Giustizia: un ergastolo certo, fulgido, definitivo… di Stefano Anastasia Terra, 1 marzo 2011 Nascosta sotto i fumi del solito balletto tra maggioranza e opposizione, la Camera dei deputati ne ha combinata un’altra delle sue. Giornali e Tg ne hanno parlato quasi solo per inneggiare o dileggiare Di Pietro che ha votato con la maggioranza e contro le opposizioni. Poco si è detto, come al solito, del merito del provvedimento così felicemente condiviso dallo schieramento berlusconiano e dalla sua più acerrima opposizione. Cosa mai avrà potuto causare una simile union sacrée? Ma un po’ di galera in più, ça va sans dire, nelle forme di un ergastolo certo, fulgido, auspicabilmente definitivo, mai più impedito dal sotterfugio del giudizio abbreviato... Il codice di procedura prevede che l’imputato che abbia chiesto il giudizio abbreviato e che sia passibile di condanna all’ergastolo è condannabile a trent’anni di reclusione; se gli sarebbe toccato anche l’isolamento diurno, gli basterà l’ergastolo. Si può sempre discutere dei patteggiamenti nel processo penale, se siano un bene (deflattivo) o un male (inquisitorio o opportunistico). Nel caso, il condannato - nella migliore delle ipotesi - si becca trent’anni, il massimo della pena temporale prevista nel nostro ordinamento. Ma trent’anni, in Italia, ormai non sono più sufficienti a punire un condannato per gravi reati, ed ecco allora che da destra e da sinistra arrivano proposte per cancellare questa permissiva eventualità. Sin dall’inizio della legislatura giacciono le simili proposte Lussana (Lega) e D’Antona (Pd) e altri. Sarebbero potute morire lì, e invece la prima legislatura dell’ultimo cinquantennio che non ha visto depositare neanche una proposta abolizionista dell’ergastolo, non si fa mancare l’esame e l’approvazione di una legge così sensibilmente patibolare. Ma la cosa più impressionante di questa perla parlamentare è l’iter: se ne avvia l’esame nel giugno scorso, con la relazione della stessa Lussana; poi la Commissione viene convocata in argomento per ben nove (9!) volte senza che nessuno chieda di parlare, fino a quando la Lega non impone il voto, prima in Commissione e poi in Assemblea. Al di là del merito, di questa tranquilla accettazione della pena perpetua, è impressionante vedere il Parlamento, le sue principali componenti politiche, i suoi singoli parlamentari, ridotti a un volontario, prolungato silenzio, fino a quando non siano costretti a schierarsi pro o contro il mazziere di turno. Se è questo il Parlamento, che ne è delle buone ragioni del regime democratico parlamentare? Giustizia: Cgil-Fp; fallisce la legge “svuota-carceri”, disattese tutte le aspettative Gazzetta del Sud, 1 marzo 2011 “Carceri: fallisce la legge svuota-carceri del ministro della Giustizia Angelino Alfano e disattese le aspettative anche sull’assunzione di nuovi agenti”. Carceri: 69 mila i detenuti. È emergenza umanitaria, mai così in 60 anni. Questi in sintesi i temi su cui si è soffermato il responsabile nazionale del comparto sicurezza Cgil-Fp Francesco Quinti ieri in una conferenza stampa con Domenico Reggina, segretario Cgil-Fp Calabria, per riferire come si sia arenata l’applicazione della legge Alfano per fare svuotare le carceri e presentata dal ministro per mitigare le criticità del sistema penitenziario. Per il sindacato invece si è tradotta in una fuoriuscita molto limitata di detenuti dalle strutture detentive, circa 1.100 a dispetto degli 8-9 mila più volte annunciati. “Un risultato magro”, ha sottolineato Quinti, “che si aggiunge alla beffa delle mancate 2 mila assunzioni più volte promesse ai poliziotti penitenziari, già oggi ridimensionate e ridotte a non più di 1.610, e sulla cui copertura finanziaria continuiamo ad avanzare dubbi molto seri”. In Calabria su 12 istituti penitenziari si ha un organico di 1.600 agenti di polizia penitenziaria. Ne servirebbero almeno altri 1.600. La situazione calabrese del sistema carcerario secondo il ministro Alfano, riferisce Quinti, è meno grave che nel resto del Paese. Dichiara il sindacalista: “Oggi siamo sempre più vicini alla terrificante soglia psicologica dei 70 mila detenuti, e nel frattempo nessun provvedimento incisivo è stato assunto sul fronte del personale e dei provvedimenti legislativi per migliorare la vita e il lavoro in stato di detenzione, a partire dal famoso Piano carcere e dai tre pilastri su cui questo avrebbe dovuto poggiare”. Fin qui, tutte le soluzioni indicate e proposte dal ministro Alfano si sono tradotte in un nulla di fatto. Un vero fallimento”. Ancora la Cgil: “Se il ministro vuole davvero sgombrare il campo da ogni dubbio, lo faccia cominciando a garantire che i contenuti della legge 199/2010 siano quanto prima osservati e coerentemente praticati. Poi convochi i sindacati e apra un dibattito serio su come affrontare realmente l’emergenza; metta da parte i toni trionfalistici e la propaganda e si rimbocchi le maniche insieme a noi per risolvere i problemi, senza semplificazioni e senza promettere miracoli”. Il Piano carceri prevedeva tre pilastri: edilizia penitenziaria, deflazione delle presenze in carcere, assunzione di 2 mila agenti. In questi mesi, mentre in carcere si continua a morire e si rischiano rivolte e fughe di massa, niente sul Piano dell’edilizia, che richiede circa 1,5 miliardi di euro, ha ricordato Quinti. Sul fronte delle assunzioni c’è una carenza di 6 mila agenti, a cui si aggiungeranno almeno 2.500 pensionamenti nei prossimi tre anni. Occorre un piano complessivo d’intervento, secondo la Cgil, in grado di incidere sulla drammatica situazione delle carceri e degli investimenti. Se a fronte di 69 mila detenuti ci sono 43.500 posti disponibili nelle carceri, si comprende come la situazione sia assai complessa e precaria. E come siano all’ordine del giorno la sicurezza, la vita nelle carceri, l’incolumità del personale e delle persone ristrette, i suicidi, i tentativi di fuga, sventati solo grazie alla professionalità del personale di polizia penitenziaria “Siamo all’emergenza umanitaria”, ha sottolineato Quinti, “e su questo terreno la politica dovrebbe mostrare serietà e capacità di azione”. Intanto sarà avviato, in Calabria un coordinamento regionale e sarà istituito un corso di formazione a cura della Cgil che provvederà anche a predisporre una legge ad hoc attraverso la proposta popolare. Giustizia: è partito il Piano-carceri… ma non porta da nessuna parte www.viaemilianet.it, 1 marzo 2011 Suono metallico di stoviglie contro le sbarre e urla di protesta. È stata questa l’accoglienza riservata al ministro della Giustizia Angelino Alfano dai detenuti del carcere di Piacenza. Ai reclusi di uno degli istituti più sovraffollati in Italia (424 presenze contro le 178 autorizzate, dati al 31.12.2010 ndr), non è parso vero di avere ospite il guardasigilli. La sua presenza era per la posa della prima pietra di un nuovo padiglione da 200 posti, prima tappa di quel piano-carceri del governo Berlusconi che dovrebbe portare a 9.150 nuovi posti in tutta Italia. Una goccia d’acqua nel mare del sovraffollamento in cui navigano attualmente le case circondariali. L’Emilia-Romagna è la regione col numero più alto di detenuti rispetto alla capienza che per legge dovrebbe essere rispettata (4.326 persone contro le 2.380 posti letto ufficialmente disponibili). Numeri che da soli fanno capire l’impossibilità da parte del ‘pianò di voltare pagina. “Il ministro Alfano si entusiasma per un ampliamento che darà i suoi esiti tra tre anni, esaurendone gli effetti in uno”. A parlare è Leo Beneduci, segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Osapp. Per chi nei carceri ci lavora quotidianamente è difficile credere ai proclami del governo. Oltre al problema dell’aumento