Giustizia: carceri, le cifre di una vergogna di Valter Vecellio Notizie Radicali, 24 maggio 2011 L’hanno trovato riverso nel letto, in pigiama, nella sua cella, gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Viterbo. Alle 9,30 non si era ancora alzato. Si avvicinano per chiedergli se si sente male. Non risponde. Lo scuotono un po’. Si accorgono che lui, Luigi Fallico, 59 anni, ritenuto uno dei fondatori delle nuove Brigate Rosse, era morto. Il medico poi certifica che il decesso è avvenuto quattro o cinque ore prima, sul corpo non c’è alcun segno di violenza, l’ipotesi più probabile è che Fallico sia stato vittima di un infarto. Racconta il suo avvocato difensore Caterina Calia, che lo aveva visto il 19 maggio scorso, quando aveva voluto essere presente a un’udienza di un processo che lo riguardava: “Aveva avvertito fortissimi dolori al petto ed era stato trasportato nell’infermeria del carcere di Viterbo, dove gli avevano riscontrati valori della pressione arteriosa molto elevati. Invece di trasferirlo in una struttura ospedaliera attrezzata lo hanno riportato in cella. All’udienza del 19 maggio si sentiva ancora poco bene”. Con la morte di Fallico, ricorda il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, salgono a tre i decessi nel carcere di Viterbo nell’arco di un mese: “Fallico, soffrente di problemi cardiaci ed ipertensione, aveva accusato un dolore al petto ed era stato visitato in infermeria, dove gli erano state somministrate una tachipirina ed un farmaco dilatatore delle coronarie. Il 18 aprile scorso a morire era stato un senegalese di 30 anni, Dioune Sergigme Shoiibou che poco prima di essere arrestato era stato operato alla testa per asportare un ematoma dal cervello e, per questo, era in cella pur essendo privo di parte della calotta cranica. Domenica 15 maggio, invece, un agente di polizia penitenziaria 42enne si era tolto la vita sparandosi nello spogliatoio del carcere poco prima di prendere servizio. Tre decessi in un mese nel carcere di Viterbo sono una media altissima che ci preoccupa molto perché sono avvenuti nonostante l’impegno della direzione, degli agenti di polizia penitenziaria e delle altre professionalità che lavorano in quella struttura. Ognuno di questi decessi è una storia diversa con, però, una matrice comune: quella di poter essere attribuito al sovraffollamento e alle drammatiche condizioni di vita negli istituti. Sovraffollamento, carenze di personale e penuria di risorse non consentono di garantire a quanti vivono il carcere, siano essi detenuti o agenti di polizia penitenziaria, adeguate condizioni di sicurezza. In qualsiasi altra situazione un disagio psichico o fisico sarebbe adeguatamente curato per prevenire conseguenze gravi. In carcere, invece, con questa situazione, ogni situazione di disagio può nascondere una potenziale, drammatica, fine”. Salgono a 67, dall’inizio dell’anno, i decessi conteggiati dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nelle carceri italiane: 24 i suicidi, gli altri sono attribuiti a “cause naturali”. In realtà sono molti di più: se un detenuto infatti muore dopo qualche giorno di agonia nel letto di un ospedale non viene conteggiato tra le morti in carcere. Allo scorso aprile i 208 istituti penitenziari italiani erano stipati di ben 67.510 detenuti, a fronte di 45.543 posti regolamentari. Una situazione che si traduce in un peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie e in un incremento del numero di morti. Sempre nel 2011 sono stati 337 i tentati suicidi, mentre gli atti di autolesionismo sono arrivati a 1.858, e a questi vanno aggiunte le aggressioni che hanno portato a 1.389 ferimenti e a 508 colluttazioni. Dal 2000 a oggi sono morti 1.800 detenuti, di cui un terzo (650) per suicidio. E ancora: dal 1990 al 2010 sono stati 1.093 i detenuti che si sono tolti la vita in cella, mentre i tentati suicidi sono stati 15.974, con una frequenza media di 150 casi ogni 10mila detenuti. Il 2010 si è chiuso con 63 casi di suicidio, nel 2009 sono stati 72. Una palese situazione di illegalità da parte dello Stato che viola in modo pervicace e continuativo la sua stessa legge. Questi sono i fatti, sono le cifre che posiamo opporre a quanti reagiscono con un moto tra la stizza e il fastidio, alla notizia del digiuno in corso di Marco Pannella me, ancora un digiuno? Non molti, a dire il vero, dal momento che gli organi di informazione non hanno praticamente riferito nulla in merito. Pannella da tempo parla, per quanto riguarda la situazione nelle carceri di “nuclei consistenti di Shoah in formazione”. Le cifre che abbiamo fornito dicono che non si tratta di un’esagerazione. Dovrebbe far riflettere il fatto che in undici anni si sono tolti la vita ben 87 agenti di polizia penitenziaria. Non sappiamo i loro nomi, le loro storie. Ma siamo certi che “scavando” nel loro vissuto emergerebbe tanto che ha a che fare con le condizioni di lavoro, e che non sono estranee alla decisione di farla finita. Anche l’altro giorno Rita Bernardini ci ha ricordato che nella nostra Costituzione c’è un articolo che non viene mai richiamato, il comma 4 dell’articolo 13: punisce la violenza commessa sulle persone che sono private della libertà. Ebbene, detenuti ammassati in meno di un metro e mezzo a testa - la Corte europea dei diritti dell’uomo ne prevede tre, l’ordinamento penitenziario sette - chiusi in cella a far nulla per 20 o 22 ore al giorno, non sono forse di atti violenza? Le carceri italiane sono un enorme discarica sociale e umana resa tale in modo particolare da due leggi criminogene come la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze. Una situazione, riconosce anche il segretario dell’Associazione Nazionale dei Magistrati Giuseppe Cascini, che dipende “da una legislazione schizofrenica, che non riesce a programmare l’intervento penale in maniera razionale, che pretende di dare risposte di tipo emotivo, simbolico a problemi di carattere sociale e quindi crea da un lato l’ingolfamento del sistema penale, dall’altro un affollamento del sistema penitenziario”. Allora: davvero Pannella esagera quando evoca la shoah e digiuna? O piuttosto non dobbiamo ringraziarlo, perché anche a costo di apparire un esibizionista che si abbandona a periodiche pagliacciate, richiama l’attenzione di tutti noi sul gravissimo problema del diritto costantemente violato e stravolto? Giustizia: detenzione stranieri; Italia tra primi paesi nell’Unione europea Redattore Sociale, 24 maggio 2011 Con 743 stranieri detenuti ogni 100 mila regolari, è preceduta