Il carcere invisibile, quello femminile Il Mattino di Padova, 21 marzo 2011 Delle 67.615 persone detenute, presenti nelle carceri oggi, solo 2.951 sono donne: sono poche, e se ne parla davvero pochissimo. È come se le donne si portassero dentro, nella carcerazione, anche un peso doppio, quello dei sensi di colpa che sempre accompagnano una madre che ha dovuto lasciare i figli soli per le sue scelte sbagliate, e non sa farsene una ragione. Le testimonianze che seguono nascono nel carcere femminile della Giudecca, a partire da una riflessione: che in galera ci si può finire anche dopo anni di vita “regolare”, in cui mai neppure si immaginava che le vite a volte deragliano. Io ho chiuso il mio mondo in una cella Non avrei mai pensato che tutto questo potesse succedere a me, tutto avrei creduto, ma non questo. La mia esistenza a tutt’oggi non è mai stata rose e fiori; ho sempre dovuto lottare per riuscire a sopravvivere sin da piccola. Certo la mia strada non è stata facile da percorrere, ho sofferto, ho lottato con le unghie e con i denti, mi chiamavano la pantera nera perché non mi sono mai tirata indietro davanti alle ostilità della vita. Sono sempre stata sola, da un lato è stato un bene perché mi hanno maturata molto velocemente le esperienze negative, ma dall’altro mi hanno anche annientata. Sono andata in esaurimento, ero molto giovane, ed è stato un calvario, tra psicofarmaci e ospedali. Poi il miracolo, è arrivata mia figlia Elena, la mia salvezza. Grazie a quel piccolo fagottino ho ricominciato a vivere, ma non sono stata immune dalla sofferenza e dalla lotta giornaliera per la sopravvivenza di entrambe. Ho cresciuto mia figlia da sola anche andando contro il padre, perché era un uomo buono ma pieno di problemi e li sfogava con me, ma nonostante tutto ho superato anche questo. Gli anni passavano, lavoravo e vivevo solo per mia figlia, ma il destino aveva in serbo un’altra sorpresa per me, nella mia strada ha messo un uomo. Me ne sono innamorata e questo per me fu l’inizio della fine. Ero talmente presa da lui che non mi rendevo conto di ciò che mi stava succedendo. L’uomo che amavo e che mi diceva di amarmi, l’uomo che doveva proteggermi e rendermi felice, piano piano mi stava rovinando. Ho sbagliato, ne sono ben consapevole, ora con il senno del poi, ma mai e poi mai avrei pensato di finire in carcere, mai e poi mai avrei pensato che lui potesse farmi del male, ma me ne ha fatto e molto. Mi ha distrutta sia psicologicamente che economicamente, e però nonostante tutto mi ha dato la cosa più bella del mondo: mio figlio Matteo. Mai e poi mai avrei pensato che potesse approfittare dell’amore per mio figlio per farmi tanto male solo per il proprio interesse, visto che io ho sempre lavorato, portavo a casa i soldi e avevo una casa mia. Avevo un locale ed ero “una macchina per fare soldi”: a lui invece piaceva la bella vita. Ciò che mi fa più male è che ha giocato con i sentimenti di mio figlio, lui che è il padre. Io non posso odiarlo nonostante tutto, ma ora sono sola con i miei figli; stiamo affrontando anche questa ultima tappa. I miei figli sono ragazzi sani, hanno una casa, uno studia e l’altro lavora, mentre io ho chiuso il mio mondo in una cella. Lella Anch’io avrei detto: a me non succederà mai Anch’io avrei detto: a me non succederà mai. E invece la triste realtà del carcere la sto vivendo, purtroppo! E per arrivare a questa realtà devo andare indietro nel tempo, quando la mia vita non era scalfita da nessun turbamento. Avevo una famiglia, un lavoro sicuro, una casa e mai avrei detto che tutto si sarebbe sfasciato dopo un matrimonio durato 25 anni. In quegli anni felici, quando vedevo alla TV che venivano arrestate delle persone, dicevo a gran voce: Ben ti sta! Che buttino la chiave! Adesso dobbiamo pure mantenerli noi! Tutte affermazioni che penso in tanti fanno con convinzione! La mia vita dopo la separazione è cambiata totalmente, mi sono ritrovata con due figli e spese che crescevano giorno per giorno, per aumentare le entrate dovevo alzarmi alle tre del mattino per andare a lavorare nel panificio dove prima iniziavo alle sette e mezzo aprendo il negozio, e ora invece sfornavo e dividevo il pane per le nostre succursali, poi mi cambiavo e andavo in negozio a venderlo. Tutto questo per 10-12 ore al giorno per avere qualche soldo in più! Dopo un po’ di anni trascorsi così non ce la facevo più, non avevo più vita, e allora ho deciso di cambiare e da commessa di panificio sono diventata titolare di una impresa di pulizie. Sono stata fortunata, anche aiutata dalla mia forza di volontà, dal mio carattere espansivo, dalle tante persone che conoscevo, e la mia nuova occupazione procedeva nel migliore dei modi, però non si era risolto del tutto il problema finanziario, e così quando mi si è presentata un’offerta di fare la prestanome, avendo partita IVA, per un acquisto, ricevendo in cambio una modica cifra, ho detto di si! Chi l’avrebbe detto che mi sarei trovata a 46 anni narcotrafficante internazionale? Io non l’avrei mai detto. Era il 2006 quando mi arrestarono e da allora vivo in questa realtà. Mai avrei detto che mi poteva capitare di essere chiusa in una stanza con le sbarre alla finestra con una retina di ferro che mi fa vedere il cielo a quadratini, di essere circondata da ferro e cemento e non vedere per anni neanche un filo d’erba. Chi l’avrebbe mai detto che scrivere una lettera sarebbe stato l’unico mio mezzo di comunicazione con l’esterno? E che l’impotenza che subisci in questi posti sarebbe stata così grande? Se sei fortunata puoi comunicare telefonicamente con i tuoi cari 10 minuti a settimana, se trovi l’addetto al centralino “umano” la comunicazione si interrompe al momento giusto con i saluti, altrimenti ti avvisano che manca un minuto e mentre stai parlando senti un clic e la telefonata si chiude senza poter dire neppure ciao. Questa mia lunga carcerazione mi ha segnato tantissimo, mi ha fatto apprezzare cose che prima ritenevo futili. Quando mai avrei pensato che toccare un fiore, un filo d’erba, la terra, potesse darmi tanta gioia? Quando mai avrei pensato di sentire un dolore e tanta tristezza quando abbraccio i miei figli al momento del distacco perché il nostro colloquio è finito? A volte ho tanta rabbia dentro di me perché so di aver sbagliato. L’ho sempre ammesso, però credo di aver pagato già abbastanza! Vorrei solo far sapere a tante persone che la frase che prima dicevo anch’io, “Ben ti sta!” è meglio evitarla, perché la vita non si sa mai che cosa ti riserva. Mai dire: a me non può succedere mai. Elda Ho nascosto anche alla mia famiglia quello che facevo realmente All’età di 16 anni ero una ragazza molto vivace e molto ribelle, quasi tutte le ragazze di questa età frequentano una compagnia ed io frequentavo tante comitive della mia zona e da lì ho incominciato a seguire uno stile di vita diverso, cioè a rientrare tardi a casa, a fare i primi tiri di canna e a tirare cocaina, ma qui non do la colpa a nessuno perché l’ho voluto provare io! Nella fase della mia crescita ho avuto degli alti e bassi ed ho fatto sempre di testa mia! Per un periodo mi sono allontanata da tutto e tutti perché mi ero fidanzata, ma anche qui ho sofferto tanto per cinque anni; lui era troppo geloso e possessivo e molto morboso, e quando l’ho lasciato ho incominciato a frequentare le mie vecchie amicizie e fare quello che facevo prima. Vedendo loro non avrei mai immaginato che sarei finita a spacciare anch’io per avere il loro stesso tenore di vita e per potermi comperare tutto quello che desideravo. Ho nascosto anche alla mia famiglia quello che facevo realmente e mai loro si sarebbero immaginati da dove arrivavano i soldi che qualche volta davo a casa. Secondo me pensavano andasse tutto bene, e mai avrebbero detto che un giorno sarebbe arrivata la polizia per arrestarmi. In questi due anni di carcerazione ho capito molte cose: che niente ha un valore più grande della libertà e che non sono i miei piccoli sfizi che danno la felicità. Mai avrei pensato di dare una delusione ai miei familiari e però devo dire anche che non avrei neppure pensato che mi perdonassero standomi vicini per tutto questo tempo. Di una cosa sono sicura: che questa esperienza me la porterò con me per tutta la vita. E vorrei essere altrettanto sicura di non sbagliare più. Zulema Giustizia: Piano Carceri; i conti forniti non tornano, Alfano lo sa di Rita Bernardini (Deputata Radicale in Commissione Giustizia) Il Manifesto, 21 marzo 2011 Il Ministro della Giustizia Angelino Alfano continua a sbandierare in televisione i grandi successi riportati sul fronte delle carceri senza aver dovuto far ricorso a provvedimenti di clemenza. E, per il futuro, preannuncia altri grandi successi con il cosiddetto “piano carceri” che con l’iperbolico stanziamento di 670 milioni produrrà nel giro di un paio di anni 9.700 posti in più nelle patrie galere, per un costo di 70.000 euro a posto letto. Fatto sta che adesso di posti ne mancano 23.000 e la popolazione detenuta è destinata ad aumentare perché anche con la legge n. 199, svuotata dei suoi buoni contenuti iniziali che noi radicali abbiamo sollecitato e sostenuto, le carceri continuano a riempirsi, seppure a ritmo meno incalzante che nel passato. Questi conti il ministro li conosce, così come sa perfettamente che mancando già oggi il personale di ogni tipo, non saprebbe chi mettere a governare i nuovi istituti. Poiché conosce i conti, si giustifica affermando che tutto si risolverebbe mandando i detenuti stranieri a scontare la pena nel loro paese. Ma nessuna giustificazione viene avanzata (cosa potrebbe dire il ministro?) di fronte allo stato di totale illegalità delle nostre patrie galere. Alfano si legga la sentenza della Corte Costituzionale tedesca che ha obbligato le