Giustizia: chiamarla “emergenza carceri” è quasi superfluo, il dramma è strutturale di Moreno D’Angelo www.nuovasocieta.it, 25 maggio 2011 Le proteste in corso nei penitenziari di Marassi, a Genova, e Vicenza, esplose in questi giorni con continue battiture delle vettovaglie sulle sbarre delle celle, ripetono il solito mantra: sovraffollamento e amnistia. La rabbia dei detenuti sembra ora essersi tranquillizzata e nelle ultime ore non si sono più verificati atti violenti, come incendi o l’esplosione di alcune bombolette del fornelletto che i detenuti usano per cucinare, che aveva caratterizzato gli inizi della protesta. A Vicenza i detenuti in rivolta hanno pure dato vita a uno sciopero della fame. E poi c’è un altro problema che continua ad allarmare il personale di sorveglianza delle carceri: l’elevato numero di tentati suicidi tra i detenuti. “Negli ultimi giorni - afferma un comunicato della Uil Pa Penitenziaria - ben quattro tentativi di suicidio sono stati sventati. Uno ieri a Teramo, altri tre tentativi di suicidi a Porto Azzurro, Venezia e Prato. Il carcere di Marassi ha una capienza di 435 detenuti e ne ospita 800 mentre a Vicenza ospita 346 detenuti rispetto a 146 previsti. “Siamo alla paralisi” afferma la polizia penitenziaria, facendo un lungo elenco di lacune imputabili a un Governo già duramente criticato per le sue scelte in materia penitenzia: “mancata apertura di un tavolo per contrattualizzare la categoria, difficoltà gestionali, operative ed amministrative legate agli insopportabili tagli ai capitoli di bilancio che rischiano di determinare la più completa paralisi”. Ai casi eclatanti si affiancano poi gli ordinari problemi di una struttura che dovrebbe garantire il reinserimento dei detenuti ed il recupero della persona. Quando vi sono tre quattro persone rinchiuse in una cella. Quando il ruolo degli educatori è vanificato dal fatto che ognuno avrebbe in carico centocinquanta detenuti per avviare il prezioso ascolto e dialogo delle persone. Quando le attività di lavoro e di reinserimento sono ridotte al lumicino, quando diventa anche un problema il consumo dei detersivi igienizzare gli ambienti, è evidente che l’affermazione della polizia penitenziaria della Uil “siamo alla paralisi” sia quanto mai eloquente. E la situazione di tensione è tale che si è anche arrivati a ipotizzare un possibile sciopero dei Direttori delle carceri. Il caldo accende animi e tensioni. È da ricordare che per i detenuti protestare non sia una cosa semplice. È facile essere oggetto di provvedimenti, di censure o di trasferimenti per persone che spesso in condizioni di solitudine, indigenza e disperazione. In queste situazioni di emergenza è molto importante il ruolo che può assumere la polizia penitenziaria anche essa però oggetto di tensioni e problematiche per le condizioni operative. A quanto pare la loro condizione in questi anni è tutt’altro che migliorata. Giustizia: detenuto di 40 anni muore a Padova, l’ennesima “vittima” del carcere Redattore Sociale, 25 maggio 2011 Ristretti Orizzonti: “Con queste temperature, le celle di cemento armato della Casa di Reclusione diventano forni e tre persone rinchiuse in otto metri quadrati comprensibilmente soffocano” Walter Bonifacio, quarantenne originario del veneziano, è morto ieri nella sua cella della Casa di Reclusione di Padova che condivideva con due altri detenuti. Ne ha dato notizia la newsletter di Ristretti Orizzonti, il servizio giornalistico dei detenuti del carcere padovano”. Dalle poche notizie trapelate sembra che l’uomo abbia inalato del gas e poi sia caduto, sbattendo violentemente la testa, circostanze che finora non hanno trovato conferma da parte dell’istituzione penitenziaria -si legge nella newsletter, che ricorda i 34 gradi segnati dal termometro ieri a Padova-. Con queste temperature, le celle di cemento armato della Casa di Reclusione diventano forni e tre persone rinchiuse in otto metri quadrati comprensibilmente soffocano”. Se le circostanze della morte sono ancora da chiarire, l’unica certezza - conclude la newsletter - è che un altro detenuto va ad allungare la lista delle “vittime del carcere”. Walter Bonifacio è l’ottavo detenuto morto dall’inizio del 2010 nella Casa di Reclusione di Padova, considerata uno dei migliori istituti di pena del Paese. Sempre dall’inizio del 2010, nella carceri italiane sono morti oltre 250 detenuti: 184 nel 2010 e 68 nei primi mesi del 2011. Tra i morti di quest’anno, 24 si sono uccisi, mentre gli altri sono deceduti per “malattia” (gli ultimi due casi a Viterbo e Pisa) o per cause “da accertare” (più di 20 le inchieste aperte su altrettanti decessi). Il comunicato si conclude con un confronto con il carcere statunitense di Guantanamo, aperto nel 2002: in 9 anni, vi si sono verificati 6 suicidi e 2 morti per “cause naturali”. “Questo ha (giustamente) sollevato attenzione e indignazione a livello internazionale -dicono da ‘Ristretti Orizzontì-. Nello stesso periodo nelle carceri italiane sono morti circa 1.500 (millecinquecento) detenuti, di cui oltre 500 (cinquecento) per suicidio. Tutto normale? Nessuno si indigna?”. Giustizia: Uil-Pa, proteste dei detenuti in diverse carceri contro il sovraffollamento Agi, 25 maggio 2011 “Anche ieri sera, come era stato preannunciato, i detenuti del carcere di Marassi hanno protestato contro il sovrappopolamento del carcere genovese e per chiedere l’amnistia. La rumorosissima protesta è stato messa in atto attraverso la battitura delle vettovaglie sulle grate delle finestre e sulle superfici dei cancelli. Fortunatamente non si sono ripetute gli atti violenti dell’altra sera, quando i detenuti avevano appiccato mini incendi, fatto scoppiare bombolette e allagato alcune celle. Evidentemente l’azione di persuasione del personale è andata a buon fine e ha portato i detenuti più facinorosi a rivedere il proprio comportamento. Da ieri anche alla Casa Circondariale di Vicenza i detenuti hanno comunicato di procedere alle proteste, con le stesse motivazioni per cui si protesta a Marassi, attraverso cicliche battiture a cui hanno faranno seguire l’astensione dalla consumazione del vitto fornito dall’Amministrazione Penitenziaria”. Lo afferma Eugenio Sarno, segretario generale della Uilpa Penitenziari. “Ugualmente a Vicenza - prosegue Sarno - a parte l’assordante rumore provocato dalla battitura delle stoviglie, non si sono registrati atti di particolare violenza ed il personale di polizia penitenziaria ha potuto gestire con relativa tranquillità la protesta. A Genova Marassi a fronte di una capacità ricettiva di 435 detenuti, ne sono ospitati più di 800; a Vicenza i detenuti ristretti assommano a 346 rispetto ad una capacità massima di 146. Mentre si allarga il fronte delle proteste all’interno degli istituti, il personale di polizia penitenziaria, gravato da carichi di lavoro e turni insostenibili, continua a salvare vite umane. Negli ultimi giorni ben quattro tentativi