Giustizia: l’orrore degli Ospedali psichiatrici giudiziari, inchiesta sugli ultimi manicomi di Flavia Amabile La Stampa, 16 marzo 2011 Un letto dove si viene legati, e un foro nel mezzo per la caduta degli escrementi ed un paziente, completamento nudo, bloccato con corde intorno alle braccia e alle gambe. Il letto è arrugginito, per l’urina che da anni lo bagna. C’è anche questo nelle immagini presentate ieri mattina dalla Commissione d’inchiesta sul Sistema sanitario nazionale per denunciare l’orrore degli Ospedali psichiatrici giudiziari italiani. Le immagini sono contenute in un video girato in sei strutture. “È semplicemente un inferno dei dimenticati”, denuncia il presidente della commissione, Ignazio Marino. Il video sarà trasmesso domenica prossima nel programma “Presa diretta” di Raitre. I detenuti vivono in condizioni che Ignazio Marino definisce “disumane”. Sporcizia ovunque, spazi angusti, bottiglie d’acqua nel buco dei bagni alla turca per rinfrescarle o per impedire la risalita dei topi. Loro, i malati prigionieri, in molti casi si trovano negli Ospedali per reati minori che risalgono a decenni prima e soffrono di patologie mentali per le quali non sono però curati: pochissimi infatti i medici presenti, e nessuno psichiatra, per 4 ore a settimana in strutture in cui si contano anche 300 persone. “Qui ti uccidono piano piano”, dice uno di loro. “Sono luoghi infernali, rimasti inalterati dal 1930 all’epoca del Codice Rocco - spiega Ignazio Marino. Molti vi sono rinchiusi anche per reati minori di decenni prima ed in numerosi casi esiste anche la proroga, per cui una persona viene mantenuta negli Opg per mancanza di percorsi alternativi di assistenza, fino ad arrivare a una condizione che gli stessi magistrati definiscono di “ergastolo bianco”. Non possiamo tollerare che persone vengano dimenticate così per decenni e vogliamo arrivare - ha detto Marino - ad un superamento definitivo degli Opg”. Vale a dire chiuderne almeno tre su sei e, comunque, arrivare all’individuazione di nuove strutture a custodia attenuata anche più necessarie dopo le vicende di Montelupo Fiorentino (dove un internato è morto per aver inalato del gas) e Aversa (dove due guardie della polizia penitenziaria sono arresti domiciliari per aver abusato di un internato trans). La commissione sta realizzando un monitoraggio settimanale dei sei Opg per arrivare alla “liberazione” di 376 internati (su un totale di circa 1500) per i quali non sussiste il requisito della pericolosità sociale: i primi 65 sono già usciti. Per altri 115 è stata prevista una proroga della pena. Di questi ultimi, solo 5 sono ancora internati, perché ritenuti socialmente pericolosi, per gli altri accade qualcosa di diverso, sono dentro perché “il territorio li rifiuta” L’iniziativa ha il sostegno della maggioranza. Lo ha ricordato il senatore Michele Saccomanno, del Pdl, relatore dell’inchiesta. “Lo sforzo economico a sostegno della riabilitazione e presa in carico di questi cittadini da parte della sanità regionale c’è: la commissione ha ottenuto dal governo l’impegno per uno stanziamento di 10 milioni di euro per l’assistenza”. Questa è una delle storie raccontate ieri dalla Commissione È il 23 febbraio scorso quando nell’aula della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia del Sistema sanitario prende la parola una donna che viene indicata come L.M. È stata lei a scrivere alla commissione per denunciare la storia di suo fratello, R., che da dodici anni attende una cura mai arrivata. R. ha 37 anni, soffre di “disturbo bipolare”, racconta la sorella, una malattia maniaco - depressiva. “R. ha subito il suo primo ricovero nel 1997, circa due mesi dopo la morte di nostro padre. Da allora non è mai stato sottoposto ad un programma di recupero, ma lo si è solo sottoposto ad una serie inenarrabile di Tso (Trattamenti sanitari obbligatori), con gli unici due disarmanti risultati: il primo, è che la malattia si è ormai cristallizzata, mescolandosi all’alcolismo ed all’abuso di droghe leggere; il secondo è che noi familiari abbiamo subito fino ad oggi le sue continue crisi maniacali, senza alcuna possibilità di difesa”. Anzi, a rischio della stessa vita, come si capirà dal seguito del racconto. “L’unica cosa che facciamo è cercare di limitare quotidianamente i danni che provoca. Tutta la famiglia subisce i suoi stati di esaltazione”, spiega. La situazione precipita il 30 ottobre. R., in evidente stato di ebbrezza ed agitazione, viene accompagnato a casa dai carabinieri, insieme all’auto di mia madre, che lui guida senza patente. Pochi minuti dopo punta il coltello alla gola di mia madre, che viene salvata dall’intervento di un altro fratello. Il giorno seguente prende a martellate la porta della casa. Le Forze dell’ordine convincono la famiglia a non far intervenire il 118, per evitarsi evidentemente ulteriori verbali e seccature burocratiche. R. viene quindi semplicemente ammonito verbalmente dai carabinieri e si rifugia in casa per qualche ora, dopo di che riprende l’auto di mia madre ed esce nuovamente”. Per trattenerlo in ospedale è necessaria una denuncia, sostengono i medici. La famiglia va a sporgere querela. “Ma i medici continuano a sostenere che non sarà nelle loro facoltà trattenere R. e che in ogni caso qualora i tempi della magistratura si fossero prolungati non avrebbero potuto garantirci che R. non fosse dimesso”. In realtà la famiglia può opporsi alle dimissioni, lo fa e ottiene come risposta la promessa di una commissione esterna per valutare il caso. Giustizia: la vergogna degli Opg; condizioni disumane per gli internati di Adele Sarno La Repubblica, 16 marzo 2011 La denuncia della commissione del Senato che ha visitato le sei strutture giudiziarie italiane: “Muri cadenti, malati lasciati senza cure e nella sporcizia; tre Opg sarebbero da chiudere subito”. C’è chi è dentro per essersi travestito da donna 25 anni fa. Le lenzuola sporche, i muri scrostati dall’umidità, la muffa, i materassi accatastati, gli uomini, soprattutto, lasciati senza cure e costretti in condizioni disumane. Sono i fotogrammi della realtà dimenticata che si cela oltre i cancelli degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) italiani, i luoghi in cui gli internati sono condannati a scontare una sorta di ergastolo bianco. Qui la malattia mentale è ancora uno stigma, una ferita da nascondere alla società. Eppure, oltre agli autori di crimini efferati, negli Opg italiani c’è anche chi è finito dentro 25 anni fa per essersi travestito da donna e aver spaventato i bambini di una scuola. A fare il punto sulla situazione in cui versano gli Opg è la Commissione d’inchiesta del Senato sull’efficacia ed efficienza del Servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, che ha presentato oggi un documentario che racconta la vita dietro le sbarre. Dall’indagine condotta sugli ospedali di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), Aversa (Ce), Napoli, Montelupo Fiorentino (Fi), Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere, emerge un quadro chiaro: in queste strutture che avrebbero dovuto sostituire i manicomi criminali, in realtà, le cose non sono cambiate di molto. Il problema è che quando si entra si rischia di non uscire più. Secondo i dati della Commissione, su 376 internati dichiarati “dimissibili”, per ora solo 65 sono stati effettivamente rilasciati, mentre per altri 115 è stata prevista una proroga della pena. Di questi ultimi, solo cinque sono ancora internati perché ritenuti socialmente pericolosi, tutti gli altri non sono stati liberati perché non hanno un progetto terapeutico, non hanno una famiglia che li accolga o una Asl che li possa assista. È come se fossero rifiutati dai “loro” territori perché mancano le risorse e, secondo la Commissione, è rimasto sulla carta l’impegno del governo di stanziare 10 milioni di euro (5 dal ministero della Salute e 5 dalla Giustizia) per agevolare l’assistenza e garantire le cure a chi può uscire e tornare alla vita. Le immagini scattate dai commissari e il documentario girato nel corso dell’inchiesta raccontano una realtà in cui non c’è rispetto per l’identità della persona, dove non viene garantito il diritto all’igiene e persino alle terapie. Le medicine non curano ma “contengono”, i medici, in ciascuna struttura, sono presenti solo quattro ore a settimana e devono prendersi cura anche di 300 persone. Sono gli internati stessi a raccontare il degrado o l’umiliazione di chi, ad esempio, è costretto a infilare le bottiglie d’acqua nel buco dei bagni alla turca - come è stato raccontato all’ospedale di Aversa - per farle rinfrescare d’estate o per impedire la risalita dei topi. E poi stanze da quattro che ospitano nove internati su letti a castello (proibiti in un ospedale) e uno spazio disponibile di tre metri quadrati a “malato”, in netta violazione di quanto sancito dalla Commissione europea per la prevenzione della tortura. La Commissione sta monitorando ogni settimana ogni struttura per avere notizie degli internati che dovrebbero essere stati dimessi già da mesi o anni, persone rinchiuse anche se hanno commesso un reato minore, e mai più uscite a causa delle infinite proroghe delle misure cautelari. “Raccogliere i primi dati non è stato per niente semplice - spiega il presidente della Commissione d’inchiesta, Ignazio Marino: reticenze, diffidenze, inesattezze hanno scandito le prime settimane di lavoro soprattutto negli Opg più degradati. Ci sono, tuttavia, realtà come quella di Reggio Emilia dove gran parte dei dimissibili hanno già lasciato la struttura. Speravamo di poter fare molto e al più presto, ma abbiamo bisogno di collaborazione delle realtà sanitarie locali. Anche i territori devono acquistare consapevolezza riguardo ai diritti di queste persone: non dobbiamo tollerare degrado e condizioni di vita incompatibili con il più elementare rispetto della dignità e lesivi dei principi della nostra Costituzione”. La Commissione vorrebbe chiudere almeno tre ospedali su sei e, comunque, arrivare all’individuazione di nuove strutture a custodia attenuata, da destinare al trattamento sanitario degli ospiti. Bisogna intervenire su queste realtà, ribadisce la Commissione, anche alla luce degli ultimi fatti di cronaca che hanno coinvolto l’Opg di Montelupo Fiorentino, dove un internato è morto per aver inalato del gas, ed Aversa, dove due agenti della polizia penitenziaria sono state poste agli arresti con l’accusa di aver abusato di un internato transessuale. “Gli ospedali psichiatrici giudiziari - afferma il senatore Michele Saccomanno, relatore di maggioranza dell’inchiesta sulla salute mentale - devono essere superati. Non possiamo più ignorare, di fronte agli ultimi fatti di cronaca e alle risultanze dell’indagine effettuata dalla Commissione d’inchiesta, le condizioni disumane e di degrado in cui vivono questi cittadini. Gli internati sono persone malate e come tali vanno curate e recuperate nel pieno rispetto della dignità umana e dei diritti costituzionalmente garantiti. Lo sforzo economico a sostegno della riabilitazione e della presa in carico di questi cittadini da parte della sanità regionale non solo è possibile, ma rappresenta un impegno concreto preso da Governo e Parlamento per cancellare questa vergogna”. Dello stesso parere Daniele Bosone, relatore di minoranza dell’inchiesta: “È indispensabile che l’aspetto sanitario prevalga su quello carcerario: attualmente, infatti, le condizioni in cui i pazienti sono costretti a vivere costituiscono un insulto alla dignità dell’essere umano e nulla hanno a che fare con la cura delle malattie mentali. Per questo appare indifferibile una prospettiva che in tempi rapidi conduca alla chiusura degli Opg”. Giustizia: rimangono negli Opg solo perché non ci sono strutture adeguate per accoglierli di Rosaria Talarico La Stampa, 16 marzo 2011 La commissione d’inchiesta sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ha rivelato molti abusi: che cosa sono queste strutture? Gli ospedali psichiatrici giudiziari (gli addetti ai lavori utilizzano la sigla Opg) sono, di fatto, gli ultimi manicomi esistenti in Italia: accolgono soggetti con diverse tipologie di disturbi mentali che abbiano commesso dei reati e che per questi motivi non potrebbero essere reclusi nelle normali carceri. I detenuti sono 1.479. Qual è la loro funzione? Le strutture, nell’intenzione del legislatore, nascono per contemperare le esigenze di cura con quelle di attenuazione della pericolosità sociale degli infermi di mente. Purtroppo negli anni le denunce sulle condizioni delle persone detenute al loro interno si sono moltiplicate. L’ultima documentata relazione è stata stilata dalla Commissione d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Sistema sanitario nazionale presieduta da Ignazio Marino. Quando sono stati istituiti? Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono nati a metà degli Anni 70 e hanno sostituito i precedenti manicomi criminali, istituiti dal Codice Rocco negli Anni 30. Quanti sono in Italia? Attualmente in Italia esistono sei ospedali psichiatrici giudiziari: si trovano ad Aversa (Caserta), Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Castiglione delle Stiviere (Mantova), Montelupo Fiorentino (Firenze), Secondigliano (Napoli) e Reggio Emilia. Come vengono curati invece i malati “comuni”? Dopo l’approvazione della Legge Basaglia (1980), che ha disposto la chiusura dei manicomi, i 76 manicomi attivi nel 1978 sono stati sostituiti da appositi servizi gestiti dalle Asl, tra cui 320 servizi psichiatrici ospedalieri, quasi 700 centri di igiene mentale, oltre 1300 strutture residenziali (comunità terapeutico - riabilitative, gruppi appartamenti, comunità alloggi) e poi day hospital, imprese sociali (residenziali e semiresidenziali) e centri diurni. Qual è la situazione dei detenuti? I dati mostrano che su 376 internati dichiarati dimissibili per ora solo 65 sono stati effettivamente dimessi, mentre per altri 115 è stata prevista una proroga della pena. Di questi ultimi, solo 5 sono ancora detenuti perché ritenuti socialmente pericolosi, tutti gli altri non hanno varcato i cancelli degli Opg, perché non hanno ricevuto un progetto terapeutico, non hanno una comunità che li accolga o una Asl che li assista. Quali sono le anomalie? Alcune strutture hanno dimostrato di essere più virtuose, altre ostili o reticenti nel fornire i dati. Bisogna considerare che spesso dietro i cancelli di ciascuno degli ospedali psichiatrici giudiziari non si trovano solo autori di crimini efferati: c’è chi si è vestito da donna ed è andato davanti a una scuola, 25 anni fa, o chi, nel 1992, ha fatto una rapina da settemila lire in un’edicola, fingendo di avere una pistola in tasca. Molti hanno insomma commesso un reato di lieve entità, punibile con pochi mesi di prigione (come ad esempio l’ingiuria), senza troppa consapevolezza delle possibili ripercussioni. Inchieste di giornalisti, fotoreporter e commissioni parlamentari hanno messo in luce la situazione per nulla rispettosa della dignità umana riscontrata all’interno di queste strutture. Cosa prevede la normativa? Il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario è disciplinato dall’articolo 222 del codice penale, su cui si è più volte espressa la Corte costituzionale, che con la sentenza 253/2003 ha stabilito l’illegittimità costituzionale della parte dell’articolo che “non consente al giudice di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale”. Più di recente, un decreto della presidenza del Consiglio dei ministri del 1° aprile 2008 ha stabilito che la gestione degli Opg passi dal ministero della Giustizia a quello della Salute. Non tutte le Regioni hanno però recepito la norma. Ad esempio la Sicilia: per l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto è ancora competente il Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che fa capo al ministero di Giustizia). Verranno chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari? Sulla chiusura degli Opg si dibatte molto e da tempo. La Commissione vuole chiuderne almeno tre su sei e arrivare all’individuazione di nuove strutture a custodia attenuata da destinare al trattamento sanitario degli internati. Alla luce dei recenti fatti di cronaca che hanno coinvolto l’Opg di Montelupo Fiorentino (dove un internato è morto per aver inalato del gas) e Aversa (dove due guardie della polizia penitenziaria sono state poste agli arresti domiciliari per aver abusato di un internato transessuale), le istanze di chiusura e riforma espresse già lo scorso luglio sono ancora più urgenti. Giustizia: l’Abu Ghraib italiana; proiettato in Senato “video dell’orrore” sugli Opg Adnkronos, 16 marzo 2011 Lezzo di urina, tanfo e sporcizia ovunque. Pazienti legati con corde a letti di contenzione, un foro sul materasso e un altro sulla rete per lasciare gli escrementi scivolare giù, nel bagno alla turca sottostante. Ed è lì che si trovano nei mesi più caldi le bottiglie d’acqua, con la speranza che, pur nel lerciume, si freddino almeno un po’. Ma anche strategia per evitare la risalita dei topi. Non siamo nel carcere iracheno di Abu Ghraib ma nella civilissima Italia, negli ospedali psichiatrici giudiziari presenti sul territorio. Immagini da brivido, da terzo mondo, quelle proiettate stamani nella Sala Nassirya del Senato, riprese durante i blitz della Commissione d’inchiesta sul Ssn di Palazzo Madama negli Ospedali psichiatrici giudiziari della Penisola. Oltre i cancelli di queste strutture, sei su tutto il territorio, inizia un viaggio che riporta indietro di 80 anni, ai “tempi del Codice Rocco che istituì i manicomi e, dunque, gli Opg”, ricorda Ignazio Marino, presidente della Commissione, in prima linea in questa “battaglia di dignità”. La malattia mentale resta uno stigma, una ferita da nascondere alla società tanto più se ha portato con sé aggressioni o, peggio, omicidi. Ma dietro i cancelli di ciascuno degli Opg non si trovano solo autori di crimini efferati: c’è chi si è vestito da donna ed è andato davanti a una scuola 25 anni fa, chi nel ‘92 ha fatto una rapina da settemila lire in un’edicola fingendo di avere una pistola in tasca. Molti di loro hanno commesso un reato punibile con pochi mesi di prigione, come l’ingiuria. Senza immaginare di finire in un vero e proprio film dell’orrore purtroppo reale, e trovarsi a scontare un vero e proprio ergastolo bianco. Così si finisce negli Opg e si rischia di non uscire più. “Sono talebani, la differenza è che ci uccidono pian piano”, sbiascica un internato guardando dritto la telecamera davanti a sè, gli occhi carichi di angoscia e disperazione. Ovunque sporcizia e fatiscenza, panchine rotte, blister di farmaci abbandonati a terra, letti arrugginiti. Le medicine, denunciano dalla Commissione, trasformate in camicie di forza invisibili. Pochissimi medici, spesso generici e non psichiatri, presenti appena 4 ore a settimana in strutture in cui si contano anche 300 persone. E di proroga in proroga, si rischia di scontare una pena che da pochi mesi può trasformarsi in un ergastolo a vita. Gli esempi non mancano. Rinchiusi per uno schiaffo, un’ingiuria. Errori pagati cari, troppo cari. “Ma se il giudice di sorveglianza non trova una struttura alternativa dove appoggiare l’internato - spiega Michele Saccomanno, relatore di maggioranza dell’inchiesta sulla salute mentale - finisce per firmare la proroga, senza guardare alla salute mentale del paziente: una routine ingestibile ma che va drammaticamente avanti”. La proroga “è un semplice foglio fotocopiato - aggiunge Marino - dove il nome il più delle volte viene aggiunto a penna, senza che il medico venga coinvolto per esprimere parere sulla pericolosità dell’internato”. Sulla chiusura degli Opg si dibatte molto e da diverso tempo. La Commissione vuole chiuderne almeno tre su sei e, comunque, arrivare all’individuazione di nuove strutture a custodia attenuata da destinare al trattamento sanitario degli internati. Giustizia: fuori dagli Opg solo 65 dei 376 internati che potrebbero essere dimessi Adnkronos, 16 marzo 2011 Vivono un inferno da cui potrebbero uscire oggi stesso: non hanno più motivo, infatti, per essere rinchiusi lì. Negli ospedali psichiatrici giudiziari - sei su tutta la Penisola - erano internate ben 376 persone dichiarate dimissibili. Ma solo 65 sono riuscite a lasciarsi alle spalle quell’inferno, documentato in un video shock presentato oggi nella Sala Nassirya del Senato. Tutti gli altri sono costretti a vivere nella sporcizia e nel sudiciume, spesso con meno di tre metri quadri a disposizione, in netta violazione con quanto sancito dalla Commissione europea per la prevenzione della tortura. “Questa, infatti, è tortura”, denunciano dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Ssn, protagonista dei blitz negli Opg. Per lo più i pazienti in odore di libertà restano internati perché non hanno ricevuto un progetto terapeutico, non hanno una comunità che li accolga o una Asl che li assista. “Il territorio li rifiuta”, mancano le risorse, si dice, ma la Commissione ha ottenuto dal Governo l’impegno per uno stanziamento di 10 milioni di euro (5 dal ministero della Salute, 5 dal dicastero della Giustizia) per agevolare l’assistenza di coloro che da queste strutture devono uscire per essere accuditi altrove, sul territorio, con cure appropriate che li aiutino a tornare alla vita. “Forse sarebbe più onesto dire - denuncia Ignazio Marino, presidente della Commissione - che manca la volontà, perché questi non sono pazienti psichiatrici come tutti gli altri, e su loro il pregiudizio si fa più pesante”. Dalla Commissione l’impegno, portato avanti con verifiche a cadenza settimanale, di riportarli alla libertà, mettendo fine al più presto a una realtà agghiacciante e incredibilmente immeritata. Giustizia: Marcenaro (Pd); Commissione Diritti Umani del Senato al lavoro sulle carceri Ansa, 16 marzo 2011 È importante che su un tema delicato come quello delle carceri e della salvaguardia della salute e dei diritti umani dei detenuti ci sia l’impegno di tutti i rappresentanti della commissione. Lo afferma il senatore Pietro Marcenaro (Pd), presidente della Commissione per i diritti umani del Senato che oggi ha avviato l’indagine conoscitiva sulle carceri in Italia. “In questo panorama politico - ha aggiunto il senatore - in cui la rissa è la regola, su questo tema abbiamo registrato in commissione un buon livello di collaborazione. L’indagine avviata oggi - spiega Marcenaro - parte dal presupposto che non è con le misure congiunturali che si risolve il problema del sovraffollamento. Queste misure si sono dimostrate inefficaci perché l’affollamento nei luoghi di detenzione non è solo un fatto fisico. È il risultato di una legislazione che sopravvaluta lo strumento carcerario rispetto ad altri. Lo dimostra, ad esempio - aggiunge il senatore - il grande numero di detenuti in attesa di giudizio”. Secondo gli ultimi dati del Dap: sui 67.615 detenuti presenti negli istituti di pena a fine febbraio per un totale di 45.284 posti regolamentari, gli imputati sono 28.478 di cui 14.388 in attesa di primo giudizio. “La maggior parte dei detenuti, inoltre - prosegue Marcenaro - è in cella per reati legati alla droga o, nel caso di stranieri, al non rispetto dell’ingiunzione di allontanamento dal paese. Reati a forte rischio di recidiva e che automaticamente escludono il detenuto dall’ammissione alla detenzione domiciliare”. “L’indagine vuole, infine, fare luce - conclude il presidente - sulla situazione sanitaria e assistenziale nelle carceri dove, senza voler mettere in discussione il lavoro degli operatori, solo dall’inizio dell’anno si sono registrati già 31 morti”. Giustizia: omaggio all’unità d’Italia; una mostra su come è cambiato il carcere nel tempo di Simona Carandente www.ilmediano.it, 16 marzo 2011 “Il carcere nel tempo” è lo spazio dedicato al mondo della detenzione a partire dall’Unità d’Italia, ospitato dal museo criminologico della Capitale. Il legame tra carcere e scorrere del tempo è qualcosa di affascinante ed al contempo inspiegabile: in carcere non c’è tempo, le ore scorrono sempre uguali le une alle altre, la detenzione inframuraria toglie tempo alla libertà, che altro non è se non possibilità, inesorabile, di essere completamente padroni di se stessi. In carcere il tempo è sempre uguale, ma il suo inesorabile scorrere può rappresentare un’occasione unica ed irripetibile di guardarsi dentro, di meditare sui propri sbagli, di prepararsi ad affrontare il mondo esterno con altri occhi. Proprio in omaggio al tema del tempo, nel museo criminologico di Roma è stato allestito lo spazio “Il carcere nel tempo”, dedicato al mondo della detenzione a partire dall’Unità d’Italia, proprio nell’anno in cui ne ricorre il 150° anniversario. Attraverso scritti, regolamenti, libri si fa luce sull’evoluzione del carcere dal 1861 ad oggi, dando vita ad un percorso storico di enorme interesse storico e culturale. Già nel 1861, difatti, il problema del sovraffollamento delle carceri era una priorità: in quell’anno il Regno di Italia, per la prima volta, presenta al Parlamento un progetto di legge per la costruzione di un carcere a Cagliari, dando vita contemporaneamente ad una imponente riforma, nell’ottica di una sanzione penale repressiva, volta addirittura alla rigenerazione morale dei condannati. Qualche anno dopo, il Governo introdurrà l’abolizione dei cd. bagni penali, dalle cui ceneri nasceranno le colonie agricole, la prima sull’isola di Pianosa, le successive sulla terraferma, per sperimentare forme di detenzione assolutamente diverse ed in qualche modo innovative. Mentre ad Aversa, nel 1876, si sperimentava il primo manicomio criminale (meglio noto come Ospedale Psichiatrico Giudiziario), sulle isole i condannati venivano impiegati fattivamente, attraverso la coltivazione delle terre, il disboscamento del suolo e tutte quelle opere, a carattere fisico - manuale, che utilizzavano la forza lavoro del recluso anziché condannarlo alla totale inattività. Solo nel 1891, e poi i primi anni del Novecento, si comincerà a parlare concretamente di riformare il sistema carcere ed il suo regolamento: per la prima volta, nel nostro Paese verranno affrontate tematiche di ampio respiro, come la soppressione dell’uso della catena al piede per i condannati alla pena dei lavori forzati, già prevista dallo stesso regolamento disciplinare. Solo parecchi anni dopo, e precisamente nel 1975, si avrà l’importante emanazione della legge dell’Ordinamento Penitenziario, ancora oggi caposaldo di buona parte delle norme carcerarie, volte a disciplinare il complesso mondo della detenzione. Giustizia: caso Carmelo Castro; è ora di fare luce su questa morte in carcere di Patrizio Gonnella Terra, 16 marzo 2011 In questa rubrica abbiamo in passato raccontato più volte la vicenda di Carmelo Castro. Ricordo che era il febbraio del 2010 quando il Difensore civico di Antigone fu contattato dai familiari di Carmelo, morto a 19 anni nel carcere di Piazza Lanza a Catania. Ai familiari molte cose non tornavano di quel suicidio. Ma con loro e nostro stupore - scrivevamo - il 27 luglio 2010 il Giudice delle indagini preliminari dispose l’archiviazione del caso, a seguito di una indagine sostanzialmente non fatta. Carmelo Castro era nella caserma dei carabinieri, mentre i familiari, in un’altra stanza, lo sentivano piangere e urlare. Uscì da lì - a dire dei familiari - con il volto tumefatto. Fu condotto in prigione e da quel momento non sarà più loro consentito incontrarlo. Dopo tre giorni fu trovato impiccato con un lenzuolo al letto a castello (più basso di lui) della sua cella. Decine gli interrogativi su questa morte. Il 4 gennaio 2011 presentammo un esposto alla procura. Lo fecero anche i familiari. Obiettivo: riaprire le indagini. E le indagini - dopo circa un mese - furono riaperte. Da allora pare che pochi passi in avanti nelle indagini siano stati fatti. Sappiamo che i giudici sono sotto organico, che in Sicilia devono occuparsi di mafia, che l’omertà carceraria e delle forze di sicurezza rende l’inchiesta faticosa. Sappiamo anche però che ci vuole massima determinazione per arrivare in un caso del genere alla verità. Vorremmo che poliziotti e giudici della Procura di Catania interroghino - con lo stile di Walker Texas Ranger o del commissario Montalbano - i carabinieri che hanno arrestato Castro, la sorella Agatuccia che lo ha visto gonfio all’uscita della caserma, gli operatori penitenziari che hanno raccolto le paure di Carmelo quando era già in carcere, il direttore dell’istituto perché spieghi se e come mai era stato