autorità penitenziarie del Paese a rilasciare un detenuto qualora non siano in grado di assicurare una prigionia rispettosa dei diritti umani fondamentali. E in Germania non c’è sovraffollamento visto che i detenuti occupano il 90 per cento dello spazio a disposizione... in Italia siamo al 150 per cento. La realtà che noi radicali conosciamo bene andando costantemente a visitare le carceri è molto diversa. Tutta la comunità penitenziaria è sottoposta a un tale stress di costanti violazioni di elementari diritti umani che è ogni giorno di più al collasso. Agenti costretti a controllare da soli più sezioni di decine di detenuti i quali sono costretti a vivere in spazi così ristretti da sembrare polli allevati in batteria. Detenuti che nel 90 per cento dei casi non possono lavorare, studiare, svolgere attività trattamentali perché sono stati drasticamente tagliati i già carenti fondi a ciò destinati. Detenuti che non vengono curati, che in molti casi vivono lontani da figli, mogli e genitori; detenuti che nel 30 per cento dei casi sono tossicodipendenti e nel 20 per cento soffrono di patologie psichiatriche. Mentre trascorrono inesorabili i giorni con il loro triste carico di suicidi, morti improvvise, atti di autolesionismo, aggressioni, si costruiscono nuove carceri e, intanto, quelle già esistenti vanno in malora anche dal punto di vista strutturale perché anche il capitolo di spesa destinato alla manutenzione è stato ulteriormente decurtato. Quanto agli stranieri che il ministro invita “a farsi pagare vitto e alloggio dai loro paesi di origine”, continuano ad arrivarmi lettere di detenuti che documentano che questi “rimpatri”, nella realtà dei fatti, sono impediti proprio dalle istituzioni italiane. Solo pochi giorni fa un detenuto rumeno mi ha fatto sapere che da mesi aspetta di salire su un aereo, avendo completato tutte le pratiche necessarie per il trasferimento in base in alla Convenzione di Strasburgo: “Il magistrato di sorveglianza dice che la mia pratica è già pronta, ma non ci sono soldi per trasferirmi in Romania, il mio paese natale dove ci sono i miei figli che non vedo da 3 anni e 2 mesi per motivi economici e di lontananza”. E aggiunge: “Sono pronto a pagare subito le mie spese di trasferimento, perché perdendo tempo qui in Italia ho spese lo stesso per mantenere il mio regime carcerario”. Prima di accusare questi detenuti di rifiutare quello che è un loro diritto, il ministro dovrebbe sincerarsi che lo stesso diritto, rivendicato, sia rispettato. Magari distribuendo le risorse economiche sulla base delle priorità reali e non per provvedimenti spot, o “piani” di costruzione di nuove carceri che probabilmente rendono bene in televisione ma non risolvono il dramma della disumana (e incostituzionale) situazione delle carceri italiane. Giustizia: Opg; in 300 potrebbero uscire, ieri sera documentario shock in televisione Dire, 21 marzo 2011 Sono più di 300 in Italia i “dimissibili”, le persone che si trovano in un Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) pur avendo, spesso da anni, tutte le carte in regola per uscire. Alla fine del 2010 la commissione d’inchiesta del Senato sul Servizio sanitario nazionale ha contato all’interno degli Opg 376 dimissibili, di cui poi sono stati effettivamente dimessi solo 65, invece per altri 115 è stata disposta una proroga della pena, mentre 6 nel frattempo sono morti senza riuscire a mettere piede fuori da strutture fatiscenti fino all’inverosimile, come documentano le immagini girate nelle visite della commissione stessa e poi messe insieme in un documentario di cui un ampio stralcio di una ventina di minuti è stato trasmesso ieri sera dalla trasmissione di Rai Tre Presa diretta. Nei 6 Opg sparsi sul territorio nazionale, “sembra di essere rimasti fermi al 1930, ai tempi del codice Rocco e dei manicomi, come se la legge Basaglia non ci fosse mai stata”, dichiara il presidente della commissione Ignazio Marino. Immagini forti, che mostrano persone in evidente stato di abbandono, circondati dalla sporcizia ovunque, in condizioni igieniche inaccettabili, le pareti scrostate e piene di muffa, letti arrugginiti, cinghie di contenzione e latrine e attaccate ai fornelli. Persino letti e materassi con i buchi al centro, per lasciar cadere le deiezioni di persone legale per giorni senza poter andare in bagno. “In quelle condizioni potremmo ritrovarci anche noi se commettiamo reati anche bagattellari, e in quel momento veniamo considerati non in condizioni di intendere e di volere. E poi si rischia di non riuscire più ad uscire, senza essere nemmeno curati”, ha sottolineato Marino. Tra le storie raccolte dalla commissione nel tentativo di inquadrare i percorsi anomali che conducono a quel tipo di internamento, c’è un uomo che venticinque anni fa è andato davanti a una scuola vestito da donna, chi nel 1992 ha fatto una rapina da settemila lire in un’edicola fingendo di avere una pistola in tasca, chi è stato trasferito in Opg nonostante ci fosse una comunità disposta ad accoglierlo. “Nel documentario si vede un letto con il buco al centro per far cadere le urine e gli escrementi. Lì sopra abbiamo trovato un uomo nudo, legato non con delle cinghie ma con delle corde. Quel letto era tutto arrugginito per le decine di persone che negli anni ci erano state legale sopra”, racconta Marino, che a proposito delle proroghe infinite ha detto: “Siamo rimasti sconvolti quando abbiamo trovato i moduli prestampati e fotocopiati in cui la proroga consisteva nel mettere la data nuova, senza nessuna certificazione reale delle condizioni per cui si stabilisce la proroga”. Tra le evidenze accertate dalla commissione anche il fatto che spesso in questi istituti mancano gli psichiatri ancora prima che delle cure per la malattia mentale: “Abbiamo trovato una tale condizione di solitudine e abbandono che è la negazione stessa della cura - ha dichiarato Daniele Bosone, relatore di minoranza dell’inchiesta - è indispensabile che l’aspetto sanitario prevalga su quello carcerario e si arrivi alla chiusura degli Opg”. Giustizia: Sappe; 39 i detenuti libici presenti in Italia, situazione è sotto controllo Ansa, 21 marzo 2011 “Non vi è alcuna segnalazione di intemperanza da parte dei detenuti libici detenuti in Italia, che sono per fortuna un numero contenuto - 39 alla data del 28 febbraio scorso. La Polizia Penitenziaria ha la situazione sotto controllo la situazione, ma credo sia altrettanto evidente ed inevitabile che l’Amministrazione Penitenziaria richiamerà ad una particolare attenzione gli Agenti del Corpo impiegati nella prima linea delle sezioni detentive. Baschi Azzurri della Penitenziaria, sia detto per inciso, che sono ancora in gravi carenze organiche”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione dei Baschi Azzurri. Capece sottolinea ancora una volta che, oltre alla situazione in Libia, a preoccupare sono anche le proteste in Egitto e negli altri Paesi africani: “Oltre alla Libia, l’inasprimento delle tensioni in Egitto, Tunisia ed Algeria potrebbe avere risvolti preoccupanti anche all’interno delle carceri italiane, considerati l’altissimo sovraffollamento delle celle e l’altrettanto elevato numero di detenuti stranieri, originari di quei Paesi. Detenuti che non riescono a contattare i propri familiari nei Paesi di origine e, quindi, sono inevitabilmente in apprensione e, quindi, più nervosi. Alla data del 28 febbraio scorso, nelle 208 carceri italiane erano ristretti 480 detenuti di nazionalità egiziana, ben 3.106 tunisini e 861 algerini. Oggi abbiamo in Italia ben 24.865 detenuti stranieri, il 40% circa dei quasi 70mila detenuti sono stranieri. Percentuale, questa, che in alcuni istituti del Nord arriva addirittura a raggiungere l’80% dei presenti. E questo accentua già, di per sé, le criticità con cui quotidianamente devono confrontarsi le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria. Le notizie in arrivo dai Paesi di origine possono essere un ulteriore grave elemento di tensione che devono essere costantemente monitorate dal Personale di Polizia Penitenziaria”. Lettere: l’ospedale psichiatrico giudiziario, una realtà dimenticata Ristretti Orizzonti, 21 marzo 2011 In merito agli ultimi articoli pubblicati sulla stampa sulle condizioni degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari si impongono alcune riflessioni. Sono una specialista che lavora, in qualità di psicologa, da oltre un decennio presso l’Opg di Montelupo Fiorentino, uno degli Istituti, oggetto d’indagine, da parte della Commissione d’inchiesta del Senato, presieduta dal Senatore Marino. Oggi si assiste ad un’attenzione mediatica verso questa realtà finora dimenticata e abbandonata da tutte le istituzioni. Ben vengano pertanto le commissioni di inchiesta, ben venga l’indignazione per le condizioni “disumane in cui vivono i pazienti degli Opg... “per gli “ambienti fatiscenti ed insalubri degli istituti” ma ciò che mi offende come cittadina e come curante è il silenzio e la cinica indifferenza che, negli anni, tutti gli orientamenti politici, senza distinzione di colore, hanno manifestato nei confronti di questa drammatica realtà. Noi operatori non siamo complici né conniventi di tale degrado, ma lo subiamo insieme ai nostri. Per una corretta informazione vorrei sottolineare che in questi anni di “rimozione collettiva”, abbiamo chiesto aiuto e segnalato, agli organi competenti, le condizioni fatiscenti dei reparti dove sono ospitati i pazienti e dove noi siamo costretti a lavorare. Dov’era il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Ministero della Giustizia quando abbiamo denunciato il sovraffollamento e il degrado della struttura? E che dire delle continue sottrazioni di stanziamenti economici? Nonostante le condizioni avverse in cui ci troviamo