due avvocati romani i cui studi professionali vengono perquisiti in questo momento nella capitale. Peddio che avrebbe procurato la droga si trova agli arresti domiciliari. In serata dovrebbero conoscersi ulteriori sviluppi su un’inchiesta che potrebbe riservare clamorosi colpi di scena. Varese: una mattina “fra i fornelli” per i detenuti e gli studenti delle scuole superiori Varese News, 22 marzo 2011 Studenti e detenuti cucinano insieme a Varese. Educazione alla legalità a partire dalla cucina. Continuano le iniziative della quarta edizione del progetto per la legalità che coinvolge la Casa Circondariale di Varese e alcune scuole superiori. Lunedì 21 marzo, per festeggiare l’arrivo della primavera, un gruppo di nove studenti di di Varese Isis Newton, Liceo Classico Cairoli e Istituto Maria Ausiliatrice sono entrati in cucina dell’Istituto per realizzare un laboratorio di cucina. È stata, secondo gli operatori del carcere e gli insegnanti (presenti: Maria Mongiello, Rosario Arcidiacono, Virgino Ambrosini, Sergio Preite, Adriana Bertoni, Suor Cinzia Milani, Gabriella Iannacone, Lorenzo Bassi) un’esperienza davvero interessante anche perché il confronto tra un gruppo di detenuti e i giovani studenti è avvenuto nel confronto su un’attività pratica. Sono state preparate insieme pizze, torte e panini per poi mangiarli insieme festeggiando la primavera. Una mattinata positiva che a detta degli stessi studenti ha presentato “delle persone e non dei mostri”. Non è stato difficile per i ragazzi capire che erano davanti a “persone che hanno sbagliato e che per questo stanno scontando la loro pena, ma che stanno dimostrando una grande voglia di riscatto. Si stanno preparando a tornare nella società”. Anche il gruppo dei detenuti ha valutato più che positivamente questa esperienza, infatti il “sentirsi considerati come delle persone, portatori di una dignità individuale può solo contribuire a ripartire con il sul piede giusto per rientrare in società. Chi ha sbagliato ed è stato giudicato sta pagando e vuole ricucire lo strappo con la comunità”. Questa esperienza è una tra le tante che compongono il progetto di educazione alla legalità promosso dalla Casa circondariale di Varese. La quarta edizione si articola su una serie di incontri interni ed esterni all’istituto coinvolgendo detenuti, personale del carcere, insegnanti, alunni e genitori. Insomma una comunità che in un momento nel quale la legalità sembra più uno slogan che un valore ha deciso di interrogarsi mettendoci del proprio. Lecce: la “Giornata della poesia” nel carcere, organizzata dai Club Unesco di Elena Riccardo www.iltaccoditalia.info, 22 marzo 2011 Presso la Casa Circondariale di Lecce si è tenuta la manifestazione per la “Giornata Mondiale della Poesia” - Poesia e Diritti Umani con i detenuti della Casa Circondariale di Lecce organizzata dai Club Unesco di Lecce e Bisceglie, dal Gruppo Euterpe 2010 e patrocinata da Regione Puglia - Presidenza del Consiglio, Città di Bisceglie, Comune di Lecce, Comune di Zollino, associazione Italoellenica di Lecce, l’associazione di volontariato carcerario “Comunità Speranza”. “Poiché le guerre nascono nelle menti degli uomini, è nelle menti degli uomini che devono essere costruite le difese della pace” (cit. Costituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura - Unesco). Con l’ascolto rigorosamente in piedi dell’inno di Mameli e con la lettura della frase di apertura della Costituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco) approvata il 16 novembre 1946 si è concluso l’intervento di Pina Catino, Presidente del Club Unesco di Bisceglie, durante la manifestazione per la “Giornata Mondiale della Poesia” - Poesia e Diritti Umani con i detenuti della Casa Circondariale di Lecce organizzata lunedì 21 marzo 2011 alle ore 16.00 presso la Casa Circondariale di Lecce. Un intervento che ha sottolineato il valore intrinseco alla realizzazione di tale evento all’interno di un contesto così particolare come la Casa Circondariale. Per la prima volta quest’anno, a Lecce così come in diverse parti del mondo, la