solo da Portogallo (925 ogni 100 mila) e Paesi Bassi (772 su 100 mila). Il tema al centro del convegno “Percorsi sbarrati: quando la migrazione diventa detenzione” in programma stasera al Naga L’Italia è tra primi tre Paesi europei in cui è più alto il tasso di detenzione degli stranieri: 743 stranieri detenuti ogni 100mila regolari. Il nostro Paese è preceduto solo da Portogallo (925 ogni 100mila regolari) e Paesi Bassi (772 su 100mila). “In Italia si è consolidata una gestione del fenomeno dell’immigrazione con norme sempre più rigide che hanno prodotto una criminalizzazione dell’irregolarità”, spiega Salvatore Palidda, sociologo, professore associato all’università di Genova, che interverrà all’incontro “Percorsi sbarrati: quando la migrazione diventa detenzione” in programma questa sera a Milano presso la sede del Naga. Attualmente (dati aggiornati al 30 aprile 2011) gli stranieri detenuti sono poco meno di 25mila (24.923) e rappresentano il 36% dei 67.510 detenuti nelle carceri italiane. Quasi la metà dei detenuti stranieri (11mila persone) sono imputati e quindi in attesa di giudizio. Ma c’è un altro elemento che Palidda sottolinea: “Negli ultimi tre anni, la percentuale di stranieri che si trovano in carcere non è aumentata. Segno che ormai le politiche di accanimento nei confronti dei migranti, nell’ottica di una logica securitaria, hanno toccato il fondo”. Dal 2007, infatti, la percentuale di stranieri presenti nelle carceri italiane oscilla attorno al 35-37%. La legge “Fini-Giovanardi” sul consumo di sostanze stupefacenti, la “Bossi-Fini” e il pacchetto sicurezza che ha introdotto il reato di clandestinità (trasformando in reato una condizione amministrativa), la ex-Cirielli che inasprisce le pene per i recidivi sono alcune delle norme che hanno contribuito a determinare questa situazione. Del resto è quasi impossibile, per un cittadino extracomunitario, entrare in Italia in modo legale. La maggior parte degli stranieri che oggi soggiornano in modo regolare sul territorio hanno trascorso un periodo più o meno lungo in condizione di irregolarità. “I cosiddetti clandestini sono il prodotto dell’assenza di politiche migratorie che governino il fenomeno -commenta Fabio Quassoli, sociologo, professore associato all’università di Milano. Oggi si assiste a una sovra-rappresentazione degli stranieri in carcere. Che non corrisponde alla percentuale di stranieri sul totale della popolazione italiana”. A partire dagli anni Novanta, spiega Quassoli, sono state messe in atto una serie di politiche che hanno reso sempre più precaria la situazione legale dei migranti: “Un processo di criminalizzazione che ha coinvolto il sistema politico-mediatico - sintetizza Quassoli. Il carcere rappresenta l’ultimo anello di una lunga catena”. Giustizia: Favi (Pd); sistema penitenziario disumano, Alfano agisca Agenparl, 24 maggio 2011 “Non era a causa di rilassatezza che la scorsa settimana la maggioranza si è vista battuta sulle mozioni sulla situazione delle carceri. Il dibattito alla Camera ha reso evidente il disagio di chi ha dovuto, per l’ennesima volta, sostenere una politica del ministro della Giustizia che di fronte all’emergenza fornisce una ricetta, che ben che vada, rimanda alla prossima legislatura una incerta ed insufficiente risposta ai problemi. Intanto, si estende l’appello dei detenuti per interventi contro le condizioni disumane degli istituti penitenziari, con responsabili richieste, per garantire la celerità dei processi e possibilità concrete di accesso a misure alternative”. Lo denuncia il responsabile nazionale carceri Pd Sandro Favi in una nota. “La Polizia penitenziaria promuove inedite forme di protesta, dopo mesi od anni di mancate risposte e di promesse non mantenute. I direttori degli istituti penitenziari hanno avviato azioni dimostrative per segnalare l’inerzia e l’insensibilità del governo, che rende ingestibili le difficoltà ed i problemi quotidiani. Il ministro Alfano rivaluti la sua politica per il sistema penitenziario, alla luce delle mozioni che lo impegnano, già dallo scorso anno e ancor di più dalla scorsa settimana, a correggere una legislazione che ha prodotto insensatamente un sovraffollamento insostenibile. Apra un confronto nel governo per rimuovere gli ostacoli alle assunzioni di personale di Polizia penitenziaria e per dotare gli istituti, gli uffici ed i servizi delle indispensabili professionalità educative, di servizio sociale, di supporto psicologico. Affronti la questione degli ospedali psichiatrici giudiziari, un vero e proprio oltraggio alla coscienza civile del Paese, per le condizioni aberranti in cui versano 1.300 persone ricoverate per essere sottoposte ad una misura di sicurezza, che dovrebbe avere la fondamentale finalità di cura della malattia psichiatrica; sostenga il piano di dimissioni assistite varato dal ministro della Salute, introducendo limiti alla proroga dell’internamento, mediante opportune modiche normative. Insomma, batta un colpo! Rinunci al mantra che ci ripete da tre anni e provi almeno ad ascoltare le ragioni del disagio e della sofferenza che giungono dai detenuti, dai loro familiari, dagli operatori, dai sindacati e dalle associazioni, a cui anche il Parlamento fa fatica a rispondere con gli annunci del Piano Alfano”. Giustizia: Alfano; siamo Governo che ha realizzato più posti nelle carceri Agi, 24 maggio 2011 “Siamo il Governo che ha realizzato più posti nelle carceri gestendo il più alto numero di detenuti”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, durante una conferenza stampa sullo stato dei lavori nella digitalizzazione della giustizia. Giustizia: Peduzzi-Nobile (Fds); un miraggio il diritto alla salute in carcere Agi, 24 maggio 2011 “Nonostante i sopralluoghi e le numerose denunce di questi mesi, nulla si muove per far fronte al dramma delle carceri. Carenze di organico e sovraffollamento fanno della detenzione una vera e propria tortura: incivile sia il trattamento riservato ai detenuti sia la condizione di lavoro della polizia penitenziaria”. Lo dichiarano in una nota congiunta Ivano Peduzzi e Fabio Nobile, capogruppo e consigliere della Federazione della Sinistra alla Regione Lazio. “Dalla cronaca e dalle dichiarazioni del Garante dei detenuti - proseguono - apprendiamo di una nuova morte sospetta e forse evitabile nel carcere Mammagialla di Viterbo. Prima Dioune Sergigme Shoiibou, senegalese di 30 anni, tenuto in cella nonostante avesse subito un intervento al cervello e fosse privo di parte della calotta cranica. Ieri il probabile infarto di Luigi Fallico, un uomo affetto da disturbi ipertensivi che da giorni accusava forti dolori al petto, trattati dall’infermeria del carcere con tachipirina e un farmaco dilatatore delle coronarie”.