ad operare, abbiamo sviluppato nel tempo una sorta di “resilienza” che ci ha consentito di garantire interventi terapeutici e riabilitativi, anche quando le risorse (umane e non) a nostra disposizione, erano al di sotto della soglia di tollerabilità. Solo facendo appello all’etica professionale e alla passione individuale è possibile avviare piani terapeutici che favoriscono la dimissione di un numero sempre più crescente di pazienti restituendoli al territorio di origine da cui sono stati espulsi. Dall’inchiesta emerge che un solo Opg supera la prova: il Nosocomio di Castiglione delle Stiviere, unico in Italia ad essere un Ospedale Civile, a tutti gli effetti, con personale sanitario e specialistico adeguato agli standard previsti e, con un budget doppio rispetto a quello riservato agli altri Opg! È ovvio ed è quasi imbarazzante affermarlo: “se si hanno a disposizione risorse adeguate e si adoperano per offrire servizi di qualità” tali strutture possono trasformarsi in veri luoghi di cura e di riabilitazione, così come prevede il mandato istituzionale. Oggi auspico che la commissione d’inchiesta, nel portare avanti questa indagine, non si limiti solo a rilevare le carenze e a scandalizzarsi, ma si adoperi concretamente nel restituire dignità ai pazienti e rispetto per chi ci lavora. Individui i veri responsabili di tale incuria ed abbandono ed abbia anche il coraggio di chiedere scusa innanzitutto ai pazienti, ai loro familiari e agli operatori per tutto ciò che la politica non ha fatto in questi ultimi trent’anni! E se il senatore Marino lamenta di passare notti insonni dopo essere “sceso nell’inferno degli Opg italiani” sappia che noi operatori quello inferno lo viviamo ogni giorno accanto ai nostri pazienti. Antonella Lettieri Consulente psicologa-psicoterapeuta c/o Ospedale Psichiatrico Giudiziario Montelupo Fiorentino Lettera aperta di una psicologa penitenziaria al Capo del Dap, Franco Ionta Ristretti Orizzonti, 21 marzo 2011 Al Capodipartimento del Ministero della Giustizia, dott. Franco Ionta. Egregio Dott Ionta, nel 2009 ho avuto il piacere di incontrarla presso il Provveditorato di Padova per discutere sull’annoso problema di noi psicologi penitenziari che svolgiamo il Servizio Osservazione e trattamento. Con l’attuazione del Dpcm 1 Aprile 2008 lo psicologo penitenziario che svolge le mansioni nel Servizio su menzionato non è transitato al Ssn per il mancato riconoscimento del Ruolo Sanitario svolto, a differenza dello Psicologo penitenziario in convenzione, che per anni ha svolto il suo lavoro presso il Servizio tossicodipendenze del Ministero della Giustizia. Dopo due anni sono ancora qui per esternare il mio, il nostro forte disagio, ricordo le Sue promesse: “non posso dirle nulla, ma mi occuperò di voi”. In questi anni la nostra posizione è diventata più fragile, il demansionamento è totale così come la squalifica e la perdita di identità professionale. Credo di poter affermare che nessuna categoria professionale ha subito un furto così ingente di professionalità ed immagine che ad essa si accompagna. Ridotte all’osso le nostre ore tanto da non essere in grado di svolgere le mansioni previste dall’O.P. e dalle circolari emanate dal Ministero della Giustizia riguardanti: l’Osservazione, le sintesi, le prevenzioni per il suicidio, il Servizio Accoglienza previsto nell’Istituto in cui opero. Inoltre, elemento cruciale, nella Casa di Reclusione di Padova abbiamo quasi 1000 detenuti, circa 200 tossicodipendenti, poco meno di 800 afferenti al trattamento ordinario di cui 120 detenuti in espiazione pena per violazione dell’art. 609 C.P. e reati connessi che necessitano ai sensi dell’ O. P. dell’Osservazione della personalità almeno per un anno, le ore residue disponibili sono solo 54 divise tra due professionisti. Da una lettera da Lei inviata come risposta ad una collega, un anno fa, si deduceva uno scenario rassicurante, infatti Lei stesso scriveva: “per quanto riguarda l’ attività di assistenza di natura psicologica, si fa presente che a seguito del Dpcm 1.4.2008 che ha reso operativo il transito della medicina penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale, tali funzioni sono comprese nelle competenze delle Aziende Sanitarie Locali. Anzi, a tale proposito, l’art. 3 comma 6 del suddetto Dpcm ha espressamente previsto una apposita convenzione sull’argomento tra la Direzione penitenziaria e l’Azienda Sanitaria locale, sebbene lo schema relativo a tale intesa non sia ancora approvato nelle sedi competenti. Comunque, codesta Direzione penitenziaria potrà sensibilizzare l’Azienda Sanitaria locale competente affinché valuti la possibilità di fornire tale prestazione in favore dei detenuti anche attraverso accordi con i singoli psicologi che hanno già maturato un’ampia esperienza e professionalità nell’ambito penitenziario”. Purtroppo, le Aziende Sanitarie Locali sono state sorde alle numerose richieste di attenzione da più parte pervenute, la mia tenacia non è riuscita a scalfire il muro di gomma della Dirigenza Sanitaria Patavina che a più riprese mi ha comunicato di non essere a conoscenza dell’esistenza del nostro servizio. Completamente estranea e distante è apparsa la centralizzata realtà politica regionale e i referenti nominati in qualità di responsabili carcere, a cui mi sono rivolta, hanno lanciato un messaggio che implicitamente voleva dire “ non vogliamo saperne”. La comunicazione differiva solo nel diverso garbo con cui la notizia mi veniva offerta. Con questa mia missiva desideravo sapere se il preannunciato schema relativo alla stipula di convenzioni d’intesa tra Direzione Penitenziaria e Aziende Sanitarie Locali, che dovrebbe predisporre apposite convenzioni con i singoli professionisti psicologi dell’Osservazione e Trattamento con provata esperienza, è stato formulato. In caso di risposta affermativa, sarebbe opportuno un Suo intervento al fine di una concreta operatività. Nel caso invece sia ancora in fase di elaborazione, La prego di garantire una omogeneità applicativa in campo nazionale, non lasciando che le singole realtà divorino i diritti di alcuni. Se viceversa si pensa che “sia passata troppa acqua sotto i ponti”, mi chiedo il perché di tanta disattenzione nei confronti di una intera categoria e la natura delle promesse disattese. Da anni l’oscillazione delle ore assegnate unita ad un persistente e snervante degrado e non riconoscimento delle reali prestazioni psicologiche - sanitarie sino ad ora svolte, lo stato di attesa e sfiducia che si respira costantemente e che proviene da ogni parte, inficia anche la pianificazione di un lavoro programmato al fine di garantire una qualità professionale e produttiva ultimamente estremamente compromessa. Noi psicologi, a fronte di un precariato mal retribuito e di un continuo svilimento del nostro operato professionale, Le chiediamo: con quale spirito possiamo lavorare e come potrà essere la nostra serenità interiore? Siamo in grado di svolgere il nostro lavoro con tranquillità? Personalmente ritengo che non ci sia lavoro senza speranza e non ci sia speranza senza crescita. Grazie dell’attenzione. Dott.ssa Giovanna Donzella Psicologa-Psicoterapeuta Servizio Osservazione e Trattamento C.R. Padova Liguria: 1.728 detenuti coinvolti in progetti per attività educative e sportive Ansa, 21 marzo 2011 Costruire un collegamento tra la prigione e la società esterna: è stato da maggio a dicembre 2010 in Liguria l’obiettivo del progetto “Un ponte fra carcere e territorio”, che ha permesso a 1.728 detenuti delle 7 carceri liguri di svolgere 27 diverse attività educative e sportive. I risultati del progetto sono stati presentati stamani a Genova dall’assessore alle Politiche Sociali della Regione Liguria Lorena Rambaudi, il provveditore regionale per l’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Salamone e il responsabile del progetto Giuliano Bellezza. Le 922 ore di corsi di joga, chitarra, percussioni, dj, scenografia, scuola calcio e pallavolo, corsi linguistici e per diventare arbitri sportivi, sono stati organizzati da Arci, Uisp e Acli, grazie al sostegno di Regione Liguria, Ministero della Giustizia e Provincia di Genova. Oltre 115.000 euro nel 2010 sono stati investiti nell’iniziativa, di cui 80.000 da parte della Regione Liguria. Nel 2011 altri 60.000 euro saranno investiti per accrescere le opportunità di socialità, gioco e cultura nelle carceri liguri. Pescara: detenuto di 35 anni si impicca in cella, 33esimo morto “di carcere” da inizio anno Il Messaggero, 21 marzo 2011 Mario Di Fonso aveva 35 anni e chi lo conosceva lo descrive come un bravo ragazzo, faceva il giostraio a Lanciano, alla fine dei Viali. Viveva con la madre, lo conoscevano tutti e molti gli volevano bene. Ieri mattina si è impiccato in carcere dove era finito per una storia di droga: ha legato alle sbarre della finestra le strisce ricavate da un lenzuolo e in pochi attimi è spirato. L’allarme è scattato intorno alle 11, il medico del penitenziario è intervenuto subito, nulla ha potuto l’equipe del 118, arrivata dopo qualche istante. L’ora precisa della morte si saprà solo con l’autopsia, già disposta dal Pm Silvia Santoro. In quella cella Di Fonso non era l’unico ospite, nessun detenuto ha questo “privilegio”. La domanda é: era solo nel momento in cui ha deciso di farla finita? I reclusi hanno la possibilità di uscire nel cortile per la cosiddetta ora d’aria che, a seconda degli istituti di pena, può ripetersi più volte al giorno e prolungarsi oltre i 60 minuti, generalmente al mattino va dalle 8,30 alle 11. Tuttavia c’è chi torna prima, c’è chi si addormenta, chi proprio non esce dalla cella come lo stesso Di Fonso. E naturalmente, più detenuti restano dentro, più numerosi devono essere gli agenti di custodia. Da Lanciano, dove fu