Giustizia: prossima fermata depenalizzazione, torniamo al codice Pisapia di Davide Varì Gli Altri, 19 marzo 2011 Era una riforma che avrebbe reso l’Italia più simile alle democrazie del nord Europa, quelle che finiscono sempre in testa alle classifiche della libertà d’espressione, della tolleranza, della libertà d’informazione. E delle garanzie per gli imputati. Quelle che considerano “uomo” anche chi commette reati più gravi, che non lo buttano in una cella di sei metri per tre insieme ad altre quattro persone. Insomma, era il 2007 e Giuliano Pisapia presiedeva la commissione per la riforma del codice penale. Dopo anni di confronti, scontri e interminabili mediazioni, il candidato sindaco di Milano era riuscito a far quadrare il cerchio e aveva presentato un testo di riforma del codice che di certo avrebbe reso meno infernale la vita di chi si ritrova a recitare la parte di Caino. Ma di quel testo, poi, non s’è fatto più nulla. Sparito. Naufragato, come spesso accade ai buoni testi delle varie commissioni parlamentari. Ma cosa prevedeva quel testo? Prima di tutto aboliva l’ergastolo: il fine pena mai sarebbe diventato un pallido ricordo, il marchio di un’età barbarica, l’età in cui le persone che finivano in carcere rischiavano di non uscirne più. Ma più in generale la riforma Pisapia prevedeva un’ampia depenalizzazione. I reati punibili col carcere sarebbero stati soltanto quelli più gravi. I reati minori avrebbero invece sempre più beneficiato delle pene alternative al carcere. Una misura garantista, certo, ma anche molto pragmatica. Tutti i dati stanno infatti a dimostrare che le persone che scontano le pene fuori dal carcere hanno molte meno probabilità di reiterare il reato di chi invece sconta la propria pena in galera. Insomma, sembrerà un paradosso, ma la sicurezza è inversamente proporzionale alle ore passate in gattabuia. Altro punto centrale della riforma mai approvata riguardava la prescrizione i cui termini venivano abbondantemente ristretti. E accanto alla difesa dei più deboli quella riforma aveva anche la forza di colpire i più forti e i più ricchi. Le confische dei grandi beni di mafia, infatti, avrebbero avuto confini ben più ampi. Ma di quella riforma non s’è fatto più niente. Negli ultimi anni c’è infatti stato un continuo aumento dei reati e delle pene conseguenti. E in tutto questo, il 52% circa dei carcerati è in attesa di giudizio e lì, in carcere, passano circa 170mila persone di cui almeno un terzo rimane non più di tre giorni. Altre 11mila devono scontare pene residue inferiori ad un anno e altri 6mila pene da uno a due anni. Tutti i dati dicono che in galera ci finiscono i più poveri e i meno pericolosi. Giustizia: il ruolo indefinito dei medici nelle carceri italiane di Domenico Ciardulli Vita, 19 marzo 2011 I medici che lavorano nelle carceri del nostro paese non dipendono più dall’Amministrazione Penitenziaria ma dal Ministero della Salute. Questa “indipendenza di ruolo” andrebbe meglio chiarita e definita specialmente dopo ciò che è emerso con forza con la morte di Stefano Cucchi e con l’esigenza sempre maggiore di tutelare i diritti fondamentali delle persone detenute tra i quali c’è il diritto all’integrità fisica. È per questo motivo utile diffondere la seguente dichiarazione di Mauro Palma, presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti: “Il medico ha un ruolo fondamentale nel prevenire i maltrattamenti, ma è singolare che esistano medici che, all’ammissione in carcere, fanno la visita alla presenza di personale non medico e dipendente dall’amministrazione penitenziaria. Questa cosa è vietata da qualunque standard europeo, a meno che il medico per questioni di sicurezza personale richieda la presenza di un agente, che va assolutamente motivata. Questo è un punto essenziale. L’altra questione è che noi del Comitato troviamo persone a cui in sede di visita medica non è stato chiesto, per esempio, di togliersi i vestiti. Fa parte della deontologia medica, prima di annotare che la persona non presenti segni di maltrattamenti, chiedere che si spogli, e visitarla, cosa che non sempre avviene quando c’è un rapporto di dipendenza dei medici dall’amministrazione. C’è poi una questione italiana su cui il Comitato ha molto da ridire, ovvero che in generale il medico fa parte del Consiglio di disciplina, e questa è una cosa inaccettabile perché rompe la relazione medico - paziente. Il medico in carcere è il medico del paziente, e il paziente è il detenuto. Il medico non deve essere coinvolto nelle questioni disciplinari e deve avere il potere anche di interrompere l’isolamento punitivo del detenuto in qualsiasi momento. È quanto succede negli Stati che seguono i nostri standard”. Giustizia: Ospedali Psichiatrici Giudiziari, i nuovi lager di Franco Frediani Agora Vox, 19 marzo 2011 Sembra di vivere in un mondo antico, anche se la questione è conosciuta da tempo. Scomparsa la parola manicomio è stata trovata una nuova formula, quella degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari; nuovi lager neppure tanto diversi come apparenza estetica. Dopo aver visitato queste strutture, la Commissione presieduta dal Sen. Ignazio Marino ha definito la situazione drammatica. La giustizia confina spesso in questi luoghi quei soggetti che ritiene socialmente pericolosi, senza distinzione alcuna. Attraverso quali criteri si operano queste scelte? La gravità dei reati non conta niente, e non di rado siedono l’uno accanto all’altro persone giudicate per reati gravi con altri che neppure sanno che cosa hanno rubato... Tutto questo in una atmosfera da film, surreale. Due Ministeri che dovrebbero interagire ma che invece, né l’uno nell’altro, riescono a dare risposte convincenti. Si parla tanto di riforma della giustizia, delle contrarietà peraltro legittime e fondate, che le Forze dell’opposizione stanno rivolgendo all’indirizzo della proposta di legge Alfano recentemente approvata; ma come sempre si lavora a compartimenti stagni. Giustizia, esecutività della pena, diritti umani e diritto alla salute, non possono essere aspetti disgiunti l’uno dall’altro. Non è facile affrontare questo discorso e comprendo la difficoltà di lettura che ne può derivare, ma non posso esimermi dal fare una analisi più ampia di quello che non può continuare ad essere pensato e gestito solo come “tema del giorno” piuttosto che tassello da inquadrarsi in una più ampia prospettiva. Attualmente sono presenti in Italia 6 Opg, Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ovvero quelli che una volta erano più comunemente conosciuti come manicomi criminali. La prima domanda che si pone, riguarda la tipologia degli “ospiti” di queste strutture. Ritengo importante iniziare a far chiarezza su questo per capire bene gli ambiti di intervento. Questi 1479 soggetti, che si trovano attualmente reclusi in questi “nuovi manicomi”, sono persone affette da patologie psichiche, su questo non credo vi siano dubbi. In questo caso dovrebbe essere competenza esclusiva del “settore” sanitario prendersi cura di loro; così come la valutazione della pericolosità sociale non può essere valutata e gestita fuori da questo ambito. La Corte costituzionale, con la sentenza 253/2003, ha stabilito l’illegittimità costituzionale della parte dell’articolo 222 del Codice penale che “non consente al giudice di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale”. Come si può ben capire si continua a rimpallare le competenze senza pensare minimamente alla condizione umana di queste persone; spesso in questi luoghi si trovano a contatto di gomito soggetti condannati per reati gravi e altri che invece