disposto l’isolamento, gli agenti che lo hanno trovato morto, il medico che ha certificato il decesso, il detenuto porta vitto che ha dato l’ultimo pranzo a Castro, da lui mangiato pochi minuti prima di suicidarsi (?). Dalle pagine di Terra e de Linkontro.info - noi che crediamo nella giustizia e nello stato costituzionale di diritto - continueremo periodicamente a chiedere luce su questa vicenda per evitare che finisca nel buio. Giustizia: diagnosticato un tumore a Provenzano; l’oncologo: necessari cure ed esami Corriere della Sera, 16 marzo 2011 Bernardo Provenzano, detenuto nel supercarcere di Novara, ha un tumore retrovescicale. Il padrino di Corleone non è in grado, dal punto di vista neurologico, di sopportare un trattamento di chemioterapia: deve, tuttavia, essere curato e la sua condizione dovrebbe essere continuamente monitorata. La diagnosi è di Oscar Alabiso, primario di oncologia a Novara, che ha visitato il boss su indicazione della Corte d’appello di Palermo, dopo la perizia di Francesco Maria Avato, Giuseppe Miceli e Francesco Montorsi, gli specialisti nominati dalla corte d’appello di Palermo che processava Provenzano per una tentata estorsione. Alabiso ha eseguito la seconda perizia sul boss e ne potrebbe essere necessaria un’altra, come da lui stesso indicato nella relazione depositata oggi alla corte. La perizia sulle condizioni di salute del boss era stata chiesta dal legale di Provenzano, Rosalba Di Gregorio, che, come prevede la legge, per ottenere gli accertamenti ha dovuto fare istanza di scarcerazione del padrino di Corleone. Adesso, si dovrà pronunciare il procuratore generale che potrebbe chiedere nuovi esami, e poi i giudici. Per ottenere che qualcuno visitasse il suo cliente, il legale ha atteso oltre un anno. La prima richiesta di perizia, infatti, era stata fatta a giugno 2009. Allora il tribunale del processo Gotha delegò al carcere di Novara gli accertamenti. Per fare alcuni esami, come la Tac, Provenzano sarebbe dovuto uscire dal carcere ma il Dap respinse le richieste del tribunale che poi revocò l’istanza. A marzo 2010 il legale ha reiterato la richiesta di perizia alla corte d’appello e poi, da luglio, sono partiti gli accertamenti. Giustizia: sospetti al tribunale di Reggio Calabria sugli aiuti a un politico in cella di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 marzo 2011 Prima erano auspici: “Abbiamo buonissime speranze che esci molto prima”. Poi promesse: “Guardami negli occhi e non ti preoccupare. Abbiamo scalato una montagna fratello, lo sai dove siamo? Nella discesa”. Infine la quasi certezza: “La prossima domenica sei a casa... Perché noi stiamo lavorando fuori...”. Sicuri di avercela fatta, i familiari erano già in Sardegna per accogliere il detenuto all’uscita della prigione. Ma lì è arrivata la doccia gelata, la notizia che il giudice aveva respinto l’istanza di scarcerazione. L’amico in tribunale aveva ricevuto la brutta notizia: “Porca puttana, ha rigettato... Siamo rovinati”. Ed è scattato il rammarico: “Eravamo convinti al cento per cento... Le abbiamo tentate tutte...”. Con l’assicurazione che avrebbero continuato: “Però noi ora sollecitiamo in tutto... Santi, tutto facciamo “. È la storia della mancata liberazione del consigliere regionale della Calabria Santi Zappalà, eletto nelle liste del centrodestra a sostegno del governatore Scopelliti, dimessosi dopo l’arresto del 21 dicembre scorso per concorso in associazione mafiosa e corruzione elettorale aggravata; le microspie avevano registrato le sue visite al boss della ‘ ndrangheta Giuseppe Pelle quando era andato a proporre: “Vediamo se possiamo trovare un accordo, se ci sono le condizioni” , e il capo - cosca aveva risposto: “Ma da parte nostra, dottore, ci sarà sempre il massimo impegno”. Ora è in corso l’udienza preliminare per decidere il rinvio a giudizio chiesto dalla Procura di Reggio, e ieri è stata depositata un’annotazione dei carabinieri del Ros che racconta come la “zona grigia” dove si confondono il lecito e l’illecito sembra essersi estesa anche al Palazzo di Giustizia. È la storia di sospette complicità che per adesso si ferma alla denuncia di un paio di cancellieri, ma punta molto più in alto. Perché nelle intercettazioni realizzate dagli investigatori del Ros e del comando provinciale si parla di un “presidente” che si sarebbe mosso per tirare Zappalà fuori dalla galera. E in una conversazione registrata in carcere fra l’ormai ex consigliere regionale e il fratello Nino, il 4 febbraio scorso, si fa riferimento a un possibile giro di soldi; parlando della sua situazione detentiva (il tribunale del riesame, a gennaio, aveva annullato l’arresto per concorso con la ‘ ndrangheta confermandolo solo per la corruzione elettorale), Santi Zappalà dice a Nino: “Ma a lui gli hanno detto che faranno il possibile?” , “Sì!” , risponde Nino, che poi aggiunge: “Perché c’è già stata la prima volta e c’è pure la seconda volta, capisci?”. Risposta di Santi: “Ma tu sollecita sempre, Ninì” , e chi ha assiste al colloquio annota che l’uomo politico, rivolgendosi al fratello, “muove la mano mimando il gesto di pagare”. Cinque giorni più tardi, il 9 febbraio, il giudice respinge l’istanza di scarcerazione, e l’indomani Santi Zappalà riceve di nuovo, nel penitenziario sardo di Badu e Carros, la visita del fratello che gli raccomanda di stare tranquillo, di parlare poco e scrivere ancora meno. Gli confida che avevano saputo il contenuto delle intercettazioni ambientali segretissime dei loro colloqui: “Praticamente quello della Cancelleria gli ha detto “vedi di non nominare quello che”... che non si è saputa la cosa che il Presidente gli aveva detto chi l’aveva a cacciare (lo doveva far uscire, ndr), qua perché abbiamo parlato noi... per questo si è venuto a sapere... per questo ti dico va bene, stai più tranquillo Santo...”. Il riferimento al “presidente” , per i carabinieri, è proprio alla persona che doveva occuparsi della scarcerazione - “L’intervento decisivo doveva essere il suo” , scrivono - e nell’informativa si ricorda che Santi Zappalà, parlando col fratello, si riferisce a lui senza nominarlo e “allargando le braccia e stringendo i pugni, come a mimare una persona robusta e/o importante”. Le indagini per individuare il “presidente” e altri eventuali referenti del consigliere regionale accusato di concorso con la ‘ndrangheta dentro il Palazzo di Giustizia sono in corso. Dalle intercettazioni spicca il ruolo di un cancelliere della corte d’appello che partecipa, si dà da fare e il giorno dopo il rigetto della scarcerazione, quando ancora non è stato presentato l’appello al tribunale della libertà, è già in grado di dire che l’udienza sarà fissata entro il mese successivo, con grande anticipo sui normali tempi della giustizia reggina. Cosa che s’è puntualmente verificata. Ma nel frattempo, la richiesta di rinvio a giudizio e la nuova inchiesta hanno svelato quella che secondo l’accusa è una vera e propria trama illecita per liberare dal carcere il politico inquisito per contiguità con la mafia calabrese. Giustizia: stupro di gruppo in caserma Carabinieri; il Gip non chiede custodia in carcere di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 16 marzo 2011 Roma, le accuse del pm ai tre carabinieri e al vigile. Il gip: no all’arresto. La procura: prima l’hanno ubriacata e poi violentata. Lunedì i nuovi interrogatori. Le hanno offerto alcol per farla ubriacare e poi hanno abusato di lei. In gruppo. E per sei volte. Proprio loro, gli uomini in divisa che avrebbero dovuto proteggerla. Dopo quasi un mese di indagini, per di più secretate, si inizia a capire qualcosa dello stupro avvenuto nella stazione dei carabinieri Quadraro, alla periferia di Roma. La vittima è una donna di 32 anni, originaria di Crema, che, dopo essere stata arrestata il 23 febbraio per aver rubato in un grande magazzino alcuni capi di abbigliamento, il giorno dopo ha denunciato di essere stata stuprata la notte precedente mentre era detenuta in camera di sicurezza in attesa di processo per direttissima. Accuse che un solo militare ha ammesso, pur definendo il rapporto “consensuale e amichevole”, ma che gli altri hanno sempre negato. Hanno detto di sapere che qualcosa era successo, ma di non aver partecipato direttamente. Accertamenti ancora in corso, ma intanto la procura di Roma contesta i reati agli indagati: violenza sessuale di gruppo aggravata dall’abuso dei poteri e dei doveri inerenti a una funzione pubblica e dall’uso di sostanze alcoliche. Per di più compiuta “su persona comunque sottoposta a limitazioni della libertà personale”. Perché la ragazza madre di 32 anni che ha denunciato di essere stata violentata nella notte tra il 23 e il 24 febbraio nella stazione dei carabinieri Quadraro, alla periferia di Roma, era detenuta. Questo è un fatto. Grave, per i magistrati. Il capo di imputazione contenuto nell’invito a comparire che ieri è stato notificato ai quattro parla chiaro. E ricostruisce quella notte. Due dei tre carabinieri e il vigile urbano sono accusati di aver spinto la donna a subire atti sessuali abusando della sua condizione di inferiorità fisica e psichica dovuta sia all’arresto, sia all’assunzione di alcol che le è stato offerto da uno dei militari, Alessio Lo Bartolo. Lo stesso che, secondo la versione del procuratore aggiunto Maria Monteleone e del sostituto Eleonora Fini, avrebbe avuto diversi rapporti con la vittima mentre il vigile urbano, Pierfrancesco Carrara, la teneva stretta per la testa. Così anche per il secondo militare, Cosimo Vincenzo Stano, che, mentre l’agente della municipale la palpeggiava, avrebbe abusato di lei. Mentre al terzo carabiniere, Leonardo Pizzarelli, quello di turno al piantone (che non avrebbe partecipato direttamente alla violenza), i pm contestano l’aggravante di non aver impedito l’evento e di non aver evitato che le fossero date sostanze alcoliche. Questo il quadro, almeno finora: le indagini sono ancora in corso. All’indomani della presentazione della denuncia da parte della vittima, la procura aveva chiesto due mesi di custodia cautelare in carcere per i quattro. Una misura temporanea necessaria, secondo gli inquirenti, a poter svolgere le indagini senza alcun pericolo di inquinamento delle prove. Ma il giudice per le indagini preliminari, Sandro Di Lorenzo, ha detto no. Perché gli accertamenti sono già stati fatti e l’indagine è a un buon punto, queste le motivazioni per la bocciatura. Insomma, la ricostruzione di quella notte si fa via via più chiara. Ma i pm e i carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Roma sono ancora al lavoro e cercano un’ulteriore conferma. Ecco perché hanno convocato per lunedì prossimo i quattro indagati: verranno tutti risentiti, sempre a patto che non si avvalgano della facoltà di non rispondere. Opzione che le difese stanno considerando. Altri elementi utili potrebbero venire dalla comparazione dell’eventuale dna presenti sugli oggetti sequestrati con quello degli indagati: esame che verrà fatto in incidente probatorio. Lettere: Piano Carceri per la Lombardia; 55mila euro per ogni nuovo posto in cella di Associazione Antigone Ristretti Orizzonti, 16 marzo 2011 Già nel giugno 2010 il ministro Alfano aveva annunciato, nell’ambito del Piano carceri nazionale, l’intenzione di realizzare 3 nuovi padiglioni nelle carceri di Opera, Busto Arsizio e Bergamo per un totale di 800 nuovi posti detentivi nella nostra regione. Ieri abbiamo appreso che in Regione Lombardia è stata siglata dal Ministro Alfano, dal Commissario straordinario per l’emergenza carceri (nonché Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) Franco Ionta e dal Governatore Roberto Formigoni l’intesa per dare avvio alla costruzione di questi tre nuovi padiglioni. Per questi 800 nuovi posti nelle carceri lombarde il Governo ha stanziato 44milioni di euro, pari a55mila euro per ogni nuovo posto che verrà costruito. L’impegno del Governo è di consegnare questi nuovi padiglioni entro giugno 2012, sfruttando i poteri straordinari derivanti dal Dpcm del 13 gennaio 2010 (prorogato l’11 gennaio 2011), decreto che ha dichiaratolo “stato di emergenza conseguente al sovrappopolamento carcerario” e Ha attribuito al Commissario straordinario Ionta la possibilità di velocizzare le procedure realizzando “interventi in deroga alla normativa vigente”. Il modello è quello del piano post-terremoto dell’Aquila: possibilità di bypassare i vincoli urbanistici esistenti sul territorio per la localizzazione delle nuove strutture; possibilità di affidamento diretto delle opere evitando gare d’appalto e pubblicizzazione degli incarichi; possibilità per le imprese assegnatarie di subappaltare i lavori fino al 50% del valore delle opere affidate. Il decreto ha anche consentito, per queste nuove edificazioni, di attingere ai fondi della “Cassa delle ammende”, un fondo che invece doveva essere destinato a interventi a sostegno delle persone detenute e dei loro familiari e per il reinserimento sociale alla fine della pena, in linea con l’art. 27 della Costituzione. Come associazione che da anni monitora il funzionamento del sistema penitenziario regionale e le condizioni di vita al suo interno, Antigone Lombardia esprime ancora una volta le sue perplessità e le sue preoccupazioni. L’esperienza insegna: dalle “Carceri d’oro” degli anni 80 alla recentissime inchieste sugli appalti per la costruzione di nuove carceri ad esempio a Perugia, a Massa Carrara o in Sardegna, passando per la storia tutta lombarda del nuovo carcere di Lecco, sono molti i casi in cui l’edilizia penitenziaria si è trasformata in una vicenda di interesse giudiziario. Il rischio che il sistema dell’emergenza attiri ancora più gli interessi illeciti di immobiliaristi locali e nazionali è evidente; non è un caso che proprio sul Piano carceri si fossero concentrati gli interessi della cosiddetta “cricca” di Bertolaso & c., col tentativo di affidare alla Protezione Civile anche la gestione degli interventi edilizi in materia penitenziaria. Antigone Lombardia ribadisce per l’ennesima volta che l’edilizia penitenziaria non è e non può essere la soluzione per il problema del sovraffollamento. Nella nostra regione la popolazione detenuta continua ad aumentare, mentre tutti gli indicatori statistici ci dicono che la criminalità negli ultimi anni è