arrestato il 21 ottobre nell’ambito dell’operazione “Prima Pagina” - maxi retata sullo spaccio in Val di Sangro - Di Fonso era arrivato a San Donato l’8 gennaio. Sono state aperte due inchieste, una penale e una amministrativa, interna, per escludere eventuale responsabilità di terzi. Attualmente i detenuti sono 240 per 200 posti disponibili, il 20 per cento in più rispetto alla capienza standard. La sovrappopolazione è determinata anche dal fatto che un padiglione è in ristrutturazione, i lavori finiranno entro la fine dell’anno. Dal 2007, anno dell’arrivo del direttore Franco Pettinelli, questo è il primo suicidio di un detenuto a San Donato. Tredici i casi in tutta Italia dall’inizio dell’anno, l’ultimo l’altro ieri nella casa circondariale di Reggio Calabria. Ne dà notizia il centro di documentazione “Ristretti orizzonti”, di Padova. Giulio Petrilli, responsabile Pd dipartimento diritti e garanzie, ricorda il primato dei suicidi delle carceri di Sulmona e Teramo e sottolinea come la Regione Abruzzo sia una delle poche a non aver istituito finora la figura del garante dei detenuti. Dramma della disperazione in cella (Il Centro, 21 marzo 2011) La disperazione è un lenzuolo bianco legato alle sbarre del letto. È l’aria che manca e la vita che si spegne con lo sguardo, l’ultimo, rivolto fuori, oltre la finestra della cella, terza sezione penale del carcere di San Donato. M.D.F., di Lanciano, ci stava da un mese. Ieri mattina ha scelto di farla finita mentre un compagno dormiva e gli altri due erano fuori per l’ora di passeggiata. Se n’è accorto poco prima di mezzogiorno un agente penitenziario durante uno dei tanti giri di ricognizione. Ma per il giovane, 36 anni a maggio, non c’era più nulla da fare. In carcere dalla fine dello scorso settembre per una vicenda di droga, a Pescara era arrivato un mese fa, trasferito dall’istituto penitenziario di Lanciano dove era stato coinvolto in una rissa tra detenuti. A Pescara, dopo la prima settimana in osservazione in una cella da solo, era stato spostato nella terza sezione giudiziaria, una sezione per detenuti comuni dove attualmente vivono in 75. Lui condivideva una cella con tre italiani. Proprio negli ultimi tempi aveva espresso la volontà di entrare in una comunità per il recupero di tossicodipendenti. Ma era in attesa dell’esito del processo, spostato dal 21 febbraio al prossimo 4 aprile. Un tempo relativamente breve, ma forse infinitamente lungo per chi non ce la fa più a stare sull’altalena tra il bene e il male, tra la vita e la droga. Perché è per la droga, conosciuta a 16 anni, che M.D.F. era stato più volte arrestato, l’ultima a settembre scorso. Una operazione (otto arresti) con cui la polizia di Lanciano aveva stroncato un traffico di stupefacenti che da Pescara e Giulianova finiva in Val di Sangro. Un giro d’affari, secondo gli investigatori, di circa 100mila euro a settimana, ma di cui ben poco avrebbe beneficiato il giovane lancianese, ritenuto solo una delle pedine più in basso utilizzata per custodire o cedere le dosi. Una vita sempre al bivio che negli ultimi tempi il giovane, proveniente da una famiglia di lavoratori, avrebbe iniziato a rinnegare. Fino a ieri, quando le sue intenzioni sono naufragate tragicamente. Una fine per la quale la sua famiglia, a Lanciano, non si dà pace. “Sono andata a trovarlo martedì”, racconta al telefono la moglie del fratello, “e stava malissimo. Mai visto in quelle condizioni. Se in un’ora ha detto dieci parole è troppo. Era più di un mese che non ci scriveva una lettera. Era appassionato del Grande fratello e non guardava più neanche la televisione. Mi ha detto “non esco più, sto sempre al letto”. Si era lasciato proprio andare. Ma come hanno fatto, in carcere, a non accorgersi che il ragazzo, sempre attivo, una roccia, due metri alto, che altre volte era stato detenuto senza mai abbattersi, era caduto in questa forma di depressione? Siamo una famiglia molto legata, non riusciamo a spiegarci una cosa del genere. Aspettiamo solo l’autopsia, lunedì, per capire”. Perché oltre al dolore, c’è il dubbio. “Forse”, va avanti la cognata affiancata dalla sorella del giovane, “aveva paura di restare in carcere a lungo, ma lunedì stesso mio marito, il fratello di cui si fidava ciecamente, era stato dall’avvocato. Il 4 ci sarebbe stato il processo, e il legale gli ha mandato a dire di non preoccuparsi, che tra meno di un mese stava fuori. Allora, cosa è successo? Ci hanno detto che è suicidio, ma come ha fatto a preparare tutto quel lenzuolo, ad arrampicarsi per legarlo, con un’altra persona che dormiva nella cella? Arrivati a questo punto vogliamo capire, qualche dubbio ce lo poniamo. Almeno finchè non sappiamo il risultato dell’autopsia”. E ancora: “Da due settimane gli avevano tolto il metadone, anche fisicamente non stava bene, ma proprio venerdì è arrivata la lettera che ha mandato alla madre dopo la mia visita di martedì: “Vi porto nel cuore”, le ha scritto, “ci rivediamo martedì. Non vedo l’ora di vedervi per riabbracciarvi tutti”“. Giulio Petrilli (Pd): in Abruzzo triste primato di suicidi nelle carceri “La nostra regione ha il triste primato dei suicidi nelle carceri: numerosi a Sulmona, poi segue Teramo, ma in tutte le carceri della regione si sono riscontrati suicidi di detenuti. Una triste contabilità, che dovrebbe far riflettere tutti su ciò che esse sono diventate: discariche umane, dove non vengono più rispettati i minimi diritti”. Così in una nota Giulio Petrilli, responsabile provinciale Pd dipartimento diritti e garanzie. Per Petrilli si tratta di “persone abbandonate lì, in spazi angusti e sovraffollati, senza assistenza sanitaria, senza più neanche le cose minime che prima venivano garantite, per esempio la carta igienica e il dentifricio. Il lavoro interno - spiega - ha avuto un taglio del 70 per cento, questo vuol dire che chi non ha i soldi che gli versano i familiari, vive senza nulla, neanche con l’aria, visto che in alcune celle si hanno a disposizione due, massimo tre metri quadri a persona”. “La privazione della libertà personale - aggiunge - è quindi accompagnata da una sofferenza indicibile, di ore che non passano mai e allora il suicidio per molti diventa una liberazione”. “Nella nostra regione - sostiene Petrilli - la disattenzione a questa problematica è talmente alta, che è una delle poche che non ha ancora istituito il garante regionale dei detenuti. Sul fronte sanitario potrebbe intervenire e potenziarlo, invece nulla. Non c’è stato mai in Consiglio regionale, un ordine del giorno per discutere del problema carceri in Abruzzo. Spero che ciò avvenga al più presto e le forze politiche e i consiglieri regionali decidano di affrontare seriamente il tema dei diritti dentro le carceri abruzzesi e protestare e stimolare il governo nazionale affinché faccia qualcosa”. “Voltaire - conclude l’esponente democrat - diceva che la civiltà di una nazione si riscontra dallo stato delle proprie carceri, le nostre iniziano a far invidia a quelle dei paesi più arretrati e dittatoriali”. Sulmona (Aq): maxi trasferimento; portati via solo i detenuti comuni e non gli internati Il Messaggero, 21 marzo 2011 È la più grossa operazione di “sgombero” finora registrata nelle carceri italiane: in via Lamaccio a Sulmona è partito così da qualche giorno il trasferimento di ben 130 detenuti, trasferimento che sarà ultimato in settimana. Di primo acchito potrebbe sembrare una buona notizia: finalmente un alleggerimento per la casa di reclusione peligna che da tempo soffre di sovraffollamento di detenuti e carenza di organico di polizia penitenziaria. Ma per i sindacati e la camera penale, l’operazione potrebbe nascondere ben altri fini, anche e soprattutto per il fatto che a giorni dovrebbe partire la costruzione del nuovo padiglione, destinato ad ospitare almeno duecento unità. Il sospetto nasce soprattutto dal fatto che ad essere trasferiti sono solo detenuti comuni, mentre l’alta sicurezza e gli internati continuano e restare dietro le sbarre di via Lamaccio. “Temiamo che l’obiettivo sia quello di trasformare Sulmona nella più grande casa lavoro d’Italia - commenta Mauro Nardella della Uil penitenziari - e senza lavoro e senza personale specializzato (a partire da quello medico) sarà impossibile gestire questo tipo di detenuti che presentano la più alta percentuale di atti autolesionistici e di problemi sanitari e psichici Ne risentirebbe anche la città e il comprensorio, perché gli internati, che non hanno pene definitive, tendono a stabilirsi sul territorio nel loro continuo entrare e uscire dal carcere. Vorremmo che qualcuno - continua Mauro Nardella - ci rassicurasse sul senso di questa operazione”. Dalla direzione di via Lamaccio, infatti, il sindacato ha ottenuto finora generiche risposte: “Ci hanno detto che questo trasferimento - conclude il rappresentante regionale della Uil penitenziari - è il frutto di una richiesta fatta in precedenza. Ma sappiamo che a seguito dei suicidi registrati in via Lamaccio, era stato chiesto di togliere proprio gli internati e non i detenuti comuni”. D’altro canto il carcere di Sulmona sta attivando una serie di progetti lavoro che potrebbero confermare la tendenza di una grande casa lavoro, a partire da quello che vede l’impiego dei detenuti nella coltivazione dell’aglio rosso di Sulmona. Parma: morì in cella dopo aver sniffato eroina. I legali: no all’archiviazione del caso di Georgia Azzali Gazzetta di Parma, 21 marzo 2011 Era già chiuso in cella quando sniffò l’ultima dose. Giuseppe Saladino morì su quella branda poco dopo aver messo piede in via Burla. Il supplemento di consulenza medico-legale richiesto dalla procura non lascia dubbi. Una dose d’eroina che molto probabilmente il ragazzo si portò in carcere quel 6 ottobre 2009 e che sfuggì alla