della popolazione carceraria, ancora irrisolto è quello dell’insufficiente numero di agenti per gestire la situazione. In Emilia-Romagna all’appello ne mancano 650. E non molto rincuorante è stato per i sindacati di polizia sentire il ministro Alfano raccontare che “abbiamo sbloccato l’assunzione di 1.800 agenti”. Un numero che è da riferirsi a livello nazionale e che tenuto conto dei pensionamenti, finisce per non essere una gran panacea. Così che, a proposito di nuove carceri, non si sa se la futura iniezione di questi nuovi agenti potrà far funzionare anche quei padiglioni già pronti che da mesi aspettano di essere aperti ma che non vengono utilizzati per la mancanza di personale. È il caso delle strutture di Parma e di Rimini. Mentre a Piacenza si dava il via a una costruzione da 9,5 milioni di euro, a Bologna le sigle sindacali della polizia hanno protestato in prefettura per chiedere condizioni di lavoro sostenibili che non mettano a rischio l’incolumità degli agenti. “Assenza dei livelli minimi di sicurezza” e “assoluta invivibilità del penitenziario dovuta anche alle precarie condizioni igienico-sanitarie” sono le carenze denunciate al prefetto Tranfaglia e relative al carcere della Dozza, concepito per ospitare 500 persone mentre al momento ve ne sono 1200. “Carnaio” e “discarica sociale” sono i termini usati per sottolineare le condizioni alle quali si è arrivati. L’emergenza carceri in Emilia Romagna è anche sul tavolo della Corte europea dei diritti dell’uomo. A fare ricorso a Strasburgo per i disagi vissuti sono stati undici detenuti del penitenziario di Piacenza, dove esistono celle di tre metri quadrati, scarsamente illuminate e con docce senza acqua calda. Nel 2009 un caso simile ha visto condannato il governo italiano. Giustizia: Finocchiaro Pd); bene ddl su detenute madri in Senato la prossima settimana Agi, 1 marzo 2011 “È una buona notizia che arriverà in aula la prossima settimana, quella dell’8 marzo Festa della donna, la modifica della legge sulla tutela del rapporto tra detenute madri e i loro figli minori”. Lo ha detto la presidente dei senatori Pd, Anna Finocchiaro, al termine della Conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama. Un provvedimento, ha sottolineato, “a cui sono particolarmente legata perché è una mia legge, di cui mi sono occupata quando ero ministro. Poi - ha proseguito - c’è la mozione su donne e media a prima firma della senatrice Pd Vittoria Franco, che è un tema molto importante perché è stato al centro anche della manifestazione delle donne del 13 febbraio”. Giustizia: Sappe: nuova organizzazione del sistema penitenziario, basato su tre livelli  Comunicato stampa, 1 marzo 2011 “Il sovraffollamento delle strutture penitenziarie italiane è certamente un problema storico ed è un problema comune a molti Paesi europei, che hanno risolto il problema in maniera diversa. Caratteristiche uniche del nostro Paese sono il flusso e i periodi di permanenza in carcere. Ogni giorno entrano ed escono centinaia di persone dal carcere, un movimento che comporta uno stress enorme del sistema soprattutto in una fase, quella dell’accoglienza, che è la più delicata e la più difficile da gestire: questo quadro complesso è reso ancora più difficile dalle caratteristiche della popolazione ristretta, in gran parte costituita da stranieri, tossicodipendenti e da persone con problemi mentali. L’osservazione della tipologia dei detenuti che fanno ingresso in carcere e dei reati di cui sono accusati consente di affermare come il sistema della repressione penale colpisca prevalentemente la criminalità organizzata e le fasce deboli della popolazione: in effetti, il carcere è lo strumento che si usa per affrontare problemi che la società non è in grado di risolvere altrimenti”. È quanto ha affermato Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, intervenendo al Convegno “Un’altra idea di giustizia per un altro carcere” organizzato da Alleanza per l’Italia ed in corso di svolgimento presso la Sala delle Conferenze di Palazzo Marini a Roma. “Fino a qualche decennio fa” ha aggiunto “si era riusciti a portare al centro dei problemi della sicurezza e della giustizia il mondo delle carceri, avviando un profondo processo di riforma, coniugando sicurezza con ragionevolezza, con trattamento, con umanità. È giunta l’ora di ripensare la repressione penale mettendo da un lato i fatti ritenuti di un disvalore sociale di tale gravità da imporre una reazione dello Stato con la misura estrema che è il carcere: e dall’altro, anche mantenendo la rilevanza penale, indicare le condotte per le quali non è necessario il carcere: una opzione di questo tipo dovrebbe ridisegnare il sistema a partire dalle storture determinate dal doppio binario per i recidivi, dalle norme in materia di immigrazione e dalla individuazione delle risorse per affrontare il tema delle dipendenze e dei disturbi mentali fuori dal carcere. Si potrebbe quindi ipotizzare un nuovo sistema penitenziario articolato su tre livelli. Il primo, per i reati meno gravi con una pena detentiva non superiore ai 3 anni, caratterizzato da pene alternative al carcere, quale è l’istituto della “messa alla prova”. In proposito, non può sottacersi che la recente Legge 199\2010 non ha dato i risultati sperati, dal momento che ha interessato circa 1.000 detenuti. Il secondo livello è quello che riguarda le pene detentive superiori ai 3 anni, che inevitabilmente dovranno essere espiate in carcere, ma in istituti molto meno affollati per lo sgravio conseguente all’operatività del primo livello e per una notevole riduzione dell’utilizzo della custodia cautelare. Il terzo livello, infine, è quello della massima sicurezza, in cui il contenimento in carcere è l’obiettivo prioritario”. “Nell’ambito delle prospettive future” ha concluso il Sappe “occorre dunque che lo Stato, pur mantenendo la rilevanza penale, indichi le condotte per le quali non è necessario il carcere, ipotizzando sanzioni diverse, ridisegnando in un certo senso l’intero sistema. E la Polizia penitenziaria che riteniamo debba connotarsi sempre più come Polizia dell’esecuzione penale, oltreché di prevenzione e di sicurezza per i compiti istituzionali ad essa affidati dall’ordinamento, è sicuramente quella propriamente deputata al controllo dei soggetti ammessi alle misure alternative”. Giustizia: “La mia vita rubata dalla giustizia”, su Facebook messaggi dal e per il carcere Corriere del Mezzogiorno, 1 marzo 2011 Ciro tieni duro che tra un po’ è finita, dice lei. “Ho già fatto due anni e un mese - spiega lui - e devo ancora scontare tre anni e sei mesi, ma c’è gente che sta peggio di me. Posso solo augurargli di avere tanta forza e di non mollare mai”. Non sono messaggi via etere, né sms inviati col sistema delle dediche televisive, ma commenti lasciati dai detenuti e dai loro cari sulla bacheca on-line del gruppo di Facebook “La mia vita rubata dalla giustizia”. Ciro tieni duro - ripete lei, napoletana - ci vediamo martedì. Come M., sul gruppo web che registra complessivamente 30mila persone - le pagine sono due: la seconda si chiama “La mia vita rubata dalla giustizia 2” - molti altri napoletani. Buona parte dei post e dei commenti è scritta in dialetto napoletano, e all’apparenza si tratta del classico sistema di comunicazione fra parenti, amici e detenuti, al di fuori degli spazi previsti dai colloqui in carcere. Comunicazione, dunque, assolutamente vietata, messaggi clandestini che hanno già determinato la chiusura di alcune stazioni radio e qualche indagine sulle trasmissioni tv. Ma qui c’è di più. Sembrerebbe, infatti, che in questo caso siano gli stessi detenuti a parlare. Come ci riescano, non si sa. Almeno, non ancora. Ad ogni modo, se una donna