hanno commesso reati di entità lieve, magari neppure con una grossa consapevolezza di ciò che stavano facendo. Trattandosi di malati mentali, quali sono le competenze (nel senso di conoscenze specifiche della materia) che può vantare un Giudice per stabilire il grado di pericolosità sociale e il conseguente destino di queste persone? Si dice che La Legge sia eguale per tutti, salvo quando le cronache ci consegnano noti esempi di leggi fatte “ad personam” che dimostrano il contrario, ma se si pensa di decidere la vita delle persone non per quello che in realtà sono ma attraverso la sterile quanto anonima applicazione di articoli di legge, credo si possa chiudere subito il discorso! In questi “Ospedali” le condizioni di vita sono inaccettabili; materassi bucati al centro per consentire la caduta degli escrementi, brande arrugginite dalle urine, uomini trattati come bestie, abbandonati a se stessi per anni. Se la Giustizia “piange”, la situazione a livello di Sanità non versa certamente in condizioni migliori. È ovvio che i due Ministeri debbano interagire ma soprattutto il secondo deve essere cosciente della situazione e del lavoro che dovrebbe spettare ai suoi Operatori. È impossibile accettare ancora una sistema di intervento sanitario - coercitivo che altro non è se non il nuovo look dei lager degli anni 2000! Non trovo scollegato da questo neppure la pesante situazione che ci consegnano i dati del dossier “Morire in carcere”, pubblicamente consultabile sul sito gestito dall’Associazione Granello di Senape Padova, dove risalta il numero dei “suicidi” (66 su un totale di 177 decessi) avvenuti nel solo anno 2010 nelle cosiddette “carceri normali”. Giustizia e diritto alla salute non sono in questo caso figli di madri diverse. Emblematiche le parole del Sen. Ignazio Marino che presiede la Commissione d’inchiesta sull’efficacia ed efficienza del Servizio sanitario nazionale, a proposito degli ospedali giudiziari: “ Chi vi entra, sembra non uscirne più”. Che altro dire. Mi sto solo chiedendo se non stiamo rileggendo il tristemente famoso racconto di Primo Levi, “Se questo è un uomo”. Genova: viaggio nel carcere di Marassi… nove detenuti in una cella di Stefano Origone La Repubblica, 19 marzo 2011 Il restyling non basta, i detenuti ormai sfiorano quota 800. Gli agenti continuano a diminuire: sono 300, ne mancano 160. L’isolamento di Rasero e le leggende su Ivan il terribile che sta a Pontedecimo. La struttura radiale del panottico, il carcere “ideale” progettato alla fine Settecento in modo che un guardiano potesse controllare tutti i prigionieri in ogni momento, ti dà la percezione di un’invisibile onniscienza. A mitigare il senso di oppressione sono i corridoi giallini, il colore della libertà e della redenzione. Entriamo a Marassi in un clima ovattato, che appare surreale, mentre infuria la polemica sulle carceri che scoppiano. Il sovraffollamento qui ha toccato record inaccettabili. Uomini stipati come bestie. Dignità calpestata. Percorsi di recupero più difficili. “Alla conta di oggi i detenuti sfiorano quota 800, dovrebbero essere al massimo 450, quasi la metà. Trecento sono tossicodipendenti, il 60% è straniero”, sottolinea il direttore Salvatore Mazzeo. Numeri in continua progressione, mentre quelli degli agenti diminuiscono: sono 300, ne mancano 160, così uno solo la sera si trova a controllare 140 persone. “Siamo a “tappo”: abbiamo ancora tre posti, poi dobbiamo aggiungere la nona branda”, dicono in coro il commissario Luca Morali e il sovrintendente Antonio D’Angelo, capoposto, da 28 anni agente di polizia penitenziaria. Un mese, due, poi arriverà il caldo, e il carcere scoppierà. Marassi è piccolo e vecchio, costruito a fine Ottocento. Eppure, a guardarci dentro, le celle sono un miracolo, con i bagni puliti, le cucine mignon. Alcune le stanno ristrutturando, arrivano le docce nuove, i muri vengono rinfrescati periodicamente, se ci sono i fondi. Saliamo alla Prima sezione dove si trovano i detenuti in attesa di giudizio. Cella 26. Quello che manca è lo spazio. Pochi metri quadrati, letti a castello che raggiungono il soffitto. Tre incastrati uno dentro l’altro. Dentro sono in otto, ma la regola è essere in nove. Il direttore allarga le braccia. “Chi è in cima al massimo ha quaranta centimetri di spazio: se si alza di scatto, si rompe la testa”. Panni stesi alle sbarre, le scarpe appoggiate sul cornicione. Cartoline attaccate al muro, poster del Napoli: i detenuti le tengono pulite e in ordine come non farebbero a casa loro. Si soffre, però. Le pareti raccontano sogni, desideri, sentimenti. Hanno appiccicato le foto dei figli, le lettere delle mogli, cartoline. Intorno ai letti, oggetti: cestelli dell’acqua, casette di frutta e verdura. Sul tavolo accanto a un libro di Dan Brown, c’è un fornello da campo. Legale, tanto utile per cucinare, ma purtroppo “anche micidiale perché li usano per suicidarsi”. Cucinotto e bagno sono insieme: tutto in due metri per uno. I detenuti stanno preparando la merenda e hanno infarinato la pasta per le bugie. “Cucina, lettura sono importanti perché il tempo deve passare per chi sta in un buco venti ore al giorno. O fai qualcosa, o impazzisci”, dice D’Angelo. Facciamo una capatina alla sezione che si sta ristrutturando, poi torniamo al piano terra. In cima in cima, c’è un detenuto “importante”. Aggettivo che indica la gravità del reato: Gian Antonio Rasero. “Quello dell’omicidio di Nervi, del bambino - aggiunge Morali. È nella sesta sezione, di grande sorveglianza, dove ci sono due agenti”. Ivan il Terribile, il serbo che ha fatto sospendere Italia - Croazia, non è passato di qui, ma è come se lo avesse fatto. Le sue gesta vengono rievocate ogni giorno. “Abbiamo saputo che a Pontedecimo fa palestra, si dedica alla lettura e sta facendo un corso di alfabetizzazione”. Si sente gridare. “Tu con lui ci devi stare, non devi essere razzista... “. L’agente convince un detenuto a tornare in cella. “È tunisino. Protesta perché l’abbiamo messo con un marocchino e non ci vuole stare. Si sono rivalità che purtroppo sfociano in aggressioni. Se potessimo farlo, li divideremmo, ma i posti sono finiti”. Daniel: dall’incubo droga al sogno di fare il cuoco Negli ultimi anni Daniel si è coricato presto, la sera. Niente amici, né svaghi, né ragazze. Daniel ha 23 anni, è di Sampierdarena, vive nelle terza Sezione a custodia attenuata. Non deve restare per forza venti ore in cella, come gli altri detenuti. Lui può anche uscire da quei pochi metri quadrati, girare lì attorno, e, se vuole, può perfino giocare a pallone nel campetto. Sembra una bestemmia, ma è fortunato, Daniel: sta seguendo un piano che aiuta i detenuti tossicodipendenti e li prepara gradualmente alla vita; passerà infatti a una comunità di recupero che tenterà di favorire il suo reintegro nella vita, libera. Sguardo profondo e tanti capelli, tagliati corti, che stanno su, dritti, come col gel. Una maglietta bianca e i pantaloni della tuta, come “prima”, quando stava fuori. Fuori da tutto, di testa e dal mondo. Quando aveva 15 anni, tanti problemi e non si trovava così a suo agio nella sua età, ha cominciato a farsi per uccidere il tempo e la noia del grigiore dei giorni e delle vie dove era nato. Poi col tempo, si sa, le emozioni non ti bastano mai, e dall’erba si passa alla polvere, non importa il colore. Ma la polvere costa. Per procurarla si arriva a tutto, anche a far cose che a mente fredda condanni e non giustificheresti mai: rubare. Gli amici non aiutano, in certi casi, e ti tirano sempre più giù, così in basso, che poi puoi solo risalire. Lui ci sta riuscendo, eccome: aleggia l’aroma dei