“È certo - concludono Peduzzi e Nobile - che il diritto alla salute e alle adeguate prestazioni sanitarie, già insufficienti per i cittadini della nostra regione, stiano divenendo un miraggio all’interno degli istituti penitenziari per la popolazione detenuta”. Lettere: carceri come gli ospedali… se non c’è posto, non entri di Riccardo Arena (Direttore di Radio Carcere) www.ilpost.it, 24 maggio 2011 Come avete letto qui su Il Post, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ordinato allo stato della California di ridurre la sua popolazione carceraria e di porre rimedio al sovraffollamento delle sue carceri, scarcerando circa 40 mila detenuti. In poche parole, la California o è in grado di rispettare i canoni legali sulla detenzione, oppure deve ridurre il numero dei detenuti. Facile e saggio. Una sentenza questa che non è solo made in Usa, ma che trova in Europa importanti precedenti. La sentenza del 16 luglio 2009 della Corte Europea dei diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia a risarcire un detenuto bosniaco per i danni morali subiti da quest’ultimo a causa del sovraffollamento della cella in cui era stato recluso per alcuni mesi nel carcere di Rebibbia di Roma. La sentenza del marzo del 2011 della Corte Costituzionale tedesca che ha obbligato le autorità penitenziarie del Paese a rilasciare un detenuto qualora non siano in grado di assicurare una prigionia rispettosa dei diritti umani fondamentali. E ancora provvedimenti analoghi assunti in Danimarca e in Norvegia. Paesi dove si è stabilito che la carcerazione deve essere differita se non c’è posto in carcere e se quindi il sovraffollamento determina un trattamento disumano e degradante. Ovvero illegale, da Stato fuori legge. Desolante il panorama italiano, dove si può solo evidenziare una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia. Circolare che, a seguito della condanna della Corte Europea, ha chiesto ai direttori delle carceri di “vigilare affinché non si verifichino, ed eventualmente non si protraggano, situazioni analoghe a quelle sanzionate dalla Corte di Strasburgo”. Da tempo, attraverso Radiocarcere, si propone in questo senso una soluzione legislativa. Ovvero prevedere che un carcere, come avviene oggi negli ospedali, non possa accogliere un detenuto in più rispetto alla sua capienza regolamentare. Negli ospedali c’è una legge in tal senso. Non si accoglie un paziente se non c’è posto. Oppure si dimette il paziente meno grave per consentire l’ingresso al paziente più grave. Perché lo stesso non può avvenire nelle carceri? I malati valgono meno dei carcerati? Non sembra. E allora: fissare ex lege un tetto massimo di capienza per ogni carcere. E, se necessario, scarcerare il detenuto meno pericoloso (magari sottoponendolo agli arresti domiciliari), per far posto a quello più pericoloso. Ma domanderete: in caso di violazione a tale limite? Prevedere una responsabilità penale in capo al direttore di quel carcere che consente un trattamento disumano e degradante. Un responsabilità penale che già oggi è astrattamente configurabile. Consentire l’ingresso in un carcere sovraffollato, con la consapevolezza di violare la legge, nell’esercizio delle sue funzioni e di arrecare un ingiusto danno, sembra infatti integrare il reato di abuso d’ufficio. Lettere: la fine di Mario Santini, una morte annunciata di Francesco Ceraudo (Direttore Centro Regionale della Toscana per la Salute in carcere) Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2011 Non ho la propensione di affacciarmi alla finestra, assistere al passaggio del funerale e magari farmi il segno della croce. Ribollo di rabbia ed indignazione per quello che è successo a Pisa, dove due Istituzioni, la Giustizia e la Sanità hanno fatto a gara a chi si comportava peggio. Di fronte a 2 certificati che attestavano una gravissima condizione clinica con prognosi quoad vitam severissima, la Giustizia (Magistrato di Sorveglianza) aveva un preciso, inderogabile dovere: concedere immediatamente un beneficio di legge e rimettere in libertà Mario Santini per quei pochissimi giorni che gli restavano da vivere. Non è stato fatto. È una gravissima omissione. Del resto non è la prima volta che succede senza urtare la suscettibilità di alcuno. La Sanità non è stata da meno. Ora si affanna a trincerarsi dietro roboanti comunicati congiunti, tra l’altro incomprensibili con appelli al rispetto scrupoloso delle linee-guida, delle linee di indirizzo, delle raccomandazioni e di… altre formule magiche. Bastava dire con molta onestà che è stato fatto un errore di valutazione medica. Non è il primo e né purtroppo sarà l’ultimo! Si è perso di vista l’uomo, dimenticandosi che è in gioco la dignità e con tutte le sue gravissime implicazioni l’umanità di Mario Santini. La stessa relazione di dimissione parla di soggetto in fase terminale in cachessia neoplastica. Cosa c’era da aggiungere ancora? Con estrema disinvoltura è stato staccato un biglietto di sola andata per l’inferno, senza tenere in alcuna considerazione che i Medici del Centro Clinico Don Bosco avessero attestato per ben due volte l’assoluta incompatibilità con la carcerazione. Se la Clinica Medica non poteva fare altro, figuriamoci cosa poteva essere fatto al Don Bosco! È venuta meno una doverosa comunicazione con la Magistratura di Sorveglianza per rappresentare la condizione clinica in tutta la sua gravità. È stata calpestata la legge, la deontologia professionale, il buon senso. A Mario Santini è stato negato il sacro-santo diritto di andare a morire sul letto della propria casa. Il Don Bosco di Pisa non è un cimitero, ma un luogo seppure infelice da cui devono partire pratiche di vita. Basilicata: best practice, programma di inclusione per i detenuti Gazzetta del Sud, 24 maggio 2011 Sviluppare percorsi di integrazione sociale e di reinserimento lavorativo dei detenuti. Orientare, formare (a tutti i livelli, sia per quanto riguarda l’istruzione, sia per quanto riguarda le attività formative alternativa a quella scolastica), sostenere ed avviare al lavoro dipendente, cooperativo o autonomo 295 persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Sono questi gli obiettivi principali che si prefigge il programma d’azione per l’inclusione sociale e lavorativa degli adulti e minori, sottoposti a provvedimento dell’Autorità giudiziaria