dice a una persona detenuta “ci vediamo martedì”, “tieni duro”, e così via, è ipotizzabile che sul monitor di un altro computer, di un cellulare o chissà cosa, qualcun altro possa leggere il messaggio. Che la pagina sia assolutamente illegale, qualcuno l’ha già capito. Lo stesso creatore del gruppo, infatti, avverte gli utenti: “Mi è stata bloccata la pagina, vi aspetto su quest’altra” . Che si chiama, appunto, “La mia vita rubata dalla giustizia 2”: basta aggiungere un “2” per aggirare l’ostacolo. “A me mancano sette mesi e c’ho ancora da fare cause - scrive un utente sulla bacheca- A una guardia l’ho menata ed è stato troppo bello, ma dopo non vi dico. Ciao grandi, e onore a noi”. Non mancano, poi, le richieste di dediche ai detenuti. “Ciao - scrive un giovane napoletano. Riesci a fare un link da dedicare a mio padre che è già da due anni in galera? Rispondi, grazie. Sotto il link scrivi “by…”. Al posto dei puntini, ci sono il nome e il cognome del ragazzo che fa la dedica al papà carcerato. È un gruppo pubblico, accessibile a tutti, e i frequentatori sono per la stragrande maggioranza napoletani. Sul sito, infatti, si parla quasi esclusivamente in napoletano. In dialetto napoletano, il creatore del gruppo ha scritto soltanto venerdì scorso: “Senza un padre, manca la gioia in una casa”. Trentacinque, le persone che hanno cliccato su “mi piace”, undici i commenti. “Vi auguro un presto ritorno a casa - dice il creatore della pagina - Vi vogliamo sempre bene, non sarete mai da soli”. Le foto inserite nella gallery relativa al gruppo ritraggono tutte, manco a dirlo, uomini rinchiusi dietro le sbarre. “Non vedo l’ora che esci, vita mia”. È la dedica di una ragazza, che commenta il post intitolato, in un italiano perlomeno incerto: “Non abbandonare mai un carcerato perché hanno molto bisogno di un conforto morale, già hanno le loro giornatacce”. E si gioca anche a guardie e ladri, in un certo senso. A un iscritto che afferma: “No, chi ha sbagliato deve pagare, sempre”, una frequentatrice del gruppo risponde: “Caro Bruno... tu sei un poliziotto! Non potrai mai capire un carcerato! E non potrai mai provare i loro dolori!! Prova a rinchiuderti in un metro di stanza solo per una settimana, senza nessuno ma solo una piccola finestra che ti faccia prendere aria, una brandina e 4 mura! E voglio proprio vedere se ci resisti e se dopo dici chi sbaglia paga”. Lazio: il Garante; con tagli al budget si riducono orari di lavoro degli psicologi Il Velino, 1 marzo 2011 I tagli ai budget per il funzionamento delle carceri cominciano a produrre i loro primi, drammatici, effetti. Con una Circolare del 4 febbraio intitolata “Misure di razionalizzazione del servizio psicologico” il Prap del Lazio ha, infatti, annunciato alla direzione di Regina Coeli il taglio delle ore di servizio degli psicologi. Le stesse misure sono state annunciate in altre carceri della Regione. La denuncia è del Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni secondo cui la misura è grave soprattutto perché “il ritmo di crescita dei detenuti imporrebbe, invece, di rafforzare l’assistenza e l’osservazione psicologica per evitare casi drammatici come quello accaduto nei giorni scorsi nel carcere di Velletri. Occorre riflettere attentamente su un dato. In tutta Italia, al 15 febbraio scorso, c’erano già state 17 in carcere, fra cui nove suicidi e cinque decessi ancora da accertare”. Secondo i dati del Garante, a Regina Coeli le ore mensili dei sette psicologi della sezione Nuovi Giunti si sono ridotte a 24 (nel 2009 erano 40), mentre per l’Osservazione e il Trattamento ne sono rimaste dieci al mese. A Rebibbia N.C. il taglio mensile sarebbe di circa 80 ore mentre a Rebibbia Penale le ore mensili a disposizione degli psicologi passano da 77 a 56 per oltre 300 detenuti. Nel carcere di Velletri - dove nei giorni scorsi un detenuto si è suicidato - l’Unità operativa di psicologia penitenziaria, istituita dalla Asl nel 2009, non è mai stata resa operativa e per questo si occupa solo della prima accoglienza (26 ore settimanali). Attualmente in servizio ci sono cinque psicologi: il dirigente dell’Unità, una psicologa Asl a 38 ore settimanali transitata dall’amministrazione penitenziaria, due psicologi del Sert ed uno ex art. 80 dell’amministrazione penitenziaria. A questi si aggiungono due psichiatre sumaiste che garantiscono la presenza giornaliera ma che non riescono a vedere tutti i detenuti tanto che si sono create liste di attesa interne. L’area psicologica è scarsamente dotata di mezzi e di personale: la psicologa della Asl non ha un computer e non può utilizzare strumenti psicodiagnostici adeguati, utili per la valutazione della personalità. Al momento è una sola la psicologa che si occupa di sostegno e trattamento ai detenuti con un monte di 38 ore settimanali. A Velletri, su iniziativa del Garante, sta per partire un corso di meditazione yoga, “che - ha detto il Garante - può essere di aiuto ma non può superare le carenze di assistenza psicologica”. Ancora più grave la situazione nel carcere di Cassino che ospita una sezione riservate ai sex offenders (autori di crimini sessuali) poco meno di 40 ristretti. La norma dispone che, prima di poter usufruire di misure alternative al carcere, i detenuti accusati di reati sessuali siano sottoposti ad almeno un anno di trattamento e osservazione psicologica. A Cassino tale attività dovrebbe essere assicurata da una psicologa che, con 20 ore settimanali, dovrebbe gestire non solo i 40 sex offender, ma anche gli altri 200 e più reclusi comuni. “Dall’assistenza ai nuovi giunti alle relazioni necessarie per l’ottenimento delle misure alternative alla detenzione - ha concluso il Garante - sono numerosi i servizi a rischio a causa delle riduzioni di orario imposte agli psicologici dai tagli del ministero. In carcere lo psicologo svolge un lavoro cruciale da cui dipende la vita di moltissime persone, soprattutto quelle più fragili. Buona parte del lavoro di recupero e reintegro sociale di un detenuto dipendono da questo lavoro che, con le riduzioni di orario, viene ridimensionato e compromesso. È paradossale che, invece di incrementare, le ore di lavoro degli psicologi nelle carceri, si riducano in maniera così drastica arrivando a prefigurare un tempo medio mensile dedicato a ciascun detenuto addirittura inferiore agli attuali dodici minuti”. Liguria: Rosso (Pdl); necessario affrontare con urgenza il problema delle carceri Ansa, 1 marzo 2011 Sulla situazione delle carceri liguri il capogruppo del Pdl Matteo Rosso ha presentato tre interrogazioni urgenti per portare la questione anche sui tavoli della Regione. “Un modo per sostenere anche con interventi promossi a livello regionali gli operatori della Polizia penitenziaria che lavorano in difficili condizioni”. Rosso che fa sapere di aver ricevuto sollecitazioni direttamente dal Sappe, Sindacato Autonomo Polizia penitenziaria, con le sue interrogazioni chiede alla Giunta la realizzazione di alcune proposte “ l’istituzione presso la Regione di un nucleo di monitoraggio che tenga costanti rapporti con le direzioni delle Case Circondariali al fine di rilevare e prevenire l’insorgere di criticità, realizzare progetti formativi per il personale di Polizia Penitenziari finalizzati all’apprendimento delle lingue straniere e della patente europea di informativa, progetti già promossi dalla Giunta Biasotti”. “Ma ancora - continua Rosso - favorire intercedendo con le varie amministrazioni comunali l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata ed agevolata, in locazione, ai dipendenti della Polizia Penitenziaria, in quanto Personale impegnato e coinvolto nella lotta alla criminalità organizzata”. “Purtroppo però le condizioni in cui devono