calata. I colpevoli dei reati più gravi (omicidi, violenze personali, stupri,...) e gli appartenenti alla criminalità organizzata costituiscono solo una ristrettissima minoranza della popolazione che affolla i nostri istituti penitenziari. Le carceri sono sovraffollate di “poveri sbandati”, di persone con problemi mentali, di homeless, di immigrati stranieri colpevoli solo di non aver rispettato un decreto di espulsione: tenere queste persone fuori dal carcere, con pene o misure alternative alla detenzione e con adeguati interventi di welfare sul territorio, sarebbe molto più efficace in termini di riduzione della recidiva(quindi di incremento della sicurezza nelle città) e sarebbe molto meno costoso per le casse pubbliche. Lettere: i detenuti tossicodipendenti di Salerno; qui non è garantito il diritto alla salute La Città di Salerno, 16 marzo 2011 “Il diritto alla salute è un diritto non garantito ai carcerati”. È un disperato appello quello che arriva dai carcerati della seconda sezione tossicodipendenti del carcere di Salerno. “Siamo costretti in otto in una cella di pochi metri quadrati per oltre 22 ore al giorno - scrivono tre detenuti in una lettera al nostro giornale. Siamo costretti a subire intimidazioni e minacce, mentre noi vorremmo solo riuscire, con l’aiuto delle istituzioni competenti, ad uscire dal tunnel della droga ed avere una vita migliore, ma tutto questo non è possibile”. I detenuti sottolineano come il carcere sia “una non risposta” delle istituzioni ai problemi sociali. Un luogo, tra l’altro, “con condizioni disumane, senza la possibilità di essere visitati e curati dai medici. Veniamo rinchiusi in una cella come si fa in un canile e spesso abbandonati a noi stessi, calpestando la nostra dignità”. Ma, anche in una struttura carceraria, la salute dovrebbe essere un diritto garantito ad ogni individuo. In particolare per persone tossicodipendenti che necessitano di maggiore attenzione. Lettere: moglie e madre di due detenuti; ecco come si vive nel carcere di Massa www.linkontro.info, 16 marzo 2011 Sono la madre e la moglie di due detenuti reclusi in fase di indagini nel carcere di massa. Questa mia lettera verrà inviata anche alla direttrice del carcere di Massa e al Comandante della Polizia penitenziaria, per mettere a conoscenza delle situazioni all’interno della struttura carceraria: 1) Mancanza di acqua per poter fare la doccia nella cella dove si trovano ristretti i miei familiari e altre due persone: ritengo che in un posto dove si vive in pochi metri quadri vi sia almeno e dico almeno necessario avere la possibilità di lavarsi in modo decente, altrimenti l’igiene della persona non è possibile averla. La medicina insegna che il primo accorgimento che deve essere fatto per non trasmettere germi ad altri è avere un’accurata igiene della persona, considerando che la promiscuità può far sì che si trasmettano pediculosi, malattie della pelle ed altro. 2) I detenuti fanno segnalazione di guasti e nessuno provvede a riparare quello che deve essere riparato. La notte se un detenuto deve andare in bagno è obbligato a farsi luce con un accendino. 3) Il cibo che viene servito risulta di scarsa qualità ed è immangiabile. 4) I viveri che vengono comprati allo spaccio interno hanno dei costi elevati. 5) I giorni di colloquio sono di n. 2 giorni alla settimana il Giovedì con fine orario ore 15.30 e il Sabato fine orario ore 16.00 (le ore di attesa sono lunghissime circa tre ore sia di mattina che di pomeriggio in quanto la sala dei colloqui è piccola e contiene 14 tavoli per 260 detenuti che ricevono visite, spesso anche in questo caso le norme igieniche non sono rispettate, l’arredamento non è idoneo, le sedie sono vecchie e scheggiate). 6) Vi sono famigliari portatori di handicap (in carrozzella) che possono entrare nella sala adibita ai permessi solo se aiutati da altri familiari per sollevare la carrozzina in quanto la struttura è sprovvista di scivolo per portatori di handicap. Segnalo e mi faccio portavoce di altri familiari sul comportamento di alcuni agenti che non portano rispetto né per noi che andiamo a trovare i nostri congiunti né per i detenuti. Sulla morte del signore di 49 anni riportata sul quotidiano della Nazione, faccio presente che io sottoscritta ho avuto modo di soccorrerlo circa un anno fa durante un colloquio con mio marito dove il signore in oggetto aveva avuto un malore ed io avevo messo in atto manovre per rianimarlo, mi rendo disponibile in caso ce ne fosse bisogno per essere usata come teste. Chiedo a voi di pubblicare questa mia lettera tramite quotidiani che voi ritenete opportuni, invierò la suddetta lettera alle persone intestatarie. Lavorando in un’azienda pubblica vi chiedo la riservatezza del nome ma disponibile a qualsiasi azione voi vogliate fare. Lettera Firmata Toscana: Della Monica (Pd); la situazione delle carceri toscane esige risposte urgenti In Toscana, 16 marzo 2011 “In occasione della convocazione straordinaria del Consiglio Comunale di Firenze presso la Casa Circondariale di Sollicciano, ci preme ribadire la ferma condanna del Pd regionale toscano e di quello metropolitano fiorentino per la situazione di inaccettabile sovraffollamento delle carceri italiane e, nella specie, di quelle toscane”. Così la senatrice Silvia Della Monica, Coordinatrice del Forum Giustizia del Pd toscano, l’avvocato Massimiliano Annetta, Coordinatore del Forum Giustizia del Pd metropolitano fiorentino e l’avvocato Roberta Rossi, Responsabile carceri e diritti dei detenuti del Forum Regionale. “Non può, ulteriormente essere tollerata la oggettiva drammaticità della situazione di sovraffollamento carcerario nel nostro paese (oltre 69.000 detenuti in strutture che ne dovrebbero contenere non più di 43.000), la quale impone, oltre ad una rinnovata denuncia circa la mancanza di prospettive concrete nell’azione politica dell’attuale maggioranza (tutta e soltanto incentrata su di una demagogica risposta di impronta meramente repressiva ad un preteso sentimento di insicurezza e di odio per il diverso fomentato ad arte nell’opinione pubblica) pure la formulazione da parte del Partito Democratico di un progetto capace di superare tale stato di costante, reiterata, violazione dei diritti minimi dell’uomo. I numeri della popolazione oggi detenuta sono tali da non poter procrastinare oltre un intervento immediato del Governo in questa materia. Si pensi che nel luglio 2006, prima dell’indulto, la popolazione detenuta (60.710) era inferiore a quella attuale di quasi 10.000 unità eppure, all’epoca, venne ritenuta all’unanimità, dall’allora maggioranza politica e da una parte dell’opposizione, improcrastinabile l’emanazione di un provvedimento di clemenza per evitare che la situazione all’interno degli istituti penitenziari diventasse pericolosamente ingestibile. Per discutere concretamente, numeri alla mano, dobbiamo rilevare che ad oggi la popolazione detenuta è pari a 69.155 unità rispetto ad una capienza di 43.177 posti ma soprattutto il dato che più preoccupa è quello della “capienza tollerabile” (termine assolutamente non condivisibile in una società civile che non può scendere a compromessi con i diritti minimi delle persone anche se detenute) di 63.623 pure esso già superato. A questa intollerabile situazione non fa eccezione la nostra Regione. In Toscana sono ristretti 4.587 detenuti di cui 194 donne. Come avevamo facilmente preventivato solo un numero trascurabilissimo di detenuti (pari ad appena 113) ha potuto accedere alla carcerazione extra muraria in forza del cosiddetto “decreto svuota carceri” il quale, alla prova dei fatti, ha dimostrato tutta la propria inadeguatezza sia sul piano della deflazione che su quello della rieducazione. In altri termini, la Toscana non fa eccezione al dato nazionale sul sovrappopolamento attestato ormai sulla inaccettabile cifra del 70%. Ed anzi, nella nostra Regione la situazione appare aggravata da una carenza media negli organici della Polizia penitenziaria che addirittura supera il dato nazionale (presso il carcere di Livorno si oltrepassa addirittura la soglia del 30%) e, del tutto inopinatamente, mancano direttori fissi presso la più gran parte delle carceri toscane. È di tutta evidenza come tale situazione di fatto significhi, si direbbe con meccanico automatismo, porsi fuori dalle regole minime, costituzionalmente previste, della funzione rieducativa della pena, per scadere in quei trattamenti contrari al senso di umanità sanzionati dal nostro ordinamento giuridico. Nei mesi a venire impegneremo, quindi, il Partito Democratico regionale e metropolitano in una serie di manifestazioni pubbliche per informare i cittadini circa tale perdurante situazione di illegalità e sin d’ora ci si appella alle istituzioni della Regione Toscana affinché si provveda alla pronta nomina del Garante regionale per i diritti dei detenuti, istituito con la legge regionale 19.11.2009 n. 69, il quale, atteso il gravoso compito che lo attende, si auspica possa incarnare in sé tutte le competenze, innanzitutto tecnico - giuridiche, che gli saranno indispensabili per il fattivo svolgimento del proprio mandato in necessario coordinamento con le istituzioni carcerarie nonché con la magistratura di sorveglianza del distretto di Corte d’Appello di Firenze” concludono i responsabili giustizia del partito. Parma: detenuto si toglie la vita nel magazzino del carcere, è il 12° in Italia da inizio 2011 Gazzetta di Parma, 16 marzo 2011 Un detenuto albanese di 25 anni si è ucciso venerdì scorso nel carcere di Parma. Il giovane si è impiccato nel magazzino del penitenziario, dove lavorava. La notizia è stata diffusa da Orizzonti, il periodico della casa di reclusione di Padova, e confermata da Gianluca Giliberti, segretario regionale aggiunto della Federazione nazionale sicurezza della Cisl. “Non mi pare avesse particolari disagi che facessero immaginare un gesto così - ha commentato Giliberti. Forse aveva problemi familiari”. Il sindacalista ha inoltre ricordato che nel penitenziario di Parma il sovraffollamento è comunque sotto controllo, con “due detenuti per cella anziché tre o quattro”. Per Ristretti Orizzonti, quello di venerdì è il dodicesimo detenuto suicida in Italia dall’inizio dell’anno. Il giovane si sarebbe impiccato ad uno scaffale, dopo essersi chiuso a chiave nell’Ufficio Casellario, nel quale lavorava come magazziniere. Il ragazzo, ritenuto “un affidabile tanto da assegnarlo ad una mansione che gli consentiva relativa libertà di movimento all’interno del carcere” aveva però saputo da poco, tramite la sorella, delle gravi condizioni di salute del padre, residente in Albania, caduto in coma a seguito di un incidente. “La decisione di farla finita potrebbe essere maturata proprio per il senso di impotenza e la forzata lontananza dal genitore gravemente ammalato”. Questo non lo sapremo mai. Invece come abbia potuto disporre delle chiavi del Casellario è un quesito al quale dovrà dare risposta l’inchiesta avviata dalla magistratura. Per regolamento, infatti, i detenuti non possono entrare in possesso di chiavi, a tutela della sicurezza dell’intera comunità penitenziaria. Sappe: suicidi confermano situazione ormai ingestibile Le carceri italiane “sono diventate un luogo poco sicuro per chi ci lavora e per i detenuti: ormai è un bollettino di guerra quotidiano, tra suicidi, tentativi di suicidio, aggressioni al personale di polizia penitenziaria e danneggiamenti ai beni dell’Amministrazione”. Lo dichiara, con una nota, Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato di Polizia penitenziaria Sappe, rilevando che “sono circa duecento al giorno gli eventi critici” e l’Emilia Romagna “si conferma una delle regioni più insicure per quanto riguarda gli eventi critici all’interno delle carceri. Il suicidio del giovane albanese avvenuto nel carcere di Parma conferma che ormai la situazione è diventata ingestibile e che l’Amministrazione penitenziaria non riesce ad intervenire in nessun modo per scongiurare simili eventi”. Nelle carceri italiane, dei 67.500 detenuti circa, aggiunge Durante, “ce ne sono circa 10mila appartenenti alla criminalità organizzata, circa 25mila sono stranieri, molti dei quali potrebbero scontare la pena nei loro paesi, oltre 10mila sono tossicodipendenti che potrebbero scontare la pena all’esterno. In Emilia Romagna gli stranieri sono il 55%, i tossicodipendenti circa il 50%. Nel carcere di Parma, anche se il sovraffollamento sembra contenuto, bisogna tenere conto che molti detenuti sono appartenenti alla criminalità organizzata, alcuni dei quali sottoposti al regime del 41 bis; ci sono detenuti con minorazioni fisiche, come i paraplegici, tutti soggetti che necessitano di particolare attenzione e, quindi, dell’impiego di più agenti, rispetto ad altri istituti della regione”. Al momento, nel carcere di Parma, conclude il sindacalista, “ci sono tre sezioni detentive chiuse per carenza di personale. Ci vorrebbero almeno 50 agenti in più per farle funzionare”. Brescia: escluso dal Piano Ionta, ma nel carcere cittadino di sono 540 detenuti in 204 posti Brescia Oggi, 16 marzo 2011 Ottocento posti in più nelle carceri lombarde per fare fronte all’annoso problema del sovraffollamento. Lo hanno annunciato il ministro della Giustizia Angelino Alfano insieme con il presidente Roberto Formigoni che hanno sottoscritto un Piano carceri regionale. Brescia ne è però esclusa. I posti sono stati infatti così suddivisi: 400 a Opera (Milano), 200 a Busto Arsizio (Varese) e altrettanti a Bergamo. In queste strutture ampliate verranno inoltre garantite misure di welfare adeguate al recupero e reinserimento sociale dei detenuti. È il duplice impegno, per complessivi 55 milioni di euro, contenuto in due protocolli di intesa firmati al Pirellone dal presidente della Regione Lombardia, con il ministro della Giustizia Alfano, e il commissario delegato per il Piano Carceri, Franco Ionta. Sia Formigoni sia Alfano hanno concordato sulla necessità di offrire una possibilità di riscatto a chi ha scontato la pena, a beneficio dei singoli e della società. Gli 800 nuovi posti che saranno costruiti in attuazione del Piano carceri nazionale dovranno essere completati, è stato annunciato, entro 450 giorni lavorativi dall’assegnazione dell’appalto. Brescia rimane dunque a bocca asciutta nonostante