nella Basilicata. Il Programma, promosso dal Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione penitenziaria, è attuato dalle Province di Potenza e Matera, e per esse dalle Agenzie in house Apof-Il e Ageforma, sulla base di una Intesa Interistituzionale fra Regione Basilicata e Province. Le Linee di Intervento consentono di sviluppare azioni di orientamento, tramite l’istituzione di un Servizio di Case Management, sostenere la frequenza scolastica e universitaria (sono previsti voucher per conseguire titoli di studio della scuola dell’obbligo). Sono incentivati anche la formazione, tramite l’erogazione di interventi di formazione di base per adulti (corsi professionali di base, laboratori per le attività socio - educative) e minori (laboratori polivalenti, corsi di formazione di base) e tirocini formativi. Un’altra linea di intervento riguarda l’inserimento lavorativo, mediante la concessione di contributi finalizzati all’occupazione dei destinatari, incentivi per le aziende e per le cooperative sociali che assumono soggetti sottoposti a provvedimento dell’Autorità Giudiziaria, incentivi alla costituzione di impresa in forma individuale e societaria. Il costo totale dell’intervento è di 8.840.000 euro, di cui 3.536.000 euro di fondi europei, cofinanziato dallo Stato per 4.243.200, euro e dalla Regione per 160.800 euro. Umbria: Manna (Lisiapp); nelle carceri ancora preoccupante livello di sovraffollamento www.informazione.it, 24 maggio 2011 I quattro istituti di pena umbre (Perugia, Terni, Orvieto e Spoleto) convivono tra mille problemi come per il sovraffollamento, con tutto quello che comporta, e un’ormai cronica carenza di operatori. Esordisce cosi con una nota il dott. Mirko Manna - Segretario Generale del libero sindacato appartenenti alla Polizia Penitenziaria (Lisiapp), che illustra un quadro preoccupante per quanto riguarda le carceri umbre, strutture che devono essere lo specchio più lustrato di tutti quegli Stati che ancora si vogliono definire di diritto. Nell’anno appena trascorso - continua Manna - si è rivelato un pessimo anno con un suicidio, 19 tentati suicidi, 258 atti di autolesionismo, 13 aggressioni agli uomini e alle donne della polizia penitenziaria e 125 detenuti in sciopero della fame. In particolare sono stati ben 146 gli atti di autolesionismo che si sono verificati all’interno del nuovo complesso perugino di Capanne, un dato negativo per il penitenziario umbro al quarto posto in Italia dietro Firenze Sollicciano (302), Lecce (214) e Bologna (155). Sessantasette poi gli atti autolesionistici registrati a Spoleto, contro i 38 di Terni e i sette di Orvieto. Sei invece le aggressioni a Perugia, contro le tre a testa di Spoleto e Terni e l’unica di Orvieto. Sei i tentati suicidi a Perugia, Terni e Spoleto contro uno soltanto a Orvieto. Cinquantadue infine i detenuti in sciopero della fame contro i 59 di Spoleto, i 12 di Orvieto e i due di Terni. Inoltre, affermano dalla Segreteria Generale del Lisiapp per quello che riguarda il sovraffollamento degli istituti di pena umbri, la regione si colloca al dodicesimo posto in Italia con un tasso di sovraffollamento pari al 47,4%, per fortuna ben lontano dall’81% di Puglia ed Emilia Romagna o al 77% della Calabria ma comunque un dato preoccupante perché in crescita per l’anno in corso . In particolare al 31 dicembre 2010 erano reclusi 1.671 detenuti contro una capienza regolamentare che ne prevede 1.134. Pertanto sottolinea Manna è necessario adoperarsi perché si affermi una coscienza sociale rispetto al dramma che si vive nelle strutture penitenziarie che, in tutta evidenza, non trova sufficiente attenzione da parte della quasi totalità del mondo politico/istituzionale, sempre più insensibile e distante verso una delle più drammatiche questioni sociali del Paese. Genova: i detenuti di Marassi annunciano proteste per tre giorni, ieri sera tensioni e disordini Ansa, 24 maggio 2011 Ieri i detenuti del carcere di Marassi, a Genova, hanno comunicato l’intenzione di procedere a tre giorni di protesta. Da ieri, per tre sere, dalle 22 alle 23, procederanno alla classica battitura delle sbarre: ma “purtroppo non si sono limitati a ciò ma hanno dato vita a veri e propri disordini - spiega Eugenio Sarno, segretario della Uil Pa Penitenziari - incendi di giornali, allagamenti con buste di acqua, scoppi delle bombolette del gas utilizzate per alimentare i fornellini che hanno in dotazione”. “Il personale - aggiunge ancora Sarno - in servizio ieri sera a Marassi ci ha parlato di un vero e proprio inferno. Le poche unità in servizio hanno potuto a malapena gestire gli eventi critici. Per fortuna non si registrano feriti”. I detenuti protestano per il sovrappopolamento del carcere genovese che alle 24 di ieri ospitava ben 803 detenuti, a fronte di una capienza massima fissata in 435. Ma non sono solo i detenuti a protestare. Anche la polizia penitenziaria e i Dirigenti Penitenziari sono sul piede di guerra e pronti a scendere in piazza. Uil: rischio ordine pubblico “La situazione nei penitenziari italiani è alla completa saturazione, tanto da costituire un vero e proprio allarme per l’ordine pubblico”. È l’allarme lanciato da Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari. “Ieri i detenuti di Marassi, a Genova, hanno comunicato l’intenzione di procedere a tre giorni di protesta e hanno dato vita a veri e propri disordini: roghi di giornali e altri oggetti, facendo scoppiare le bombolette del gas utilizzate per alimentare i fornellini che hanno in dotazione. Il personale di polizia penitenziaria in servizio ieri sera a Marassi ci ha parlato di un vero e proprio inferno”. I detenuti protestano per il sovrappopolamento del carcere genovese che alle 24 di ieri ospitava 803 detenuti, a fronte di una capienza massima fissata in 435. La Uil Pa Penitenziari segnala il rischio di un allargamento a macchia d’olio delle proteste. “Abbiamo ragione di ritenere che la protesta in atto a Genova e le proteste che nei giorni scorsi hanno interessato alcuni istituti della penisola siano solo la prova generale di manifestazioni che a breve potrebbero interessare tutti gli istituti”. Caserta: Osapp; protesta agenti a S. Maria Capua Vetere contro carenza di fondi e organico Adnkronos, 24 maggio 2011 A causa della gravissima carenza di fondi nell’Amministrazione penitenziaria (131 milioni di euro di debiti dall’inizio del 2011) 80 poliziotti penitenziari in servizio presso il nucleo traduzioni e piantonamenti della casa circondariale di S. Maria Capua Vetere hanno iniziato