broccoletti strascicati in padella con l’aglio per tutto il corridoio. Fuori dalla cella l’insegna “trattoria a modo mio e... non si discute”. Ha carattere Daniel, lo si capisce anche dal nome che ha voluto dare alla sua nuova attività, alla sua nuova vita. Non è solo in quest’impresa grande, è costantemente affiancato da uno psicologo, un educatore ed altra gente che lo vuole aiutare: “Sono felice di parlare con loro”. Da quello spinello sono passati anni, sempre in salita, con il groppo in gola e la morte nel cuore. Aveva anche provato a smettere, ma la grande voglia di “non vivere” glielo aveva sempre impedito, d’accordo con le cattive compagnie, ragazzi sfortunati come lui, con cui il destino non era stato magnanimo. L’ultimo furto gli era costato 20 mesi. Uscirà a luglio, la prossima estate e il suo sogno è quello di aprire un posto dove cucinare come ha imparato lì, a Marassi, chi l’avrebbe mai detto, ma forse, dice lui fattosi un pò più piccolo e timido, gli basterebbe andare a cucinare anche per altri, in un ristorante, o addirittura, si accontenterebbe di fare le pulizie. “Ma se potessi servire un bel risotto ai funghi e panna, la mia ricetta preferita, farei i salti di gioia”. Non tutti siamo in grado di capire i sogni di un ragazzo, che ha vissuto una vita particolare. Nella cella a fianco c’è Johnny, ha 24 anni e capelli biondi. Quasi un americano. Anche lui ha un sogno: la sua cella è satura di colori sciolti dentro bicchieri di plastica allineati sul tavolino. Tutt’intorno i muri sono ricoperti delle sue “gouache”. Vorrebbe essere come Vincent Van Gogh e si esprime tratteggiando segmenti di luce abbagliante, perché lo aiutino a uscire dalle sue tenebre. Esporrà lunedì, il 21 marzo, primo giorno di primavera, nel palazzo della Regione nell’ambito del convegno “Un ponte tra carcere e territorio”. Napoli: mai applicata l’ordinanza anti sovraffollamento del magistrato di sorveglianza Il Velino, 19 marzo 2011 In varie città d’Italia si protesta contro il sovraffollamento delle carceri. In Campania c’è un surplus di 2.333 detenuti: dato provvisorio che sarà aggiornato a fine marzo dalla Uil penitenziaria. La casa circondariale di Poggioreale è l’enorme macchia nera della mappa carceraria. Sono 1.658 i posti disponibili, ma dietro le sbarre del più grande istituto di pena campano, i detenuti sono quasi il doppio: 2679. Eppure c’è un provvedimento contro il sovraffollamento, ma mai applicato. È l’ordinanza del 20 aprile 2010 firmata da Angelica Di Giovanni, allora presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli. Nella nota inviata ai direttori degli istituti di pena, il magistrato disponeva “che la direzione della Casa circondariale di Poggioreale si attivi con pronta sollecitudine per eliminare ogni possibile situazione di contrasto con l’articolo 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani”. Nella nota c’era anche un esplicito riferimento al numero dei detenuti “quasi il doppio” dell’effettiva capienza proprio a Poggioreale. Eppure quella circolare non è mai stata applicata. In sintesi, non è mai stato dato seguito a un preciso ordine dell’autorità giudiziaria. La questione è ora nelle competenze della procura della Repubblica. C’è una denuncia ben precisa sulla quale i pm sono a lavoro per verificare ipotesi di reato: una su tutte omissione in atti d’ufficio. Rieti: Uil-Pa; contrari ad apertura Reparto G, potrebbero arrivare altri 300 detenuti Dire 19 marzo 2011 “La casa circondariale di Rieti, aperta nell’ottobre 2009 con 100 agenti di Polizia Penitenziaria per un solo reparto che poteva contenere circa 60 detenuti, oggi ne contiene oltre 100. Dal prossimo 23 marzo la direzione del carcere ha stabilito l’apertura del reparto più grande, dove possono essere ubicati altri 300 detenuti”. È quanto si legge in una nota a firma di Daniele Nicastrini, segretario Uil-Pa Penitenziari di Roma e Lazio. “La stessa direzione nell’incontro con le organizzazioni sindacali del 21 febbraio scorso, ha voluto precisare che tale apertura dovrebbe essere parziale per 150 detenuti - spiega il comunicato - in realtà tale apertura porterà inevitabilmente (per il più grande sovraffollamento della storia penitenziaria della Repubblica italiana) ad avere in breve tempo i livelli massimi di detenuti, ma rimanendo con solo i 100 agenti distribuiti su tre turni più uno destinato al rispetto dei diritti contrattuali”. Per questi motivi la Ui-lpa Penitenziari, “dopo aver chiesto al Dap di sospendere tale apertura e aver avuto rassicurazioni dal vicecapo, Emilio Di Somma, dobbiamo prendere atto negativamente che questa promessa non sarà mantenuta e quindi la città di Rieti si ritroverà entro breve tempo con tanti detenuti che nella sua storia non ha mai avuto e con pochi agenti penitenziari, insufficienti a garantire sicurezza al suo interno”, continua la nota. “Questo inciderà negativamente anche sul trattamento penitenziario e sui servizi connessi alle traduzioni e piantonamenti fuori dalla struttura penitenziaria”, si legge ancora nel comunicato. “Per questi motivi, dopo aver invitato lo scorso 10 marzo la direzione a soprassedere ed aver indetto lo stato di agitazione con l’esposizione delle nostre bandiere, per evidenziare le nostre preoccupazioni dovute alla conoscenza negativa su come l’amministrazione penitenziaria che non ha progetti e vive alla giornata senza criterio, gestisce questi momenti - prosegue la nota - siamo costretti a dover protestare il prossimo 23 marzo dinanzi al carcere per ulteriormente evidenziare che questa scelta dell’amministrazione penitenziaria metterà a rischio la gestione sulla sicurezza del carcere, come accade da tempo in altre strutture penitenziarie della Regione Lazio, dove la popolazione detenuta ha superato quota 6.300 rispetto ai 4.500 posti letto, con 3.000 agenti penitenziari rispetto ai 4.136 previsti ma mai avuti”. “Questo dato dovrebbe far comprendere quale siano i metodi del Dap - Dipartimento amministrazione penitenziaria - e dei suoi uffici inferiori... Tutto questo - conclude il comunicato della Uil-pa Penitenziari di Roma e Lazio - ci pone nella condizione di dover assumere ulteriori iniziative, come doverci fermare pacificamente davanti al carcere il prossimo 23 marzo per evidenziare quanto rappresentato”. Voghera (Pv): un’evasione preparata da tempo, quella dei tre detenuti albanesi di Fabrizio Merli La Provincia Pavese 19 marzo 2011 Ricerche a tutto campo, incluso un appostamento a Crova, frazione di Moneglia, dove vive la famiglia di uno degli evasi. Ma dei tre albanesi fuggiti giovedì dal carcere di Voghera non c’è ancora traccia. Nel frattempo si è saputo che i tre si trovavano in isolamento. Pare che un paio di settimane fa, uno di loro fosse stato trovato in possesso di un attrezzo che non doveva avere. Ieri, in via Prati Nuovi, c’è stata un’ispezione dei vertici del Dap. Per il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ieri ha parlato il provveditore Luigi Pagano, che già nel pomeriggio di giovedì aveva raggiunto Voghera. “Secondo quanto abbiamo accertato - ha spiegato - i detenuti si sono serviti di un seghetto per tagliare la grata che ricopre il cortile del passeggio. Dopo avere scavalcato questo primo ostacolo, hanno raggiunto il muro principale di recinzione. Avevano delle lenzuola annodate, legate a una specie di rampino artigianale. Lo hanno lanciato verso la sommità del muro e l’hanno scalato. Poi si sono serviti delle medesime lenzuola per scendere dall’altra parte. Di questo tratto, abbiamo le immagini registrate. Dal muro a una cancellata hanno percorso meno di 10 metri, mentre scattava