lavorare gli operatori penitenziari evidenziano gravi disagi nella vita quotidiana all’interno degli Istituti: dai problemi di carattere igienico - sanitario, alle stressanti e gravose condizioni di lavoro del personale di Polizia Penitenziaria che solo a Marassi quest’anno è stato oggetto di oltre 40 atti di aggressioni inaccettabili”. Il capogruppo poi fa sapere che è in preparazione un ordine del giorno, che verrà presentato nella prima seduta utile del consiglio regionale, per proporre il conferimento di un Pubblico Riconoscimento al Corpo della Polizia penitenziaria ed a tutte le forze del’ordine impegnate per la sicurezza sociale. Avellino: 39enne francese si impicca in cella, da inizio anno è il decimo detenuto suicida Adnkronos, 1 marzo 2011 “La notizia del suicidio, a mezzo impiccagione, posta in essere questa mattina intorno alle dieci da un detenuto presso la Casa Circondariale di Ariano Irpino (Avellino) è una ulteriore conferma della deriva di morte e violenza che ha irrimediabilmente imboccato il sistema penitenziario italiano”. Lo afferma, in una nota, il Segretario Generale della Uil-pa Penitenziari, Eugenio Sarno. “Il detenuto, E.I.P., che si è suicidato nella sua cella era di origine francese, proveniente da Marsiglia ed aveva 39 anni. Con quello odierno - sottolinea Sarno - salgono a dieci i detenuti suicidatisi nelle degradate celle in questo 2011. Si tratta, evidentemente, di una strage silenziosa che sembra toccare solo la sensibilità di pochi”. “È chiaro, infatti, che il silenzio istituzionale, sociale e politico che avvolge i dieci suicidi, i 150 tentati suicidi, le 29 vite strappate in extremis strappate alla morte per suicidio dagli agenti penitenziari, denota - accusa Sarno - una insensibilità ed una disattenzione che offendono non solo il senso civico ma anche la professionalità e l’impegno degli operatori penitenziari diuturnamente impegnati, con scarsi mezzi e risorse, a contrastare l’inciviltà e la disumanità delle condizioni detentive”. “Alla luce di quanto successo oggi trovano ancor più ragioni le innumerevoli iniziative di protesta proclamate su tutto il territorio nazionale dai sindacati della polizia penitenziaria. Non ci stancheremo, pertanto - prosegue Sarno - di chiedere al Ministro Alfano e al Governo Berlusconi un concreto impegno per risolvere le criticità che affogano l’universo penitenziario nel mare delle emergenze”. “Ancora una volta invito il Ministro Alfano e i Sottosegretari Caliendo e Casellati dall’astenersi da roboanti dichiarazioni in relazione allo stato degli istituti penitenziari, rispetto all’improbabile piano carceri e alle solo annunciate assunzioni in polizia penitenziaria. “I responsabili politici di Via Arenula rinuncino a qualche pasterella, a qualche taglio di nastro, e a qualche posa di prima pietra e si concentrino sulle soluzioni possibili. Non guasterebbe, infine, nemmeno un confronto con le rappresentanze sindacali che, attraverso la loro competenza, potrebbero fornire consulenze (gratuite) derivanti dalla diretta conoscenza di fatti, cose, persone e dinamiche”, conclude Sarno. Bari: detenuto brindisino morto in cella, il caso approda alla Camera Senza Colonne, 1 marzo 2011 La vicenda del detenuto brindisino deceduto nel carcere di Bari è finita sul tavolo del ministro della Giustizia e su quello del ministro della Salute. A farcelo finire è stato un gruppo di deputati capeggiato dall’onorevole dei radicali Elisabetta Zamparutti che ha inviato sull’argomento una interrogazione a risposta scritta. Il caso, dopo essere diventato oggetto di un esposto alla Procura, era stato segnalato all’associazione brindisina “Famiglie Fratelli Ristretti” dai congiunti di Cosimo Manca, e, contestualmente raccontato sulle pagine di Senzacolonne. Si tratta del calvario vissuto da Cosimo Manca, detenuto 54enne morto lo scorso 31 gennaio in una cella del carcere di Bari quando mancavano esattamente due anni alla fine della pena (ne stava scontando dieci per reati legati a traffico di stupefacenti). I famigliari, il fratello Antonio in particolare, hanno evidenziato una serie di presunte responsabilità da parte dei responsabili sanitari della casa circondariale. I famigliari di Cosimo Manca ipotizzano eccessive leggerezze nella gestione delle patologie del loro congiunto che da tempo era ammalato di Epatite con l’aggravio di ulteriori patologie. Prima firmataria dell’interrogazione è la radicale Elisabetta Zamparutti, radicale facente parte del gruppo di lavoro che affianca Marco Pannella e Sergio D’Elia, presidente della fondazione “Nessuno Tocchi Caino”. “Il 31 gennaio 2011, dopo una lunga malattia, il signor Cosimo Manca - si legge nell’interrogazione - si è spento in una cella della casa Circondariale di Bari (...); come denunciano i parenti del detenuto, che dopo il dramma hanno chiesto aiuto all’associazione brindisina “Famiglie Fratelli Ristretti” e si sono rivolti al quotidiano “Senzacolonne” che ha reso pubblica la loro denuncia, “nonostante l’evidenza delle patologie che lo avevano reso, tra l’altro, quasi completamente cieco e incapace a deambulare autonomamente”, al signor Manca veniva negata la sospensione della pena per motivi di salute ovvero la misura della detenzione domiciliare e, quindi, lo stesso continuava a rimanere ristretto nel carcere di Bari “senza alcuna cura effettiva, e senza che gli venissero forniti i mezzi minimi per una dignitosa terapia medica che, se tempestiva, avrebbe potuto salvargli la vita”; l’articolo 1 del decreto legislativo n. 230 del 1999 - si legge ancora nell’interrogazione - afferma che “I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci e appropriate”. Livorno: il Garante; condizioni incivili nel carcere delle Sughere Il Tirreno, 1 marzo 2011 Marco Solimano, garante dei detenuti, ascoltato dall’ottava commissione consiliare (presieduta da Arianna Terreni), fa una fotografia delle condizioni del carcere delle Sughere, elencando una serie di criticità. “Le condizioni - afferma - sono incivili, non compatibili con la dimensione umana”. E spiega che per la Asl 6, il carcere livornese ha preoccupanti infiltrazioni d’acqua, interni cadenti, infissi da ristrutturare, assenza di griglie e di pozzetti per il deflusso delle acque e spazi di comunicazione fatiscenti e sarebbe esposto ad una possibile emergenza igienico-sanitaria. Lo stato di degrado è imputabile in primis alla scarsità di fondi erogati per la manutenzione ordinaria dal governo: solo 4.000 euro per tutto il 2010, una cifra “appena sufficiente per una famiglia” commenta Solimano, che continua la sua relazione rendendo noti i dati sul sovraffollamento del carcere che ad oggi, per una capienza di 240/280 unità ne ospita 474. Inoltre, alla carenza cronica di personale di sorveglianza, si aggiunge l’assenza da due anni e mezzo di un direttore. Agrigento: carenze strutturali e di personale, 3 persone vivono in cubicoli di otto mq La Sicilia, 1 marzo 2011 Il Centro studi Pedagogicamente denuncia le pessime condizioni del carcere di Petrusa. Con una nota ufficiale dell’osservatore carceri siciliane dell’associazione Antigone, Antonello Nicosia si evidenziano fatti e circostanze di spessore. “Il carcere seppur di nuova costruzione necessiterebbe di una straordinaria ristrutturazione, i detenuti lamentano da anni le infiltrazioni d’acqua nelle celle, chiedono il rifacimento delle docce comuni che si presentano in uno stato pietoso, soprattutto dal punta di vista igienico sanitario, ma anche per l’inefficienza, nei piani superiori non arriva l’acqua calda, inoltre da anni non funziona l’impianto di riscaldamento. Oggi nei “cubicoli” di circa 8 mq, vi sopravvivono tre persone, uomini e donne in attesa di giudizio o seppur giudicate colpevoli, hanno