la pesantissima situazione delle case circondariali, specialmente in quella di Canton Mombello, definita, tempo fa durante una visita degli esponenti lombardi dell’Italia dei Valori, pari a quella di “un lager”. Nel carcere di via Spalti San Marco, infatti, predisposto per una capienza di 204 detenuti, ci sono invece 540 persone. Da lunedì i carcerati hanno indetto una protesta per far conoscere la difficile situazione di vivibilità e convivenza in cui si trovano, rifiutando il cibo preparato in carcere e sbattendo pentole e oggetti metallici, con cadenza oraria, alle sbarre delle finestre. Giovedì, giorno previsto per la conclusione dello “sciopero del carrello”, è stato fissato un presidio solidale davanti a Canton Mombello, alle 16,30, promosso da Rete provinciale antifascista, centro sociale 28 Maggio Rovato, Confederazione Cobas, Partito della Rifondazione Comunista, collettivo Dietro le sbarre e Radio Onda d’urto. Sull’argomento sovraffollamento era intervenuto anche l’assessore ai Lavori pubblici del comune Mario Labolani con la proposta di applicare il braccialetto elettronico per gli arresti domiciliari, così da consentire alle forze dell’ordine di limitare i controlli, “garantendo la conoscenza esatta in ogni minuto della posizione dei detenuti dotati di tale dispositivo”. Labolani si è detto a favore della certezza della pena, ma, ha aggiunto anche che “questa deve essere scontata in condizioni che non ledano i diritti fondamentali dell’essere umano. La protesta in atto è quindi giustificata, soprattutto se si riflette sui problemi igienici e di convivenza consequenziali ad un sovraffollamento del genere”. Sulla stessa linea anche il ministro Alfano che, nella conferenza di presentazione del Piano carceri a Milano ha detto che il recupero dei detenuti “può avvenire solo se questi vivono non in sovraffollamento, in carceri dove possono intraprendere una attività, dove possono essere indirizzati ad un recupero nella società”, riportando i dati delle statistiche su coloro che, all’interno di un carcere, hanno percorso una strada di rieducazione: solo il 10%, una volta fuori, torna a compiere reati. Il 90% di coloro che invece non ha goduto di un percorso di riabilitazione torna a commettere reati. Alfano ha sottolineato che il governo punta “sulla rieducazione dei carcerati per evitare che tornino a delinquere. Questo può avvenire”, ha concluso, “solo con un trattamento umano e una attività rieducativa”. Brescia fuori dunque dall’ ampliamento della case circondariali perché non previsto dal Prg vigente, che non destina nuove aree a tale scopo, come ha spiegato il vicesindaco e assessore alla Sicurezza in Loggia Fabio Rolfi. Un’operazione che, come ha spiegato l’esponente del Carroccio sarà possibile solo con il nuovo Piano di governo del territorio: l’idea del comune è quella di ampliare Verziano e chiudere definitivamente Canton Mombello, ma di fatto, Brescia sconta un ritardo e quindi i tempi per tale intervento sono destinati a protrarsi nel tempo. Milano: il carcere di San Vittore lasciato al degrado, ristrutturarlo costa troppo La Repubblica, 16 marzo 2011 Troppo costoso ristrutturare San Vittore, meglio pensare a nuove strutture. Che la vecchia casa circondariale sia ormai un problema, per il sovraffollamento e per la distribuzione degli spazi, è ormai sempre più chiaro. Ma ora anche i vertici del sistema carcerario nazionale pensano a soluzioni alternative. Ieri, al Pirellone, il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha firmato con il governatore Roberto Formigoni e con il commissario delegato per il piano carceri Franco Ionta due protocolli di intesa. Con il primo si dà il via al progetto di costruire 800 nuovi posti nelle carceri lombarde: 400 ad Opera (in un grande padiglione con otto cortili di passeggio, un’area per lo sport, un campo da calcio e due centrali tecnologiche, per un costo stimato di 22 milioni su un’area totale di 27mila metri quadrati), 200 a Busto Arsizio e altrettanti a Bergamo. Il secondo protocollo, invece, servirà per trovare nuove formule di reinserimento sociale dei detenuti. In totale la spesa sarà di 55 milioni di euro. In questo piano carceri San Vittore, almeno per il momento, non c’è. E il motivo lo spiega il commissario Ionta. Che dice: “I problemi più grossi sono lì, non tutte le strutture sono idonee e c’è la necessità di un intervento deflattivo. Abbiamo scelto di puntare più sulle nuove costruzioni che non sulle manutenzioni. Purtroppo sistemare San Vittore è troppo costoso”. Era stato questo, alcuni anni fa, uno dei motivi che aveva spinto a immaginare la Cittadella della giustizia a Porto di Mare, con il Palazzo di giustizia, il tribunale dei minori, la corte dei Conti e San Vittore riuniti in un’unica struttura. Un progetto che, di fatto, si è infranto contro la freddezza (se non l’ostilità) degli avvocati ma soprattutto contro la mancanza di fondi. Diceva ieri Formigoni: “Non è un progetto accantonato, ma si potrà realizzare quando tutti i soggetti coinvolti saranno d’accordo e quando saranno reperite le risorse”. Sul futuro di San Vittore, invece, il governatore accarezza ancora l’idea di uno spazio aperto alla città: “Quella zona può essere destinata ad altre funzioni, abbattendo solo in parte San Vittore e trasformando l’altra parte in zona altamente attrattiva”. Ricorda l’assessore allo Sviluppo urbanistico Carlo Masseroli: tra le ipotesi c’era quella di allargare lì il museo della Scienza e della Tecnologia, trasformando il resto in spazi aperti e parco, progetti, insomma, che non forniscono risorse per finanziare un nuovo carcere. Ma assicuro che lì non ci saranno mai speculazioni edilizie”. Nell’ottobre scorso la sottocommissione consiliare sulle carceri aveva messo a punto un ordine del giorno che stabiliva lo stop al progetto di trasferimento a Porto di Mare e la ristrutturazione immediata del secondo e quarto raggio, quelli chiusi. Il testo doveva arrivare in consiglio comunale, ma così non è stato finora, né è probabile che venga approvato entro la fine del mandato. Marco Granelli, consigliere del Pd e membro della sottocommissione ricorda: “Si possono studiare anche progetti alternativi, ma il problema delle carceri non si risolve con nuove costruzioni ma con un percorso serio di pene alternative, che si potrebbero finanziare proprio utilizzando una parte dei fondi del piano carceri”. Reggio Emilia: Cgil; carcere e opg sono pieni da scoppiare, gli Enti locali ci aiutino Dire, 16 marzo 2011 Grido di allarme della Cgil reggiana sulla situazione dei due istituti penitenziari cittadini, “La Pulce” e l’Ospedale psichiatrico giudiziario. Secondo i dati forniti dal sindacato, infatti, per la polizia penitenziaria le carenze di organico, in entrambi gli istituti, raggiungono punte del 30% che, unite al sovraffollamento della popolazione ospite, generano una situazione “pericolosissima tanto per il personale che opera all’interno delle strutture, ormai quasi del tutto collassate, quanto per i detenuti ed i ricoverati stessi, costretti a vivere in condizioni di esagerata ed incivile promiscuità”. In particolare a novembre scorso il dato del sovraffollamento registra all’Opg, a fronte di una capienza regolamentare di 132 internati, 282 detenuti con un indice di sovraffollamento pari al 213%. La casa circondariale è arrivata invece ad ospitare fino a 347 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 160 persone, con un indice di sovraffollamento pari al 216%. Il tutto reso ancora più complesso dal fatto che, spiega Salvatore Coda della Funzione pubblica della Cgil, “il territorio reggiano è caratterizzato poi dalla presenza di uno dei cinque ospedali psichiatrici giudiziari italiani, strutture obsolete nate nell’800 e riformate all’epoca del ventennio fascista, dove difficilmente si conciliano il diritto alla salute e il recupero con le esigenze di sicurezza della collettività”. La Cgil quindi, nel condannare le politiche penitenziarie del Governo e auspicando riforme del settore, lancia un appello a Comune e Provincia per “farsi carico di questa situazione, anche attraverso la pressione nei confronti del livello politico nazionale e prendendo posizione, con chiarezza ed in concreto, a fianco dei lavoratori che quotidianamente, fra molte difficoltà, garantiscono il rispetto del principio costituzionale per il quale le pene devono tendere alla rieducazione ed al recupero del detenuto”. Venezia: localizzazione del nuovo carcere; continuano le polemiche in Comune e Regione La Nuova Venezia, 16 marzo 2011 Carcere, la maggioranza di centrosinistra dopo i litigi di lunedì sera in Consiglio comunale e una riunione urgente di maggioranza a mezzanotte e mezza riesce a ricompattare il fronte con un ordine del giorno che “chiede che la procedura di individuazione del nuovo carcere venga azzerata e riavviata”, coinvolgendo Cà Farsetti. Il voto unanime di 25 consiglieri della maggioranza e con l’opposizione che se ne va per protesta, ha messo fine all’una e mezza di notte ad una seduta di Consiglio lunga e litigiosa. Il voto racconta poco delle divisioni interne al centrosinistra che hanno opposto fino a mezzanotte e mezza il sindaco Orsoni e il Partito Democratico e le polemiche con Idv e Udc, schierato sulla chiusura del carcere di S. Maria Maggiore. Bocciati i documenti delle opposizioni, Lega Nord e Pdl. Quest’ultimo aveva proposto forte Pepe. Il capogruppo Pd Claudio Borghello, dopo lo sfogo del segretario provinciale Michele Mognato, di cui ha riferito ieri il nostro giornale, conferma che fino ad un certo momento della discussione “il sindaco si è trovato isolato” e che il Pd era pronto alla spaccatura. Ieri, dopo la mediazione, Pd e Udc hanno rivendicato una vittoria per il documento finale, stilato dal sindaco Orsoni e che ha ricompattato la maggioranza all’una di notte. Nel documento si ribadisce che “le aree per l’ubicazione del nuovo carcere sulla base dei parametri ministeriali vincolanti, e in particolare l’area di Campalto, non sono in alcun modo accettabili”, si attacca la scelta del governo della procedura commissariale “non rispettosa della volontà dell’amministrazione comunale, la quale non può essere contraria al miglioramento e ammodernamento delle strutture e delle politiche carcerarie nonché al recupero di parti urbane oggi destinate ad edilizia carceraria”. Insomma si tiene aperta la porta su Santa Maria Maggiore ma si chiede “che la procedura venga azzerata e riavviata” coinvolgendo direttamente il Comune. Orsoni ieri ha scritto al commissario Franco Ionta, delegato dal governo al piano carceri, per trasmettergli le decisioni del Consiglio. Sarà ascoltato? Difficile pronosticarlo. Polemiche le opposizioni. “Questa maggioranza ha deciso di non decidere e ora la conseguenza grave sarà che il sito sarà quello di Campalto”, dice Michele Zuin a nome dei consiglieri del Pdl. “Una maggioranza spaccata ha trovato la quadra su un documento, che è già un insulto definire tale, proposto dal sindaco e scritto in politichese stretto che unisce posizioni contrapposte su una posizione scandalosa”, aggiunge il consigliere. “Così si sono persi due mesi”. I capigruppo di Pd, Federazione della Sinistra, Sdi e In Comune (Borghello, Bonzio, Giordani e Caccia) hanno poi scritto al presidente del Consiglio comunale Roberto Turetta, al sindaco e alla sua giunta chiedendo ora di organizzare un sopralluogo del Consiglio comunale al carcere veneziano e un confronto con la direzione carceraria, le associazioni e dipendenti per valutare tra l’altro “spazi possibili per attivare misure alternative alla detenzione”. Maggioranza spaccata, Orsoni contro tutti Il nuovo carcere spacca la maggioranza di centrosinistra: Pd, In Comune, Federazione della sinistra schierati per la ristrutturazione di Santa Maria Maggiore; Udc e Idv che vogliono certezze proprio sulla chiusura del vecchio carcere. È stata una giornata di alta tensione politica, in vista del Consiglio chiamato (proprio alla scadenza dei termini) ad avanzare “la” proposta dell’amministrazione alla Regione, sulla collocazione del carcere. Un Consiglio che, dopo essersi dilungato per ore tra vecchie interrogazioni, un infinito dibattito sul mantenimento della quota del 10% del Comune nel Gral, il sì al regolamento sulla dispersione delle ceneri dei defunti, ha affrontato il nodo politico della giornata solo in tarda serata (con un lungo dibattito). Al voto, due diversi ordini del giorno di maggioranza relativi a posizioni contrapposte, con il sindaco Orsoni che delega la decisione al Consiglio, ma da parte sua è ancora propenso alla collocazione del nuovo carcere proprio a Campalto. La giunta, infine, si è presentata in Consiglio con 13 aree alternative - così come era stato richiesto di analizzare dallo stesso Consiglio comunale, a gennaio - anche se l’assessore Micelli ha aggiunto di ritenere necessario un confronto aperto anche ai Comuni limitrofi. Da una parte Pd, Federazione della sinistra e lista In Comune contrari alla realizzazione di una nuova struttura penitenziaria e schierati a favore della radicale ristrutturazione del carcere di Santa Maria Maggiore, con una riduzione di detenuti attraverso il ricorso a pene alternative. Udc e Idv chiedono, al contrario, di assicurare che la struttura veneziana sarà dismessa perché ormai degradata e di aprire un tavolo con Provincia e comuni limitrofi perché la nuova struttura carceraria non si faccia dentro i confini del comune. Posizione diversa, infine, proprio dello stesso sindaco Orsoni: “Sono andato a visitare Santa Maria Maggiore e, dopo gli importanti lavori effettuati, non è certo più il carcere che ricordavo - spiega - Ma se pure le regole igienico - sanitarie sono ora rispettate, si tratta pur sempre di una rigida struttura austriaca che non compenetrava la necessità di avere anche spazi per il recupero sociale - lavorativo dei detenuti. Per questo sono favorevole alla realizzazione di una nuova struttura e penso che al ministero si debbano inviare le aree alternative individuate anche se, per me, la collocazione migliore resta quella dell’ex polveriera. Ritengo una scelta di retroguardia quella di chi ritiene che il carcere nuovo non sia necessario”. Quanto all’opposizione, il Pdl (fermamente a favore della chiusura di Santa Maria Maggiore e contrario a