perquisizione. Oppure, anche se l’ipotesi è parsa agli inquirenti meno fondata, una dose che qualcuno gli passò in cella. Comunque, un caso chiuso per la procura, che ha chiesto l’archiviazione del fascicolo. Una vicenda invece ancora tutta da esplorare, secondo i legali della famiglia, che nei giorni scorsi hanno depositato un’istanza di opposizione all’archiviazione. “Abbiamo chiesto un supplemento di indagini”, sottolinea Paolo Paglia, l’avvocato della sorella di Saladino che segue il caso insieme alla collega Letizia Tonoletti, legale della madre del ragazzo. “È certo, come è stato appurato dalla consulenza medico-legale, che il ragazzo ha assunto la droga in carcere, per cui - spiega Paglia - o non è stato perquisito bene al suo ingresso, oppure ha avuto modo di trovare la droga quando era già all’interno della struttura. In entrambi i casi potrebbero profilarsi delle negligenze da parte di chi doveva vigilare. Per questo abbiamo chiesto che si faccia un ulteriore approfondimento per accertare eventuali responsabilità”. Ma c’è anche una domanda, rileggendo gli atti, alla quale i difensori non sanno rispondere: se la droga è stata portata dall’esterno, che fine ha fatto la carta in cui era avvolta o il contenitore in cui poteva essere nascosta? “Non è mai stato trovato nulla - sottolinea Paglia - ma mi pare abbastanza improbabile che il ragazzo, dopo aver assunto la dose, si sia subito preoccupato di nascondere o distruggere l’involucro”. Uno degli interrogativi su quella sera. Uno dei punti da chiarire, secondo i difensori della famiglia, per ricostruire le ultime ore di vita di Saladino. Spetterà al gip decidere di mettere la parola fine sul caso, oppure aprire un altro capitolo dell’inchiesta. Nessuna opposizione, invece, da parte dei legali della famiglia alla richiesta di archiviazione presentata dalla procura per la fidanzata di Saladino, indagata perché in un primo tempo si era ipotizzato che avesse ceduto al ragazzo la dose fatale di eroina. “È verosimile che quel giorno siano andati insieme ad acquistare la droga - sottolinea Paglia - per questo riteniamo che l’archiviazione sia corretta”. Quel 6 ottobre, infatti, Saladino, che avrebbe dovuto rimanere in casa perché agli arresti domiciliari per furto, era uscito con la fidanzata. Poco meno di un’ora, ma tanto era bastato ai due per acquistare la droga. E a Saladino per essere rispedito in carcere. Verso le otto di sera, infatti, il ragazzo fu arrestato per evasione dai domiciliari. Durante la notte, secondo quanto aveva riferito il compagno di cella, Saladino non aveva manifestato alcun problema. Solo alle 6,45 il detenuto si era accorto che il ragazzo non respirava e aveva dato l’allarme. Sul corpo di Saladino non erano stati riscontrati segni di violenza. L’aveva ucciso l’eroina. Ma su quella morte non tutte le ombre si sarebbero dissolte. Massa: detenuto morì per una crisi respiratoria, medico condannato per omicidio colposo Il Tirreno, 21 marzo 2011 Un’assoluzione e una condanna per omicidio colposo. È finito così il processo d’appello a Genova che vedeva alla sbarra due medici accusati della morte di un detenuto nel carcere di via Pellegrini. Una vicenda accaduta il 2 settembre del 2003. Stando a quanto emerso uno dei due medici aveva somministrato un farmaco al detenuto che aveva problemi legati all’uso di stupefacenti. A distanza di diverse ore il collega gli aveva prescritto un tranquillante. Ma durante la notte il giovane moriva. Veniva aperta un’inchiesta e i due camici bianchi finivano sotto accusa per omicidio colposo. Nel tribunale di Massa, davanti al giudice delle udienze preliminari, col rito abbreviato erano stati condannati uno a sei mesi e l’altro a quattro mesi. In appello davanti alla corte di Genova il difensore di uno dei medici, l’avvocato Enzo Frediani, ha affermato che il suo cliente aveva prescritto al giovane detenuto un farmaco che nel giorno precedente gli era già stato somministrato in una comunità di recupero per tossicodipendenti dalla quale proveniva e che aveva necessità di quella cura che non gli aveva mai creato problemi. Il collega, difeso dall’avvocato Dino Del Giudice, gli aveva somministrato durante il giorno lo stesso farmaco che gli aveva dato tre mesi prima e che aveva creato al giovane problemi respiratori. Un episodio di cui il collega era all’oscuro. Campobasso: aperto nuovo padiglione detentivo con 50 posti Ansa, 21 marzo 2011 Nel carcere di Campobasso è stato aperto un nuovo padiglione che potrà contenere 50 detenuti. L’area, in origine era destinata a sezione femminile che è stata chiusa dal 2007. Per ottenere nuovi spazi sono stati spostati in un’altra ala il reparto di infermeria e quello destinato alle attività scolastiche. Con questa ristrutturazione la casa circondariale di Campobasso aumenta la propria capienza che, in base ai dati forniti dal Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), era di 121 detenuti. Milano: Pisapia; mi impegnerò per le carceri, 30 anni fa ci sono stato anch’io La Repubblica, 21 marzo 2011 Lo spunto è stata la visita che, ieri mattina, ha voluto fare “per rendersi conto di persona” del degrado “intollerabile” di San Vittore. “Una fotografia a tinte fosche - dice Giuliano Pisapia - che moralmente mi impone di impegnarmi su una questione sociale così importante”. Ed è dalle immagini di un carcere sovraffollato e senza spazi, che è partito il racconto del candidato sindaco di centrosinistra affidato al “diario elettorale” pubblicato sul suo sito e sul profilo Facebook (“San Vittore, un quartiere di Milano”, è il titolo). Riflessioni per ricordare il suo impegno, da ragazzo, come educatore al Beccaria, fino al lavoro come penalista e “parlamentare che ha visitato più carceri in Italia”. Ma che sono arrivate a toccare anche un capitolo doloroso del suo passato: “Perché so bene cosa significa stare dietro quelle sbarre. Ci sono passato anch’io”, scrive. L’esperienza risale a 30 fa, “quando ho pagato con quattro mesi e mezzo di carcere un errore giudiziario, riconosciuto da una sentenza passata in giudicato”. Pisapia fu “arrestato, innocente, per banda armata e concorso morale nel furto di un’autovettura”. Era il 1980 e, in un’operazione contro Prima linea, un pentito parlò del “figlio di un noto avvocato”. Tanto bastò. Per la prima accusa (banda armata) fu “prosciolto con formula piena nella fase istruttoria”. Giudicato e assolto anche per la seconda. Il reato di concorso morale in furto è stato coperto da amnistia, ma “i giudici mi hanno assolto nel merito, cosa possibile solo in quanto risultava evidente la mia innocenza”. “Nulla che già non si sappia”, premette. Eppure, come candidato, adesso ha voluto condividere quell’esperienza. La storia, narrata in prima persona, di una “vittima di un errore giudiziario”, dice. Se corre per Palazzo Marino, spiega, lo deve anche a chi ha conosciuto in carcere durante l’impegno di parlamentare e avvocato: “Mi hanno trasmesso la voglia di cambiamento, eguaglianza e libertà”. Genova: sovraffollamento e tagli condizionano le attività, i detenuti chiedono più lavoro Secolo XIX, 21 marzo 2011 Un vero e proprio ponte tra la vita nel carcere e la vita quotidiana, fuori dalla Casa circondariale. È “Un ponte tra carcere e territorio”, iniziativa partita nel 2010 e che prosegue quest’anno rivolgendosi ai detenuti dei sette carceri liguri. “Sette luoghi - spiega Giuliano Bellezza, responsabile Progetto Ponte - fortemente condizionati da tre elementi: sovraffollamento, tagli alle risorse, e riduzione personale di custodia”. “Il sovraffollamento fa sì che un detenuto passi circa 20 ore della sua giornata in una cella con altre 8 persone con letti a castello su tre file. I tagli fanno ridurre le opportunità concrete per avere una qualità della vita migliore dentro al carcere, professionalizzando il detenuto in vista del futuro. La riduzione del personale vuol dire che sono impossibili i trasferimenti in luoghi per effettuare corsi o partite di calcio. Tutti sono elementi preoccupanti che condizionano fortemente le associazioni come Acli, Arci e Uisp che con il carcere lavorano quotidianamente. Se manca uno di questi tre elementi per loro è difficile proseguire l’attività”. Nel carcere si svolgono sport e iniziative culturali, grazie soprattutto alla rete che si è costituita tra Regione Liguria, Provincia di Genova, Amministrazione penitenziaria e le direzioni delle sette carceri, assieme per realizzare attività che sembrano superflue ma che danno qualità di vita. “Vivere 24 ore in cella - conclude Bellezza - vuol dire vivere una situazione di sofferenza. Le attività possono dare una grande mano per stare meglio”. Il direttore del carcere: facciamo pulire il Bisagno ai detenuti “Facciamo scontare la pena ai detenuti in lavori socialmente utili come la pulizia del torrente Bisagno”. Lo ha proposto il direttore del carcere di Marassi Salvatore Mazzeo stamani a Genova a margine della presentazione del progetto “Un ponte fra carcere e territorio”. “Un’unica domanda, una sola, mi chiedono i detenuti ogni giorno: il lavoro - ha detto Mazzeo - senza lavoro, non c’è reinserimento sociale. Oggi la maggioranza dei detenuti che escono, rientra nel circuito della criminalità. L’Italia deve investire molto di più sull’amministrazione penitenziaria”. “A Marassi oggi ci sono una panetteria e una falegnameria utilissimi dove i detenuti possono imparare un mestiere - ha continuato Mazzeo - ma servirebbe di più, magari un laboratorio per fare l’idraulico o il tecnico. Senza lavoro i detenuti italiani non hanno futuro”. “Meglio fargli pulire il torrente Bisagno che tenerli in celle sovraffollate a far niente”, ha aggiunto. Bolzano: dalla Giunta provinciale1,5 mln per l’assistenza sanitaria ai detenuti Asca, 21 marzo 2011 La Giunta provinciale di