Giornata Mondiale della Poesia, istituita dalla XXX Sessione della Conferenza Generale Unesco nel 1999 e celebrata per la prima volta il 21 marzo seguente, è stata organizzata in collaborazione con associazioni e istituzioni che si occupano a diversi livelli di diritti umani, importante ambito di intervento dell’Unesco. A Lecce le associazioni e le istituzioni che hanno curato, organizzato e patrocinato la manifestazione sono state diverse, a testimonianza della sensibilità esistente sul nostro territorio riguardo al tema della salvaguardia, tutela e riconoscimento dei diritti umani: la Regione Puglia - Presidenza del Consiglio, la Città di Bisceglie, il Comune di Lecce, il Comune di Zollino, l’associazione Italoellenica di Lecce, l’associazione di volontariato carcerario “Comunità Speranza”. Prima fra tutti la Casa Circondariale di Lecce che ha non solo aperto la sala teatro del proprio istituto alla manifestazione ma ha voluto creare una forte connessione tra poesia e vita detentiva invitando gli ospiti dell’istituto a scrivere componimenti. Testi che parlano di sofferenza, di privazione, parole attraverso le quali si libera la riflessione sulla propria condizione, quella ritrovata sensibilità introspettiva che solo l’arte è capace di esprimere. L’arte che sa arrivare fino in fondo ai pregiudizi, sradicarli e lasciare uno spazio vuoto da riempire con nuovi pensieri, valori, emozioni, quelli che sono alla base dell’edificazione di una società inclusiva e rispettosa delle diversità. Per la Casa Circondariale di Lecce l’evento si colloca tra le diverse strategie attuate per il rafforzamento dei percorsi di formazione all’interno dell’istituto. “I percorsi scolastici ed universitari sono sostenuti e favoriti all’interno di questo istituto” interviene la dott.ssa Anna Rosaria Piccinni direttore della Casa Circondariale di Lecce durante i saluti delle autorità. “Ciò ha portato, proprio in questi giorni, al conseguimento della laurea in Management finanziario da parte di un detenuto del circuito di Alta Sicurezza. Consapevoli di quanto siano importanti momenti di contatto con l’arte, la poesia e la scrittura nei percorsi di crescita e di evoluzione degli individui non potevamo che accogliere con entusiasmo l’invito rivoltoci dai Club Unesco di Lecce e Bisceglie e dal Gruppo Euterpe 2010”. Durante il suo intervento il Direttore della Casa Circondariale di Lecce ha aggiunto che tutti i detenuti che hanno partecipato all’iniziativa con i propri componimenti riceveranno un premio speciale: un permesso di colloquio da trascorrere con la famiglia. “Questo” ha aggiunto la dott.ssa Piccinni, “allo scopo di facilitare lo scambio con parenti e, soprattutto, con i più piccoli, tra i primi a risentire della detenzione dei familiari”. A seguire l’intervento del Presidente del Club Unesco di Bisceglie Pina Catino, che ha ricordato come negli anni l’Unesco ha voluto dedicare la “Giornata Mondiale della Poesia” all’incontro tra le diverse forme della creatività, affrontando le sfide che la comunicazione e la cultura attraversano in questi anni. Tra le diverse forme di espressione, infatti, ogni società umana guarda all’antichissimo statuto dell’arte poetica come ad un luogo fondante della memoria, base di tutte le altre forme della creatività letteraria ed artistica. La data, che segna anche il primo giorno di primavera, riconosce all’espressione poetica un ruolo privilegiato nella promozione del dialogo e della comprensione interculturale, della diversità linguistica e culturale, della comunicazione e della Pace. L’Unesco, che si prefigge di diffondere Valori, Conoscenze e Stili di Vita orientati al rispetto del bene comune nonché a valorizzare il ruolo dell’Educazione nella diffusione di Valori e competenze, ha voluto per questo motivo dedicare la giornata all’incontro tra le diverse forme di creatività. La musica, il teatro, la poesia: grazie alla collaborazione con il “Gruppo Euterpe 2010” diretto da Zaccaria Gallo, con il sottofondo delle canzoni di De Andrè, la manifestazione ha così offerto l’opportunità di far interagire i