Campalto) ha rispolverato la sua vecchia ipotesi del Forte Pepe, chiedendo comunque alla maggioranza di mettere nero su bianco il “no” a Campalto, nel documento che presenterà al Regione. La Lega, da parte sua, attacca la maggioranza divisa, ma (contrariamente al Pdl) si schiera a favore della ristrutturazione di Santa Maria Maggiore. Marino Zorzato: adesso deciderà Roma “Se il Comune non prende una posizione la palla tornerà al Ministero a Roma”. Il vicepresidente della Regione Veneto Marino Zorzato risponde così al dietrofront del Comune di Venezia sulla questione del nuovo carcere di Venezia. Il 9 febbraio scorso, con una lettera, il numero due di Palazzo Balbi aveva accordato a Cà Farsetti tre settimane di tempo per proporre un sito diverso da quello indicato a fine dicembre dal Ministero dell’Interno che ricadeva su Campalto. Ora, alla luce della non indicazione del consiglio comunale, Zorzato si smarca e, metaforicamente, ripassa la palla a Roma. “Noi come Regione avevano solamente sollecitato e indicato un termine per una eventuale indicazione - aggiunge Zorzato - Siamo stati un tramite per il Comune a cui abbiamo dato una scadenza. Non avendo ricevuto alcuna risposta in merito ora ripasseremo la palla a Roma e al Ministero che farà le sue valutazioni. Non c’è molto altro da aggiungere su questa questione in cui, ripeto, la Regione Veneto ha avuto unicamente un ruolo di mediazione”. La scelta di Campalto era stata presa a fine dicembre dal commissario delegato per il piano carceri, Franco Ionta, con i tecnici della Regione che avevano chiesto al Comune l’idoneità di alcuni ex siti militari abbandonati, come quello di Campalto. Contro questa ipotesi scese in campo anche la Caritas. Si riparte dunque da zero e i tempi si allungano, mentre i cittadini comunque continuano i loro presidi e le loro proteste per non vedere nascere un carcere e un Cie a pochi metri da casa. Como: Sappe; ancora un agente di Polizia penitenziaria aggredito da detenuto Ansa, 16 marzo 2011 Carcere di Como ancora al centro dell’attenzione. Nel pomeriggio di ieri, un detenuto italiano con problemi psichiatrici ristretto nell’infermeria dell’Istituto, ha proditoriamente ed improvvisamente colpito l’Agente di Polizia Penitenziaria addetto alla Sorveglianza del Reparto.Una situazione di alta tensione, l’ennesima, rispetto alla quale il Sindacato più rappresentativo dei Baschi Azzurri, il Sappe, esprime “preoccupazione e allarme”. “La situazione è ben oltre il limite della tolleranza. Lo dimostra chiaramente la sistematicità quasi quotidiana con cui avvengono episodi di tensione ed eventi critici nel penitenziario di Como”, è il commento di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Vogliamo per prima cosa esprimere la nostra solidarietà al Collega, che nonostante l’aggressione, ha impedito che la situazione potesse ulteriormente degenerare. L’aggressione, improvvisa e proditoria, è l’ennesima ai danni di appartenenti alla Polizia Penitenziaria di Como, la terza in meno di un mese. È davvero troppo. Dove sono le istituzioni? Cosa pensano di fare per tutelare gli agenti di Como?”. Il Sappe rinnova l’invito alle Istituzioni di “arrivare a definire, come sosteniamo da tempo, circuiti penitenziari differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi, con particolare riferimento al bisogno di destinare, a soggetti di scarsa pericolosità o che necessitano di un percorso carcerario differenziato (come i detenuti con problemi sanitari e psichiatrici), specifici circuiti di custodia attenuata anche potenziando il ricorso alle misure alternative alla detenzione per la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale. Dovrebbe fare seriamente riflettere quanto emerso da dati recentemente diffusi sulla sanità in carcere, secondo cui l’80% dei quasi 70 mila detenuti oggi in carcere ha problemi di salute, più o meno gravi. Il 38% versa in condizioni mediocri, il 37% in condizioni scadenti, il 4% ha problemi di salute gravi e solo il 20% è sano. Un detenuto su tre è tossicodipendente. Del 30% dei detenuti che si è sottoposto al test Hiv, il 4% è risultato positivo. E ancora, il 16% soffre di depressione o altri disturbi psichici, il 15% ha problemi di masticazione, il 13% soffre di malattie osteoarticolari, l’11% di malattie epatiche, il 9% di disturbi gastrointestinali. Circa il 7% è infine portatore di malattie infettive. Tutto questo va ad aggravare le già pesanti condizioni lavorative delle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria. Forse è il caso di ripensare il carcere proprio prevedendo un circuito penitenziario differenziato per queste tipologie di detenuti”. Pavia: detenuto picchia un agente durante l’ora d’aria La Provincia Pavese, 16 marzo 2011 Carcere di Torre del Gallo, 9.30 del mattino. Un agente di polizia penitenziaria apre le celle per consentire la consueta ora d’aria. Un detenuto si avvia verso l’area di passeggio e quando incrocia l’agente gli si scaglia contro. Pugni e calci. Per i medici del Pronto Soccorso, che l’hanno visitato l’altra mattina, guarirà in 5 giorni. Ma il sindacato punta il dito contro la carenza cronica di personale addetto alla sicurezza. “Nel carcere di Pavia ci sono almeno 100 agenti di polizia penitenziaria in meno - dice il segretario generale della Cisl - Federazione nazionale sicurezza, Mario Petrella. L’organico ufficiale prevede la presenza di 285 agenti ma sulla carta sono, attualmente, 214. Di questi però circa 40 sono assenti per cause varie e ne risultano effettivamente in servizio solo 181. È facile immaginare quanto costi, sul piano operativo e organizzativo, un centinaio di persone in meno. Una condizione che pregiudica concretamente anche l’incolumità di chi vi lavora”. La casa circondariale di Torre del Gallo è da anni in debito di ossigeno. I sindacati sollevano da tempo, e senza risultati, il problema. Nemmeno 200 agenti per quasi 500 carcerati. “La carenza di personale però non è correlabile a questo episodio - precisa la direttrice del carcere, Iolanda Vitale -. Purtroppo, e con questo non lo giustifico, fa parte di quegli eventi imprevedibili, che possono accadere. Il detenuto in questione (che proviene dal carcere di Bollate, ndr) è una persona con un disagio psichico. Il carcere non rappresenta la soluzione ideale per lui. Ma deve scontare una pena”. Dall’inizio dell’anno, segnala la Cisl-Fns, le aggressioni agli agenti negli istituti penitenziari, con prognosi superiore ai 5 giorni, sono state 27. “Denotando un trend in continua crescita - dice Petrella - spesso collegabili alle condizioni degradanti di detenzione che alimentano violenza e intolleranza dei detenuti. Questo però non giustifica le aggressioni. Per questo denunciamo la passività e l’assenza di provvedimenti adeguati da parte dell’amministrazione penitenziaria”. A Pavia a fronte di una capienza massima di 247 detenuti ieri ne erano ospitati 492, quasi il doppio. Convivono in due all’interno di celle progettate per una sola persona. E molto spesso viene aggiunto un terzo letto, una brandina pieghevole che, durante il giorno, consente di recuperare un po’ più di spazio vitale. Viterbo: la Provincia e il reinserimento dei detenuti; borse lavoro per esperienza formativa Dire, 16 marzo 2011 Firmato ieri mattina a Palazzo Gentili, a Viterbo, un protocollo d’intesa per l’inserimento lavorativo e sociale di detenuti, soggetti in esecuzione penale esterna, dimittendi e sottoposti a misure di sicurezza non detentive. A firmarlo sono stati l’assessore alle Politiche sociali, Lavoro e Formazione della Provincia di Viterbo, Paolo Bianchini, la dirigente del settore, Giuliana Aquilani, il direttore della Casa circondariale di Viterbo, Pierpaolo D’Andria, e il direttore dell’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) del ministero della Giustizia, Caterina Calderola. “Intendiamo dare il via a un percorso di maturazione e reinserimento nella società dei detenuti - dichiara l’assessore Bianchini - in raccordo con consorzi e cooperative accreditate già operanti con la casa circondariale viterbese e con l’Uepe sul territorio, in un’ottica d’integrazione e multidisciplinarietà. Credo si tratti di un’iniziativa molto importante, che favorisce la formazione di chi, una volta scontata la propria pena, avrà così migliori opportunità di trovare un lavoro”. In seguito alla segnalazione e all’invio di progetti da parte della casa circondariale o dall’Uepe, la Provincia procederà quindi al finanziamento, attraverso risorse del Fondo sociale europeo, di borse lavoro (work experience) che consentiranno al destinatario di svolgere un’esperienza formativa professionalizzante in ambiente lavorativo. L’accordo firmato questa mattina avrà una durata quinquennale. Roveredo (Pn): il Sindaco; costruire qui il nuovo carcere? nessuno mi ha interpellato Il Gazzettino, 16 marzo 2011 Nuovo carcere e riqualificazione di piazza Roma restano i temi più caldi del confronto politico, trattati anche nell’ultimo consiglio comunale, su iniziativa dei gruppi di opposizione Roveredo futura e Prospettiva duemila. Sulla realizzazione del nuovo penitenziario in Comina, nel territorio di Pordenone, ma proprio al confine con Roveredo, l’amministrazione attende ancora di essere interpellata. “Da tempo abbiamo chiesto di partecipare al tavolo tecnico che sarà aperto con tutti gli enti interessati - spiega il sindaco Sergio Bergnach. Ribadisco che sarebbe più opportuno costruire il carcere in un altro sito. Se sarà confermata come sede la Comina andranno valutate attentamente e risolte, prima di iniziare i lavori, le questioni legate all’impatto sulla viabilità e l’ambiente”. Sulla piazza, invece, sta volgendo al termine il periodo dedicato agli incontri con i residenti. E intanto le minoranze, che in Consiglio avevano chiesto chiarezza sui tempi di intervento (il cronoprogramma non è però ancora pronto), stanno per tornare alla carica. È in uscita un numero del periodico l’Aquilone interamente dedicato all’argomento e domenica prossima i gruppi di opposizione manifesteranno proprio in piazza per la difesa del verde, ridotto nella bozza di progetto inizialmente presentata. Pordenone: gli studenti in visita al carcere, per non dimenticare chi vive dietro le sbarre di Desireé Odorico (Liceo Leopardi-Majorana) Messaggero Veneto, 16 marzo 2011 La classe V ha visitato la Casa circondariale di Pordenone, situata di fronte all’ex biblioteca in Piazza della Motta. Una esperienza di forte impatto umano, culturale, emozionale, istituzionale. Ne valeva la pena. L’iniziativa è nata dal desiderio comune di conoscere più approfonditamente l’ambiente penitenziario, in vista della stesura dell’area di progetto, fissata appunto sul tema delle carceri. La prima sensazione provata da tutti, dopo essere stati sottoposti a svariati controlli per la sicurezza, è stata quella di un luogo chiuso e ristretto. Il carcere emana senso di oppressione. Quello che si prova a entrarci è il desiderio di non finire mai condannati o costretti a vedere la vita a scacchi, dietro le grate di una finestra che non è mai aperta sul mondo. Prove tecniche, quindi, per smontare le barriere umane, dietro le sbarre. “Un progetto a doppia valenza - ha spiegato Silvano Scarpat il docente che ha avuto l’idea dell’esperienza -. Inserito nell’area di tirocinio vale per creare reti di relazioni a forte valenza. È importante la relazione, per tante persone che scontano gli sbagli di una vita, in galera. Noi allargheremo la loro rete relazionale - ha aggiunto Scarpat. I ragazzi stanno facendo un’accurata preparazione pre - tirocinio e teniamo i contatti con il cappellano del carcere don Piergiorgio Rigolo”. Il direttore ci ha illustrato le caratteristiche del carcere (particolare per la sua antica architettura che risale a secoli fa), i problemi più comuni riguardanti la struttura e, ovviamente, il ruolo fondamentale delle guardie carcerarie. Queste ultime svolgono un’attività che non rispecchia prettamente il compito di controllo dei reclusi, ma sono anche come figure umane di riferimento all’interno del carcere. Discorrendo dei pregi e delle difficoltà della Casa penitenziaria, abbiamo potuto constatare che effettivamente il problema di maggior gravità è il sovraffollamento (inconveniente della maggior parte delle strutture penitenziarie italiane). È stato di grande interesse anche conoscere l’arredamento di ogni singola stanza (e non cella), costituito da pochi e non pericolosi oggetti o utensili. Numerosi infatti sono stati i casi di suicidio non solo tra i detenuti di diverse carceri, ma anche tra le guardie penitenziarie, spetto afflitte da sindromi poco conosciute (burnout) o non - riconosciute (mobbing). Abbiamo conosciuto cinque detenuti, tre di nazionalità italiana e due di nazionalità straniera. Parrà banale affermare che le cinque persone di fronte a noi potevano sembrare i vicini di casa, i postini, i panettieri, le figure più semplici e quotidiane, anche perché i vestiti indossati appartenevano al loro guardaroba, dunque nessun tipo di divisa li omologava o etichettava. Poter ascoltare delle persone che per anni hanno vissuto in un penitenziario può creare un senso di profonda umanità e compassione, forse instillato anche dalle parole e dalle frequenti repressioni emozionali dei carcerati. Per tutti noi il momento del colloquio con i detenuti è stato toccante: mai avremmo immaginato che con dei rei si potesse creare un canale comunicativo così semplice e diretto. Per la maggior parte del tempo i detenuti hanno discusso in merito agli affetti familiari e al mondo esterno; in particolare la libertà è stato un tema di profonda riflessione. In particolare ci ha colpito la frase di un detenuto di nazionalità moldava: “Non ti puoi accorgere dell’importanza della libertà finché non ti viene negata dietro le sbarre di una galera.” Questo contatto ci ha dato la possibilità di conoscersi, apprezzarsi ed esporsi. Infatti, per quanto possa far male compiere uno sbaglio, tanto audace e coraggioso ne è il pubblico riconoscimento e pentimento. Ognuno di noi sbaglia, alcuni più gravemente, altri meno, ma è significativo e formativo poterne parlare, poter esprimere le proprie emozioni e consigli che prevengono spesso l’errore. Abbiamo capito, attraverso le loro testimonianze, che ogni attimo di vita vale e