Bolzano ha stimato in circa 1,5 milioni di euro la somma necessaria a finanziare l’assistenza sanitaria ai detenuti. Lo riferisce una nota della Provincia. La convenzione stipulata lo scorso dicembre fra la Provincia autonoma di Bolzano e il ministero della Giustizia prevede che le competenze in materia di assistenza sanitaria a detenuti ed internati negli istituti penitenziari e nelle strutture minorili passi dallo Stato alla Provincia, la quale dovrà farsi carico delle funzioni di assistenza e della decina di rapporti di lavoro del personale sanitario operante presso il carcere del capoluogo. Modena: due agenti feriti a morsi da un detenuto Ansa, 21 marzo 2011 Il colombiano arrestato per droga li ha aggrediti durante un controllo, rende noto il sindacato Sappe. Verifiche per escludere eventuali malattie infettive. Un detenuto colombiano, in carcere a Sant’Anna per droga, ha aggredito a morsi due agenti della polizia penitenziaria, che stavano compiendo controlli e operazioni previste dal regolamento penitenziario: uno è rimasto ferito alla mano, l’altro a una spalla. Entrambi sono stati medicati e hanno riportato ferite guaribili in tre giorni. Sono in corso accertamenti per escludere eventuali contagi di malattie infettive. Il fatto, accaduto sabato, è stato reso noto da Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria). “Continuano gli eventi critici in Emilia-Romagna - sottolinea Durante - dove negli ultimi giorni si sono verificate due aggressioni al carcere minorile di Bologna, un caso di tubercolosi di un agente della polizia penitenziaria a Parma, dove c’è stato anche il suicidio di un detenuto e, per ultimo, l’aggressione al carcere di Modena”. “Nel carcere di Modena - riferisce il Sappe - ci sono 417 detenuti, a fronte di una capienza di 200 posti. Gli stranieri sono circa il 65%, circa il 50% sono tossicodipendenti. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 168, mentre le piante organiche ne prevedono 228. E’ urgente inviare al più presto almeno 50 agenti per far fronte alle quotidiane esigenze di sicurezza della struttura penitenziaria, peraltro interessata dalla costruzione di un nuovo padiglione detentivo, previsto dal piano carceri” Roma: Ser.T. di Regina Coeli senza assistenti sociali, a causa blocco del turnover Dire, 21 marzo 2011 Dal mese di gennaio il Ser.T. di via dei Riari, che si occupa anche dell’assistenza ai detenuti alcolizzati e tossicodipendenti del carcere romano di Regina Coeli, è sprovvisto di assistenti sociali. Ciò a causa della mancata sostituzione, per il blocco del turn over, degli operatori pensionati e del mancato rinnovo dei contratti di collaborazione con alcuni professionisti esterni. È quanto denuncia in una nota il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. “Se la direzione della Asl Rm A non cambia idea, ci troviamo di fronte all’ennesimo duro colpo ai programmi di recupero sociale e sanitario dei detenuti - dice Marroni. Sono mesi che si parla di emergenza carceri e di sovraffollamento ma nella realtà si fa poco o nulla per invertire questa tendenza. Anzi, spesso sbandierando il problema della razionalizzazione delle spese, si finiscono per ridimensionare anche quelle esperienze previste dalla legge che, spesso, rappresentano la sola ancora di salvataggio per tanti disperati”. A quanto appreso dal garante, spiega il comunicato, con l’inizio del 2011 il commissario straordinario della Asl RmA, Camillo Riccioni, avrebbe deciso di non rinnovare il contratto ai tre assistenti sociali della cooperativa di servizi (Cir) che prestavano servizio due al Ser.T. di via dei Riari, uno all’interno di Regina Coeli. “Questo - spiega il garante - nonostante il budget per quest’anno consentisse di mantenere in servizio gli operatori a contratto. Invece, per coprire la carenza, è stato scelto di utilizzare un giorno a settimana un assistente sociale del IV distretto, dal canto suo oberato di lavoro; una scelta che sembra quasi sottolineare la non essenzialità del servizio sociale per il Ser.T.”. L’importanza della presenza degli assistenti sociali è sottolineata dal fatto che i detenuti con dipendenza da alcol o da droghe possono usufruire di programmi riabilitativi presso il loro Ser.T. di competenza in condizione di libertà, conclude la nota. All’interno della struttura, l’assistente sociale fa parte integrante dell’equipe multidisciplinare ed è centrale nel raccordo del servizio con l’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) e con il magistrato di sorveglianza. Parma: “Laboratorio Gioco”; 250 bambini in visita ai papà detenuti Redattore Sociale, 21 marzo 2011 Garantire pari dignità ai genitori detenuti; creare un ambiente favorevole ai bambini all’interno del carcere; favorire le visite dei figli ai padri. Gli obiettivi di “Laboratorio Gioco”. Promuovere le relazioni familiari e la genitorialità dei detenuti. Garantire condizioni di pari dignità ai genitori detenuti. Agevolare la visita da parte dei loro figli. È l’obiettivo di “Laboratorio Gioco”, progetto gestito dal Forum delle associazioni familiari con il sostegno del Comune (Agenzia per la famiglia) e a cui partecipano le Acli di Parma, il Forum Solidarietà, gli Istituti Penitenziari e l’associazione Per Ricominciare, che vuole favorire l’accoglienza in carcere dei famigliari dei detenuti, in particolare dei minori, durante lo svolgimento dei colloqui. Quella di Parma è la prima esperienza del genere in Italia all’interno di un carcere maschile (l’Istituto penitenziario di Parma ospita circa 490 detenuti). “Negli istituti penitenziari femminili esistono già strutture di questo tipo - spiega Alida Guatri, responsabile del Forum associazioni familiari che coordina il progetto - in quelle maschili invece no: l’obiettivo è favorire la ricostruzione dei legami familiari tra padri e figli”. Da agosto 2010 sono 250 i bambini che hanno fatto visita ai papà in carcere e hanno usufruito delle strutture di “Laboratorio Gioco”. “Da quando è attivo il laboratorio abbiamo monitorato le entrate - chiarisce Guatri - e ci siamo resi contro che sono aumentate grazie anche al passaparola: negli ultimi anni, invece, c’era stata una diminuzione”. Le ragioni sono molteplici: nel carcere vi sono detenuti di altre regioni e le famiglie non sempre riescono a spostarsi, tanto meno con i bambini, a volte poi hanno difficoltà a soggiornare in città, senza dimenticare che il carcere è un ambiente “difficile” e poco accogliente per i bambini o gli adolescenti. Negli spazi di Laboratorio Gioco (due stanze di circa 40 metri quadrati l’una, arredate con materiali di riciclo e in modo sobrio e un’area cortilizia), invece, i figli o i nipoti dei detenuti possono “attendere” il momento della visita o tornare mentre la madre è al colloquio. Le attività che possono svolgere al loro interno sono differenziate a seconda dell’età: possono condividere momenti di gioco, leggere storie, partecipare a laboratori creativi e socializzare. All’interno del Laboratorio operano 5 o 6 educatori e volontari dell’associazione Per Ricominciare. “Il Laboratorio Gioco va ad aggiungersi ad altri Laboratori Famiglia in città ed è un po’ il completamento tra il dentro e il fuori - afferma Guatri. Naturalmente non potrebbe funzionare senza l’aiuto della Polizia Penitenziaria che, nonostante la penuria di personale, dimostra una grande disponibilità nei confronti dei bambini”. Il “Laboratorio Gioco” è aperto tutto l’anno, i martedì e i venerdì dalle 8.30 alle 14.30 (15 ore alla settimana) e rientra nell’ambito del progetto “Laboratorio” che ha dato vita in città a tre Laboratori Famiglia (Al Portico, Oltretorrente, San Martino) e a 8 Laboratori Compiti in diversi quartieri cittadini. La novità del progetto sta nella modalità “laboratoriale”, nel “pensare e fare insieme” per promuovere politiche familiari innovative e far crescere una rete di solidarietà e un welfare sussidiario attorno alla famiglia. L’associazione Per Ricominciare, da diversi anni, si occupa di affiancare le famiglie all’esterno del carcere. Gestisce, inoltre, due case famiglia: il Focolare, che offre un servizio di accoglienza temporanea per famigliari non residenti e in condizioni di indigenza, e il Samaritano, che accoglie detenuti che fruiscono di licenze e permessi premiali, da soli o insieme ai famigliari. Libri: “Sotto uno stesso cielo”, di Donatella Polizzi Giornale di Sicilia, 21 marzo 2011 C’è chi scavalca per entrare in un carcere, piuttosto che per uscirne. Magari sperando di abbatterne le mura, con una macchina fotografica a tracolla. È “l’evasione al contrario” di Donatella Polizzi, artista catanese che ha realizzato un viaggio nel mondo penitenziario italiano e ora firma il libro di storie e immagini “Sotto uno stesso cielo” (Bonanno Editore, 68 pagine, 12 euro). Vincendo ataviche barriere sociali, anzi animata da una gran voglia di “contaminarsi”, Donatella Polizzi ha affidato alla sua penna e al suo scatto la descrizione di autentici giacimenti di umanità chiamati “Ucciardone”, “Opera”, “Bicocca”, “Sollicciano”, “Piazza Lanza”. Immediati e complessi al tempo stesso, i “bianco e nero” dell’autrice sono immagini che travolgono ogni convenzione descrivendo storie contenute in uno sguardo. Sono istantanee, d’altronde, anche le pagine scritte da Donatella Polizzi. Righe fulminanti, come il racconto di una detenuta: “Sono la seconda di cinque figli, la più maledetta, perché sono nata dopo che mio fratello era nato morto e perché sono femmina”. O il flash di un recluso: “Ho ucciso il mio usuraio. Cinque pugnalate e l’ho visto scivolare a terra. Lo portai in ospedale. Assurdo ma l’ho fatto. E poi l’arresto. E mia madre sul ciglio della strada che mi guardava e nei suoi occhi ho letto una domanda: “Chi ho creato?”