l’allarme. La loro “fortuna” è stata quella di imbattersi quasi subito in un’autovettura. Se ne sono impadroniti e sono fuggiti”. Decisamente meno fortunato è stato l’incontro di Teresa Ivaldi, la titolare del ristorante vogherese “Rally” che era alla guida della propria Terios. La donna è stata tirata fuori dall’abitacolo con la forza e i tre albanesi, saliti sulla vettura, sono scomparsi in via Tortona. Le ricerche sono iniziate subito. Una squadra della protezione civile con unità cinofile, già nel pomeriggio di giovedì, ha raggiunto il carcere di Voghera. Ai cani, sono stati fatti annusare alcuni effetti personali di Ylli Ndoj, 34 anni, capo di una banda di rapinatori nelle ville, Leonard Myrtaj, 33 anni, in cella per sequestro di persona ed estorsione e Dritan Rexhepai, 31 anni, condannato per traffico di droga. Poi gli istruttori, accompagnati da agenti della polizia e da carabinieri, hanno iniziato a perlustrare le zone periferiche della città. L’attenzione delle squadre, nella tarda serata di giovedì, si sarebbe concentrata in particolar modo nella zona della ex fornace Palli. Probabilmente si temeva che uno degli evasi avesse preferito trovare un ricovero di fortuna anziché allontanarsi subito dalla provincia di Pavia. Nel frattempo, le indagini venivano avviate anche in Liguria. La famiglia di Leonard Myrtaj, infatti, vive a Crova, frazione di Moneglia, piccolo Comune vicino a Sestri, nel levante ligure. Per questo i carabinieri sono stati allertati. Myrtay stava scontando una pena per il sequestro a scopo di estorsione di un imprenditore ligure ed era stato arrestato a Pontremoli. Gli accertamenti, tuttavia, sono in corso anche al carcere di Voghera perché, evidentemente, la fuga era stata preparata in anticipo e con grande cura per i particolari. Tanto che, secondo indiscrezioni, a uno degli evasi sarebbe stato sequestrato nei giorni scorsi anche un attrezzo sospetto. Se il fronte delle indagini è apertissimo, non accennano a scemare nemmeno le polemiche. Ieri tre esponenti della Cgil funzione pubblica, Natale Minchillo, Calogero Lo Presti e Massimiliano Preti, hanno denunciato un “clima estremamente teso che si respira all’interno degli istituti di pena pavesi”. E hanno parlato di “scarsissimi livelli di sicurezza”. Perugia: rimpatri detenuti stranieri; in tutto 43, li sta attuando da oltre un anno la questura Agi 19 marzo 2011 Sono 12, dall’inizio dell’anno ad oggi, gli stranieri clandestini che l’ufficio immigrazione della questura di Perugia ha provveduto ad accompagnare alla frontiera dopo aver scontato la loro pena in carcere. Cinque di loro (tre albanesi, un marocchino e un turco) sono stati espulsi nel corso di questa settimana dopo aver scontato condanne per droga e, in un caso, per tentato omicidio. Dal primo gennaio 2010 ad oggi l’ufficio immigrazione ha permesso di procedere all’effettivo allontanamento di 43 stranieri clandestini, di cui 19 albanesi, 16 di etnia magrebina, 3 sud americani, 4 dell’africa centrale e 1 turco. Secondo quanto riferisce una nota della questura, al fine di contrastare in maniera efficace e mirata l’attività illecita di stranieri clandestini dediti alla commissione di reati che destano particolare allarme sociale, l’ufficio immigrazione ha intrapreso da tempo una intensa attività finalizzata al rimpatrio mediante accompagnamenti alla frontiera di stranieri condannati per reati in materia di stupefacenti, contro la persona e il patrimonio e detenuti negli istituti di custodia penitenziaria di Perugia e Spoleto. “La possibilità da parte della magistratura di sorveglianza, in presenza dei requisiti previsti dalla legge, di infliggere allo straniero clandestino in prossimità del fine pena la sanzione sostitutiva o la misura di sicurezza dell’espulsione dallo stato - si legge nella nota - , consente di pianificare l’attività di accompagnamento in funzione preventiva, evitando così che lo stesso, dimesso dal carcere e permanendo la situazione di irregolarità sul territorio nazionale, possa intraprendere nuovamente attività illegali”. Presupposto per l’applicazione della misura è l’esatta identificazione dello straniero privo di documenti. Occorre quindi procedere all’acquisizione delle impronte e al successivo inoltro presso le competenti autorità diplomatiche del probabile paese di origine dello straniero, che, qualora riconosca il medesimo proprio cittadino, provvede a fornire idonea documentazione utile all’espatrio. Ravenna: un patto a favore dei detenuti tra Comune, Provincia, Ausl e Terzo Settore Dire, 19 marzo 2011 Il Comune e la Provincia di Ravenna, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, la Casa circondariale e l’Azienda Usl, insieme con una decina di soggetti del terzo settore e del volontariato che si occupano a vario titolo della popolazione detenuta, daranno il via a una serie di azioni per il miglioramento delle condizioni di vita dei carcerati attraverso percorsi di reinserimento sociale e lavorativo e sostegno nei confronti di chi sconta misure alternative alla detenzione. “Tra il dire e... il fare...” è il titolo del documento, varato nei giorni scorsi, che contiene tali impegni, riferisce l’amministrazione comunale in una nota, e che fa seguito ad un Protocollo d’intesa siglato in precedenza dagli stessi enti. L’assessore ai servizi sociali Pericle Stoppa che, in qualità di presidente del Comitato locale per l’Area Esecuzione penale adulti, coordina il tavolo per il Carcere, esprime fiducia nelle potenzialità di questo documento che “rappresenta, rispetto al precedente Protocollo, un salto di qualità in senso pratico - sottolinea in una nota - . Si è passati, infatti, dagli obiettivi di carattere generale agli impegni concreti. Ogni soggetto firmatario accanto agli obblighi istituzionali, metterà a disposizione condividendoli coi partner, progetti e risorse economiche aggiuntive. È il punto d’arrivo di un percorso che ci ha impegnati in questi anni a mettere in rete le risorse disponibili, ma anche un punto di partenza: è prevista, infatti, una verifica semestrale sull’attuazione dell’agenda”. Tra gli incarichi previsti, per esempio, secondo le rispettive competenze, verranno realizzate attività ricreative dalla Caritas, dal Comitato pro detenuti dell’Arci (eventi musicali), dall’Uisp (attività sportive), dal Centro Territoriale Permanente (cineforum). Il Centro per l’Impiego e il Sert hanno in programma attività di informazione e formazione, così come progetti formativi professionalizzanti saranno organizzati, Cooperativa sociale La Pieve e Centro Provinciale Formazione Professionale e da da Asp che, con il Comune, si occuperà anche di percorsi di avviamento al lavoro, con gli strumenti del tirocinio e della borsa lavoro. Il Comitato cittadino antidroga, in accordo con l’Asp, valuterà la possibilità di accoglimento presso il dormitorio di persone da dimettere o in misura alternativa. Soddisfazione è stata espressa anche dalla direttrice della Casa Circondariale, Carmela De Lorenzo che ha affermato: “Abbiamo messo a punto opportunità volte alla coesione sociale, allo scopo di ottenere un miglioramento della qualità della vita e dei servizi offerti ai detenuti, anche attraverso un forte canale di ascolto, dialogo e partecipazione tra l’amministrazione penitenziaria e tutte le parti. L’obiettivo è di tutelare i diritti costituzionalmente garantiti, attinenti la dignità e la libertà delle persone, promuovendo il rispetto della vita e la sicurezza sociale, favorendo la riduzione del fenomeno della recidiva. Solo attraverso un lavoro in rete, attraverso percorsi formativi, borse lavoro, manifestazioni