che non deve essere sprecato… concetto banale, ma che detto da un detenuto va interiorizzato con maggior attenzione e rispetto. Vivendo per qualche ora l’esperienza carceraria, abbiamo ricevuto di fatto molti insegnamenti da persone che si possono e si devono definire normali, seppur con un percorso di vita differente da molti di noi. Lasciando alle nostre spalle la Casa Circondariale, abbiamo percepito l’effettiva diversità rispetto al “mondo della libertà”, ma abbiamo anche compreso l’importanza del nostro incontro; perché anche i detenuti possono insegnare: ricordano che anche in carcere si vive, ogni giorno, seppur la loro sia una vita annebbiata e relegata lontano dalla coscienza di ogni cittadino comune. Firenze: all’Opg direttore con doppio incarico; la denuncia di due parlamentari Radicali Il Tirreno, 16 marzo 2011 Dirigenti di carceri toscane, tra cui anche l’Opg, costretti a fare i “direttori con doppio incarico part time” in altri istituti penitenziari toscani rimasti privi dei loro responsabili. È quanto hanno denunciato, nell’ambito di un incontro, i parlamentari radicali eletti nel Pd Marco Perduca e Donatella Poretti: “In Italia non si fanno concorsi per l’assunzione di direttori di carceri dal 1996, il contratto delle categoria è fermo al 2006 - hanno detto - e questo ha portato al fatto che in Toscana, caso unico in Italia, a fronte di 18 istituti manchino direttori fissi nei carceri della Gorgona, Livorno, Pistoia, Massa Marittima, San Gimignano, nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo fiorentino, nel penitenziario minorile Gozzini (Solliccianino) e al momento anche a Massa, dove è stato arrestato il responsabile”. Una situazione che, come ha poi spiegato Perduca, “costringe, in uno stato di totale illegalità, dirigenti di altre strutture a ricoprire come incarichi aggiuntivi e, per così dire, part time, le direzioni rimaste scoperte: solo per fare qualche esempio, il vicedirettore del carcere di Pisa fa anche il direttore facente funzione nel penitenziario di Livorno, la direttrice di Solliccianino ricopre analogo ruolo a Montelupo, e la struttura di Pistoia, poi, è rimasta addirittura scoperta”. Sulla vicenda Perduca e Poretti presenteranno “interrogazioni in Parlamento”. Trieste: rissa tra detenuti a colpi di caffettiera, sequestrate le moke in tutte le celle di Corrado Barbacini Il Piccolo, 16 marzo 2011 Doppia rissa in carcere a poche ore di distanza una dall’altra. È accaduto venerdì e sabato sera al Coroneo, ma la notizia è trapelata solo ieri mattina uscendo dagli ambiti ristretti del penitenziario. Negli episodi violenti, sedati prontamente dagli agenti della polizia penitenziaria, sono stati coinvolti quattro detenuti (due nigeriani, un serbo e un rumeno) che nelle rispettive celle se le sono date di santa ragione. A quanto pare per problemi di convivenza, futili motivi. Nella zuffa hanno utilizzato la parte bassa delle caffettiere di alluminio, usate come “armi” con le quali hanno colpito in testa gli avversari. Due i detenuti rimasti feriti. Sono stati soccorsi dai sanitari del 118 ai quali si erano rivolti gli agenti della penitenziaria quando hanno visto i due carcerati riversi sul pavimento e sanguinanti. Si è trattato di due episodi - fotocopia per i quali sono già state aperte indagini interne. Ma ieri sono stati sequestrate in tutte le celle del Coroneo le caffettiere in alluminio per evitare che, come è accaduto, potessero essere smontate e utilizzate come corpi contundenti. Il primo allarme è scattato venerdì sera in una cella al secondo piano dove “vivono” nove detenuti. A litigare violentemente sono stati un rumeno e un serbo. Per condurli alla ragione è stato necessario l’intervento degli agenti che avevano sentito le urla provenire dalla cella. Li hanno bloccati e tenuti lontani. Il rumeno, così è stato riferito, aveva subito un trauma cranico con una profonda ferita alla testa. Provocata appunto dalla base della caffettiera moka, che l’altro gli aveva scagliato in un momento di rabbia. Il ferito poi, come detto, è stato trasportato al pronto soccorso di Cattinara dove la lesione è stata suturata ed è stato sottoposto a una serie di accertamenti clinico radiologici. Poche ore dopo il secondo episodio. Coinvolti due detenuti di origine nigeriana. Anche in questo caso uno dei due reclusi aveva ferito l’altro utilizzando la parte bassa della caffettiera moka. Nella cella - anche in questa stanza sono ospitati in totale nove reclusi - hanno atto irruzione gli agenti della polizia penitenziaria che, con non poche difficoltà, hanno sedato gli animi dividendo i due detenuti. Stando a quanto trapelato i protagonisti della zuffa sono poi stati precauzionalmente ospitati in differenti e soprattutto lontane celle. Pochi mesi fa al Coroneo c’era stato un altro episodio violento. Un detenuto rumeno aveva aggredito un’infermiera che stava distribuendo i medicinali. Le aveva dato un colpo al fianco. I numeri del carcere Ieri mattina nelle celle del Coroneo erano reclusi 225 detenuti appartenenti a 30 nazionalità differenti. In particolare 194 uomini e 31 donne. Tutto questo accade quando la capienza massima della casa circondariale è di 160 detenuti. In occasione della festa del corpo della polizia penitenziaria qualche mese fa era stata espressa forte preoccupazione per il futuro del Coroneo, “un carcere ancora in grado di reggere l’urto, ma sovraffollato e con sempre meno risorse a disposizione”. I poliziotti del reparto sono 120, mentre l’organico ne prevede 159. Porto Azzurro (Li): la protesta dei Sindacati; mai trasferiti i detenuti coinvolti nelle risse Il Tirreno, 16 marzo 2011 C’è il mancato trasferimento di una parte consistente dei detenuti protagonisti per ben due volte, tra dicembre 2010 e gennaio 2011, di altrettante risse all’interno dell’istituto di Porto Azzurro, all’origine dei provvedimenti restrittivi nei confronti dei carcerati adottati in questi giorni. Quei provvedimenti per i quali, tra mercoledì e venerdì, gli stessi detenuti hanno dato vita a una “sonora” protesta (sbattendo pentole e coperchi contro le sbarre delle celle). Lo si desume da una nota, inviata dai sindacati della polizia penitenziaria Sinappe, rappresentato da Paolo D’Ascenzo, e Fsa-Cnpp, rappresentato da Francesco Mazzei, che intendono fare chiarezza sull’accaduto rimarcando anzitutto che “l’attuazione del così detto regime chiuso non ha leso quelli che sono i diritti dei soggetti detenuti” e sottolineando come, grazie alla professionalità e allo spirito di corpo degli agenti, durante la protesta “al fine di compensare la cronica carenza di personale di polizia penitenziaria, il personale stesso libero da servizi, si è reso disponibile a restare in istituto, nelle vicinanze dei reparti detentivi, potendo intervenire in caso di necessità”. Circostanza che non si è verificata anche grazie al lavoro di equipe degli ultimi giorni che ha portato a una parziale riapertura delle sezioni interessate “non per mancanza di fermezza - concludono D’Ascenzo e Mazzei - ma al fine di un graduale ritorno alla normalità”. Nuoro: detenuto in attesa di intervento chirurgico denuncia mancanza di assistenza La Nuova Sardegna, 16 marzo 2011 Una patologia riconosciuta dagli specialisti otorinolaringoiatri dello Zonchello e dallo stesso dirigente dell’area medica del carcere di Nuoro. La necessità di un intervento chirurgico per evitare pericolose apnee notturne. Un iter medico-diagnostico lungo tre anni e poi finito con una amara sorpresa. Niente operazione per il detenuto Agostino Murru. Cinquantacinque anni, di Guasila, ospite del carcere di Badu ‘e Carros, Murru ha preso una decisione. Anzi, due. Intanto ha scritto alla Procura della Repubblica del capoluogo un esposto - denuncia, nel quale chiede che si verifichino se ci siano i presupposti per una omissione di assistenza sanitaria, visto il parere unanime dei medici (salvo il dietro - front del dirigente del penitenziario che nel mese di febbraio non ha ritenuto più necessario l’intervento) per un intervento che non s’ha da farsi. Quindi ha informato l’associazione Socialismo diritti e riforme, di cui è presidente Maria Grazia Caligaris, chiedendo un intervento. Chirurgico, in particolare; al setto nasale, appunto. “La gravità delle condizioni e il pericolo di non svegliarmi mi è stata rappresentata anche dal dirigente medico dell’istituto e da altri medici dell’ospedale. Le mie insistenze, alcune visite nel reparto ospedaliero e il calo di ben otto chili che mi era stato suggerito, non hanno sortito alcun effetto, cioè l’intervento. Anzi il 9 febbraio scorso il dirigente sanitario mi ha informato che non sarei stato operato e che mi sarebbero stati forniti dall’Asl un apparecchio e una mascherina che mi avrebbero consentito di respirare di notte”, dice il detenuto. “La denuncia - ha sottolineato Maria Grazia Caligaris - è una ulteriore conferma che alla condanna della privazione della libertà troppo spesso si aggiunge una sofferenza che nessun giudice ha inflitto”. Questo nonostante dieci giorni fa la Cassazione (con la sentenza n. 8493 pronunciata il 3 marzo scorso dalla sesta sezione penale) abbia affermato che la salute dei detenuti viene prima della sicurezza, essendo la salute un diritto fondamentale che non può essere compresso o limitato da esigenze di sicurezza. In teoria. “Negli ultimi 4 anni, ho inviato non meno di 200 segnalazioni al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sulle questioni riguardanti la salute dei detenuti”, sottolinea Carlo Murgia, garante dei diritti dei detenuti di Nuoro. Ogni mercoledì è a Badu e Carros per ascoltarli e accoglierne le segnalazioni. In gran parte riguardano disagi di natura sanitaria. “Che, per i casi più gravi, vengono valutati dal Dap. Al quale il gruppo tecnico del carcere, composto da direttore, capo delle guardie, educatore, assistente sociale, e in alcun casi dal dirigente medico, invia una sintesi della situazione medica”. Sintesi il cui contenuto è inaccessibile. E così si arriva a casi eclatanti. Come quello del detenuto Murru Agostino da Guasila. Arrivato a chiedere che sia il magistrato a disporre il suo intervento chirurgico. Palermo: venerdì i Sindacati Polizia penitenziaria promuovono manifestazione e corteo Il Velino, 16 marzo 2011 Si terrà venerdì 18 marzo a Palermo, dalle 10 alle 14, la manifestazione regionale del personale di polizia penitenziaria associato a Cisl Fns, Cgil Fp Pp, Uil Pa Pen, Sappe e Ugl Pp. Ne dà notizia la Cisl per voce di Giovanni Saccone, segretario della Fns Sicilia. L’appuntamento è alle 10 davanti all’Ucciardone, da dove partirà un corteo sfilerà per le vie Albanese, Libertà, Maqueda e Cavour. lavoratori sosteranno infine davanti alla prefettura dove manifesteranno il proprio disappunto per le “condizioni disumane” in cui il personale è costretto a operare. In particolare, rimarca Saccone, il disagio riguarda: l’insufficienza di organici, mense e vestiario d’ordinanza; il sovraffollamento degli istituti; la carenza di fondi e mezzi a disposizione; la “fatiscenza e l’inidoneità” degli immobili utilizzati e l’inadeguatezza degli interventi di ristrutturazione. La protesta è l’acme di un disagio per il quale i lavoratori del settore sono da tempo, in Sicilia, in stato d’agitazione. Messina: Sappe; mobilitazione contro la carenza di organico nelle carceri La Sicilia, 16 marzo 2011 Si avvicina la data del 18 marzo, giorno scelto dalle sigle sindacali del settore penitenziario per manifestare contro la carenza di organico che interessa le carceri della Sicilia Orientale, ed in particolare della provincia di Messina. A questo proposito interviene oggi la segreteria provinciale del Sappe, sindacato che raccoglie gran parte degli agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria, che in merito alla mobilitazione programmata per venerdì e all’articolo pubblico su Tempostretto.it lo scorso 11 marzo, da titolo “Nuova aggressione all’Opg Barcellona, la seconda nel giro di pochi giorni”, avanza alcune precisazioni. “Questa organizzazione sindacale - scrive il delegato provinciale Giuseppe Conte - ha avuto modo di appurare la celerità nel pubblicare quanto notiziato e di questo se ne ringrazia, altrettanto non ha potuto condividere le parti sopra meglio specificate, sia per una questione di “fatti”, ovvero il comunicato stampa si riferiva solo ed esclusivamente a fatti che riguardavano l’Opg di Barcellona, che vanno scissi da ciò che accade e/o riguarda l’istituto. Inoltre, quello che appunto trapela dall’articolo, che come previsto ha avuto dei risvolti negativi sulla “politica sindacale” di questa sigla, è “la decisione del Sappe Messina di manifestare dinnanzi all’istituto di Gazzi unitamente ad altra sigla”. A causa di ciò sono quasi nate diatribe con le sigle del “cartello” con le quali manifesteremo, sempre giorno 18 marzo, ma a Palermo. Alla luce di quanto sopra esposto, ribadendo che questa sigla non ha nulla a che vedere con la manifestazione del 18 marzo p.v. che dovrebbe tenersi dinnanzi all’istituto di Gazzi, confermando invece che manifesteremo a Palermo unitamente ad altre sigle facenti parte di un cartello a carattere Regionale, così come comunicatovi inviando apposito comunicato stampa tramite posta elettronica a firma di tutte le Organizzazioni sindacali Regionali aderenti”. Augusta (Sr): Sappe; agente aggredito da un detenuto "armato" di bastone Agi, 16 marzo 2011 Un detenuto addetto alle lavorazioni ha colpito con un bastone un assistente capo della polizia penitenziaria nel carcere di Augusta (Siracusa). Dell'episodio, avvenuto ieri, dà notizia in un comunicato Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. "Mi sembra inevitabile sostenere che le nostre preoccupazioni per un sistema penitenziario ogni giorno sempre più vicino all'implosione trovino conferma ogni giorno di più", commenta Capece, che aggiunge: "Queste continue aggressioni non sono più tollerabili: anche nel carcere di Como, sempre ieri, un detenuto ha aggredito un agente. Ribadiamo che bisogna contrastare con fermezza queste ingiustificate violenze ai rappresentati dello Stato in carcere e punire con pene esemplari, anche sotto il profilo disciplinare, i detenuti che la commettono per evitare sul nascere pericolosi effetti emulativi". Il sindacalista afferma che "la drammatica