di suicidio sono stati sventati dagli agenti penitenziari. Ieri a Teramo è stato sottratto a morte certa un detenuto che aveva cercato di impiccarsi, così come sabato scorso, sempre a Teramo, gli agenti avevano salvato la vita ad una detenuta. Altri tre detenuti, nei giorni scorsi, sono stati salvati da suicidio a Porto Azzurro, Venezia e Prato”. Giustizia: l’Associazione Liberarsi aderisce a mobilitazione promossa da Marco Pannella Comunicato stampa, 25 maggio 2011 L’Associazione Liberarsi di Firenze aderisce alla mobilitazione, interna ed esterna al carcere, promossa da Marco Pannella e dal partito Radicale in favore dell’amnistia, a fronte delle condizioni inumane ed illegali delle carceri italiane. Di più, aggiungiamo noi: condizioni di tortura che sfociano con cadenza impressionante in una catena di morti, al punto che l’invio in carcere diventa per moltissime persone detenute invio al cimitero! Alla strage carceraria, opportunamente silenziata con la complicità mediatica, va aggiunta una ancora più invisibile quota dei sepolti vivi: l’ergastolo ed il 41bis, le punte dell’iceberg della tortura nelle nostre carceri! L’Associazione Liberarsi, con tutti i suoi soci interni ed esterni al carcere, si unisce alla mobilitazione richiamandosi a quell’articolo 27 della Costituzione che sembra essere diventata carta straccia per il Ministero della Giustizia e dell’intero governo non più in grado di garantire la sopravvivenza delle persone recluse. Ai nostri soci e alle agenzie sociali che già aderiscono a questa mobilitazione segnaliamo l’appuntamento unitario del 24, 25 e 26 giugno (il 26 giugno è la Giornata internazionale dell’Onu contro la tortura). In questi tre giorni ci sarà una nuova mobilitazione dentro e fuori le carceri su quattro punti: sovraffollamento e invivibilità, no all’ergastolo, la tortura del 41bis, la chiusura degli Opg. Per l’Associazione Liberarsi: Christian De Vito, Beppe Battaglia, Giuliano Capecchi, Carmelo Musumeci, Alfredo Sole Giustizia: Cassazione; diritto all’assistenza spirituale per i detenuti in regime di “41-bis” Adnkronos, 25 maggio 2011 Ai credenti detenuti in carcere in regime di 41-bis non si può negare l’assistenza spirituale con tanto di colloquio in carcere con il ministro del culto. Lo ha sancito la Cassazione accogliendo il ricorso di Orlando D., detenuto presso il carcere di Cuneo in regime di 41 bis che, come testimone di Geova, chiedeva di poter incontrare quotidianamente un ministro del culto per lo studio della Bibbia. Una richiesta alla quale il Tribunale di sorveglianza di Cuneo, il 31 ottobre 2010, aveva detto di no ritenendo che lo studio della Bibbia ben potesse essere svolto dal detenuto in regime di carcere duro attraverso contatti epistolari con il ministro del culto. Contro questo divieto, la difesa del detenuto ha fatto ricorso con successo in Cassazione, lamentando che il no all’assistenza di natura religiosa o spirituale contrastasse con quanto previsto dall’art. 19 della Costituzione. La prima sezione penale (sentenza 20979) ha accolto il ricorso della difesa del detenuto al 41-bis e ha fatto notare che “in linea di massima non pare possibile negare ad un credente, e a maggior ragione ad un testimone di Geova per il quale è importante lo studio della Bibbia, almeno una qualche forma di approccio con il ministro del proprio culto, al fine di poter approfondire lo studio dei testi biblici, ferma restando l’esigenza che il colloquio si svolga con modalità tali da assicurare l’ordine e la sicurezza dell’istituto carcerario”. Inoltre, Piazza Cavour fa notare che quando si parla di assistenza spirituale anche nel caso di detenuti in regime di carcere duro si deve intendere “la presenza materiale e spirituale del ministro del culto che aiuti il credente ad approfondire i testi religiosi”. Sarà ora il magistrato di sorveglianza di Cuneo a ripristinare l’assistenza spirituale richiesta dal testimone di Geova al 41-bis. Giustizia: Sappe; 50 agenti “mettono in mora” il Ministero… sono a credito di 200.000 € Ansa, 25 maggio 2011 Un credito di quasi 200mila euro per 50 unità di Polizia Penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere e Napoli Secondigliano addette al trasporto dei detenuti, che hanno dato al primo Sindacato dei Baschi Azzurri, il Sappe, di intraprendere un’azione giudiziaria contro l’Amministrazione Penitenziaria. “I nostri colleghi di Santa Maria Capua Vetere e Napoli Secondigliano” spiegano Donato Capece ed Emilio Fattorello, Segretario Generale e Segretario Nazionale per la Campania del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe “sono solamente i primi ad averci dato mandato di predisporre degli atti ingiuntivi di messa in mora del Ministero della Giustizia per l’immediato recupero del credito loro spettante per le spese anticipate nei servizi di missione svolti nel 2010. Stiamo parlando di una cifra che si aggira, per 50 unità, a poco meno di 200mila euro e che sarà destinata ad aumentare notevolmente visto che già ci hanno contattato altri colleghi dei Nuclei Traduzioni di Avellino, Salerno e Benevento. Questi colleghi hanno girato tutta l’Italia per trasportare i detenuti e sono stati costretti a pagare di tasca proprio le spese dei viaggi. Ora pretendono, giustamente, il rimborso dei loro soldi”. “Questa iniziativa” sottolineano i due sindacalisti dei Baschi Azzurri “deve fare seriamente riflettere anche sulle quotidiane difficoltà operative con cui si confrontano quotidianamente le unità di Polizia Penitenziaria in servizio nei Nuclei Traduzioni e Piantonamenti dei penitenziari: agenti che sono sotto organico, non retribuiti degnamente, con straordinari e missioni non pagate, impiegati in servizi quotidiani ben oltre le 9 ore di servizio, con mezzi di trasporto dei detenuti spessissimo inidonei a circolare per le strade del Paese e con centinaia di migliaia di chilometri già percorsi. In queste condizioni non si può certo lavorare nelle migliore condizioni ma lo si fa con la forza dello spirito di appartenenza e ricorrendo sistematicamente al proprio portafoglio. Ed è ora, giustamente, che il Ministero della Giustizia faccia fronte a questo credito degli Agenti”. Lettere: sulla morte di Fallico a Mammagialla… non arrestiamo anche la salute! Viterbo Oggi, 25 maggio 2011 La morte di Luigi Fallico, avvenuta nel carcere Mammagialla di Viterbo, rappresenta l’ennesima prova di come sia trattata la salute in carcere: si arresta anche quella. Non per mancanza di professionalità da parte degli agenti e dei medici, e prima ancora della direzione, ma per un dato oggettivo di tagli alle risorse sulla sanità del Lazio, che subisce un’eco ancora più grande nelle sue carceri. Venerdì scorso, con il consigliere regionale della Lista Bonino-Pannella Rocco Berardo, abbiamo potuto visitare proprio il carcere Mammagialla di Viterbo, riscontrando quanto già denunciato dalla parlamentare radicale Rita Bernardini nello scorso