comunque il diritto di vivere in una condizione dignitosa. Il vitto scadente - scrive Nicosia - costringe chi può, ad acquistare prodotti alimentari per cucinarsi, i prodotti di prima necessità sono carissimi, i detenuti hanno più volte denunciato il caro spesa, ma senza ottenere risultati positivi. Il personale, in particolare la Polizia Penitenziaria in questi ultimi anni ha fatto tanto, ha salvato parecchi detenuti che hanno tentato di suicidarsi, ma se ciò accade è perché gli stessi vivono in una condizione di disagio, il sovraffollamento è uno dei motivi. La mancanza di attività trattamentali, di luoghi adibiti al trattamento, allo sport, laboratori di hobbistica, la mancanza di lavoro all’interno del carcere, lo studio e altre attività culturali, rende il carcere un luogo contrario a quello che invece secondo l’art. 27 della costituzione dovrebbe essere. I detenuti del Petrusa non posso accedere alla biblioteca del carcere - ricorda Nicosia - non possono accedere al campetto di calcio, forse per motivi di sicurezza? Mancano le figure professionali fondamentali che colmano tutti i disagi che poi sfociano in suicidi e morti poco chiare. Le aree trattamentali sono al fallimento, mancano educatori, pedagogisti, psicologi, sociologi, medici specialisti e assistenza sanitaria, scarsi i progetti formativi utili ai detenuti a vivere meglio il quotidiano carcerario e fuori dalle celle, percorsi fondamentali che servono a rieducare e a reinserire il reo nel tessuto sociale una volta fuori dal carcere. Da due anni attendiamo il finanziamento di un piccolo progetto di musicoterapia destinato alle donne detenute”. Catania: anche l’Associazione nazionale forense chiede di fare luce sulla morte di Carmelo Castro Ansa, 1 marzo 2011 Il Consiglio nazionale dell’Associazione nazionale forense (Anf) in una delibera emessa al termine di una riunione avvenuta sabato e domenica scorsa a Roma, ha espresso l’auspicio che “la magistratura faccia piena chiarezza” sulla vicenda di Carmelo Castro, il giovane incensurato che si sarebbe suicidato il 28 marzo 2009 nel carcere di piazza Lanza a Catania, a quattro giorni dall’ arresto, dov’era in regime di grandissima sorveglianza. Recentemente la Procura ha riaperto le indagini sulla morte del giovane. Il Consiglio dell’associazione ha inoltre sottolineato che “l’episodio, che presenta notevoli punti oscuri e merita una doverosa attività di indagine e di verifica da parte dell’autorità giudiziaria, evidenzia ancora una volta, lo stato di intollerabile malessere della situazione penitenziaria in Italia”. Per il Consiglio nazionale dell’Anf il caso Castro “rappresenta la punta esponenziale di una situazione più che critica, che ha registrato nelle carceri italiane, al 31.12.2010, 66 suicidi, 1.134 tentati suicidi, nonché 5.603 episodi di autolesionismo”. Il Consiglio dell’Anf inoltre ha censurato l’autoreferenzialità delle istituzioni penitenziarie che poco interagiscono con forze sociali idonee per rendere l’applicazione della pena effettivamente attuativa dell’art. 27 della Costituzione ed invitato il segretario ed il direttivo nazionale a ‘porre in essere iniziative che sollecitino l’attenzione sul tema e segnalino l’esigenza che la perdita della libertà non si accompagni alla perdita di altri diritti fondamentali della persona detenuta, quali la dignità e la salute. Novara: i detenuti protestano contro il sovraffollamento con uno “sciopero bianco” Ansa, 1 marzo 2011 Circa 130 detenuti nel reparto giudiziario del carcere di Novara stanno facendo da stamani uno “sciopero bianco” per protestare contro le condizioni di sovraffollamento della struttura. I detenuti - si apprende da fonti di polizia penitenziaria - si sono rifiutati di svolgere tutte le attività lavorative, scolastiche e di altro tipo, tra cui la preparazione del pranzo. Già sabato sera gli stessi detenuti avevano protestato battendo le sbarre delle celle con stoviglie. Fra i motivi della protesta, vi è anche la restrizione al peso dei pacchi che vengono consegnati ai detenuti dai loro parenti. Oltre ai detenuti del reparto giudiziario, nel carcere di Novara si trovano altri 75 reclusi, che sono in regime di 41 bis. Rovigo: “Il carcere entra a scuola”, ieri un incontro tra studenti e detenuti Il Gazzettino, 1 marzo 2011 “Il carcere entra a scuola” è stato il tema sviluppato ieri mattina all’Itas Einaudi di Badia Polesine su proposta della Provincia e in collaborazione con l’Associazione Gea Mater di Lendinara e Il granello di senape di Padova. La presidente della Provincia Tiziana Virgili ha parlato di “esperienza da cogliere come occasione per una profonda riflessione”. Con molta attenzione e domande pertinenti i ragazzi hanno potuto ascoltare quattro storie diverse da chi in carcere c’è stato, da chi c’è ancora. Introdotti dalla giornalista Ornella Favero sono intervenuti: Paola, Andrea, Ernesto e Maurizio. Dai racconti e dalle risposte date alle domande degli studenti, dalle statistiche illustrate da Ornella Favero, è emerso un dato decisivo: sono determinanti i percorsi di rieducazione e di reinserimento dei detenuti. Le quattro storie confermano tutto ciò oltre all’importanza del ruolo delle famiglie dei detenuti. Paola: ha finito la pena due anni fa, ora torna in carcere per collaborare nei progetti di reinserimento; a 40 fallisce la sua ditta, entra nel traffico internazionale di cocaina, viene arrestata in Germania sceglie di scontare la pena in Italia. Andrea: giovane conosce le droghe leggere, poi arriva all’eroina, a 21 anni entra in carcere per omicidio, vi rimane 15 anni. Ernesto ha 60 anni: ha iniziato con piccoli furti poi le rapine, nel 1968 fa parte della malavita milanese: soldi, belle donne, locali notturni; prende trent’anni di galera, 18 li passa in cella, nel carcere di Padova con le attività alternative cambia vita, fra tre anni esce: “Sto lavorando per ricominciare a vivere”. Maurizio: nel 1976 va per la prima volta in carcere e poi a più riprese viene arrestato, consuma in galera 32 anni; “mi hanno cambiato gli incontri con gli studenti e con le vittime dei reati; ho una moglie speciale, per me si è sacrificata molto”. Racconti lucidi, molto dettagliati, pieni di speranza, in grado di insegnare e di confermare che solo il carcere non serve per ridare dignità alle persone e non farle tornare a delinquere. Verona: gli operatori di MicroCosmo ritornano a parlare di carcere con gli studenti Ristretti Orizzonti, 1 marzo 2011 Circa 150 studenti dell’Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato “G. Giorgi”, nell’aula magna della vecchia struttura presso la quale prese avvio l’avventura editoriale della Mondadori, incontrano diversi operatori del carcere veronese. Il progetto “Vedo Sento Parlo”, sostenuto dall’Associazione “La Libellula onlus”, già in corso d’opera dall’inizio dell’anno scolastico, affronta una ulteriore tappa che prevede l’ascolto e il dialogo con rappresentanti delle istituzioni che operano nel carcere. Nel primo intervento il Dott. Antonio Fullone, nella veste di Direttore del carcere, ha illustrato l’organizzazione dell’istituto e il valore della funzione rieducativa della pena. Ha presentato il carcere come “luogo della società, un preciso spaccato di essa, luogo soggetto a regole e a particolari restrizioni, luogo dove comunque si sta male. Chi dice che in carcere si sta bene perché c’è la tivù, ti danno da mangiare e non fai niente, ha una visione molto malinconica della libertà, perché credo che la libertà sia qualcosa di molto diverso, di molto di più. È importante fare un uso buono e positivo della libertà”. Dopo il punto di vista dell’istituto dall’interno, le dott.sse Antonella Salvan e Stefania Zambelli dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna descrivono il senso e le funzioni delle misure alternative alla detenzione carceraria e dell’azione che svolgono anche all’interno dell’istituto. Particolare attenzione hanno rivolto gli studenti all’ascolto di alcune osservazioni che i sistemi di informazione normalmente non danno: la percentuale di persone in misura alternativa rientrate in carcere nel 2010 si aggira attorno al 7%, ma il dato interessante di questa percentuale è che descrive non la commissione di nuovi reati bensì il mancato rispetto di un vincolo previsto dal Magistrato. La lettura offerta è che “quando alle persone si dà un pò di libertà, con responsabilità contenuta nelle regole, in qualche modo riescono a tenere”. Questo è un dato costante negli anni. Altro dato significativo riguarda i costi di una persona quando è detenuta rispetto a quando si trova in regime alternativo: in quest’ultimo caso i costi si abbattono fino al 50%”. Il Dirigente Scolastico dell’IC XV, Ctp Carducci, titolare della scuola nel carcere veronese, dott.ssa Luciana Marconcini, dopo aver descritto l’organizzazione delle attività scolastiche e della tipologia di frequentanti, prosegue: “lo Stato crede, come dice la Costituzione, che senza la formazione non c’è partecipazione sociale, la scuola vi rende liberi perché vi aiuta a creare un senso critico, a costruire degli strumenti per crearvi un futuro nella società ancor prima di trovare un lavoro; vi dà la possibilità di leggere la società e a scuola vi costruite il vostro futuro. La scuola, soprattutto in carcere, diventa una occasione di pensiero per riflettere, è un tempo di pensare a se stessi, al proprio futuro e a cosa uno vuole diventare”. L’Ispettore Marcello Sansica, coordinatore dell’Area Trattamentale per la Polizia Penitenziaria, illustrando ruolo e funzione del Corpo di appartenenza, ad ordinamento civile, sottolinea come esso svolga una funzione più completa rispetto alle altre Forze di Polizia in quanto “garantisce ordine e sicurezza all’interno dell’istituto, facendosi carico nel contempo dell’aspetto umano e relazionale di cui c’è tanto bisogno dentro un carcere. Quando una persona viene arrestata fino a quando ritorna in libertà la figura di riferimento che vede ogni mattina al risveglio fino alla sera, è un agente di polizia penitenziaria”. Fabrizio Bordone, professore dell’istituto professionale, conclude auspicando che “le testimonianze di oggi siano per tutti una goccia importante nella formazione della persona per diventare bravi cittadini”. Secondo la testimonianza di una donna detenuta che ha ottenuto un permesso premio per partecipare all’incontro, questa esperienza costituisce un aiuto a rientrare in società. Dopo essersi resa conto dello sbaglio, la prima uscita ha promosso in lei un ripensamento profondo e riflessioni nuove, sollecitate dalla scambio con i ragazzi. Loro, come un figlio, hanno rappresentato uno specchio. Ricordando i due figli a casa, si è sentita a loro vicina. “Tante volte i giovani non sanno, senza esperienza, cosa stanno vivendo, ignorano le esperienze che nessuno poteva loro raccontare senza questi incontri”. Mirco e Riccardo, prima di salutarci, ci raccontano del cambiamento di opinione da prima dell’inizio di questo progetto ad oggi. Ci parlano della fragilità e del rischio, della provocazione del gruppo, della solitudine in famiglia…; del fatto che nessuno di loro pensa di poter finire in carcere ma che, pensandoci bene, è possibile non considerare le conseguenze e ritrovarsi invece alla fine proprio lì. Ci dicono ancora, con grande entusiasmo, ricordando in particolare Andrea, dell’importanza del racconto di vita dei detenuti incontrati la volta precedente. Per gli operatori di MicroCosmo questo ritorno da parte degli studenti è un incentivo a promuovere il progetto VSP coinvolgendo un maggior numero di ragazzi. La motivazione ad entrare nelle classi è anche voler realizzare nelle scuole di Stato esperienze di qualità non solo nei contenuti di istruzione ma anche come occasioni di crescita di consapevolezza, per leggere la società nella quale si sta vivendo, con tutti i suoi rischi e la manipolazione che vede nei giovani macchine da consumo. Dan, redattore di MicroCosmo afferma: “sono felice di partecipare al VSP perché spero di poter aiutare i giovani della prossima generazione a non ripetere i nostri sbagli, per non creare sofferenza se stessi e ai loro cari”. Gli incontri proseguiranno con gli studenti in primavera nella stanza di lavoro della Redazione MicroCosmo. Treviso: il Cappellano dell’Ipm; basta luoghi comuni, parliamo del futuro dei minori detenuti Il Gazzettino, 1 marzo 2011 In questi ultimi tempi sto cogliendo, da parte di molte persone, un particolare interesse per le problematiche che riguardano i ragazzi detenuti nell’Istituto penale per Minorenni di Treviso. È nata da poco, anche, un’Associazione di Volontari, chiamata “La Prima Pietra”, che si preoccupa di promuovere attività all’interno dell’Ipm e nel territorio con l’obiettivo di sostenere e reinserire i ragazzi che, dopo un periodo di privazione della libertà personale, si accingono ad incontrare nuovamente la società alla quale hanno arrecato una ferita. Si stanno promuovendo, un po’ su tutto il territorio della provincia, degli incontri pubblici, per parlare della realtà della detenzione. Penso sia importante incontrarsi e confrontarsi su questa realtà perché spesso risulta poco utile - sia nei confronti delle vittime che degli autori dei reati - liquidare il problema della delinquenza minorile con delle banali battute. Chi commette un reato, infatti, deve certamente accettare la giusta pena, ma deve anche avere la possibilità di redimersi e rientrare nella società. Gli incontri pubblici si stanno rivelando utili per chi vi partecipa perché aprono al confronto le diverse posizioni e spesso servono a sfatare alcuni luoghi comuni sul carcere. Sugli immigrati, ad esempio, confrontandosi si scopre che conosciamo ben poco! Ed anche sui minori in carcere, considerati “ragazzi di strada”, “delinquenti”. Per me - che li incontro ogni giorno - sono dei ragazzi cui voler bene. Per me, come cittadino e come sacerdote, è necessario aprire un confronto su questi temi: lunedì 7 marzo alle 20.30, nella sala parrocchiale della chiesa di Selvana a Treviso, si tiene un incontro pubblico su queste tematiche, cui parteciperà anche la psicologa dell’Ipm, Luisa Bonaveno, che con il suo intervento racconterà le speranze e le paure, le gioie e i dolori dei ragazzi che segue presso l’Istituto Penale per i Minorenni di Treviso. Padre Giorgio Saccon, cappellano dell’Ipm di Treviso Libri: “Gli uomini ombra”, di Carmelo Musumeci Recensione di Margherita Hack Ristretti Orizzonti, 1 marzo 2011 E’ un libro sconvolgente, opera di chi in carcere è diventato un grande scrittore, che scrivendo riesce a sopportare quella morte al rallentatore che è il carcere a vita, l’ergastolo ostativo, il “fine pena mai”. Sono racconti in parte veri, in parte romanzati, che rispecchiano la violenza di chi ha potere su i carcerati e l’ansia di libertà, di giustizia, l’amicizia profonda che si stabilisce fra compagni di pena. Quando si legge di casi reali di giovani rei di aver partecipato a qualche manifestazione, o di aver reagito alla forza pubblica, che entrati in carcere in piena salute ne escono avvolti in un lenzuolo e con sul corpo i segni di pestaggi selvaggi, si vuol credere che si tratti di casi eccezionali, poi si pensa a quello che è successo durante il G8 a Genova e si comincia a dubitare. Il carcere che dovrebbe essere scuola di riabilitazione si rivela un centro di abbrutimento per i carcerieri e di annullamento della personalità dei carcerati a cui questi si ribellano con la