detenuti con esperti in espressione poetica e teatrale, allo scopo di contribuire a ridurre il divario tra l’esistente e l’auspicabile. A declamare i componimenti poetici dei detenuti gli stessi autori coadiuvati dal gruppo con le voci recitanti di Felice Altomare, Natale Buonarrota, Enzo Ciani, Lucrezia Dell’Olio, Sabino de Tullio, Elisabetta Mastrototaro, Rosa Maria Murolo, Antonio Todisco ed i musicisti Andrea Gallo, Vittorio Gallo, Gino Portoghese, Enzo Russo (Uto) e Maurizio Vurchio. A chiusura della parte dedicata ai saluti e ai ringraziamenti delle autorità le parole di Zaccaria Gallo, curatore artistico della manifestazione: “Dopo il freddo, il grigiore e l’isolamento dell’inverno con il primo giorno di primavera ritorna il calore, la rinascita, l’attesa. Inverni e primavere si susseguono in natura come nell’esistenza umana. Alla poesia la funzione chiave di aprire la mente al calore di una nuova stagione di vita e speranza”. E le note di De Andrè insinuatesi dolcemente tra i blocchi e tra le sbarre. Droghe: i Radicali; detenalizzare la coltivazione di cannabis in casa Ansa, 22 marzo 2011 Se vieni scoperto con pochi grammi di marijuana in tasca, subisci solo le sanzioni amministrative (ritiro della patente, sequestro del veicolo, obbligo di cura, etc.); se coltivi una piantina di cannabis sul balcone di casa, rischi l'arresto e il processo e sei "marchiato" a vita. è da questa "contraddizione" che partono i Radicali e la neonata associazione Ascia (Associazione sensibilizzazione canapa autoprodotta) per chiedere l'equiparazione della coltivazione domestica al possesso di marijuana. "è uno dei tanti paradossi della legge Fini-Giovanardi" ha sottolineato Claudia Sterzi, segretaria dell'Associazione radicale antiproibizionista, che ha spiegato come "contrariamente a quanto sostiene il governo, non ci sono dati scientifici appurati che la marijuana provochi dipendenza". "Il sottosegretario Carlo Giovanardi e il capo del Dipartimento antidroga Giovanni Serpelloni - ha aggiunto - ci stanno bombardando di studi sulla pericolosita' della marijuana, ma spesso gli studi se li inventano o manipolano i dati. La cannabis è una delle sostanze meno tossiche al mondo, è l'unica che non provoca morti nè intossicati gravi". Giancarlo Cecconi, presidente dell'Ascia, ha raccontato la sua esperienza: arrestato insieme a sua moglie perchè nella loro casa le forze dell'ordine hanno trovato alcune piantine di cannabis, ha cercato di spiegare che servivano esclusivamente al loro consumo domestico ma entrambi hanno dovuto passare una notte in carcere e subire un processo. "Perchè dei cittadini onesti, fiscalmente irreprensibili, sani, ottimi genitori e coniugi, devono subire delle umiliazioni e ritrovarsi etichettati come criminali?" ha detto. L'Ascia ha elaborato un "Bollettino della guerra dello Stato contro la canapa" che parla di oltre mille arresti nel 2010 per piccolo spaccio di questa sostanza, e "ogni giorno c'è una media di 5-7 arresti". Ma la marijuana, sostiene Cecconi, "è usata in varie religioni, viene citata perfino nella Bibbia, e poi ci sono tante persone malate di patologie gravi che la usano per alleviare i sintomi". "Non vogliamo dire che la cannabis fa bene a tutti" ha precisato Claudia Sterzi. "A 14 anni - ha aggiunto Cecconi - fa male una canna così come fa male un bicchiere di vino o bere sei caffè". "Verso i consumatori di cannabis, che sono 4 milioni - ha concluso la deputata radicale Rita Bernardini - c'è un vero accanimento". Usa: detenuti su Facebook; la Carolina del Sud vuole rendere illegale l’aggiornamento dei profili Associated Press, 22 marzo 2011 Una nuova proposta di legge, presentata nella Carolina del Sud, potrebbe rendere illegale la pratica dell’aggiornamento dei profili di Facebook dal carcere. La proposta è stata presentata dal deputato democratico Wendell Gilliard, convinto che grazie al nuovo divieto potrebbero diminuire i casi di carcerati che gestiscono attività criminali durante la prigionia o che inviano minacce alle vittime che li hanno fatti arrestare e condannare. La nuova norma