dicembre: una condizione intollerabile di sovraffollamento per i detenuti, una condizione ai limiti della sopportabilità per mancanza di organico per il personale. Ci auguriamo che l’iniziativa nonviolenta di Marco Pannella, giunto al trentaquattresimo giorno di sciopero della fame, sulla condizione della democrazia, della giustizia e delle carceri in Italia, possa trovare una risposta istituzionale seria e adeguata a quella che, ogni giorno di più, è una strage di legalità e di vite. Associazione Etruria Radicale Puglia: D’Elia (Nessuno Tocchi Caino); perché Vendola non nomina Garante dei detenuti? di Lanfranco Palazzolo Voce Repubblicana, 25 maggio 2011 Il Governatore della regione Puglia Nichi Vendola non ha fatto nulla per nominare il garante dei detenuti in Puglia. Lo ha denunciato il Segretario di “Nessuno tocchi Caino” Sergio D’Elia. Sergio D’Elia, 194 detenuti del carcere di Brindisi hanno appoggiato l’iniziativa di Marco Pannella che prosegue il suo sciopero della fame iniziato lo scorso 20 aprile anche per ridare dignità ai detenuti italiani. “Si tratta praticamente di tutti i detenuti della casa circondariale di Brindisi, tranne due sottoposti ad una terapia che necessitano di una particolare alimentazione. La conferma di questa iniziativa mi è giunta dall’Associazione Famiglie fratelli ristretti e dalla direzione della casa circondariale. Uno degli obiettivi di questa battaglia radicale e quello dell’amnistia. Lo stesso Pannella si e recato in visita nel carcere di Brindisi lo scorso agosto. Il carcere di Brindisi è uno dei pochi carceri italiani dove non c’è un sovraffollamento pazzesco. I detenuti sono trattati bene. È uno dei pochi casi in cui la condizione dei detenuti non è terribile. I detenuti di Brindisi hanno intenzione di condurre una battaglia non violenta”. Qual è la condizione degli istituti penitenziari in Puglia? “Questa regione è ai primi posti nella classifica del sovraffollamento. Nelle carceri pugliesi ci sono almeno 4.449 detenuti, 2.000 oltre la capienza naturale secondo i dati di marzo. Sono comunque 600 in più della soglia del tollerabile. Tra il 2010 e il 2011 sono circa una dozzina i detenuti che si sino tolti la vita o sono morti per cause da accertare o naturali nelle carceri pugliesi. Nel carcere di Lecce c’è una vera e propria emergenza carceraria. In quel penitenziario sono reclusi circa 1.600 detenuti ammassati in spazi che, a norma di regolamento, potrebbero ospitarne almeno 600. In 12 metri quadrati sono sistemati 3 detenuti in un letto a castello. Ogni detenuto in quel carcere ha a disposizione 1,7 metri quadrati calpestabili. Questo significa che uno dei tre detenuti in cella si può muovere solo quando gli altri restano stesi sul letto. La giustizia europea ha condannato l’Italia perché un detenuto bosniaco aveva a disposizione circa 3 metri quadrati”. Nichi Vendola, che passa per essere un Governatore progressista e attento ai diritti dei più deboli, come si è comportato di fronte all’emergenza carceraria? “Vendola è apprezzato e votato perché ha un bel linguaggio. Il governatore della Puglia tollera che nella sua regione i detenuti siano trattati in questo modo, Vendola aveva ed ha tutti gli strumenti per intervenire in questa materia. Avrebbe potuto farlo già cinque anni fa, quando la Regione Puglia ha istituito la figura del garante regionale dei detenuti. A distanza di cinque anni questo garante non è mai stato nominato. Questo è inaccettabile”. Sassari: detenuti in sciopero della fame anche a San Sebastiano La Nuova Sardegna, 25 maggio 2011 Si allarga la protesta nelle carceri per chiedere che venga varato un provvedimento di amnistia. Anche a San Sebastiano diversi detenuti hanno annunciato lo sciopero della fame che ormai ha coinvolto una ventina di penitenziari di tutta Italia. I detenuti del carcere sassarese hanno dimostrato sempre particolare sensibilità alle iniziative che hanno come obiettivo quello di migliorare la qualità della vita all’interno dei penitenziari e sostenere una “giustizia giusta”. San Sebastiano è una delle strutture carcerarie peggiori, soprattutto per le condizioni strutturali: una situazione denunciata da molti anni ma senza risultati. Visite di delegazioni di parlamentari e di altri rappresentanti istituzionali non hanno cambiato - se non in maniera lieve - la situazione. E neppure le denunce e le richieste di chiusura hanno prodotto gli effetti sperati. La dismissione della casa circondariale di via Roma, in effetti, passa per l’entrata in funzione del nuovo carcere di Bancali, dove i lavori non sono ancora terminati. Da ieri anche l’associazione “Antigone” ha aderito allo sciopero della fame che - tra l’altro - da 33 giorni vede in prima linea anche Marco Pannella. “Aderisco per la giustizia sostanziale, perché la giustizia formale ha fallito”: così ieri Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Le carceri scoppiano: sono 68mila i detenuti ristretti in 44mila posti letto, in condizioni igieniche e sanitarie davvero difficili. “Condizioni di vita intollerabili - ha spiegato Gonnella - per un paese democratico. E di fronte a tutto ciò è necessario un atto di giustizia sostanziale. Per questo è importante che vi sia l’adesione da parte dei detenuti. Amnistia è una parola che deve fare ricordare a tutti che nelle galere ci sono persone i cui diritti umani sono profondamente violati”. Il fronte si sta allargando, sono ormai migliaia i detenuti in sciopero della fame. Ancona: a Montacuto detenuti in sciopero della fame, l’obiettivo è ottenere un’amnistia Corriere Adriatico, 25 maggio 2011 Sei detenuti del carcere di Montacuto sono da giorni in sciopero della fame per partecipare all’iniziativa non violenta di Marco Pannella, il quale non mangia dal 20 aprile scorso contro “la situazione disumana delle carceri italiane”. La protesta coinvolge 2500 detenuti e 600 cittadini in tutta Italia. Lo comunica Mattero Mainardi, presidente dell’Associazione Radicali Marche. L’obiettivo è “un provvedimento di amnistia, che nel nostro Paese manca da 20 anni, l’unica strada percorribile per un sistema carcerario da tempo al collasso, sovraccarico al 150% della propria capacità massima”. Agrigento: detenuti in sciopero della fame da domenica 15 maggio La Sicilia, 25 maggio 2011 Da domenica 15 maggio alcuni detenuti nel carcere agrigentino di Petrusa stanno rifiutando il cibo. La notizia è stata diffusa dai i Radicali, spiegando che l’iniziativa è partita dai reclusi di tutte le sezioni del carcere romano di Regina Coeli ed è a sostegno del digiuno che il leader del partito Marco Pannella porta avanti da ormai trenta giorni, affinché l’Italia possa tornare in qualche misura a essere definita una democrazia. Insieme a loro sono centinaia i detenuti in tutta Italia e più di 300 tra i loro familiari stanno attuando lo sciopero della fame per chiedere al governo un’amnistia “che ponga fine all’illegalità delle carceri italiane