culturali, è possibile fare del carcere un luogo da cui si può ricominciare e non solo un luogo in cui si “finisce”. Messina: alta tensione tra il personale all’Opg di Barcellona, quattro aggressioni a febbraio Gazzetta del Sud, 19 marzo 2011 Circa 300 agenti di polizia penitenziaria hanno partecipanto a Palermo alla manifestazione regionale indetta dai sindacati di categoria per la mancanza di personale, di fondi, strutture, mezzi e il sovraffollamento delle carceri. Il corteo, che è partito dal carcere Ucciardone, è sfilato per le vie del centro fino alla prefettura. “In una terra dove il problema vero è la mafia, come si fa a fronteggiare la situazione - dice il segretario regionale della Fns Cisl, Giovanni Saccone - senza mezzi, personale, strutture e risorse. Abbiamo organizzato lo stato di agitazione per chiedere al governo, che ha fatto della sicurezza il suo cavallo di battaglia durante l’ultima tornata elettorale, un intervento immediato. la Sicilia non può essere trattata in questo modo”. I sindacati, in particolare, lamentano la carenza di personale femminile, insieme all’inadeguatezza delle strutture. “A causa del sovraffollamento delle carceri - dice il segretario regionale del Sappe, Calogero Navarra - abbiamo difficoltà a garantire la sicurezza dei detenuti stessi dentro le carceri. Ci troviamo a dover sopperire una carenza di personale che si traduce nell’insofferenza dell’utenza dei detenuti stessi ed è alla base dei suicidi e degli atti di autolesionismo che negli ultimi tempi sono aumentati” Nel carcere Ucciardone di Palermo non vengono svolti interventi di manutenzione ordinaria, mancano gli impianti di riscaldamento e le celle hanno la muffa sulle pareti. Nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, il “Madia”, invece, sono aumentate le aggressioni al personale da parte dei detenuti: a febbraio sono state 4 in meno di quindici giorni. A denunziarlo alcuni agenti di polizia penitenziaria, che hanno partecipato alla manifestazione regionale indetta dai sindacati. Il carcere Ucciardone è una delle 27 strutture presenti nell’isola: sono 630 i detenuti e circa 400 gli agenti in servizio, di cui solo cinque donne. “Ai detenuti non vengono garantiti i diritti più elementari - dice il segretario provinciale della Fp Cgil Anna Maria Tirreno - è una struttura antica, fatiscente, cade a pezzi”. “Servirebbero almeno 100 agenti in più - sottolinea il segretario provinciale del Sappe, Giuseppe Terrazzino - il contratto prevede turni di 6 ore, la media giornaliera è di otto, a volte ne svolgiamo 12 continuative”. Nell’ospedale psichiatrico di Barcellona Pozzo di Gotto, dove sono ricoverate circa 380 persone, la pianta organica prevede 180 unità di personale, ma gli agenti in servizio sono solo 122. “Nell’ultimo mese si sono verificate 4 aggressioni - dice il segretario provinciale dell’Ugl polizia penitenziaria di Messina, Lillo Italiano - la più eclatante è quella di un detenuto, che ha colpito un agente con una tavola con dei chiodi, non sappiamo come sia riuscito a procurarsela”. “La carenza di organico - aggiunge - incide anche sull’attività di controllo”. Secondo un documento elaborato dai sindacati sono 5 mila gli agenti di polizia penitenziaria in Sicilia, mentre la carenza di organico stimata di 518 unità. Sono circa 8 mila, invece, i detenuti nelle strutture penitenziarie, 3 mila in più, rispetto alla capienza massima, di circa 5.470 posti. Parma: Bernardo Provenzano trasferito nel carcere della città emiliana per cure sanitarie La Repubblica, 19 marzo 2011 Arriva da Novara. La sua situazione sanitaria per un tumore si sarebbe aggravata. Negli anni Settanta venne detenuto Luciano Liggio, il boss dei corleonesi, nel vecchio carcere di Parma. Già allora il centro clinico era considerato d’avanguardia. Oggi nella moderna struttura di via Burla, dove si trova anche un piccolo ma efficiente ospedale, arriva Bernardo Provenzano trasferito dal carcere di Novara a quello di Parma. Il provvedimento, disposto dalla Corte d’appello di Palermo per permettere cure appropriate al boss, è stato comunicato al suo avvocato Rosalba Di Gregorio. Si allunga così la lista dei detenuti eccellenti che hanno soggiornato nella città emiliana da Liggio appunto, a Licio Gelli, a Badalamenti a Luciano Lutring ma anche Leoluca Bagarella e Nitto Santapaola. In precedenza erano stati “ospiti” di via Burla Giovanni Brusca e il braccio destro di Totò Riina, Raffaele Ganci. Richiesta dell’oncologo. Per quanto riguarda Provenzano, la corte ha così accolto le richieste del pg che si era pronunciato dopo la diagnosi dell’oncologo Oscar Alabiso, primario di Oncologia a Novara, che aveva riscontrato la presenza di un tumore retrovescicale. Nel carcere di Parma il boss sarà seguito dal vicino istituto di cura che potrà monitorare costantemente la sua salute. La perizia sulle condizioni di salute del boss era stata chiesta dal legale di Provenzano, Rosalba Di Gregorio, che, come prevede la legge, per ottenere gli accertamenti ha dovuto fare istanza di scarcerazione del padrino di Corleone. L’istanza di scarcerazione è stata, ovviamente, rigettata dalla corte. Prima di Alabiso, il boss era stato visitato anche dagli specialisti Francesco Maria Avato, Giuseppe Miceli e Francesco Montorsi, nominati dalla corte d’appello di Palermo che processava Provenzano per una tentata estorsione. Il parere dei periti. Erano stati gli stessi periti a indicare come necessario il pronunciamento di un oncologo. Per ottenere che qualcuno visitasse il suo cliente, il legale ha atteso oltre un anno. La prima richiesta di perizia, infatti, era stata fatta a giugno 2009. Allora il tribunale del processo Gotha delegò al carcere di Novara gli accertamenti. Per fare alcuni esami, come la Tac, Provenzano sarebbe dovuto uscire dal carcere ma il Dap respinse le richieste del tribunale che poi revocò l’istanza. A marzo 2010 il legale ha reiterato la richiesta di perizia alla corte d’appello e poi, da luglio, sono partiti gli accertamenti. Roma: era l’uomo più potente della Sicilia, ma adesso le mani che stringe sono quelle dei detenuti Live Sicilia, 19 marzo 2011 Totò Cuffaro, a Rebibbia, ha ricevuto duemila lettere e la visita di vescovi e politici. A una giornata a Rebibbia con Totò Cuffaro “S” dedica il servizio di copertina del nuovo numero, in edicola da oggi: l’ex presidente della Regione, che condivide la cella con l’autore di un duplice omicidio e con un truffatore, in cella non ha perso il codazzo che lo contraddistingueva da uomo libero. In cella, poi, il politico condannato per un reato infamante come il favoreggiamento alla mafia ha ricevuto, fra gli altri, anche la visita dell’ex vescovo di Catania, Giuseppe Bommarito, e l’ex presidente della Cei Camillo Ruini gli ha mandato una lettera. A Rebibbia i siciliani sono una minoranza. Tra i detenuti, ci sono alcuni catanesi nei confronti dei quali Cuffaro, però, preferisce mantenere una certa distanza. Non per partito preso, quanto per un senso di autoprotezione, visto che non li conosce. Gli altri detenuti gli hanno offerto una corsia preferenziale per ottenere una cella singola, ma l’ex governatore ha rinunciato. In cella sta leggendo “Le mie prigioni” di Silvio Pellico e “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. Intanto si prepara a una seconda laurea: punta a ottenere quella in Giurisprudenza. Cuffaro ha a disposizione un personal computer, con il quale risponde a chi gli ha scritto. Gli incontri con i familiari avvengono nel giardino del penitenziario e per incontrarli Cuffaro è obbligato a seguire un percorso all’interno del penitenziario romano che