l’autoconsegna nella caserma dell’istituto, per protestare contro la mancata retribuzione, da oltre un anno, delle spese per i servizi svolti nell’accompagnamento dei detenuti ad altri istituti di pena e presso le aule di giustizia, in alcuni casi da loro stessi anticipate e mai restituite”. È quanto comunica in una nota Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma Polizia penitenziaria. “Dopo la protesta di qualche giorno fa di alcune unità di polizia penitenziaria dell’omologo nucleo traduzioni della casa circondariale di Roma-Rebibbia, in tal caso contro la gravissima carenza di organico - prosegue il sindacalista - quella di Santa Maria Capua Vetere presenta aspetti di maggiore drammaticità, visto che gli 80 poliziotti hanno anche preannunciato di voler anche intraprendere uno sciopero della fame e del sonno”. “Per restituire serenità lavorativa al personale occorrerebbero oggi 6.000 unità e 10 milioni di euro in più di quelli attualmente disponibili - ricorda Beneduci - occorrerebbero nuovi riassetti e riqualificazioni a vent’anni dalla riforma del Corpo, visto quello che i poliziotti penitenziari fanno quotidianamente per la Collettività e per l’utenza penitenziaria, ma quanto ottenuto riguarda solo le promesse ad oggi inattuate del Ministro Alfano e 670 milioni di euro per 20 padiglioni e 11 carceri aggiuntivi, senza incrementi di organico né miglioramenti dei servizi e della vivibilità lavorativa degli istituti penitenziari - conclude Beneduci - per cui non escludiamo di essere presto noi stessi i promotori di analoghe forme di protesta sull’intero territorio nazionale”. Aosta: Osapp; a Brissogne si riavvii un tavolo unitario dei sindacati di Polizia penitenziaria Ansa, 24 maggio 2011 Il riavvio di un tavolo unitario di tutti i sindacati per il confronto con la Direzione della casa circondariale di Brissogne: è la richiesta formulata, in una nota, dal sindacato Osapp, dopo la rottura di alcune settimana fa, provocata da alcune dichiarazioni, pubblicate da organi di informazione locale. La posizione è emersa oggi durante una riunione svoltasi nell’istituto penitenziario valdostano con tutti i sindacati del comparto sicurezza, il direttore del carcere Domenico Minervini e il provveditore regionale della amministrazione penitenziaria, Aldo Fabozzi. L’incontro è stato convocato per affrontare alcune “problematiche riguardanti la gestione ‘a 360 gradì del personale di polizia penitenziaria valdostana”. “Le precedenti dichiarazioni - si legge nella nota dell’Osapp - in cui si affermava che ‘Le sigle sindacali allineate godono della totale impunita” non intendevano offendere o suscitare gli animi, ma miravano a stimolare una forte discussione, nell’interesse di tutto il personale, sui temi riguardanti l’organizzazione del lavoro, dei rapporti informativi e altro all’interno dell’istituto penitenziario valdostano”. Dopo la pubblicazione delle affermazioni dell’Osapp, le altre sigle avevano chiesto l’avvio di un tavolo di confronto separato. “Non era nostra intenzione - spiega Gerardo Romano, segretario regionale Osapp Piemonte e Valle d’Aosta - screditare gli altri sindacati a cui va il nostro rispetto per le loro prerogative e auspico di aver chiarito inequivocabilmente la questione per poter riavviare un tavolo. Ferrara: l’ex assessore Marcello Marighelli diventa il nuovo Garante dei detenuti La Nuova Ferrara, 24 maggio 2011 È Marcello Marighelli, ferrarese (61 anni), assessore comunale al Personale e al Decentramento dal 2001 al 2009, il nuovo ‘Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Ferrarà. Eletto a scrutinio segreto e a maggioranza assoluta (ha ottenuto 23 voti su 37 votanti), durerà in carica tre anni, potrà essere rieletto una sola volta; gli spetterà un’indennità annua di 8mila euro. Dopo la scadenza dall’incarico di Fede Berti (prima garante nominata dal Comune di Ferrara il 21/1/2008) a seguito della pubblicazione del bando erano pervenute alla sede municipale sei candidature. I curricula erano stati sottoposti all’esame della 1.a e della 4.a Commissione consiliare con il compito di stabilire criteri, punteggi e valutazioni per individuare una rosa di tre nomi da sottoporre al voto del Consiglio comunale. Da questa prima scrematura erano emersi i candidati Fede Berti, Tommaso Gradi, Marcello Marighelli. Sono diverse le funzioni che il Regolamento comunale attribuisce al Garante. Compiti specifici sono quelli di operare, in piena libertà e indipendenza, per le migliori condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale, promuovere iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene e iniziative volte ad affermare per le persone private della libertà personale il pieno esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e della fruizione dei servizi presenti sul territorio comunale. A tale scopo saranno attivate relazioni e interazioni cooperative anche con altri soggetti pubblici competenti in materia. Il garante, nell’esercizio delle sue funzioni, potrà visitare le persone private della libertà personale nei luoghi dove esse si trovano, promuovendo l’esercizio dei diritti e delle libertà di partecipazione alla vita civile e iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani. Lucera (Fg): sui disagi dei detenuti interviene anche la Camera penale www.luceraweb.it, 24 maggio 2011 Passano i mesi, anzi gli anni, ma la questione delle difficoltà dei detenuti sia dentro il carcere che nelle aule giudiziarie, a cui si aggiungono i disagi dei parenti in attesa di entrare a far loro visita dietro le sbarre, non accenna a trovare una soluzione, nonostante gli sforzi e gli incontri. E se qualche settimana fa Luceraweb ha riferito di una riunione tecnica proprio all’interno della casa circondariale di Lucera, con la partecipazione del vescovo Domenico Cornacchia, dell’euro parlamentare Barbara Matera, del cappellano della struttura Alessandro Di Palma e dei vertici penitenziari con a capo il direttore Davide Di Florio, l’ultima importante presa di posizione arriva dalla Camera Penale di Lucera, con il direttivo che ha votato una delibera in cui viene chiesto, “alle forze politiche, religiose e sociali, di porre argine alle manchevolezze, con la posa in opera di strutture idonee”. Nello specifico, l’organismo presieduto da Raffaele Lepore ha denunciato ancora una volta i disagi dei parenti dei detenuti, costretti ad attendere davanti al cancello del carcere, sotto qualsiasi clima e temperatura, di poter entrare per far visita al proprio congiunto. L’unica forma di accoglienza, infatti, restano