e di una giustizia sopraffatta e bloccata da milioni di processi arretrati che danno origine all’irresponsabile amnistia illegale di 170.000 prescrizioni all’anno”. Stanno rifiutando il cibo oltre i detenuti nel carcere agrigentino anche quelli delle carceri di Rebibbia, Rieti, Fuorni, Poggioreale, Catania Piazza Lanza, Sassari San Sebastiano, Cagliari Buon Cammino, Vercelli, Velletri, di Opera e San Vittore a Milano, Imperia, Ancona, Prato, Ariano Irpino, Venezia, Alessandria, Lanciano e Marassi. Tra le cause del malessere dei detenuti anche quella del sovraffollamento. Secondo una recente ispezione ministeriale nel carcere Petrusa si trovano circa 500 detenuti stretti in 4 per ogni cella, oltre ogni limite di sopportazione. i detenuti sono troppi per una struttura concepita ed eretta per “accogliere” massimo 200 persone. Lanciano (Ch): detenuti in sciopero della fame in solidarietà con Marco Pannella Agi, 25 maggio 2011 I detenuti della casa circondariale di Lanciano sono in sciopero della fame in solidarietà con il leader dei Radicali Italiani, Marco Pannella. Il deputato ha iniziato la protesta il 20 aprile scorso per “ridare dignità ai detenuti italiani”. “Aderiamo anche noi pacificamente allo sciopero della fame di Pannella - scrivono in una lettera i detenuti del carcere di Lanciano - con due giorni di digiuno (oggi e domani, ndr) per protestare contro il sovraffollamento delle carceri e chiedere di scontare il nostro debito con lo Stato in modo dignitoso”. I detenuti sottolineano le condizioni di particolare sovraffollamento della casa circondariale di Lanciano, che “potrebbe ospitare circa 150 detenuti, mentre oggi siamo 380 - scrivono in una lettera i detenuti - in una cella che può ospitare un singolo detenuto ce ne sono ben 3, con la terza branda a 3 metri di altezza e a 30 centimetri dal soffitto, senza nessuna protezione per garantire un sonno sicuro”. Nei giorni scorsi “un detenuto è caduto dal letto e si è fratturato solo una spalla, fortunatamente”. Per quanto riguarda l’assistenza medica, i detenuti denunciano che dalle 22 “non c’è alcuna assistenza e in molti casi, se non ci fosse stato l’intervento tempestivo degli agenti penitenziari, che ci assistono con grande umanità, molti detenuti avrebbero rischiato la vita”. La situazione del “personale di polizia penitenziaria è al collasso, nonostante i doppi turni - continuano i detenuti - i disagi crescono giorno dopo giorno sia per noi che per gli agenti”. “Noi detenuti siamo consapevoli di aver commesso degli errori, ma vorremmo scontare il nostro debito con lo Stato in modo dignitoso e avere un reinserimento sociale dopo la detenzione. Speriamo - concludono i detenuti del carcere di Lanciano - che questo nostro grido arrivi a tutte le istituzioni italiane e in particolare al nostro capo dello Stato, Giorgio Napolitano e al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi”. Rovereto (Tn): in corso trasferimenti dei detenuti verso il nuovo carcere di Spini Il Trentino, 25 maggio 2011 Non è l’esodo di massa, ma un po’ alla spicciolata i detenuti del carcere roveretano stanno abbandonando le celle per essere trasferiti nella nuova casa circondariale di Spini di Gardolo, in gran parte, mentre alcuni sono già stati smaltiti nelle altre carceri del Triveneto. La settimana scorsa è stato firmato il decreto per altri 15 reclusi, è verosimile che lo svuotamento dello stabile di via Prati richiederà qualche settimana. “La struttura è ufficialmente chiusa - spiega la direttrice Antonella Forgione, per anni a Rovereto ed oggi responsabile del nuovo carcere di Gardolo -, il decreto di chiusura è già stato emanato e firmato dal ministro. Tuttavia parecchi detenuti sono ancora nelle loro celle di via Prati, e il ministero della giustizia deve ancora decidere il destino del personale di sorveglianza. In ogni caso - assicura la direttrice - il trasferimento dei detenuti è già iniziato, anche se per motivi di riservatezza non posso dire quanti siano quelli che per ora rimangono in via Prati”. Servirà qualche settimana dunque per completare l’evacuazione della casa circondariale, che a regime ospitava oltre 120 detenuti ed era - secondo le stime del ministero - uno dei carceri più sovraffollati d’Italia, visto che la capienza nominale si aggirava sui 45 posti. Ad oggi in via Prati rimangono una quarantina di uomini e una ventina di donne. Gli altri sono già stati trasferiti, e in ogni caso stanti questi numeri è scongiurato - almeno per ora - il rischio di sovraffollamento per Spini. Se per i detenuti il trasferimento è ormai solo questione di tempo, la partita è ancora tutta da giocare per i 60 agenti di polizia penitenziaria in servizio in via Prati, per i quali il ministero della giustizia non ha ancora deciso nulla di definitivo. “Entro il mese, a Roma - spiega il delegato Cgil Giampaolo Mastrogiuseppe - si terrà un altro incontro del tavolo di confronto. Noi chiederemo che vengano accolte le domande di avvicinamento a casa per una ventina tra agenti e amministrativi, l’orientamento del ministero sembra positivo. Staremo a vedere”. Como: detenuto tunisino tenta il suicidio, salvato dalla Polizia penitenziaria Asca, 25 maggio 2011 “Nella mattina del giorno 23 maggio 2011, nel carcere di Como, un detenuto straniero di nazionalità tunisina ricoverato nel reparto infermeria per problemi di salute e psichici ha tentato il suicidio. Lo stesso si è costruito una corda, se l’è legata al collo fissandole alle sbarre della cella, ma il pronto intervento del Personale di Polizia Penitenziaria, segnatamente dell’Ass.te Capo L. S. e dell’Ass.te. P.A., ha impedito per fortuna che perdesse la vita. È dunque ancora una volta solo grazie alla professionalità, al tempestivo intervento, alle capacità, all’umanità ed all’attenzione del Personale di Polizia Penitenziaria che un detenuto è stato salvato da un tentativo di suicidio. Un gesto particolarmente importante e da mettere in evidenza, tanto che il Sappe chiederà all’Amministrazione penitenziaria di Roma una adeguata ricompensa (lode o encomio) ai due Baschi Azzurri di Como che sono intervenuti salvando la vita al detenuto. “ È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, in relazione a quanto avvenuto nel carcere di Como. “I nostri Agenti, a Como, sono intervenuti tempestivamente ed hanno, ancora una volta, salvato la vita a un detenuto Parliamo di una realtà, quella comasca, caratterizzata da un costante sovraffollamento penitenziario, che aggrava le già pesanti condizioni di lavoro della Polizia Penitenziaria. A fronte di 450 posti regolamentari, sono infatti presenti circa 560 detenuti (più del 45% stranieri) mentre ben 72 sono gli agenti di Polizia Penitenziaria che mancano dagli organici del Reparto. L’eroico ennesimo gesto di Como non deve passare inosservato perché è la dimostrazione concreta della realtà quotidiana della nostra professione di Baschi Azzurri: rappresentare ogni giorno