lo conduce attraverso una sezione diversa da quella che ospita la sua cella. La scena non cambia. Tutti in piedi per stringere la mano, attraverso le sbarre, del più famoso fra i detenuti. Che in questa condizione resterà per almeno cinque anni, il minimo che potrà scontare se dovesse accedere a tutti gli sconti disponibili per i detenuti modello: la pena per un reato grave, soprattutto per un uomo delle istituzioni. Trapani: progetto di rieducazione; incontro tra Amministrazione comunale e Casa circondariale La Sicilia, 19 marzo 2011 Rieducare il detenuto, favorendone il reingresso nella società civile, attraverso il lavoro. Del resto, la legge prevede che carcere debba assolvere non soltanto alla funzione punitiva, ma anche a quella del recupero di chi dietro le sbarre paga il suo debito con la società. Un obiettivo che il direttore della Casa circondariale di piazza Castello, Paolo Malato, e il capo degli agenti di polizia penitenziaria, Baldassare Di Bono, mai hanno perso di vista. E proprio in quest’ottica, adesso, dopo le diverse iniziative didattico - sociali degli ultimi anni, si stanno realizzando i presupposti per consentire ad alcuni detenuti, quelli socialmente meno pericolosi, di uscire dal carcere per lavorare. A tal fine, in Municipio, si è tenuto un incontro tra l’assessore alle Politiche sociali Vincenzo Savatteri, il presidente del Consiglio comunale Oreste Alagna, il comandante delle guardie carcerarie Baldo Di Bono e il funzionario della professionalità giuridico - pedagogica Lilli Castiglione. “Scopo dell’incontro - si legge nella nota diffusa dal Palazzo di via Garibaldi termine del vertice - è stato quello di gettare le basi per la stipula di un protocollo d’intesa fra le due istituzioni al fine di consentire ad alcuni detenuti, in possesso di particolari requisiti, di potere effettuare un periodo di riabilitazione lavorando all’esterno della struttura di pena e possibilmente al Comune. Una vera e propria rieducazione per persone che hanno sbagliato, hanno pagato e scontato la loro pena e che vogliono reintegrarsi nella società civile”. A questo scopo, nel 2005, fu avviato il progetto “La Girandola”, redatto dalla Fidapa e finanziato dal Comune. Il progetto, portato avanti per alcuni anni, prevedeva tre laboratori. Due dei quali, insegnamento della lingua inglese e informatica, chiesti dagli stessi carcerati. I terzo relativo alla lavorazione della ceramica. Imparare un lavoro è sempre utile. E tali iniziative, sottolinea il direttore Paolo Malato, vengono sempre “accolte favorevolmente dai detenuti”, ai quali, nel maggio 2010, è stato anche concesso di assistere ad una rappresentazione teatrale. A varcare le porte del carcere sono stati gli attori della Compagnia “Nuovi Orizzonti” di Santo Padre delle Perriere, che hanno messo in scena la commedia dialettale “Servizio completo”, facendo trascorrere ai detenuti un paio d’ore in allegria. Genova: lavori socialmente utili; il detenuto sconta la pena lavorando su un’ambulanza Secolo XIX, 19 marzo 2011 Si può sbagliare e ricominciare. E la vita di Antonio Garofalo, detto Antonino, nato a Palermo, è ricominciata a 41 anni. Dopo un tuffo al cuore, dopo una di quelle notizie che ti leva il respiro. Esattamente la mattina del 16 aprile 2010, dopo una notifica dei carabinieri. Deve scontare ancora 3 anni e 2 mesi di carcere e deve costituirsi. Il respiro di Antonino si ferma un secondo. la sua mano si blocca con il foglio in mano. Perché Antonino, in carcere, c’era già stato, tre anni. Tre anni di sofferenza e pentimento, tre anni nei quali aveva imparato che la vita è fuori, tre anni nei quali aveva collaborato con la giustizia. “Quando sono stato riportato nel carcere di Marassi - spiega - ho pensato che fosse finita, che da quel mondo non sarei potuto uscirne più”. E invece non è stato così. Prima della notifica, infatti, Antonino aveva conosciuto la realtà della Croce Verde di Prà. Si era iscritto e, visto che aveva fatto e superato i corsi necessari per salire sulle ambulanze, aveva iniziato a fare il volontario. E proprio la dirigenza e i militi della pubblica assistenza hanno deciso di intraprendere insieme a un avvocato le pratiche per l’affido, che avrebbero consentito ad Antonino di scontare la pena presso l’ente di soccorso, come volontario. “Lo avevamo conosciuto un anno prima di quella notifica - spiega Massimiliano Zippo, direttore dei servizi della Croce Verde di Prà - e sapevamo bene la sua storia. Per iscriversi, infatti, aveva dovuto presentare la fedina penale e i carichi pendenti. Sapevamo che aveva un processo in appello non ancora terminato ma niente lasciava presagire a una nuova condanna. Conoscevamo però anche la sua storia umana, quella che l’ha portato a sbagliare. Lo abbiamo seguito, osservato. Ci siamo resi conto che è un uomo eccezionale, serio, rispettoso. Quando quella mattina di aprile, in lacrime, ci ha detto che avrebbe dovuto costituirsi per scontare altri tre anni di carcere, ringraziandoci perché ci aveva considerato come una famiglia, non ce la siamo sentita di lasciarlo solo. Abbiamo così deciso di rivolgerci a un avvocato, studiare qualcosa per poterlo salvare da quello che per lui, lo sappiamo bene, sarebbe stato un inferno. E abbiamo capito che l’unico modo di aiutarlo era chiederne l’affido per il tempo della pena. Non ci abbiamo pensato due volte, abbiamo fatto tutte le pratiche necessarie e, dopo sei mesi, il magistrato di sorveglianza ha dato il via libera ed è tornato da noi”. Salerno: interrogazione di Rita Bernardini, a seguito della lettera dei detenuti tossicodipendenti La Città di Salerno, 19 marzo 2011 La deputata radicale Rita Bernardini presenterà un’interrogazione parlamentare per conoscere le iniziative che il ministro dell’Interno ha intenzione di portare avanti per affrontare le situazioni di estremo disagio che vengono denunciate dai detenuti ristretti nella sezione tossicodipendenti del carcere di Salerno. Ad annunciarlo è stata la stessa deputata, a seguito della lettera - denuncia pubblicata nei giorni scorsi dal nostro quotidiano. Nella missiva, alcuni detenuti hanno evidenziato come “il diritto alla salute è un diritto non garantito ai carcerati”. “Siamo costretti in otto in una cella di pochi metri quadrati per oltre 22 ore al giorno - hanno scritto i tre detenuti”. E costretti, hanno aggiunto i firmatari della lettera - “a subire intimidazioni e minacce, mentre noi vorremmo solo riuscire, con l’aiuto delle istituzioni competenti, ad uscire dal tunnel della droga ed avere una vita migliore, ma tutto questo non è possibile”. Una risposta dal territorio potrebbe arrivare, ha sottolineato il presidente dell’associazione radicale “Maurizio Provenza” Donato Salzano, “dall’istituzione del garante dei detenuti, una battaglia che ci sta impegnando da anni nel territorio di Salerno”. Velletri (Rm): Cisl; il Dap ci invia 10 unità in missione, segnale importante ma restano problemi Dire, 19 marzo 2011 “Il Dipartimento amministrazione penitenziaria, dopo la denuncia della Fns Cisl Lazio alle varie articolazioni dell’amministrazione penitenziaria della situazione dell’organico dell’istituto di Velletri e alla richiesta di opportuni provvedimenti quali l’invio di congruo contingente di mediante interpello straordinario o provvedimenti di missione noto, accoglie la richiesta ed invia con effetto immediato 10 unità in missione. Detto invio dovuto, comunque, anche dalla protesta iniziata dal personale lo scorso 10 marzo e condiviso dalle organizzazioni sindacali circa l’astensione dalla mensa”. Lo dice in una nota il coordinatore regionale della Fns Cisl, Massimo