sempre quelle sedie messe a disposizione dai frati del convento che sorge proprio accanto, mentre una pensilina realizzata a spese del Comune, e poco distante dalla porta, non è stata mai utilizzata e presa in considerazione da centinaia di persone che per quattro volte alla settimana provengono anche da altre regioni italiane. “Come chiesa locale ci sentiamo umiliati e mortificati per la situazione che queste famiglie sono costrette a vivere - disse durante l’ultimo incontro il vescovo della diocesi Domenico Cornacchia - che con le dovute proporzioni è paragonabile a quella di Lampedusa, con i concetti di accoglienza e sensibilità che possono essere tranquillamente trasferiti”. “Ha suscitato commozione l’intervento del pastore della diocesi - si legge nel documento della Camere Penale e inviato anche allo stesso prelato, al sindaco di Lucera, al presidente del tribunale, all’Ordine degli avvocati, al procuratore della Repubblica e al direttore del carcere - sensibile alle esigenze degli umili e di chi soffre, ma il suo monito pastorale, teso a porre rimedio a simili disagi, è rimasto inascoltato”. In realtà secondi i penalisti la questione è anche più ampia, perché un altro aspetto di estrema importanza riguarda le condizioni in cui i detenuti sono costretti ad affrontare il giudizio nell’aula dello stesso tribunale. “Quello di Lucera è privo di adeguate strutture che consentano ai detenuti che devono essere sottoposti a giudizio - si legge nella delibera - sia di recarsi nelle varie aule senza attraversare corridoi e spazi aperti al pubblico, sia di sostare in attesa che il loro processo sia trattato, ponendoli, così, agli sguardi indiscreti degli altri astanti. Questa situazione configura un grave vulnus per la dignità di ogni essere umano, che mai deve essere sottoposto a vessazioni, pur se di natura psicologica e morale. È evidente, quindi, che la tutela e la garanzia dei diritti essenziali dei cittadini, specie di quelli che vengono affidati allo Stato, rappresentano e sono il fulcro di ogni moderna civiltà occidentale e liberale”. Bergamo: derubarono venditore ambulante clandestino, tre poliziotti condannati Agi, 24 maggio 2011 I poliziotti avevano rubato della merce a un ambulante clandestino che, nonostante la sua condizione, non aveva esitato a denunciarli. Per questo tre agenti della questura e un loro amico sono stati condannati con rito abbreviato dal tribunale di Bergamo e un quarto poliziotto è ancora sotto processo. La vicenda risale al dicembre 2009. Nel corso di un controllo due poliziotti avevano rubato all’ambulante senegalese due giubbotti Moncler, la scheda di un cellulare e 255 euro. Poi, con la complicità di due colleghi, avevano redatto un verbale in cui avevano messo una loro versione dei fatti, aggiungendo che lo straniero aveva opposto resistenza. Il senegalese, incurante dei problemi che avrebbe avuto in quando clandestino, si era presentato proprio in questura a presentare la denuncia. Era così partita l’inchiesta che già nel gennaio di un anno fa aveva portato tre agenti in carcere. Oggi la sentenza in abbreviato: quattro anni e due mesi al sovrintendente P.M., 48 anni; tre anni e tre mesi all’assistente D.G., 35 anni (entrambi responsabili di peculato, falso in atto pubblico, violenza privata e calunnia); un anno con pena sospesa per falso in atto pubblico e favoreggiamento al sovrintendente S.P., 42 anni, uno dei due autori del falso verbale. Con le stesse accuse è finito a processo un quarto agente, L.B., 30 anni, che però ha rifiutato il rito alternativo. Condannato a un anno e 8 mesi anche un amico dei due poliziotti, A. L., 44 anni, titolare di un centro anti-fumo, colpevole del concorso nel peculato dei Moncler, ma assolto per quello di telefonino e soldi. Era stato lui ad attirare con una scusa il senegalese nel punto in cui era poi scattato il controllo. Bologna: circa trenta minori dell’area penale partecipano al progetto “Vips” Redattore Sociale, 24 maggio 2011 Musicisti, cestisti, rapper, calciatori. Sono alcuni dei personaggi che hanno raccontato ai ragazzi ospiti del carcere o seguiti dai servizi sociali la loro storia. Oggi tocca a Giuseppe Poeta e Viktor Sanikidze, giocatori della Virtus Musicisti, calciatori, cestisti, rapper. Sono alcuni degli artisti e degli sportivi che hanno partecipato agli incontri del progetto “Variazioni inconsuete, partenze stonate” ovvero “Vips”, ideato dall’educatore professionale Dario Bove all’interno delle attività socio-educative programmate dai servizi sociali per minorenni per il 2011, con il sostegno di Giuseppe Centomani, dirigente del Centro di giustizia minorile dell’Emilia-Romagna e di Teresa R. Sirimarco, direttrice dell’Ufficio di servizio sociale per i minorenni di Bologna. L’obiettivo? Spingere i ragazzi che sono ospiti del Carcere minorile o seguiti dai servizi sociali a non abbandonare i propri sogni e stimolarli a realizzarli attraverso il confronto con persone che ce l’hanno fatta. “Per i ragazzi è un’occasione per avvicinare persone famose - spiega Bove - e capire che non devono abbandonare i loro sogni”. Oggi pomeriggio alle 14.30 l’incontro in via del Pratello 34 vede la partecipazione di Giuseppe Poeta e Viktor Sanikidze, cestisti della Virtus Bologna. Nel corso del dibattito i due giocatori racconteranno la loro storia e il loro sogno “cestistico”, diventato realtà grazie a una solida determinazione e a una grande forza di volontà, anche a costo di dolorose rinunce, e risponderanno alle domande dei ragazzi. Sono una trentina in media i ragazzi che partecipano agli incontri. “Arrivano da contesti differenti - chiarisce Bove - alcuni hanno procedimenti penali in corso, altri sono collocati presso una comunità o presso il carcere minorile, altri ancora sono ai domiciliari e vivono in casa con i genitori”. L’alta partecipazione registrata agli incontri del progetto “Vips” sta spingendo i promotori ad ampliarlo. “Stiamo pensando di allargarlo anche ai ragazzi che non hanno procedimenti penali in corso - spiega Bove - ma che fanno parte di comunità socio-educative”. Nell’ambito del progetto un ruolo importante è quello ricoperto inoltre i “peer educator”, che come spiega Bove, “sono ragazzi della struttura che affiancano educatori e operatori impegnati nel progetto, e stimolano l’interesse degli altri ragazzi del Centro. Mi hanno aiutato attivamente durante la stesura del progetto e la sua realizzazione”. Il progetto “Vips” è attivo dal 2010 e ha già portato al Pratello nomi altrettanto famosi come quelli di Poeta