violenza, carcerieri e carcerati egualmente vittime di un sistema degradante. Leggendo questo libro ci si sente in colpa per avere avuto un’infanzia felice, una famiglia che ci ha protetto e aiutato a crescere e ci si domanda come saremmo stati se fossimo stati lasciati abbandonati a noi stessi, orfani o con genitori in carcere, o assenti, forse ognuno di noi avrebbe cominciato con qualche furtarello e poi sempre qualcosa di più grosso, fino a che, contro la nostra volontà, ci sarebbe scappato il morto e la galera. Il bambino criminale - l’autobiografa della sua infanzia- diventa criminale per colpa di chi dovrebbe guidarlo nella vita; prima la nonna che lo incita a rubacchiare del cibo al mercato, mentre lei, chiacchierando distrae il venditore. Scoperto, si becca uno schiaffo dalla nonna- quante volte ti devo dire di non rubare- e poi a casa se ne becca un altro per essersi fatto scoprire, poi la maestra che lo sospende per dieci giorni per aver portato a scuola un gattino, poi, in seguito alla separazione dei suoi, il collegio, dove religiosi di poca carità cristiana incrudeliscono con punizioni sproporzionate per un bambino ansioso di affetto e di libertà. Questo tipo di educazione potrebbe costituire un manuale su “ Come ti costruisco un criminale”. Gli uomini ombra, invisibili e dimenticati da tutti , morti viventi, perché irreali come le ombre, eppure capaci di forte amicizia e altruismo come i quattro rinchiusi nella stessa cella, Tiziano figlio di un boss diventato assassino per l’obbligo di vendicare l’assassinio del padre, Pietro che aveva ammazzato la moglie e l’amante, Giosuè che aveva ammazzato una decina di persone che volevano ammazzare lui, e Nicola che viveva nel ricordo della moglie che lo aspettava da otto anni e non riusciva mai a vederlo. Era l’unico che aveva ancora una ragione per vivere. Per lui, perché lo trasferiscano al nord dove sarebbe stato più facile vedere ogni tanto la moglie gli altri tre dopo un tentativo di fuga fallito sono pronti a sacrificarsi. Finalmente Nicola può incontrare la moglie e gli altri tre sono finalmente liberi, le loro anime hanno lasciato i loro corpi martoriati di botte. Le carceri italiane scoppiano. Molti detenuti non hanno nemmeno una branda o un materasso e dormono sdraiati per terra. Questo succede oggi nella civilissima Trieste. Molti dei detenuti non hanno compiuto altro reato che quello inventato da un governo razzista: il reato di clandestinità; molti altri sono poveracci che se fossero stati difesi da un bravo avvocato e non da un poco coscienzioso avvocato d’ufficio sarebbero fuori. Tutti avrebbero diritto a poter svolgere un lavoro, a studiare, a fare sport, a ricostruirsi un surrogato di vita, in particolare agli ergastolani, a coloro a cui la società dice: Lasciate ogni speranza o voi che entrate. Spesso mi viene in mente un fatto di cronaca di qualche anno fa: Roma, una stazione della metropolitana. Due donne, un’italiana e una romena litigano, per quelli che vengono definiti futili motivi, una precedenza e una spinta forse involontaria, un insulto alla romena che reagisce con un’ombrellata al volto dell’altra. Disgrazia volle che la punta dell’ombrello le si conficcasse nell’occhio e raggiungesse un punto particolarmente delicato del cervello da provocare la morte. Chiaramente un omicidio preterintenzionale. Ma la romena è stata condannata per omicidio premeditato. Evidentemente in previsione del futuro litigio in metropolitana si era armata di un ombrello. Quanto si dovrà aspettare perché il carcere possa assolvere davvero la funzione rieducatrice? Come si può pensare che una pena così barbara come l’ergastolo ostativo, che non lascia nessuna speranza di un futuro, possa rieducare? Mi auguro che questo libro, oltre ad essere un eccellente esempio di letteratura vissuta, serva a sensibilizzare tutti coloro che sono “cittadini rispettabili”, che spesso non per merito loro ma grazie a un po’ di fortuna non hanno mai conosciuto il carcere, alla necessità di abolire l’ergastolo, a non dividere la popolazione fra onesti- quelli fuori- e delinquenti-quelli dentro- Leggendo questo libro si impara quanta umanità può esserci anche “dentro”, forse più dentro che fuori. Immigrazione: la Cassazione cancella il reato di “mancata esibizione del titolo di soggiorno” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2011 La Cassazione fa chiarezza sulla disciplina penale applicabile ai clandestini. E precisa che non è più sanzionabile, dopo la modifica introdotta nel 2009, la condotta del cittadino straniero irregolare che non adempie “all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno 0 di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato”. A stabilire l’abolitio crirninis sono state le Sezioni unite penali con informazione provvisoria (le motivazioni saranno note tra qualche tempo) resa all’esito dell’udienza del 24 febbraio. La decisione, quanto alla definizione dei soggetti attivi del reato, ha così sposato la teoria più favorevole al riconoscimento di un drastico cambiamento dopo la modifica dell’articolo 6, comma 3 del decreto legislativo 286/98, a opera dell’articolo 1, comma 22, lettera h), della n. 94/09. A questa conclusione si contrapponeva un orientamento, assai consistente, della stessa Cassazione che riteneva di fatto ininfluente sulla configurazione sostanziale del reato il cambiamento intervenuto nella norma incriminatrice. In discussione c’era la determinazione da parte dell’autorità giudiziaria della linea da assumere rispetto al rapporti tra i documenti di identificazione e quelli di soggiorno: in assenza (ovvia, visto che si sta affrontando il caso di clandestini) degli uni, poteva restare in piedi il reato di mancata esibizione degli altri? La linea più severa iscriveva tra i soggetti attivi del reato sia lo straniero clandestino sia quello regolarmente immigrato, mentre sul piano oggettivo venivano asimmetricamente sanzionate, quanto al primo, esclusivamente le condotte di omessa esibizione del passaporto oppure di altro documento di identificazione, mentre, in relazione al secondo, oltre alle condotte omissive anche la (congiunta) inottemperanza alla richiesta di esibizione del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato. L’interpretazione poi fatta propria dalle Sezioni unite, anche se naturalmente bisognerà leggere le motivazioni, sembra fare leva invece su una diversa lettura del testo della disposizione secondo la quale per la realizzazione del reato è necessaria la concorrenza della omessa esibizione dei documenti di identificazione con quella del titolo di soggiorno. In questo senso dovrebbe essere stato seguito un ragionamento che, all’interno della nuova formulazione della norma penale, individua nelle congiunzioni “e” e “o” diversi significati: disgiuntivi/alternativi all’interno delle coppie di termini, tra loro omogenei (passaporto e altri documenti di identificazione da una parte e permesso di soggiorno o altro documento che certifichi la regolare permanenza sul territorio dello Stato dall’altra); K copulativi/affermativi tra le coppie disomogenee. Non si può così ritagliare uno spazio di rilevanza penale a scapito di una formulazione della norma che sembra autorizzarla. Neppure facendo riferimento a una diversa considerazione dell’indirizzo politico che, sulla spinta del Governo Berlusconi, ha condotto, almeno nelle intenzioni, a un intensificarsi della repressione penale nei confronti dell’immigrazione irregolare. Il testo normativo, sembrano dire le Sezioni unite, ha un significato chiaro che non può essere forzato e stiracchiato. Immigrazione: morte dei bambini rom; perché ho denunciato Alemanno per omicidio colposo di Luigi Manconi Il Riformista, 1 marzo 2011 Il