Costantino. “Per la Fns Cisl si tratta di un numero non irrisorio di unità in più, considerata anche la carenza che si registra in altre realtà del Lazio e non solo, ovviamente il provvedimento non ci gratifica del tutto, ma si tratta di un segnale importante inviatoci dal Dap che sottolinea come la problematica sia stata recepita dagli organi centrali - conclude Costantino - La Fns Cisl si aspetta comunque che un congruo numero di personale sia inviato all’istituto di Velletri al termine del corso, il 163esimo, che avrà inizio il prossimo 26 marzo e avrà una durata di sei mesi”. Genova: biblioteca Berio; mostra su opere detenuti sarà inaugurata il 21 marzo Adnkronos, 19 marzo 2011 Le opere grafiche realizzate dai detenuti delle Case Circondariali liguri sarà inaugurata il 21 marzo, alle 17, alla biblioteca Berio di Genova, in Sala Mostre. Interverranno Milò Bertolotto, assessore della Provincia, con delega alle carceri, Giovanni Salamone, provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria, Enzo Paradiso, della Coop Sociale il Biscione, criminologo, Cinzia Vola, curatrice della mostra. Verranno esposti Tele, disegni e bozzetti. Parma: pari opportunità per i papà detenuti; il Laboratorio Gioco per accogliere i figli in visita Parma Daily, 19 marzo 2011 Sostenere e promuovere le relazioni familiari e la genitorialità degli ospiti degli Istituti Penitenziari di Parma; garantire condizioni di pari dignità ai genitori detenuti, agevolando le visite da parte dei loro figli; affiancare le famiglie sia all’interno che all’esterno del carcere grazie al volontariato penitenziario: è nato con queste finalità il progetto Laboratorio Gioco, per l’accoglienza in carcere dei famigliari dei detenuti, e in particolare dei minori, durante lo svolgimento dei colloqui. Prima esperienza del genere in Italia all’interno di un carcere maschile, il Laboratorio Gioco ha il patrocinio del Ministero per le Pari Opportunità e non a caso, se pur attivo da agosto, viene presentato alla città in occasione della Festa del Papà. Il Laboratorio Gioco rientra nell’ambito del progetto “Laboratorio”, che ha dato vita, a oggi, in città, anche a tre Laboratori Famiglia - Al Portico, in Oltretorrente e San Martino - e a otto Laboratori Compiti in diversi quartieri cittadini. La novità del progetto sta nella modalità, “laboratoriale” appunto, di “pensare e fare insieme” per promuovere politiche familiari innovative e far crescere una rete di solidarietà e un welfare sussidiario attorno alla famiglia. All’interno degli Istituti penitenziari di Parma, in spazi individuati dalla direzione, il progetto porta un’animazione con momenti di gioco e di ricreazione per bambini e ragazzi che, provenienti da tutta Italia, entrano nel carcere in visita ai famigliari detenuti. Le attività sono differenziate a seconda dell’età. I bambini e i preadolescenti possono così condividere piacevoli momenti di gioco, leggere storie, partecipare a laboratori creativi e socializzare. Le attività si avvalgono della presenza di educatori professionali, dell’apporto di giovani volontari e della preziosa collaborazione della Polizia Penitenziaria. Il Laboratorio Gioco è attivo tutto l’anno, i martedì e i venerdì dalle 8.30 alle 14.30. Il progetto Laboratorio Gioco nasce in collaborazione tra il Comune di Parma - Agenzia per la Famiglia, gli Istituti Penitenziari, l’associazione di volontariato “Per ricominciare”, le Acli di Parma e Forum Solidarietà. Danno, inoltre, il loro contributo la Consulta comunale delle Associazioni familiari e il Forum delle Associazioni familiari. L’esperienza, iniziata in via sperimentale nell’estate 2010, alla luce dei risultati ottenuti - da agosto a oggi più di 250 bambini con le loro famiglie ne hanno usufruito - è ormai consolidata e continuerà per i prossimi due anni. Il progetto Laboratorio Gioco affianca altri progetti promossi dall’associazione “Per ricominciare” e sostenuti dal Comune: tra questi, le case di accoglienza “Il Focolare” e “Il Samaritano” per i parenti in visita e per i detenuti in permesso, a sostegno delle famiglie, della genitorialità. Anche il Laboratorio Gioco, come i Laboratori Famiglia e i Laboratori Compiti, ha il sostegno degli “Amici del Laboratorio”, Parmalat spa e Colser Servizi di Parma. I partner del progetto Laboratorio Gioco L’Agenzia per la Famiglia del Comune di Parma ha come priorità quella di valorizzare il ruolo della famiglia e accompagnare il suo impegno quotidiano attraverso il coordinamento e il sostegno a progetti di comunità, sussidiari alla stessa, condivisi e partecipati da più attori sociali, affinché a Parma si consolidi un welfare di comunità intorno alla famiglia. Tali fini sono perseguiti anche attraverso l’offerta di occasioni strutturate, che favoriscano la socializzazione e l’integrazione nel contesto sociale di riferimento e che offrano opportunità di crescita equilibrata e armonica. Nel 2009, la mostra interattiva “Momo, non ho tempo!” realizzata nell’ambito del progetto “Per educare un fanciullo serve un intero villaggio” ha saputo valorizzare una realtà considerata di frontiera, come l’istituzione carceraria, realizzando una parte del progetto stesso con i detenuti dell’Istituto Penitenziario di Parma, anche con il riconoscimento del Ministero Grazia e Giustizia. Nel 2010, il Comune di Parma, sostenendo la logica delle pari opportunità, ha ritenuto di finanziare con un contributo il progetto sperimentale Laboratorio Gioco, che, partendo da una tutela del minore, si dimostra capace di contribuire in maniera significativa a migliorare le relazioni all’interno delle famiglie che hanno un componente sottoposto a regime di detenzione. Gli Istituti Penitenziari di Parma collaborano con il Comune di Parma e il volontariato al fine di promuovere azioni a tutela della famiglia delle persona detenute. Sensibilizzano inoltre sulla necessità di migliorare l’accoglienza non solo delle persone detenute in occasione della loro scarcerazione o della concessione delle misure alternative o nella fruizione dei permessi premio, ma anche per facilitare i rapporti con la famiglia, accogliendola, ospitandola, offrendo assistenza. L’associazione di volontariato “Per ricominciare” fa parte della Consulta comunale delle Associazioni familiari. Dal 2004, opera a supporto dei famigliari dei detenuti nel carcere di Parma con progetti riconosciuti e sostenuti dal Comune come la struttura “Il Focolare”, che offre un servizio di accoglienza temporanea per famigliari non residenti e in condizione di indigenza, e la struttura “Il Samaritano” che accoglie detenuti che fruiscono di licenze e permessi premiali, da soli o congiuntamente ai famigliari. L’associazione Acli Parma, forte dell’esperienza nazionale Progetto Punti Famiglia, collabora supportando il progetto Laboratorio Gioco, nell’ottica di affiancamento delle famiglie dei detenuti e di monitoraggio delle situazioni in uscita dal carcere con riferimento al ricollocamento formativo e lavorativo. Questi interessi sono costantemente condivisi con Forum Solidarietà di Parma, quale Centro Servizi per il Volontariato, che già collabora per dare concretizzazione allo sviluppo delle istanze provenienti dalle associazioni di volontariato cittadine. Per l’organizzazione della Festa del Papà in carcere si ringraziano Camst, Toyland e V.I.P. Parma - Viviamo In Positivo. Il messaggio del ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna “Il carcere - scrive il ministro nel suo messaggio di saluto - è un ambiente particolarmente difficile per i minori. Il bambino che vi accede per far visita al proprio congiunto si trova a