farebbe aumentare automaticamente di trenta giorni la pena detentiva per chi utilizza i social network. La legge propone anche di istituire un divieto per la pubblicazione di pagine a sostegno dei detenuti da parte di altre persone. Questo passaggio della proposta, dicono gli esperti, difficilmente sarà applicato perché è in contrasto con il diritto alla libertà di parola garantito dalle leggi statunitensi. “Sappiamo che i criminali dietro le sbarre usano questi strumenti come metodo di intimidazione. Le vite delle persone sono in pericolo. Inviano messaggi in codice attraverso i social network. Come possiamo starcene qui senza fare nulla?” ha spiegato Gilliard alla Associated Press. Ai detenuti è concesso di scambiare la corrispondenza con le persone al di fuori del carcere, ma i loro messaggi di posta vengono controllati a campione per evitare che organizzino altri crimini dalla prigione. Nei penitenziari federali le regole sono spesso più restrittive, specialmente sulla corrispondenza tramite posta elettronica. I destinatari dei messaggi, per esempio, devono dare anticipatamente il loro consenso e dichiarare di essere interessati a scambiarsi messaggi con il detenuto che li vuole contattare. L’utilizzo di telefoni cellulari e smartphone, introdotti illegalmente nelle prigioni, ha reso più difficile il controllo della corrispondenza dei detenuti. In alcuni casi l’utilizzo dei social network è palese: ci sono aggiornamenti di stato, messaggi sulle bacheche e commenti sui profili degli altri che testimoniano l’utilizzo non consentito dei cellulari. In altri casi, invece, la pratica è meno evidente e chi aggiorna i social network usa nomi fasulli e messaggi in codice per non essere identificato. La proposta di Gilliard ha raccolto molti consensi nella Carolina del Sud ed è sostenuta anche dal presidente della Camera dello Stato, un repubblicano. Nonostante il sostegno di molti deputati, non è ancora chiaro se la legge avrà i numeri per essere approvata. Proposte di legge simili, ma tese a rendere più difficile l’uso dei cellulari in carcere, sono naufragate nel corso degli ultimi anni a causa della loro incompatibilità con la Costituzione. Angola: le carceri diventano poli per lo sviluppo agricolo Agi, 22 marzo 2011 Il ministero dell’Interno dell’Angola ha ipotizzato la realizzazione di poli di sviluppo agricolo all’interno delle carceri nazionali. L’annuncio è stato fatto dal viceministro per il sistema carcerario, Josè Bamuquina Zau, durante una visita nella prigione di Bentiaba, nella provincia del Namibe. Il progetto si inserisce nel piano ministeriale teso all’umanizzazione dei penitenziari attraverso la realizzazione di scuole, corsi di alfabetizzazione e formazione tecnico professionale per reinserimento sociale dei prigionieri. “Stiamo elaborando un piano”, ha spiegato il viceministro, “che permetterà di sviluppare, nelle migliori forme, le attività di rieducazione e inserimento dei prigionieri occupandoli con mansioni utili per sé e per gli altri. Israele: l’ex Presidente Katzav condannato a sette anni di carcere per stupro Ansa, 22 marzo 2011 L’ex Capo di stato di Israele Moshe Katzav è stato condannato a 7 anni di carcere per stupro. I tre giudici del tribunale distrettuale di Tel Aviv hanno inoltre comminato a Katzav due anni di detenzione con la condizionale ed una multa di 100 mila shekel, circa 20 mila euro. Katzav è stato trovato colpevole fra l’altro di aver violentato due volte una sua dipendente quando, alla fine degli anni Novanta, fungeva da ministro del turismo. Durante la lettura della sentenza, da parte del giudice George Kara, Katzav ha espresso ad alta voce alcuni commenti polemici. La drammatica seduta è stata trasmessa in diretta dalle televisioni israeliane, mentre attorno al tribunale di Tel Aviv sostava una folla di curiosi, fra cui esponenti di gruppi di femministe. Secondo alcuni commentatori è molto probabile che Katzav - che si professa innocente e vittima di un complotto - si appellerà adesso alla Corte Suprema. La sua detenzione dovrebbe avvenire solo fra alcune settimane.