. Non mi ha mai chiesto niente, lei”. Ha ragione Ferdinando Testa, lo psicanalista che nella sua prefazione a Sotto uno stesso cielo ha scritto: “Questo è un viaggio, come i veri viaggi dell’Anima, all’insegna dell’autenticità delle emozioni e dei vissuti”. Viaggio autentico, quello di Donatella Polizzi. Anche se il fotografo può selezionare oggetti e soggetti della propria ricerca, filtrando così la realtà, sono maledettamente vere e persino spietate le immagini di questo libro affollato di “poveracci”. Perché davvero le nostre carceri sono affollate da “poveracci”, come ha impietosamente sottolineato un altro catanese, Salvatore Aleo. Ordinario di Diritto penale, Aleo nel suo Criminologia e sistema penale (Cedam, 339 pagine, 27 euro) non a caso osserva: “In Italia, oggi, in carcere un terzo dei detenuti sono extracomunitari e un altro terzo sono tossicodipendenti... Non può certo dirsi, però, che un terzo dei delitti commessi sul nostro territorio nazionale siano opera degli extracomunitari e un altro terzo dei tossicodipendenti... Questi mi sembrano numeri di fallimento del sistema penale. Si pensi d’altronde al numero dei processi che si prescrivono. Non mi sembra un’esagerazione affermare che in carcere ci vanno soprattutto i poveracci e gli sfortunati”. Libri: “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”, di Ilaria Cavo Libero, 21 marzo 2011 In carcere da innocenti. Dal dj arrestato per un’intercettazione male interpretata al carabiniere infiltrato tra i pusher e accusato di spaccio. Marcello parla al telefono. Dice: “Vengo, prima passo a prendere Maria”. Si riferisce a un’amica che si chiama Maria, ma chi intercetta la conversazione si convince che stia parlando di marijuana. E, quando Marcello parla di “bibite”, pensa stia discutendo di dosi di stupefacenti. Peggio ancora quando informa un amico di stare trasportando delle “casse”: si tratta di altoparlanti per una serata musicale, ma chi intercetta collega la frase allo spaccio, immaginando che stia trasportando casse di droga. Per colpa di quelle telefonate, di quelle parole normalissime diventate segnali di colpevolezza, Marcello Maganuco ha passato due anni in galera. Prima nel carcere Malaspina di Caltanissetta, dove è entrato il 6 giugno 2001, poi ad Agrigento, da cui è uscito soltanto il 13 maggio 2003. Troppe assurdità Questa storia assurda di mala-giustizia la racconta Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. È contenuta, assieme a un’altra decina di simili situazioni, nel libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”, in uscita per Mondadori nei prossimi giorni. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Così come fa restare allibiti ciò che è capitato a Marcello Maganuco. Tutto succede perché i carabinieri di Gela, durante un’indagine su un traffico di droga in città, s’imbattono in una telefonata che G.M., presunto spacciatore, ha fatto a Marcello. Gli chiede un numero di telefono, quello di S.G., considerato dalle forze dell’ordine uno dei personaggi di spicco dell’organizzazione criminale su cui stanno indagando. Perché G.M. chiama Marcello? Perché Marcello lavora nelle discoteche, fa il deejay e il pr, incontra tantissima gente, organizza serate, trasferte in pullman, liste per entrare nei locali. Ha la sola responsabilità di conoscere due sospetti. Si limita a fornire un numero di cellulare, scandito cifra dopo cifra come emerge dall’intercettazione. Da quel momento, però, le sue parole al telefono sono ascoltate con attenzione e alcune conversazioni vengono considerate equivoche. Così Marcello viene arrestato e sconta due anni di custodia cautelare in attesa del processo. Che lo assolve da ogni accusa. Il suo calvario giudiziario, però, non è terminato. A causa della galera, Marcello - oltre a perdere due anni di vita - ha ritardato la maturità. Nei giorni dell’arresto avrebbe dovuto sostenere l’esame. A patto che entrasse in aula, davanti a tutti i compagni, con le manette ai polsi. L’umiliazione era troppo grande, ha rifiutato di sostenere il colloquio. Per guai come questi e per 24 mesi di ingiusta detenzione, ha chiesto un risarcimento allo Stato: 516 mila euro. I quali però non gli sono ancora stati riconosciuti. La prima volta li ha richiesti nel 2005, ma la Corte di appello di Caltanissetta glieli ha negati. Motivo? Se l’hanno tenuto due anni in gabbia per niente è colpa sua. Colpa delle telefonate “ambigue”, considerate un “comportamento gravemente colposo”. Dunque uno telefona e anche se sono gli investigatori a capire male, la responsabilità è tutta sua. Marcello ha fatto ricorso, nel febbraio 2009 la Corte di cassazione gli ha dato ragione. Ma niente: nel dicembre dello stesso anno la Corte d’appello di Caltanissetta si è opposta di nuovo il risarcimento. Contando che la sua trafila è iniziata nel 2001, Maganuco è in ballo da circa 9 anni. Nessun risarcimento Succede a quasi tutti i protagonisti del libro della Cavo. Finiscono in galera ingiustamente, qualche giudice riconosce gli errori dei suoi colleghi - dopo tempi d’attesa lunghissimi - ma poi lo Stato, per i motivi più vari, rifiuta di pagare dazio. Intanto, la vita di queste persone ne esce a pezzi. Altro caso stupefacente è quello di Carlo Rossi, geometra di Feltre. Lui ha scontato solo 4 giorni di carcere - comunque troppi, visto che immotivati - ma la sua vicenda processuale è durata dal 1995 al 2005, anno in cui è stato riconosciuto innocente. Vanno poi aggiunti ulteriori tre anni di visite al tribunale per farsi riconoscere un risarcimento, negato. Che ha fatto Carlo Rossi? Ha cercato di far risparmiare soldi alla Ulss (unità sanitaria locale) di Belluno, per la quale lavorava. “Con la fusione delle unità sanitarie locali di Agordo, Cadore e Belluno in un’unica Ulss, come responsabile dell’economato, mi sono reso conto che uno stesso prodotto (in questo caso le strisce per l’esame del diabete) veniva acquistato a prezzi differenti, a pochi chilometri di distanza”, spiega Rossi. Il quale decide di svolgere un’asta tra fornitori per abbassare il prezzo. E ci riesce: spunta una cifra che dimezza la spesa a carico della struttura sanitaria. Ad aggiudicarsi la fornitura è la ditta Boehringer, e qui cominciano i guai. M.S., referente commerciale dell’azienda, è intercettato mentre parla con Rossi di prezzi e offerte. Poi, mentre spiega ad altri di conoscerlo. Chi ascolta i nastri ne deduce che il geometra sia colpevole di abuso d’ufficio. O di corruzione (il capo d’imputazione viene cambiato tre volte, cosa che non favorisce certo la difesa). Non c’è traccia di soldi che provino la corruzione. L’azienda che Rossi avrebbe favorito ne risulta danneggiata - aveva già contratti a cifre molto più alte, non si capisce perché avrebbe dovuto farseli cancellare - e non si riscontrano reati. Eppure il geometra prima finisce dentro per quattro giorni. Poi deve affrontare un iter impressionante, fino ad essere scagionato. Dopo oltre dieci anni di caos, sapete che ha ottenuto Rossi? Un risarcimento? Macché. Una richiesta di 38 euro da pagare per i diritti di cancelleria da parte del Tribunale di Belluno. Altra storia allucinante è quella di Gian Mario Doneddu. Sessanta anni, maresciallo dei carabinieri, ha ottenuto notevoli riconoscimenti internazionali (uno pure dal generale Dalla Chiesa) dopo una sfolgorante carriera da infiltrato. Sembrava destinato a un grande successo professionale, finché nel 1997 viene condotto in carcere. Si trova all’estero, per un incarico prestigioso. Rientra immediatamente, dunque non c’è dubbio che voglia scappare, ma viene richiesta la custodia cautelare (poi revocata). Accade che un collaboratore di giustizia, 0 A, ex spacciatore, lo accusa di aver approfittato del suo ruolo di infiltrato per intascare droga. L’indagine riguarda vari colleghi, alcuni dei quali effettivamente colpevoli. Ma lui non c’entra. Viene coinvolto perché il suo nome è erroneamente inserito nel verbale d’interrogatorio del pentito. Una trascrizione sbagliata. Doneddu affronta un iter giudiziario durato 11 anni: nel 2009 viene scagionato. Gli serve un tempo infinito per dimostrare che non c’entrava, per ottenere le registrazioni degli interrogatori in cui il suo nome non compare e la sua posizione appare chiara: è innocente. Farà ricorso per chiedere un risarcimento, ma nel frattempo gli hanno stroncato la carriera. Leggendo le storie come la sua, e come le altre raccontate da Ilaria Cavo, viene da pensare una cosa sola: la riforma della giustizia è da fare. Subito. Immigrazione: rinvio alla Corte europea, sui rimpatri dei clandestini la parola all’Ue di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2011 La Corte di giustizia dell’Unione europea chiarisca l’interpretazione di diversi punti della direttiva Ue, approvata nel 2008, relativa a norme e procedure applicabili negli Stati membri per il rimpatrio di extracomunitari privi di permesso di soggiorno. È quanto chiede la prima sezione penale della Cassazione, che ha trasmesso gli atti alla Corte Ue, con procedura d’urgenza, perché vengano sciolti alcuni nodi normativi emersi nell’ambito di un processo a carico di un extracomunitario che non aveva ottemperato all’ordine di lasciare entro 5 giorni il territorio dello Stato. L’uomo, originario del Gabon, già condannato per una medesima violazione, era stato arrestato perché sorpreso ancora in Italia: la Corte d’appello di Torino gli aveva inflitto la condanna a 8 mesi di reclusione. Contro questo verdetto l’imputato si era rivolto alla Suprema Corte, chiedendo l’annullamento della condanna. Mentre il procuratore generale aveva sollecitato l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata “perché il fatto non sussiste”, la Cassazione, con la sentenza n. 11050 depositata ieri, ha domandato l’intervento dei giudici europei. Chiarimenti, in