condividere una situazione che non è sempre in grado di comprendere, che non sempre è preparato ad affrontare e che non è sempre tutelante nei suoi confronti. Ciò può portare ad un inasprimento del già delicato rapporto relazionale padre - figlio”. “È quindi lodevole - prosegue il ministro - cercare di rendere questo rapporto quanto più simile alla normalità, creando uno spazio che sia un’occasione di dialogo, di svago, di confronto, e che alleggerisca il momento di vita vissuta insieme. Su questo, le istituzioni Statali sono al lavoro, ma nulla sarebbe l’operato svolto se non ci fossero importanti realtà locali a dare esempio e supporto, coadiuvate in questo dall’indispensabile lavoro svolto dalla società civile e dalle associazioni di volontariato, alle quali in particolare va il mio più caloroso ringraziamento”. Dichiarazioni Il sindaco Pietro Vignali ha sottolineato come “questo laboratorio è importante per il luogo dove ci troviamo. I detenuti sono anche padri, figli, persone cui dare una speranza di ricominciare. La famiglia è la prima agenzia educativa, solo da essa può riprendere un progetto di vita. Questo laboratorio è il segno di una città che non vuole dimenticare nessuno”. Il direttore del carcere Silvio Di Gregorio ha ringraziato Cecilia Greci e l’Agenzia per la Famiglia del Comune di Parma, ma anche l’associazione “Per Ricominciare” per aver reso possibile questo progetto: “Qui il bambino viene accolto in uno spazio dedicato alle sue esigenze, esigenze diverse da quelle dei genitori. Il carcere è parte integrante della comunità e per questo ci piace sapere che quanto viene fatto fuori di qui, con i laboratori del Comune, può essere riprodotto anche in carcere”. La delegata del sindaco alla Famiglia Cecilia Greci aveva un paio di occhiali al collo “li hanno fatti i bambini e li regaleranno ai papà per la loro festa. Un simbolo per guardare il futuro con nuovi occhi. Ci sono famiglie in via Solferino, in Oltretorrente ma anche in carcere - ha poi continuato la Greci - questo è uno spazio dedicato a loro. Funziona da luglio e oggi è molto frequentato, anche qui come in altre parti della città siamo riusciti a portare una rete di mani, di cuori e di menti”. Presenti anche le parlamentari del Pd Albertina Soliani e Carmen Motta, da sempre vicine alle realtà dei carcerati: “Oggi è l’inizio di un lavoro - ha detto la senatrice - che deve continuare e che mette insieme istituzioni e volontariato, ma che soprattutto mette al centro la persona qualsiasi sia la sua situazione. Stamattina si dimostra come la Costituzione non si fermi davanti alle mura di un carcere”. Dopo la benedizione del cappellano del carcere padre Celso e di Don Valentini, che ha letto il brano del vangelo di Zaccheo nell’oasi di Gerico, ha preso la parola Emilia Zaccomer dell’associazione “Per Ricominciare” che con i suoi volontari anima questo e molti altri progetti all’interno del carcere: “Chi come noi opera all’interno dell’istituto ha capito come ci fosse bisogno tra i carcerati di rinsaldare i vincoli famigliari. Con il Comune e il direttore Di Gregorio è stato pensato questo progetto che in via sperimentale è iniziato da quattro mesi. Un grazie di cuore a tutti, soprattutto alla polizia penitenziaria che su questa partita ci ha messo il cuore, travalicando il proprio compito e il proprio dovere”. Infine Franco Pizzarotti di Forum Solidarietà ha parlato di progetto “straordinario, al di fuori dalla norma”. Stati Uniti: Rapporto Commissione Diritti Umani; gli immigrati detenuti “senza dignità umana” La Stampa, 19 marzo 2011 Un rapporto di un’organizzazione per i diritti umani denuncia la condizione in cui versano tanti clandestini detenuti negli Stati Uniti Non hanno accesso all’assistenza legale e a cure mediche, sono in prigione “ingiustamente” e vivono al di sotto degli “standard internazionali” previsti. Questa è la realtà quotidiana per la maggioranza degli immigrati che si trovano nelle prigioni americane, secondo l’Inter - American Commission on Human Rights, un’organizzazione internazionale con sede a Washington, che si occupa del monitoraggio e della promozione dei diritti umani. In un documento di 155 pagine, una commissione indipendente ha svolto un’analisi a tutto campo sulla vita in cella degli immigrati clandestini, un duro atto di accusa nei confronti delle istituzioni americane che non lesina critiche neppure alla Casa Bianca, colpevole di aver demandato la gestione del problema ai singoli Stati. Secondo il rapporto, il governo non ha vigilato a sufficienza sull’azione di alcune polizie locali, che hanno spesso effettuato una selezione “in base alla razza”, mettendo in galera degli immigrati con il “pretesto” di voler investigare sui loro presunti trascorsi criminali. Queste conclusioni si basano su numerose sentenze dei tribunali, ma anche sul lavoro della commissione, che a partire dal 2008 ha ispezionato sei centri di detenzione in Texas e Arizona. Felipe Gonzales, responsabile delle indagini, non nasconde le perplessità su quanto ha visto: “Nella maggioranza dei casi la detenzione è una misura del tutto sproporzionata. Ci sono delle alternative più adeguate che tutelano al tempo stesso il legittimo interesse per la sicurezza dei cittadini, e il rispetto dei diritti umani e del nostro ordinamento”. Poi arriva l’attacco più difficile da digerire per le autorità: “In queste prigioni i prigionieri vivono in una condizione non commisurata alla dignità umana”. Il documento evidenzia che in certi casi gli immigrati non hanno la possibilità di ricorrere a medici o avvocati, soprattutto se si tratta di bambini senza genitori, disabili mentali, o altre categorie di persone che non sono in grado di difendersi da sole. Prima ancora della diffusione del rapporto, l’amministrazione Obama aveva già deciso di rivoluzionare il sistema carcerario in senso più centralistico. Una scelta che ha il duplice obiettivo di uniformare le pratiche anti clandestini e di realizzare strutture più confortevoli per gli immigrati in attesa di espulsione che non si sono macchiati di reati penali. I centri di detenzione che non raggiungeranno i parametri fissati dalla legge saranno chiusi, e si individueranno delle misure cautelari alternative alla detenzione. Gonzales approva i “timidi” tentativi di mettere mano a questa situazione esplosiva, ma non nasconde un certo scetticismo: “Non è chiaro se quanto promesso potrà davvero cambiare le condizioni di vita all’interno delle carceri, e se il nuovo sistema garantirà il reale rispetto dei diritti umani. In ogni caso, saremo lì a vigilare”. Thailandia: italiano arrestato per l’omicidio del socio d’affari Ansa, 19 marzo 2011 Un italiano socio d’affari di Luciano Butti, il ristoratore toscano ucciso martedì scorso a Phuket, in Thailandia, è stato arrestato insieme ad altri tre thailandesi con l’accusa di aver commissionato l’omicidio e assoldato un sicario dietro il pagamento di 150 mila baht (3.500 euro). Denis Cavatassi (42 anni), di Teramo, gestiva insieme a Butti un ristorante sull’isola di Phi Phi, dove la vittima viveva dal 1991. Secondo il manager thailandese del locale, Cavatassi vantava un cospicuo credito verso Butti; avrebbe quindi organizzato una trappola per attirarlo in un posto appartato a Phuket, dove il socio si trovava per presenziare alla causa di divorzio dalla moglie tedesca. I tre arrestati sono un socio thailandese di diversi business di Butti, insieme a due presunti complici, mentre il sicario e il fratello sono tuttora ricercati. Cavatassi - che si dice innocente - è al momento detenuto a Phuket, ma già questo lunedì potrebbe uscire su cauzione.