lo Stato nel difficile contesto penitenziario con professionalità, senso del dovere, spirito di abnegazione e, soprattutto, umanità. Si pensi che nel solo 2010 a Como ci sono stati 32 episodi di autolesionismo di detenuti, 21 tentati suicidi, 1 suicidio, 1 decesso per cause naturali, 32 eventi in cui soggetti detenuti hanno posto in essere ferimenti, 47 manifestazioni di sciopero della fame e 13 episodi di danneggiamento di beni dell’Amministrazione (rottura cella e incendi)”. Rovigo: dimezzati i fondi per i lavori da far svolgere ai detenuti, è emergenza igienica Il Gazzettino, 25 maggio 2011 Emergenza igiene all’interno del carcere di Rovigo. L’assegnazione dei fondi per far svolgere i lavori ai detenuti lavoranti, tra cui quelli di pulizia uffici e sezioni detentive, all’interno del carcere di Rovigo è stato anche per quest’anno ulteriormente dimezzato. Dalle tre ore di lavoro giornaliere da retribuire ai detenuti per le pulizie dei vari uffici all’interno del carcere si è passati ad un’ora per due giorni alla settimana. A denunciare l’emergenza igiene è la Funzione Pubblica della Cgil attraverso il coordinatore regionale - penitenziari Gianpietro Pegoraro: “Tale taglio di fondi - ha evidenziato Pegoraro - sta creando disagi di salubrità ai lavoratori all’interno del carcere. I servizi igienici sono puliti all’interno delle due ore settimanali, perciò solo due volte alla settimana. Stessa sorte si può riscontrare anche per i detenuti che si occupano delle pulizie all’interno dei corridoi delle sezioni detentive, per i quali l’orario giornaliero di lavoro retribuito è stato ridotto a tre ore al giorno. Questa situazione è aggravata anche al sovraffollamento di detenuti presenti nel carcere di Rovigo. La situazione che si presenta è la seguente: negli uffici ci si trovano ragnatele, cestini pieni di carta da svuotare, polvere sulle scrivanie, servizi igienici maleodoranti, corridoi delle sezioni detentive sporchi con molte cicche di sigarette gettate a terra”. Secondo Fp Cgil, dunque, con la mancanza di fondi per il lavoro inframurario l’opera di trattamento viene meno: “Sempre per la mancanza di fondi, i mezzi con cui si trasportano i ristretti sono obsoleti e maleodoranti, basti pensare che i mezzi in dotazione nascono come mezzi di trasporto merci, per questo senza armonizzatori posteriori. Come Fp Cgil denunciamo questa situazione di degrado voluta dall’amministrazione che ancor una volta ha portato altri tagli ai fondi destinati ai ristretti lavoranti causando danno ai propri dipendenti. Invitiamo la stessa amministrazione penitenziaria, poi, al rispetto sia delle leggi in materia di salubrità e igiene nei posti di lavoro che ai propri dipendenti costretti a lavorare in luoghi indecenti”. Milano: “Made in jail”; abiti da sposa fatti in carcere, ecco la collezione Redattore Sociale, 25 maggio 2011 “Made in jail” presenta oggi la collezione di dieci disegni della stilista Rosita Onofri, confezionati dalle donne (tra detenute ed ex detenute) che lavorano nella “Sartoria San Vittore”, boutique-laboratorio inaugurata nel settembre 2010. Verrà presentata oggi pomeriggio a Milano la prima collezione di abiti da sposa “made in jail”. Dieci modelli disegnati dalla stilista Rosita Onofri e confezionati dalle donne (tra detenute ed ex detenute) che lavorano nella “Sartoria San Vittore”, una boutique-laboratorio inaugurata nel settembre 2010 dalla cooperativa “Alice”. La collezione propone dieci modelli che possono essere scelti e personalizzati dalle clienti presso il negozio in via Terraggio 28 a Milano. “Dopo le prime due collezioni, invernale ed estiva, ci siamo lanciati in questo progetto -spiega Luisa Della Morte, membro del consiglio di amministrazione di Alice. Non è nel nostro stile realizzare capi sfarzosi: cerchiamo di contenere i costi e gli abiti oscillano tra i 700 e i 1.500 euro”. E per evitare che, concluso il gran giorno, l’abito da sposa resti confinato per sempre in un cassetto c’è anche la possibilità di riconsegnarlo nelle mani delle sarte di “Alice”. “Possiamo riadattarli per altre occasioni, farne un abito elegante o da cerimonia per dargli una seconda vita”, spiega Luisa Della Morte. Inoltre la cooperativa sta avviando una collaborazione con altre associazioni che operano nel sociale per fornire ai futuri sposi tutti gli “ingredienti” (dalle fedi alle bomboniere) di un matrimonio etico e sostenibile. La cooperativa “Alice” è nata nel 1992 all’interno della casa circondariale di San Vittore per dare uno sbocco professionale alle detenute che avevano partecipato al corso di formazione per sarte all’interno del penitenziario milanese. Gestisce tre laboratori: uno a San Vittore, uno nel carcere di Bollate e il terzo in via Terraggio dove lavorano 12 donne. Di cui cinque sono ai domiciliari o in misura alternativa. Venezia: gli studenti regalano i libri ai carcerati La Nuova Sardegna, 25 maggio 2011 Il carcere chiama, la scuola e il volontariato rispondono. Non è caduto nel vuoto l’appello lanciato alcuni mesi fa dal cappellano dell’istituto penitenziario, don Antonio Biancotto: “La biblioteca del penitenziario è carente di libri”. Così l’associazione di volontariato Venezia: Pesce di Pace ha messo in contatto la scuola e il carcere. E ieri una quindicina di studenti del liceo classico Foscarini con i docenti Alberto Furlanetto e Lilia Luca hanno oltrepassato le porte blindate per consegnare numerosi testi. A ricevere la delegazione la direttrice Irene Iannucci che si è intrattenuta a lungo con i ragazzi. “Prima di aderire all’iniziativa abbiamo discusso nelle 22 classi e abbiano ritenuto giusto mobilitarci. Siamo 500. - hanno spiegato gli studenti Alvise Aranyossy e Francesco Cazzin. Poi abbiamo scelto i libri. Considerate le varie nazionalità dei detenuti abbiamo optato per testi in varie lingue. È una realtà a noi sconosciuta, questa è una grande occasione”. La direttrice nell’apprezzare il dono dei giovani ha osservato: “Il carcere è società, fa parte del territorio. Qui sono detenute 370 persone, il 70% straniere”. Monza: ancora violenze ai baschi azzurri, poliziotto aggredito Comunicato Sappe, 25 maggio 2011 “L’aggressione di un detenuto ad un collega del Corpo di Polizia penitenziaria, avvenuta ieri nel carcere di Monza, è l’ennesimo segnale inquietante della tensione che si registra nelle sovraffollate carceri italiane. Il collega, al quale va la nostra piena ed affettuosa solidarietà, è stato aggredito con violenza da un detenuto straniero che voleva fare la doccia: il detenuto ha dato improvvisamente in escandescenza e lo ha colpito. L’aggressione, proditoria e particolarmente violenta, mette drammaticamente in evidenza le gravi condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari negli Istituti di pena italiani. Questi nostri Agenti lavorano nelle oltre 200 carceri italiane sistematicamente a livelli minimi di sicurezza per le gravissime carenze di Personale di