e Sanikidze: i gruppi musicali Punkreas, Gem Boy e Marta sui tubi, il rapper Mondo Marcio, alcuni giocatori del Bologna Calcio e il campione mondiale di bike trial Vittorio Brumotti. “È un ottimo risultato - commenta Bove - anche perché tutti gli interventi sono a titolo gratuito, gli artisti non ricevono alcun compenso”. Gli incontri di “Vips” vogliono dunque avvicinare ragazzi in difficoltà a persone che con costanza e determinazione sono riuscite a raggiungere il loro obiettivo. “Vogliamo incoraggiarli nel continuare a inseguire con tenacia i loro obiettivi e i loro sogni, senza scoraggiarsi di fronte alle difficoltà della quotidianità - dichiara Bove. In due ore i ragazzi pongono un sacco di domande agli ospiti e ogni tanto ci scappa pure l’esibizione: è stato così per i Marta sui Tubi e anche per Brumotti”. Viterbo: “La Tv è vita”, cortometraggio-documentario dal carcere di Mammagialla Viterbo Oggi, 24 maggio 2011 Il progetto “La Tv è vita”, nato nel quadro dell’accordo di collaborazione tra l’Università della Tuscia e la Casa Circondariale di Viterbo, voluto dal prof. Giovanni Fiorentino, docente di Sociologia della Comunicazione del Dipartimento di Scienze umanistiche, della comunicazione e del turismo, e dagli studenti del gruppo Yell/Yellow, e realizzato tra ottobre 2009 e marzo 2010, ha coinvolto attivamente un gruppo di detenuti in un laboratorio di comunicazione televisiva: una scommessa per promuovere il confronto e la socializzazione tra persone che vivono nei due mondi del carcere e della società esterna, spesso non comunicanti. I detenuti, dopo aver raccontato l’esperienza autobiografica di grandi consumatori di televisione, si sono confrontati con docenti, professionisti ed esperti del settore, giornalisti e registi, autori e produttori, che li hanno guidati a costruire i presupposti per un rapporto consapevole con il medium e le basi per il progetto di un video che ponesse al centro la relazione tra detenuto e scatola televisiva. Dal successivo incontro dei detenuti con un gruppo di studenti e una telecamera, nasce il cortometraggio-documentario “La Tv è vita”: attraverso la televisione, scatola magica e potente, abbiamo la possibilità di scoprire chi è, come e cosa vive un detenuto oggi, nello spazio della sorveglianza totale. Giovedì 26 maggio alle ore 11.00, l’Aula Magna della facoltà di Scienze Politiche ospiterà la prima visione del cortometraggio “La Tv è vita” che offre voce e volto a detenuti che mettono in gioco loro stessi per provare a sollecitare attraverso i media, nella società “esterna”, una cultura di attenzione al carcere e alla sua vita intensamente televisiva: luogo potenziale di comunicazione, ricerca, studio e magari anche di produzione creativa. In questo caso la televisione, quella del presente sociale, promiscua e molteplice, della convergenza digitale, di you-tube e dei social network, diventa realmente una finestra per ognuno di noi. Il detenuto, ordinariamente rimosso dal panorama dei media, prima di tutto televisivo, più in generale dalla vita quotidiana di ognuno di noi, ritorna. Si riprende il diritto, e la possibilità, di parola. Dopo i saluti del Direttore della Casa Circondariale di Viterbo, del Rettore dell’Università della Tuscia e del Preside della Facoltà di Scienze Politiche, verrà proiettato il cortometraggio “La Tv è Vita”. A seguire la tavola rotonda “Perché in carcere la Tv è vita?”, alla quale interverranno: Valentina Calderone, saggista; Andrea Scazzola, giornalista; Filippo Rossi, giornalista; Laura Pacelli, regista; Giuseppe Sicari, giornalista; Francesca Anania, docente; Patrizia Meacci, educatrice carceraria; Paolo Taggi, autore televisivo. Coordinerà il professore Giovanni Fiorentino, ideatore del progetto. Brasile: estradizione Battisti: l’1 giugno l’Alta corte esaminerà caso ex terrorista Ansa, 24 maggio 2011 La vicenda Battisti è vicina a quello che potrebbe essere il suo esito finale: il Supremo Tribunal Federal esaminerà il 1 giugno il caso dell’ex terrorista rosso, da più di quattro anni detenuto nel carcere di Papuda, a Brasilia. Anche se manca ancora una conferma ufficiale da parte del presidente dell’Alta Corte, Cezar Peluso, fonti brasiliane hanno reso noto che il Supremo “esaminerà in udienza plenaria il caso nel pomeriggio del 1 giugno”, dopo il via libera dato alla discussione in aula da parte del relatore del caso, Gilmar Mendes. Nei giorni scorsi, Mendes aveva d’altra parte respinto la richiesta di scarcerazione avanzata dai legali dell’ex militante dei Proletari armati per il comunismo, così come aveva già fatto d’altra parte qualche mese fa. Battisti, condannato all’ergastolo in Italia con l’accusa di aver partecipato a quattro omicidi, è in prigione in Brasile dal 18 marzo del 2007. Nel novembre del 2009, il Supremo aveva autorizzato, per 5 voti contro 4, la sua estradizione in Italia, ma gli stessi giudici della Corte decisero che l’ultima parola sul caso spettava al presidente Luiz Inacio Lula da Silva. Lo scorso 31 dicembre, ultimo giorno del suo mandato, Lula aveva negato l’estradizione, decisione ribadita poi dal suo successore, Dilma Rousseff, che aveva quindi lasciato nuovamente il caso nelle mani del Supremo. Le date fondamentali del caso giudiziario Di seguito alcune delle principali date legate al caso Cesare Battisti, l’ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo (Pac) condannato all’ergastolo in contumacia dalla giustizia italiana per quattro omicidi avvenuti fra il 1977 e il 1979, e attualmente detenuto in Brasile. Nel 2007 Battisti lascia la Francia - dove era fuggito nel 1981 - dopo che le autorità di Parigi gli avevano revocato lo status di rifugiato, per recarsi in Brasile: arrestato a Rio de Janeiro, viene recluso nel penitenziario di Papuda, a Brasilia, dove è rimasto in attesa di una sentenza definitiva sull’estradizione richiesta dalle autorità italiane. Gennaio 2009: l’allora ministro della Giustizia Tarso Genro concede a Battisti lo status di rifugiato politico basato sul “fondato timore di persecuzione politica”, andando contro l’opinione della Commissione Nazionale per i Rifugiati (Conare), che aveva dato parere contrario. La decisione - criticata dalle autorità italiane, in primis dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - impedisce di procedere nell’iter di una richiesta di estradizione che sia basata sui fatti che hanno motivato la concessione del diritto di asilo. Febbraio 2009: Lula invita l’Italia a “rispettare la decisione sovrana” brasiliana; la Corte Suprema respinge un appello