Riformista del 24 febbraio critica l’iniziativa - presa nella mia qualità di presidente di “A Buon Diritto”, assistito dall’ avvocato Alessandro Gamberini - di denunciare il sindaco di Roma, Gianni Alemanno per omicidio colposo in merito alla morte di quattro bambini rom, bruciati vivi nel rogo della loro baracca il 6 febbraio 2011. Il Riformista ritiene, peraltro, che il sindaco di Roma possa essere “tacciato di insensibilità, di immobilismo” e stigmatizza “la sua parte politica come propalatrice di una cultura della non accoglienza che sconfina nella xenofobia”; e considera giusta una campagna, fatta di “parole dure che giunga sino a chiedere le dimissioni del sindaco”. L’articolo precisa, tuttavia, che una simile campagna va condotta con strumenti politici e in sedi politiche. E, dunque, non apprezza un’iniziativa, come quella assunta dall’associazione da me presieduta, perché “la lotta politica non si fa chiedendo ai magistrati di mobilitarsi contro l’avversario”. D’accordo, d’accordissimo su questo punto: e, infatti, come Il Riformista generosamente mi riconosce, da oltre vent’anni conduco una critica politica e una lotta politica contro quelli che, nel 1988, mi capitò di definire “gli imprenditori politici dell’intolleranza”. Ma qui si tratta d’altro, di tutt’altro. Se è vero che, come scrive ancora Il Riformista, la morte dei quattro bambini “rappresenta il fatto più grave successo nella città di Roma negli ultimi anni”, non è improprio ricorrere anche ad altri strumenti, oltre a quelli politici. E per una ragione strettamente fattuale. Quei quattro bambini sono stati discriminati e mortificati, sì, da quella “insensibilità” del sindaco e da quella “xenofobia” della sua parte politica, ma la loro morte si deve ad altro. Si deve, cioè, a una incredibile catena di responsabilità oggettive, fatta di omissioni e negligenze, indifferenza e inerzia. Dunque, qui non stiamo parlando in primo luogo di “clima” e “messaggi” - pessimo il primo e orribili i secondi - quotidianamente prodotti dalla giunta Alemanno. Stiamo parlando, piuttosto, di sgomberi e di vessazioni, di azioni fatte e di interventi mancati, di allarmi colpevolmente inascoltati e di risposte colpevolmente non date. Stiamo parlando di totale inerzia da parte di un sindaco che, secondo la legge, è l’autorità di protezione civile, garante dell’incolumità di quanti risiedono sul territorio da lui amministrato. Totale inerzia, dicevo, di fronte a una serie impressionante di denunce dettagliate e univoche, reiterate nel tempo, provenienti da soggetti istituzionali e tutte lasciate cadere nel vuoto. La prima, redatta dai carabinieri e datata 4 maggio 2010, segnalava esplicitamente un “pericolo di incendio”. Stiamo parlando di questo e non di orientamenti culturali o di pregiudizi emotivi, che pure ci sono. Quanto denunciato, pertanto, può configurare, una precisa responsabilità anche di natura penale nel determinarsi di quella situazione che ha portato alla morte dei quattro bambini: la responsabilità, cioè, di non aver impedito “un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire” (articolo 40 cpv cp). Infine. La battaglia culturale è, soprattutto, un’opera paziente, quotidiana, “pedagogica” di critica degli stereotipi e dei pregiudizi. Si tratta, pertanto, di demotivare e disincentivare gli umori e le pulsioni che possono trasformare le ansie collettive in manifestazioni di diffidenza, ostilità, intolleranza (come si vede, non parlo di “razzismo” categoria cui ricorro con estrema parsimonia). Ma se un sindaco, garante dell’incolumità di quanti risiedano in quel territorio, omette di ottemperare ai suoi doveri, gliene va chiesto conto in tutte le sedi. Siamo garantisti (io, poi, iper-garantista), mica fighetti. P.S. Ringrazio “Il Riformista “ per l’apprezzamento nei confronti del nome e dell’autorevolezza” di “A Buon Diritto”. Ma quel “diritto”, contenuto nella denominazione, vogliamo interpretarlo in più accezioni. Per dirne una proprio venerdì scorso il Consiglio di Stato ha dato ragione ad “A Buon Diritto” e ad altre associazioni, assistite dagli avvocati Laura Barberio, Luca Santini, Arturo Salerni ed Ernesto M. Ruffìni, sulla questione delicatissima del rapporto tra arresto in flagranza degli stranieri e mancata ottemperanza all’ordine di allontanamento. Una piccola vittoria per chi crede nell’eguaglianza dei diritti. Libia: ancora nessuna notizia di Giulio Lolli, detenuto nel carcere di Tripoli Il Corriere di Romagna, 1 marzo 2011 La protesta dei cittadini libici contro il regime di Gheddafi sta procurando qualche problema sull’estradizione di Giulio Lolli. L’ex presidente della Rimini Yacht è stato arrestato in Libia e ancora non è giunto a Rimini dove lo aspettano vari processi. Le cose però si stanno complicando e non poco: il procuratore generale libico Abdelrahman Al-Abbar, l’unico ad aver contatti diretti con la procura riminese, si è dimesso per unirsi ai ribelli. Dell’imprenditore bolognese non si hanno più notizie e non si sa dove possa essere finito, circolano solo varie voci. Secondo qualche informazione raccolta su internet nel carcere di El Jedaida, dove è detenuto Lolli, tre detenuti sono stati uccisi il 18 febbraio perché avevano tentato di fuggire. Secondo il “The Guardian” la prigione è stata evacuata, le guardie sono riuscite a fuggire dopo aver liberato i prigionieri. Secondo “Al Jazeera”, invece, i detenuti sarebbero stati trasferiti in un altro carcere. Iran: l’avvocato di Sakineh condannato a morte, rischia l’impiccagione immediata Aki, 1 marzo 2011 Javid Houtan Kian, l’avvocato dell’iraniana Sakineh Mohammadi Ashtiani, è stato condannato a morte e rischia l’impiccagione immediata. È l’allarme che lancia il Comitato internazionale contro la lapidazione, secondo il quale l’uomo ha subito quattro condanne a morte, di cui tre revocate. La quarta resta valida e potrebbe essere eseguita in tempi molto stretti. Una fonte del Comitato ha riferito che “ieri Houtan Kian ha avuto la possibilità di fare una telefonata dal carcere e ha contattato un conoscente a Tabriz, a cui ha chiesto di mobilitarsi e rivolgere un appello alla comunità internazionale per la sua salvezza”. Houtan Kian è stato arrestato il 10 ottobre 2010 insieme a Sajjad Ghaderzadeh, figlio di Sakineh, e a due giornalisti tedeschi (questi ultimi liberati due settimane fa) che li intervistavano a Tabriz sul caso della donna condannata alla lapidazione per adulterio e complicità nell’omicidio del marito. Rinchiuso in un primo momento nel carcere della città, l’avvocato è stato poi trasferito nel famigerato carcere di Evin, a Teheran. Secondo il Comitato, a Evin l’uomo ha subito maltrattamenti e torture e porta sul corpo i segni di ustioni, alcune provocate da mozziconi di sigarette. La sua esecuzione per impiccagione dovrebbe avvenire proprio nel carcere di Evin. Sua madre, residente negli Usa, è rientrata in Iran per ottenere la liberazione del figlio, ma finora non ha potuto incontrarlo. Il padre di Houtan Kian è invece stato impiccato nel 1981. La condanna a morte di Houtan Kian, che ha difeso in passato anche numerosi prigionieri politici, secondo il Comitato è stata confermata dalle stesse autorità della Repubblica Islamica in occasione del rilascio dei due giornalisti tedeschi. “Chiediamo a tutte le organizzazioni per i diritti umani a livello locale e internazionale, a tutti i gruppi e induividui che si sono mobilitati per il caso di Sakineh, di chiedere con urgenza al regime il rilascio immediato sia di Houtan Kian che di Sakineh”, si legge in una nota del Comitato. In alcune interviste ad AKI, poco prima del suo arresto, Houtan Kian aveva rivolto appelli all’Europa, al governo italiano e al Vaticano per la liberazione di Sakineh.