situazione penitenziaria oggi e' contenuta principalmente dal senso di responsabilita' del Corpo di Polizia Penitenziaria; ma queste sono condizioni di sfiancamento e logoramento che durano ormai da molti mesi". Noto (Sr): la Crivop onlus organizza “Festa del papà” per i detenuti La Sicilia, 16 marzo 2011 Sabato 19 marzo, in occasione della “Festa del papà”, la Crivop (Cristiani italiani volontari penitenziari) onlus di Messina in collaborazione con l’associazione Comunione fraterna, competente in intrattenimenti per bambini, terrà nella struttura penitenziaria di Noto un incontro intitolato “Un’ora di arcobaleno”. Durante l’incontro si organizzeranno, a favore dei figli dei ristretti, puppets, canti, giochi di gruppo e degustazione di dolci. “Lo scopo della manifestazione - spiega il presidente nazionale di Crivop, Michele Recupero - è quello di coinvolgere i figli dei detenuti e creare un momento di gioia attraverso il quale trasmettere un messaggio d’amore e speranza”. Anche questo incontro si tiene a seguito dei risultati positivi ottenuti dal noto progetto di Crivop nei penitenziari “L’Arpa di Davide”. Torino “Lo scimmione e la tartaruga”, spettacolo teatrale realizzato dai detenuti Adnkronos, 16 marzo 2011 Andrà in scena dal 1 aprile “Lo scimmione e la tartaruga” lo spettacolo realizzato dai detenuti della VI Sezione del Padiglione A della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, con la regia di Claudio Montagna. Lo spettacolo di quest’anno - sottolineano i realizzatori - chiude una progettualità dedicata al senso della vita e della morte e ne apre una nuova, importante non soltanto per la Sezione che lo mette in scena ma per chiunque si faccia domande sul rapporto tra gli autori e le vittime di un reato, sul tema della riconciliazione. Sulla riconciliazione, infatti, si lavorerà a lungo nel laboratorio teatrale di C.A.S.T. con i detenuti, in occasioni e con modalità differenti, e si chiederà a una parte del pubblico interessato e disponibile, di prendere parte ai lavori. Dunque, “Lo Scimmione e la Tartaruga” avvia un progetto. Prende spunto dal comportamento di un uomo relativamente giovane. Aveva messo al mondo un figlio, se ne era immediatamente servito per impietosire i carabinieri che venivano per sfrattarlo dall’alloggio occupato abusivamente, e poi lo aveva dimenticato, per quattordici anni. Oggi, dopo anni resi inutilmente assordanti per non sentire il richiamo dei suoi obblighi, l’uomo si guarda finalmente allo specchio nella domanda di un senso per la propria esistenza. Rintraccia il ragazzo e lo invita a riprendere il loro rapporto. Roma: “Racconti dal carcere”; detenuti e scrittori insieme per il concorso e l’antologia Ansa, 16 marzo 2011 Con Dacia Maraini come madrina e l’arrivo, tra gli altri, di Renato Zero accolto da una vera ovazione, si è chiusa oggi nella Casa Circondariale di Rebibbia la I edizione del Premio letterario “Racconti dal carcere”. Intitolato alla scrittrice Goliarda Sapienza e ideato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera, il concorso ha riunito per la prima volta insieme detenuti e celebri autori, come Barbara Alberti, Edoardo Albinati, Massimo Carlotto, Franco Cordelli, Giancarlo De Cataldo, Giordano Bruno Guerri, Nicola Lagioia, Federico Moccia, Lidia Ravera e lo stesso Zero. Ne sono nati trecento racconti, tra i quali la giuria presieduta da Elio Pecora oggi ha premiato “La notte perenne” di Pietro Paolo Chiuchini e Marcello Veneziani (migliore storia), “La fortuna di perdere” di Federico Abati e Susanna Tamaro (la più intensa riflessione interiore) e “La teoria della distruttività” di Angelo Rubiu ed Erri De Luca (la più suggestiva descrizione della vita in carcere). Volete sapere chi sono io? Racconti dal Carcere Volete sapere chi sono io? Racconti dal carcere è un’antologia che raccoglie i venti migliori racconti scritti da carcerati di tutta Italia e pervenuti al Premio letterario Goliarda Sapienza Racconti dal carcere. Intitolato alla scrittrice e attrice siciliana Goliarda Sapienza (1924 - 1996) e ideato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera nel 2010, il premio letterario Goliarda Sapienza vede ora la sua prima edizione. Agli scrittori - detenuti selezionati per questa antologia sono stati affiancati venti tra i più importanti autori italiani: Susanna Tamaro, Lidia Ravera, Massimo Lugli, Marcello Veneziani, Sandra Petrignani, Giancarlo De Cataldo, Franco Cordelli, Federico Moccia, Franca Leosini, Barbara Alberti, Nicola Lagioia, Massimo Carlotto, Vincenzo Consolo, Erri de Luca, Edoardo Albinati, Maurizio Costanzo, Renato Zero, Massimiliano Griner, Giordano Bruno Guerri, Liliana Madeo. In qualità di tutor, hanno prestato la loro penna per dare una più compiuta impronta letteraria ai racconti ed introdurli per questa antologia. Nato sotto il patrocinio della Siae, del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e di Pubblicità Progresso, il Premio letterario Goliarda Sapienza Racconti dal carcere ha una madrina d’eccezione, Dacia Maraini, e ha trovato sostenitori e simpatizzanti, tra cui Lucio Dalla, che ha offerto come simbolico accompagnamento del premio la sua celebre canzone Una casa in riva al mare, dedicata al tema della detenzione. Di oltre trecento racconti in concorso, solo tre saranno i vincitori, selezionati per le categorie “miglior storia”, “più intenso processo di riflessione interiore” e “migliore descrizione della vita dentro il carcere”. Vi saranno inoltre un secondo e terzo classificato per ogni categoria. La giuria, presieduta dallo scrittore Elio Pecora, è composta da affermati giornalisti e scrittori italiani: Roberto Cotroneo, Daria Galateria, Adriana Pannitteri, Andrea Purgatori, Marino Sinibaldi e Cinzia Tani. La premiazione si terrà il 16 marzo 2011 nel teatro del carcere di Rebibbia alla presenza di tutti i protagonisti (autori, tutor, giuria, organizzatori e promotori). Libri: “La bellezza nonostante”, di Fabio Geda… in cattedra dietro le sbarre Panorama, 16 marzo 2011 Fedele a un’autentica vocazione sociale che lo ha portato a occuparsi di disagio minorile, prima di dare alle stampe il best seller “Nel mare ci sono i coccodrilli” (diritti esteri venduti in 26 paesi, in classifica perfino in Romania), Fabio Geda mette la sua penna intensa, lucida, coinvolgente al servizio di un altro romanzo-verità: “La bellezza nonostante”, pubblicato da Transeuropa nella sua collana “indie”, Inaudita. “Che c’entravo io con sbarre e manette?” Quello che il futuro srotola davanti al giovane maestro elementare è una possibilità alternativa, una strada in salita irta di tornanti e rare, rarissime discese. Geda s’immedesima nella nobile storia di un educatore ispirandosi alle figure di Mario e Chiara, marito e moglie insegnanti conosciuti durante una visita al carcere minorile Ferrante Aporti di Torino. “Volevo insegnare lingua e quant’altro ai bambini dai sei agli undici anni”. Invece finirà per appassionarsi - e appassionare decine di ragazzi - all’unica forma di insegnamento possibile fra le mura scrostate: una didattica breve, “fulminea”, com’è nella natura di un luogo, e di un tempo, provvisorio per definizione. Mi piace questo breve libro fin dal titolo, quella sospensione senza oggetto in sé così ricca di senso. Come cantavano i Marlene Kuntz (“noi cerchiamo la bellezza ovunque”), Fabio Geda impone una bellezza svuotata della sua effimera qualità estetica, priva di qualsivoglia valenza concettuale e ridotta a universale tensione verso un attimo disponibile per tutti. Un soffio che può capitare d’intravedere negli interstizi del quotidiano, nel sudore senza pensieri di una partita a pallone, nella sigaretta fumata in cortile, nella lettera dalla grammatica sghemba ricevuta da un ex alunno. A metà fra racconto, romanzo breve, saggio, monologo teatrale, “La bellezza nonostante” rivolta il lenzuolo della coscienza senza giudizi né tentazioni di redenzione. I suoi tipi umani, le storie di vita all’apparenza marginali, insegnano però che bello e brutto, speranza e disperazione, forza e debolezza, sono categorie essenzialmente mutevoli, provvisorie, inafferrabili. La bellezza si annida da qualche parte nel penitenziario della Montagnola e il maestro si assume il compito di scovarla. Nel suo monologo è la formazione della coscienza sociale di un educatore non ancora arreso alla serializzazione neutrale di una professione. Un ruolo da confermare anno per anno perché il terreno è friabile, sia dal lato individuale sia da quello istituzionale: le classi sono un mosaico che si sfalda e si ricompone senza sosta, e la ricompensa è da ricercare nelle briciole dei piccoli gesti che parlano di un lavoro svolto soprattutto, e nonostante tutto, con amore. A questi ragazzi, che sono oggi soprattutto stranieri, il maestro offre la chiave per ottenere una chance oltre la siepe: la lingua italiana. Il progetto ha anche uno sviluppo più ampio, visivo e multimediale. Il libro è corredato da una serie di fotografie realizzate dagli studenti dello Ied di Torino, e dall’audio - documentario Per voce sola, girato da Matteo Bellizzi e scaricabile dal sito di Inaudita digitando un codice che si trova nel volume. Un racconto corale fatto di tanti frammenti di vita che si stagliano, come dice l’autore, sul “rumore bianco” del carcere. Immigrazione: nessun Cie a Campalto, una vittoria per i cittadini del Veneto Amisnet, 16 marzo 2011 Nessun progetto di costruzione di un centro di identificazione ed espulsione a Campalto. Lo ha comunicato il ministero dell’Interno all’amministrazione veneziana. Una vittoria della cittadinanza. Era da tempo che il Ministero dell’Interno prospettava la costruzione di nuovi centri di identificazione ed espulsione in tutta Italia, uno di questi era previsto a Campalto, in provincia di Venezia. La volontà del Ministero era stata ribadita a febbraio da Roberto Maroni, quando il progetto era stato fatto rientrare nelle discussioni per il nuovo “piano carceri”. L’idea non era piaciuta ai cittadini veneti, che sin da subito avevano dimostrato la loro contrarietà attraverso mobilitazioni e appelli contro il Cie. Le voci della popolazione non sono rimaste inascoltate. A seguito di una missiva inviata dall’amministrazione veneziana al Ministero dell’Interno, in cui si chiedeva un accesso agli atti nell’ambito della procedura diretta all’individuazione e all’allestimento di un nuovo centro di identificazione ed espulsione, il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero ha risposto: “Si comunica che né agli atti di questo Dipartimento, né agli atti della Prefettura di Venezia risultano documenti relativi al citato progetto”. “Il dietrofront del Ministero” ha detto Beppe Caccia, promotore della lista “In comune” “è una prima vittoria della civiltà, di una cultura dell’accoglienza e dell’inclusione sociale, contro la barbarie della chiusura, della discriminazione e della segregazione. Ma da questo governo possiamo aspettarci di tutto: adesso occorre vigilare affinché non vi siano ulteriori tentativi del genere”. Iran: tentata evasione di massa; 14 detenuti uccisi, 33 feriti Ansa, 16 marzo 2011 Quattordici detenuti sono stati uccisi e altri 33 feriti in un fallito tentativo di evasione da un carcere vicino a Teheran: lo ha annunciato il giornale Khorasan. I prigionieri, tra i quali alcuni condannati a morte per traffico di droga, hanno aggredito le guardie alla prigione Ghezel Hesar de Karaj, una quarantina di km a ovest della capitale. La rivolta, accompagnata da incendi e distruzioni, è fallita grazie alla forte presenza del personale e alla collaborazione di altri prigionieri che si sono opposti all’azione, hanno detto fonti del carcere, secondo le quali inoltre nessun detenuto è riuscito a fuggire. Pakistan: rivolta in carcere perché non c’era tè a colazione, morti almeno 7 detenuti Ansa, 16 marzo 2011 Almeno sette prigionieri sono stati uccisi in una rivolta scoppiata in una prigione di Hyderabad, nel Pakistan meridionale, perché non c’era tè a colazione. Lo riporta oggi la televisione Geo Tv, precisando che una trentina di detenuti e alcuni agenti sono stati feriti negli scontri con la polizia carceraria durati circa 24 ore. La ribellione è nata in seguito a una protesta dei prigionieri contro le precarie condizioni del carcere e la mancanza di servizi di base. In particolare, riferisce Express Tribune, a far scattare la scintilla sarebbe stata la mancanza del tradizionale tè con il latte nella colazione di ieri mattina. Per protesta, alcuni detenuti sono saliti sui tetti delle loro celle urlando slogan contro il nuovo direttore del penitenziario, arrivato da pochi giorni. Quando è intervenuta la polizia, i rivoltosi hanno scatenato una sassaiola e preso in ostaggio alcuni agenti penitenziari. È seguita una dura rappresaglia, in cui le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco. Nello storico penitenziario, costruito un secolo fa, ci sono 1.709 prigionieri in 300 celle. Cuba: annunciata la liberazione di altri dieci detenuti politici Adnkronos, 16 marzo 2011 La Chiesa cattolica cubana ha annunciato la prossima liberazione di 10 detenuti politici dalle carceri dell’Avana. Fra loro vi è anche il 50enne Ricardo Librado Linares, uno degli ultimi tre oppositori del gruppo dei 75 arrestati otto anni fa durante la protesta della “primavera negra” del marzo 2003. Linares, adottato come prigioniero di coscienza da Amnesty International, ha rifiutato di andare in esilio una volta liberato. Lo scorso mese di luglio il governo cubano ha accettato di liberare progressivamente 52 detenuti politici nell’ambito di un accordo con la Chiesa cattolica locale e la Spagna. Di questi 40 sono andati in esilio in Spagna e altri 12 hanno deciso di rimanere in patria. Del nuovo gruppo che verrà liberato, solo Linares vuole rimanere, mentre gli altri nove andranno in Spagna. Si tratta di Daviel Gainza, Emilio Perez, Juan Ramòn Rivero, Lazaro Alejandro Garcìa, Luis Campos, Maikel Pedroso, Orestes Paìno, Pavel Hernàndez e Randy Cabrera. Nessuno di loro fa parte di gruppi di oppositori al regime, ma sei figurano nella lista della illegale ma tollerata Comision Cubana de Derechos Humanos y Reconciliacion Nacional. Si tratta di persone arrestate per reati come “pirateria”, “tentativo di uscita illegale dal paese”, “terrorismo”.