Polizia, oltre 6.000 agenti in meno rispetto agli organici previsti, e devono quindi fare fronte a carichi di lavoro particolarmente delicati e stressanti, aggravati da una popolazione detenuta ogni giorno sempre più in crescita esponenziale. Ma così non si può più andare avanti. La Politica (quella con la P maiuscola) deve prendere con urgenza provvedimenti. Quella della sicurezza penitenziaria è infatti una priorità per chi ha incarichi di governo ma anche per chi è all’opposizione parlamentare.” È il commento di Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - il primo e più rappresentativo della Categoria -, al grave episodio accaduto ieri mattina nel carcere di Monza. “Il carcere di Monza” sottolinea “vede presenti quasi 840 detenuti (il 45% dei quali stranieri) a fronte di 405 posti letto regolamentari. Mancano ben 100 Agenti di Polizia Penitenziaria! Ve ne sono infatti 362 in forza e dovrebbero essere 462. E le problematiche sono evidenti, come confermano anche i dati relativi agli eventi critici accaduti a Monza nel 2010. Si sono infatti verificati 67 episodi di autolesionismo, 1 decesso per cause naturali e 10 tentativi di suicidio. 112 soggetti detenuti hanno posto in essere ferimenti e 51 hanno manifestato con sciopero della fame. Da questi dati emerge una volta di più quali e quanti sacrifici affrontano ogni giorno le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di Monza per garantire vigilanza e sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti di pena partecipando nel contempo alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti”. Roma: Unimpresa e Fondazione Di Vincenzo, insieme per il reinserimento dei detenuti Apcom, 25 maggio 2011 Domani, giovedì 26 maggio, alle ore 17, presso il Collegio Nazareno, a Roma, Unimpresa siglerà una convenzione con la Fondazione Istituto di Promozione Umana Monsignor Francesco Di Vincenzo per lo sviluppo delle attività inerenti il Polo di Eccellenza e di promozione umana Mario e Luigi Sturzo e per l’Anrel, l’Agenzia Nazionale Reinserimento e Lavoro. Unimpresa sarà parte attiva, attraverso le imprese associate, per reperire opportunità formative e lavorative in favore di soggetti condannati con sentenza definitiva in stato di detenzione, ammessi al lavoro esterno, alla semilibertà, alla detenzione domiciliare o a misure alternative. Il tutto in collaborazione con alcuni partner strategici e operativi nelle aree territoriali di Sicilia, Campania, Lazio, Veneto e Lombardia, per favorire l’integrazione sociale ed il reinserimento in famiglia dei detenuti”. La finalità di questo accordo è quella di promuovere la costituzione e lo sviluppo di una nuova cultura di impresa anche con funzione sociale - spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi - Prevediamo di promuovere e progettare percorsi innovativi per la formazione, l’istruzione e l’integrazione delle persone in situazione di svantaggio o di disagio sociale, sviluppare iniziative di impresa anche all’interno dei penitenziari individuati in collaborazione con Anrel, promuovere, coordinare e dirigere modalità di assunzione di ex detenuti presso le aziende associate e individuare percorsi legati alla finanza di sostegno e alla micro finanza per l’attuazione dei progetti legati a Anrel”. Con la convenzione, Unimpresa si impegna inoltre a selezionare e proporre aziende che abbiano sottoscritto la Carta etica dell’associazione e i protocolli di legalità che verranno sviluppati d’intesa con la Fondazione Di Vincenzo, al fine di prevenire ogni forma di infiltrazione criminale e di garantire il monitoraggio delle buone prassi dei soggetti impegnati nelle opere sociali in questione, in modo da evitare ogni forma di illegittimità o di illecito. La firma del protocollo si terrà al termine del convegno dal titolo “Dai liberi e forti alla big society. La società è dei cittadini, non dello Stato”, promosso dal Ciss, il Centro internazionale Studi Luigi Sturzo e dal Centro Studi Tocqueville-Acton. Dopo il saluto di Giovanni Palladino, presidente del Ciss e di Paolo Longobardi, presidente di Unimpresa, si svolgeranno le relazioni di Alessandro Corneli, docente di Relazioni internazionali e Geopolitica, Flavio Felice, presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton, Gaspare Sturzo, consigliere giuridico presso la presidenza del Consiglio dei ministri e del ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Maurizio Sacconi. Al termine, si terrà la tavola rotonda sul tema “Sistema di sussidiarietà, progettualità e e risorse finanziarie”, alla quale interverranno tra gli altri, Salvatore Martinez, presidente della Fondazione Istituto di Promozione Umana Monsignor Francesco Di Vincenzo Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione per il Sud, Giovanni Pirovano, vice presidente dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana e Giuseppe De Lucia Lumeno, segretario generale dell’Associazione banche popolari. Libri: “Quando hanno aperto la cella”… se in carcere muore anche la democrazia di Federica Grandis e Manuela Battista www.gruppoabele.org, 25 maggio 2011 Stefano Cucchi, con quella maschera di ematomi sul viso e quegli occhi quasi fuori dalle orbite. E Federico Aldrovandi, le mani ammanettate dietro la schiena, a terra, esanime. E poi Giuseppe Uva, nella caserma di Varese, e Giovanni Lorusso, Marcello Lonzi, Eyasu Habteab, Mija Djordjevic, Francesco Mastrogiovanni e molti altri. In Italia in carcere si muore. Alcuni sono suicidi, altri no. “Un uomo che perde la vita in prigione - scrivono Luigi Manconi e Valentina Calderone in “Quando hanno aperto la cella” - è il massimo scandalo dello Stato di diritto”. Ma allora perché in carcere si continua a morire? E perché dietro alle vicende di Stefano Cucchi e delle altre persone raccontate nel libro (edito da Il Saggiatore) continuano ad ergersi fitte reti di coperture? Ne abbiamo parlato con Luigi Manconi. Il vostro libro, come scrive Gustavo Zagrebelsky nella prefazione, “è una scossa alla coscienza”. In queste pagine si raccontano storie di persone che entrano in carcere, in caserma, o nei reparti psichiatrici, e ne escono morte. Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino: un elenco di vicende più o meno conosciute ma troppo in fretta dimenticate. Perché è la rimozione, come si sostiene nel libro, l’atteggiamento comune della società nei confronti del carcere. Questo lavoro è un esercizio di memoria o anche un atto di denuncia? Questo libro racconta molte storie sconosciute, soprattutto nei dettagli. Sono pagine di approfondimento rispetto a vicende che risalgono anche ad alcuni decenni fa, a partire ad esempio dalla morte di Pinelli. Si tratta di una ricostruzione biografica e giudiziaria di storie, circa una ventina, che hanno attraversato la storia recente italiana. È un libro di narrativa e di analisi, nel senso che l’analisi storico sociologica si sviluppa a partire da storie di vita, cioè da percorsi esistenziali che non vengono considerati solo nel loro esito finale, ovvero la privazione della libertà, le violenze e la morte, ma anche nella fase precedente, nel tentativo di ricostruire la rete degli affetti, l’ambiente famigliare e le domande di vita: non solo, insomma, l’agonia e la morte. È difficile dire se poi nel libro prevalga la denuncia o la memoria, siamo in presenza di una sequenza che non può essere isolata in diverse parti. Di certo c’è una denuncia che vuole impedire che su molte vicende, alcune recenti, alcune più antiche, cali il silenzio, ma la denuncia e la memoria sono sostanzialmente finalizzate ad uno stesso discorso, che è quello pubblico. Non abbiamo scritto un libro “sul carcere”, intanto per una ragione sociologica, dato che in queste pagine non parliamo solo di carcere, ma parliamo di luoghi della privazione della libertà, che vanno dai Cie ai reparti psichiatrici, nei quali persone che non hanno commesso alcun reato vengono sottoposte al trattamento sanitario obbligatorio e trovano la morte. Ma questo non è nemmeno un libro sulla marginalità sociale. Piuttosto, è un libro sulla democrazia, nel quale si tenta di dire perché il nostro Stato di diritto funziona così male e perché questo si traduce in un deficit di democrazia. Nel primo capitolo del libro lei scrive che il fondamento del patto sociale sta nel rapporto tra la “nuda vita” del cittadino e la sua capacità di protezione da parte dello Stato: ecco perché qualunque persona finisca sotto la tutela dello Stato deve essere considerata “sacra”. Ed ecco perché un uomo che muore in prigione dovrebbe essere vissuto come il più alto degli scandali. Perché dietro alle vicende di Stefano Cucchi e delle altre persone raccontate in queste pagine continuano allora ad ergersi fitte reti di coperture? Perché lo Stato pensa di dover salvaguardare la propria autorità rinserrando le fila, perché pensa che non si debbano lasciare aperti spiragli alla critica e ritiene che non si possa mettere in discussione l’onore delle istituzioni. E con ciò si fa un terribile errore, perché per salvare dal giusto processo un membro delle forze dell’ordine si rovescia quella responsabilità che è individuale e personale sull’intera struttura delle forze dell’ordine. Quando non si rimuove un funzionario di uno Stato che commette illegalità si fa precipitare tutta l’istituzione nella stessa illegalità, quando per salvare l’onore della divisa non si perseguono gli abusi commessi dal singolo che quella divisa indossa, l’onore della divisa viene macchiato: ecco che quindi si arriva ad un drammatico paradosso, per cui per salvare singoli responsabili si condanna l’intera istituzione. E proprio in ragione di questo paradosso la stessa istituzione fa della copertura e di quel meccanismo che purtroppo va definito col termine “omertà”, una sorta di “cultura ambientale”. All’interno degli apparati dello Stato la cultura dominante è proprio quella della copertura dei singoli, e così, oltre a non assicurare alla giustizia chi si rende personalmente responsabile di reati, si allarga quella responsabilità all’intera istituzione. Il titolo del libro si rifà ad una canzone di De Andrè, il cui protagonista, Michè, che si uccise in carcere, aveva commesso un omicidio. L’idea che le vittime, in quanto colpevoli di un reato, o anche in quanto persone tossicodipendenti, alcolizzate, ai margini della società, se la siano “andata a cercare”, rafforza quest’omertà? L’incapacità della società a tutelare i diritti delle vittime parte da un equivoco che può rivelarsi tragico: non è affatto vero che coloro che “se la vanno a cercare” siano poi tutti e allo stesso modo emarginati, tossicodipendenti, alcolizzati. Tra le tante storie che nel libro raccontiamo emerge la vicenda di due persone che si sono rese responsabili, al più, di una contravvenzione, di una multa presa in seguito ad una notte di ubriachezza. La diffusione del paradigma “se la sono cercata” è fondata su una forzatura di dati, ovvero su un falso. È chiaro che si tratta di una realtà che funziona egregiamente, perché il meccanismo “se la sono cercata” è profondamente suggestivo, agevola e giustifica la rimozione. Ma le biografie che nel libro si raccontano riportano ben altre storie. Negli istituti di pena italiani ci si uccide oltre 17 volte di più di quanto si faccia fuori dalle carceri. Ma nel libro si denuncia come sia in forte aumento anche il numero dei suicidi tra gli agenti penitenziari: perché il carcere, oggi, produce morti non solo tra chi espia la pena? All’origine c’è un dato “strutturale”: all’interno di un luogo fisico, materiale, murario, destinato ad accogliere 43mila persone, oggi ce ne sono 24mila in più. Lo spazio minimo che ogni individuo deve poter aver a disposizione, già scarso in origine, si riduce a un terzo. Questo addensamento questa promiscuità colpiscono i detenuti ma anche il personale, e gli agenti penitenziari in maniera ancora più diretta, perché sono loro ad avere una relazione quotidiana assidua e stretta con la popolazione detenuta. La vita dei detenuti si deteriora, ma anche il lavoro della polizia si deteriora: ogni movimento e ogni attività diventano più faticosi, “sudati”, ogni servizio, a chiunque sia destinato, in queste condizioni è meno efficace, è peggiore di quello che potrebbe essere. Ecco che l’intero sistema si frantuma, decade, produce miseria, sofferenza, solitudine e crisi, e da questa crisi alcuni, agenti inclusi, trovano come via d’uscita solo l’autolesionismo. Il libro evidenzia come a far da tramite tra la vittima e l’opinione pubblica ci sia spesso una donna. Ilaria Cucchi, Patrizia Aldovrandi, Maddalena Lorusso, Caterina Mastrogiovanni e le tante altre donne citate nel libro sono state capaci di far sì che il loro dolore più intimo e privato diventasse risorsa pubblica, collettiva. Perché ciò accade? Mi stupisco del fatto che finora questo tema non sia stato approfondito. Mi sono imbattuto in questa constatazione già anni fa, incontrando l’associazione dei famigliari delle vittime di Ustica, che era guidata da un leader donna. Ma, andando anche più indietro nel tempo, in tutte le vicende di mafia e di lotta alla criminalità la figura più intensa di testimone è rappresentata da una donna, che sia madre, figlia, moglie, sorella. E ancor prima, negli anni 70, a Milano, si formò un comitato che si chiamava “Delle madri del Leoncavallo”, che si riuniva intorno all’uccisione di due giovani che frequentavano un centro sociale. Questo impegno, questa determinazione, questa forza femminile ci pare molto affascinante, direi straordinaria dal punto di vista storico e sociale. Si tratta di vicende che rimandano all’Antigone di Sofocle, ma rispetto all’Antigone la differenza è drastica: Antigone opponeva le ragioni del cuore alla ragion di Stato, qui Ilaria Cucchi o Patrizia Aldrovandi, ma anche altre decine di donne, non oppongono la ragione del