particolare, vengono chiesti in merito agli articoli 7, 8 e 15 della direttiva 115/2008, e cioè se questi devono “essere interpretati nel senso che è precluso allo Stato membro, invertendo le priorità e l’ordine procedurale indicato da tali norme, di intimare allo straniero irregolare di lasciare il territorio nazionale quando non è possibile dare corso all’allontanamento coattivo, immediato o previo trattenimento”. Inoltre, osservano i giudici, la Corte europea deve puntualizzare se l’articolo 15 della direttiva “deve essere interpretato nel senso che è precluso allo Stato membro fare conseguire alla ingiustificata mancanza di collaborazione dello straniero al rimpatrio volontario, e per questa sola ragione, la sua incriminazione a titolo di delitto e una sanzione detentiva (reclusione) quantitativamente superiore (fino a 10 volte) rispetto al già esaurito o oggettivamente impossibile trattenimento a fini di allontanamento”, e inoltre se “basta che lo Stato membro decida di configurare come reato la mancata cooperazione dello straniero al suo rimpatrio volontario perchè la direttiva non trovi applicazione”. Infine, la Cassazione chiede se alcuni articoli della direttiva siano “d’ostacolo alla sottoposizione dello straniero irregolare, per il quale non è oggettivamente possibile o non è più possibile il trattenimento, ad una spirale di intimidazioni al rimpatrio volontario e di restrizioni della libertà che dipendono da titoli di condanna per delitti di disobbedienza a tali intimidazioni” e se “conferiscano valore di regola ai principi che la restrizione della libertà ai fini del rimpatrio va considerata alla stregua di extrema ratio e che nessuna misura detentiva è giustificata se collegata a una procedura espulsiva in relazione alla quale non esiste alcuna prospettiva ragionevole di rimpatrio”. Immigrazione: Via Corelli, in cinque tentano il suicidio; nessuno di loro è in pericolo di vita Corriere della Sera, 21 marzo 2011 Ha afferrato un bottiglia di detersivo, ha iniziato a bere, si è sentito male. Era il tardo pomeriggio di sabato, in via Corelli, all’interno del Centro per l’identificazione e l’espulsione per immigrati clandestini. Altri due “reclusi” avrebbero tentato di fare la stessa cosa, poco dopo, senza ingerire però la sostanza, se non in dosi minime. Qualche ora dopo altri due immigrati hanno tentato di impiccarsi, uno in sala mensa, senza una reale volontà di uccidersi (sono i video delle telecamere di sicurezza interne a definire i contorni di un’azione che è sembrata molto più dimostrativa che reale). Poco dopo le due di notte infine un ragazzo egiziano è entrato in un bagno con un lenzuolo, se l’è stretto al collo, lo ha legato a una sbarra. I suoi compagni hanno chiamato i soccorsi. L’uomo è stato portato al Policlinico e tenuto in osservazione per un giorno, non è in pericolo di vita. A colpire è stata la sequenza di episodi concentrati tutti in poche ore. Anche se non sembrano collegati tra di loro, né studiati per una sorta di rivolta. “Al momento la situazione sembra abbastanza tranquilla - spiega Alberto Bruno, commissario provinciale della Croce rossa, che gestisce la struttura di via Corelli - non ci sono condizioni di grave agitazione rispetto al passato”. Quella di bere detersivo è un’abitudine per alcuni “detenuti”; capita non di rado, a volte succede anche con delle batterie. L’obiettivo è quello di essere trasportati in ospedale e poi, da lì, avere una speranza in più di fuggire. Il caso di due giorni fa sembra rientrare più in questo contesto che in un tentativo di suicidio vero e proprio. Una spiegazione che potrebbe valere anche per il primo dei due uomini che ha tentato di impiccarsi. Era in sala mensa con altri, si è sfilato il maglione e se lo è stretto al collo, allacciandolo poi a una sbarra. Le telecamere interne hanno ripreso la scena e prima della chiamata di soccorso si vedono altri immigrati scherzare con quello che poi avrebbe provato a impiccarsi. Un episodio che sembra quindi più un’azione di disturbo. Comunque distante dalle rivolte, almeno sei, che hanno agitato il Cie di via Corelli lo scorso anno e che sono in qualche caso servite per coprire qualche fuga. Sempre durante quelle rivolte, che a volte hanno portato a scontri con la polizia, ci sono stati pesanti danneggiamenti che per alcuni periodi hanno portato a ridurre la capienza della struttura. Più serio invece il tentativo di impiccarsi in bagno da parte del ragazzo egiziano nelle prime ore della notte. Anche qui sono stati altri “detenuti” a chiamare i soccorsi. Pare che il giovane avesse problemi di depressione. Rivolte, proteste e tentativi di fuga si sono moltiplicati da quando la legge ha alzato da 2 a 6 mesi il tempo massimo di “detenzione” all’interno dei Cie. Immigrazione: proteste nel Cie di Gradisca, fuggiti sei tunisini, feriti due militari Ansa, 21 marzo 2011 Sei immigrati di nazionalità tunisina sono riusciti a fuggire nella tarda serata di ieri dal Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Gradisca d’Isonzo, al culmine di una serie di episodi di intemperanze che hanno coinvolto 15 ospiti della struttura. Quattro immigrati magrebini sono saliti sul tetto del centro, nel tentativo di distogliere l’attenzione degli operatori, mentre altri tentavano la fuga. Nel corso del successivo tentativo di rivolta, due militari sono rimasti lievemente feriti. Otto immigrati sono stati successivamente arrestati per lesioni e resistenza a pubblico ufficiale e sono attualmente in carcere, a disposizione dell’autorità giudiziaria. Il Cie di Gradisca, attualmente oggetto di lavori di adeguamento alle norme di sicurezza, ospita complessivamente un centinaio di immigrati. Era dallo scorso 28 agosto che non si registravano episodi di fughe dalla struttura, seriamente danneggiata nelle passate settimane dal ripetersi di episodi di danneggiamento alle stanze adibite a dormitorio. Siria: proteste in piazza, arresti e scioperi della fame delle attiviste detenute Ansa, 21 marzo 2011 Hanno cominciato lo sciopero della fame dieci attiviste siriane arrestate mercoledì scorso durante un sit-in senza precedenti a Damasco. Lo riferisce l’Osservatorio nazionale per la difesa dei diritti umani siriano (Ondus). In un comunicato l’Ondus precisa che le dieci donne, tra cui spiccano i nomi delle attiviste Suhayr Atassi, Nisrin Hassan, Nahed Badawya, e di Leyla e Ruba Labwani parenti del detenuto Kamal Labwani, hanno cominciato oggi l’estrema forma di protesta per un periodo illimitato per protestare contro la repressione del regime baatista, al potere da quasi mezzo secolo. Le attiviste facevano parte mercoledì di un raduno di circa 150 persone, familiari di detenuti politici siriani. Oltre trenta partecipanti al sit-in erano stati arrestati e sono stati poi incriminati con l’accusa di “attentato all’immagine dello Stato”, “incitazione alla sedizione” e “minaccia della sicurezza della nazione”. L’avvio dello sciopero della fame delle attiviste giunge a dieci giorni dell’inizio della stessa forma di protesta da parte di altri dodici prigionieri politici, mentre la mobilitazione anti-regime assume oggi, per il secondo giorno consecutivo, dei tratti particolarmente violenti nella città meridionale di Daraa. Arresti a Damasco e altrove All’indomani di violenti scontri nel sud della Siria tra dimostranti anti-regime e forze di sicurezza, le organizzazioni locali per la difesa dei diritti umani denunciano stamani “gli arresti arbitrari” operati dalle autorità siriane a Damasco e in altre città del Paese. L’Organizzazione nazionale per la difesa dei diritti umani in Siria (Ondus) denuncia l’arresto arbitrario di undici persone avvenuto nei pressi della moschea degli Omayyadi venerdì scorso nella capitale, durante un raduno di decine di persone al termine della tradizionale preghiera comunitaria. Numerosi altri manifestanti sono stati arrestati lo stesso giorno anche a Banyas, città costiera di cui è originario l’ex vice presidente siriano Abd al Halim Khaddam, epurato dal regime nel dicembre 2005. 4 giovanissimi studenti arrestati, scrivevano slogan anti-regime Quattro giovani studenti siriani sono stati arrestati ne i pressi di Damasco per aver scritto slogan proibiti sui muri della loro aula scolastica. Lo denuncia stamani l’Organizzazione nazionale per la difesa dei diritti umani in Siria (Ondus). Dieci giorni fa sono stati arrestati quattro studenti della scuola Basel di Duma (sobborgo di Damasco, ndr) per aver scritto sui muri della loro classe slogan ostili al potere, afferma l’Ondus che precisa: gli studenti erano usciti dall’aula con i pugni alzati. Non si hanno intanto ancora conferme del rilascio, annunciato ieri dal governo di Damasco, dei circa 20 bambini, di età compresa tra gli otto e i dieci anni, arrestati alla fine di febbraio a Daraa, città 120 km a sud di Damasco e per gli ultimi tre giorni teatro dei violenti scontri tra manifestanti anti-regime e forze di sicurezza, perché sorpresi durante la ricreazione a scandire gli slogan delle rivolte in corso nel mondo arabo. Francia condanna violenze contro manifestanti La Francia esprime una dura condanna per le violenze contro i manifestanti in Siria ed esorta le autorità di Damasco a liberare tutti coloro che sono finiti in prigione per aver partecipato alle manifestazioni dei giorni scorsi. “La Francia condanna le violenze che hanno causato diversi morti e diversi feriti tra i manifestanti riuniti venerdì, sabato e domenica a Deraa”, in Siria, ha detto a Parigi il portavoce del ministero degli esteri francese, Bernard Valero, aggiungendo: “La Francia invita le autorità siriane a liberare tutte le persone detenute per aver partecipato alle manifestazioni, per loro opinioni, o per le loro azioni a favore della difesa dei diritti umani”.