presentato dall’Italia contro la concessione dello status di rifugiato. Novembre 2009: la Corte Suprema approva con 5 voti favorevoli e quattro contrari la concessione dell’estradizione; con identica maggioranza decide però anche che la decisione finale è di pertinenza del Presidente della Repubblica, essendo questione che riguarda anche la politica estera del Paese. Giugno 2011: dopo che nell’ultimo giorno del suo mandato Lula - sentito il parere dell’avvocatura dello Stato - opta per il mantenimento dello status di rifugiato per Battisti, la Corte Suprema dovrà decidere se tale decisione sia conforme al Trattato bilaterale in vigore fra Italia e Brasile. Stati Uniti: il Washington Post si schiera per visite familiari a detenuti di Guantanamo Adnkronos, 24 maggio 2011 In un editoriale pubblicato oggi il Washington Post si schiera a favore delle visite dei familiari ai detenuti del carcere militare di massima sicurezza di Guantanamo, a Cuba. “Le visite dovrebbero essere considerate un privilegio non offerto a tutti i detenuti - si legge nell’editoriale non firmato, che esprime quindi la posizione del giornale - ma pur considerando le necessità imposte dalla sicurezza nazionale, le visite dei familiari sarebbero una concessione umana a favore di quei detenuti che hanno i requisiti per ottenerle”. Questa concessione, prosegue Il quotidiano, “consentirebbe di ridurre le forti critiche che giungono da tutto il mondo nei confronti del carcere”. Inoltre, “potrebbero aiutare a mantenere l’ordine (a Guantanamo, ndr) costituendo un incentivo per la buona condotta”. Il Pentagono, ricorda il Post, ha fatto presente che il dibattito sulla questione è ancora nelle sue fasi iniziali, ma, scrive il quotidiano, “è una discussione che vale la pena fare”. Nel percorso di umanizzazione delle condizioni di detenzione a Guantanamo, il Post ricorda che, a partire dal 2002, ai detenuti è concesso di inviare lettere ai propri familiari attraverso il Comitato internazionale della Croce Rossa; dal 2008, ad alcuni detenuti è consentito fare una telefonata all’anno; a partire dal 2009, infine, ad alcuni detenuti è stato concesso l’uso delle videoconferenze per comunicare con i propri cari. Il Washington Post ricorda che a Guantanamo sono attualmente presenti 172 detenuti, molti dei quali sono stati rinchiusi nel carcere da almeno 5 anni. Alcuni di loro, come nel caso di cinque detenuti cinesi di etnia uigura, sono stati prosciolti da ogni accusa, ma non possono fare ritorno nel loro Paese per il timore di persecuzioni da parte delle autorità di Pechino. Altri, invece, come Khaled Sheikh Mohammed, la mente degli attacchi dell’11 settembre 2001, con tutta probabilità non torneranno mai più in libertà. Il quotidiano sottolinea come le autorità americane consentano ai familiari di fare visita ai detenuti del carcere della base aerea di Bagram, in Afghanistan. Lo stesso avviene per alcuni detenuti del carcere federale di massima sicurezza di Florence, in Colorado, dove si trovano, ad esempio, il mancato attentatore suicida Richard Reid e Ted Kaczynski, alias Unabomber. A seguito di queste visite, si legge nell’editoriale, “a Florence non c’è mai stata un’evasione”. Quindi, “Se le autorità civili addette alla sicurezza del carcere sono in grado di mantenere questo livello di sicurezza al centro del Paese, non c’è alcuna ragione per dubitare che i militari non siano in grado di fare altrettanto in un carcere che si trova su un’isola”. Giappone: due 64enne prosciolti da accusa di omicidio dopo quasi 30 anni di carcere Ansa, 24 maggio 2011 Sono stati prosciolti dall’accusa di omicidio e rapina dopo aver scontato quasi 30 anni di carcere. È accaduto in Giappone, a seguito del nuovo processo presso il tribunale distrettuale di Tsuchiura, nella prefettura di Ibaraki, che ha emesso un verdetto di non colpevolezza a favore di Shoji Sakurai e Takao Sugiyama, entrambi di 64 anni. I due, in un primo momento, erano stati riconosciuti autori e colpevoli di un episodio avvenuto nella città di Tone (sempre nella stessa prefettura) di una rapina e di un omicidio avvenuti nel 1967, nel quale era rimasto ucciso un operaio di 62 anni. La corte, all’epoca, non aveva avuto alcun dubbio decidendo nel 1970 di comminare il carcere a vita, trasformato nel 1996 in libertà vigilata, fino alla definitiva assoluzione piena. Secondo il giudice che ha emesso il verdetto di non colpevolezza, Daisuke Kanda, “non esistono prove oggettive” che leghino i due ex imputati al crimine del 1967, i cui testimoni oculari, oltretutto, hanno mostrato “scarsa credibilità” nelle affermazioni rese. Takao Sugiyama, dalla sua abitazione di Kawasaki, alle porte di Tokyo, ha dichiarato di non essere soddisfatto della semplice sentenza di non colpevolezza, sperando invece che la Corte si soffermasse sulle azioni intraprese dall’accusa per nascondere le prove a suo favore, possibilmente in grado di portare fin da subito al proscioglimento. Durante le udienze del nuovo processo, il collegio difensivo ha fatto ascoltare i nastri degli interrogatori fatti all’altro ex imputato, Shoji Sakurai, sollevando l’ipotesi di tagli alle registrazioni e della volontà di ottenere dall’uomo una confessione forzata. Il caso è il settimo nella storia del Giappone del dopoguerra che vede il proscioglimento degli imputati in un nuovo processo, a seguito di una condanna passata in giudicato con la pena di morte o dell’ergastolo. L’ultimo episodio eclatante di questo tipo risale a due anni fa, quando un uomo, Toshikazu Sugaya, fu prosciolto dall’accusa di aver ucciso e violentato una bambina nel 1960, dopo aver passato 17 anni in prigione a seguito di una confessione forzata e di prove risultate poi inconsistenti: Sugaya, presente oggi in aula per la sentenza di Sakurai e Sugiyama, ha detto di voler collaborare insieme ai due prosciolti per impedire nuovi casi di ‘malagiustizià. Siria: rilasciato dopo 5 anni di carcere avvocato e attivista dei diritti umani Associated Press, 24 maggio 2011 Un importante avvocato e attivista siriano dei diritti umani, Anwar al-Bunni, è stato rilasciato dal carcere dopo aver scontato una pena di cinque anni. L’uomo era stato condannato nel 2007 per aver diffuso notizie false che avrebbero potuto indebolire i principi morali della nazione. In un’intervista ad Associated Press, al-Bunni ha detto che nonostante il suo rilascio, “la libertà rimarrà incompleta fino a quando non includerà tutti i detenuti”. Sono a centinaia se non migliaia gli attivisti politici che si trovano nelle carceri siriane.