cuore, piuttosto oppongono alla ragion di Stato male intesa la loro ragione di cittadine. Il loro dolore privato si fa rapidamente coscienza civile: la sofferenza più intima diventa in tempi molto stretti un’assunzione di responsabilità sociale e dunque la capacità di tradurre quel dolore privato e intimo in una risorsa pubblica si rivela capace di condizionare il sistema dei media e la sfera politica. Dietro a queste storie si cela una profonda motivazione antropologica che noi abbiamo appena cominciato a indagare: la donna custode del fondamento affettivo della comunità famigliare è anche quella si muove per tutelare coloro che da quel fondamento affettivo dipendono: è quel legame direi intimo e naturale che suggerisce la forza e fornisce parole che si fanno risorsa di mobilitazione. In questi giorni stiamo lavorando con una giovane donna che è la nipote di Francesco Mastrogiovanni, della cui vicenda si racconta nel libro. E il suo impegno, come quello delle altre donne, va approfondito ed è di straordinaria importanza, perché svela la profondità ancestrale del legame che unisce i membri della stessa comunità. Un legame che è affidato alla figura femminile, quella più domestica, perché sia custodito e riprodotto nel tempo, e che diventa poi, per un felicissimo paradosso, il mezzo per uscire dalla dimensione domestica e parlare nell’agorà, per affrontare media e politica. Usa: nelle carceri della California un morto la settimana, 40mila detenuti rimessi in libertà Il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2011 Il sistema carcerario può ospitare 80 mila persone. Al momento i detenuti sono il doppio. L’indicazione è scendere a una cifra comunque alta, ma più realistica: circa 110 mila detenuti. In media un solo bagno viene usato da 54 persone Più di 40 mila detenuti potrebbero essere rilasciati dalle prigioni californiane nei prossimi mesi. Non per effetto di un’amnistia, o del decorso della loro situazione processuale e detentiva, ma grazie a una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti. I nove giudici della Corte - a maggioranza, 5 contro 4 - hanno infatti stabilito che le condizioni di vita in prigioni malsane e sovraffollate sono “incompatibili con il concetto di dignità umana”. Di qui l’ordine di svuotarle. Il sistema carcerario californiano può ospitare 80 mila persone. Al momento i detenuti sono il doppio. L’indicazione è scendere a una cifra comunque alta, ma più realistica: circa 110 mila detenuti, con conseguente scarcerazione di più di 40 mila persone. Si tratta di una decisione clamorosa, che non a caso ha suscitato le ire dei giudici più conservatori della Corte, soprattutto Antonin Scalia e Clarence Thomas. L’ordine di liberare migliaia di persone è “l’ingiunzione più radicale emessa da un tribunale in tutta la storia degli Stati Uniti”, ha detto Scalia, che prevede un rapido aumento di crimini per le strade californiane. “Ci possono essere rischi, errori, anche danni per i cittadini”, gli hanno risposto i giudici favorevoli alla sentenza. Ma la situazione delle carceri è ormai insostenibile, hanno spiegato, “contraria all’Ottavo Emendamento, che proibisce punizioni crudeli e fuori del comune”. In effetti, sono anni che le carceri dello Stato rappresentano un problema, e uno scandalo, a livello nazionale e internazionale. Le 33 prigioni californiane ospitano un suicidio a settimana. Ogni settimana un detenuto muore per una malattia fuori del carcere facilmente guaribile. 54 detenuti si dividono di media un solo bagno. Nel momento di maggior affollamento, nel 2006, quando gli incarcerati raggiunsero le 172 mila unità, il governatore Arnold Schwarzenegger si trovò nella necessità di spedirne 10 mila nelle carceri di Arizona, Mississippi, Oklahoma. Le carceri non rappresentano un problema soltanto sul piano dei diritti umani. Il sistema penitenziario californiano prosciuga il 10% del budget complessivo dello Stato; più di quanto viene ogni anno destinato alla pubblica istruzione. Ogni posto letto in una prigione costa 44 mila dollari all’anno. La trasformazione del “Golden State” in una feroce macchina carceraria ha precise ragioni storiche e politiche. Anzitutto c’è stata, a partire dagli anni Settanta, la criminalizzazione della lotta alla povertà e di quella alla droga. All’aumento del consumo delle droghe, alla diffusione di crisi economica, disoccupati, piccola criminalità, politici e autorità hanno reagito con gli strumenti della repressione, dell’incarcerazione, dell’inasprimento delle pene. La Three Strikes Law, la legge che commina l’ergastolo alla terza condanna, è un esempio della vittoria delle opzioni più repressive. Il settore privato ha ovviamente visto nelle carceri un affare lucroso. Aprire una prigione significa assegnare centinaia di contratti: edili, sanitari, di ristorazione, di mantenimento e pulizia. Nel 1997 Corrections Corporation of America costruì una prigione di 100 letti senza neppure aver ricevuto l’assenso dello Stato della California. Il loro motto era: “Se la costruiamo, se la prenderanno”. Alla fine il Leviatano carcerario ha forse ripulito le strade della California (ma le ricerche mostrano che la criminalità è scesa in tutti gli Stati Uniti, anche dove le autorità non hanno usato la mano così pesante). Sicuramente, quel sistema ha prodotto una situazione non più sostenibile. Non se ne è accorta soltanto la Corte Suprema, ma anche la politica. Il governatore dello Stato, il democratico Jerry Brown, ha appena deciso di trasferire migliaia di detenuti condannati per reati minori dalle prigioni dello Stato a quelle delle contee (che quindi dovranno a loro volta liberare le loro galere). Si spera, in questo modo, di attenuare la pressione nelle carceri. Soprattutto, si spera di alleviare quella sulle finanze dello Stato. Messico: scoperto bar dentro carcere, aveva persino i biliardi Agi, 25 maggio 2011 Nel nord del Messico, teatro delle sanguinose scorribande dei narcotrafficanti, la polizia ha scoperto un vero e proprio bar rifornito di tutto punto: nulla di eccezionale, non fosse per il fatto che era stato allestito dagli stessi reclusi all’interno del penitenziario di Chihuahua, capitale dell’omonimo Stato settentrionale messicano, confinante con il Texas. Non mancava proprio nulla: gli agenti hanno infatti confiscato circa duecento bottiglie di birra, venti di vodka e solo dodici di tequila, che evidentemente era la specialità della casa più apprezzata dagli avventori. C’erano persino due tavoli da biliardo; e poi marijuana in quantità, eroina e pure armi da fuoco. Il locale clandestino è stato smantellato, e almeno un dirigente della prigione licenziato in tronco e incriminato. Resta da capire come il bar avesse potuto funzionare all’insaputa delle autorità carcerarie. Un portavoce del governo locale, Carlos Gonzalez, ha tentato di spiegare la vicenda dicendo che si tratta di un penitenziario a bassa sicurezza. Non c’è dubbio.