Parla Marina, mamma di una giovane detenuta Il Mattino di Padova, 23 maggio 2011 Il carcere visto dalla parte delle famiglie dei detenuti Sono la mamma di Giulia, una giovane donna detenuta, con una condanna di 20 anni di carcere per omicidio. Da 5 anni sono una delle numerose persone che ogni settimana varcano la soglia di un carcere, una persona che ha avuto la forza di restare accanto ad una figlia “a qualunque costo”, che ha avuto la costanza e la possibilità economica di affrontare viaggi per raggiungerla in città a volte molto lontane. Io e la mia famiglia non siamo mai comparsi in pubblico, non abbiamo mai rilasciato interviste o partecipato a programmi televisivi. Nell’immaginario collettivo la famiglia del carcerato è brutta, cattiva, ignorante, incapace di dare un’educazione e di amare, magari con una madre prostituta od un padre alcolizzato, in ogni caso si pensa spesso che il “cattivo” faccia parte di una famiglia “difficile”. Ma in questi lunghi anni, quando sono in attesa di incontrare mia figlia, mi guardo intorno e vedo sempre più spesso madri e padri “normali”, di figli “normali”, provenienti da famiglie “normali”. L’arresto di una persona cara e i sentimenti di confusione, ansia, paura Dal giorno dell’arresto di Giulia molte cose sono cambiate non solo nella sua vita ma anche in quella mia e di mio marito, delle nostre famiglie e delle persone a noi vicine. Abbiamo dovuto imparare a convivere ed a dominare sentimenti forti e dolorosi: ansia, paura, preoccupazione, rabbia, sconforto, senso di impotenza. La mente, in quei momenti, è come avvolta dalla nebbia e vi sono decisioni che si prendono in modo “istintivo”. La prima è stata quella di rimanere accanto a nostra figlia qualunque cosa fosse successa, qualunque cosa avesse commesso perché il nostro amore per lei non era e non è mutato. La seconda è stata quella di non cambiare, nel limite del possibile, la nostra vita, le nostre abitudini, i nostri ritmi. Di non lasciarsi, insomma, travolgere e stravolgere da questo enorme fiume in piena. La nostra è stata una famiglia fortunata perché ha retto ed è rimasta tutta accanto a Giulia. In questi anni ho avuto modo di conoscere numerosissime famiglie, anche le più famose, e mi sono resa conto che per tutti l’arresto di una persona cara, in modo particolare un figlio, è un evento estremamente traumatico: ho visto genitori separarsi, ammalarsi, morire. Perché per un genitore è estremamente difficile accettare che la propria creatura abbia commesso un reato, soprattutto se grave, e si rischia di fare enormi errori: rifiutare la realtà, cercare attenuanti, rifiutare il figlio… Si provano confusi e forti sentimenti e, tra gli altri, quello che forse è l’unico che ci accomuna ai parenti della vittima: i sensi di colpa. Ovviamente diversi, ma in ogni caso pesantissimi. Come in generale capita a tutte le persone coinvolte in un atto illegale, ed ancor più in un caso di cronaca nera, Giulia è subito diventata protagonista di due processi: quello nelle aule del Tribunale e quello mediatico, processo quest’ultimo che a parole tutti condannano ma al quale, di fatto, tutti si interessano. Noi abbiamo scelto di non esternare pubblicamente i nostri sentimenti e le nostre convinzioni. Abbiamo dunque scelto il silenzio, fin dall’inizio, nonostante crescesse in noi il sospetto di trovarci di fronte ad atteggiamenti di pregiudizio e di accanimento nei confronti di nostra figlia. Taciuto anche quando venivano dette o pubblicate illazioni e falsità tali da superare il limite della decenza. Il nostro fine è sempre stato quello di aspettare la verità e di non intralciare il lavoro di chi indagava con inutili polveroni e battibecchi mediatici. Abbiamo conservato tutto però: parole ed immagini di tutte le persone che hanno rilasciato dichiarazioni e, leggendole ora, con più serenità, ci siamo resi conto di come molte hanno utilizzato i mezzi di comunicazione per soddisfare la propria sete di protagonismo e non per raccontare la verità. E il non saper riconoscere la differenza, o l’aver voluto far finta di nulla, è una colpa che ai mass media non perdoniamo. La grande difficoltà è mantenere l’obiettività di giudizio e credere nella Giustizia L’opinione pubblica, il giudizio della gente sono senz’altro ciò che spingono spesso le famiglie degli accusati ad isolarsi, a nascondersi, perché si incomincia subito a notare l’imbarazzo, lo schierarsi tra “innocentisti” e “colpevolisti”. Anche in questo caso io e mio marito siamo stati fortunati, perché la vicinanza e la solidarietà delle nostre famiglie e quella che moltissime persone ci hanno dimostrato, al di là della loro convinzione sulla innocenza o colpevolezza di Giulia, ci hanno infatti permesso di andare avanti, continuando il più possibile la vita di sempre e progettando il futuro. Questa dolorosa esperienza ci ha comunque cambiati. Ora è come se avessimo tra le mani un grande setaccio attraverso il quale, ogni giorno, filtriamo persone ed eventi: tutto ciò che è piccolo, insignificante, superfluo scivola via e restano solo le persone e le cose grandi ed importati. Ognuno di noi poi è abituato a commentare gli eventi di cronaca nera, ad esprimere giudizi, ad immaginare soluzioni, ma quando si entra in contatto con la Giustizia in modo cosi emotivamente coinvolgente le prospettive cambiano ed è estremamente difficile mantenere equilibrio ed obbiettività. Spesso, infatti, il nostro istinto ci fa pensare che la Giustizia sbaglia o sia esagerata quando condanna un nostro caro e sia giusta quando lo assolve od è “morbida”. Personalmente sono convinta di una cosa: la Giustizia umana non sarà mai in grado di arrivare alla totale verità perché questa è conosciuta soltanto dai protagonisti. Dunque non chiedo a chi indaga ed ai giudici di essere assolutamente giusti. Pretendo però che sappiano liberare la loro mente dalle facili soluzioni, dalle superficiali impressioni, dai “sentito dire” non verificati, dai propri pregiudizi e dalle proprie aspettative personali, in modo da arrivare alla più realistica, obbiettiva, ragionevole ed umana conclusione. Sono convinta che solo così i parenti delle vittime e dei colpevoli, possono continuare a credere nella Giustizia ed accettare la sentenza. E solo così i colpevoli possono arrivare a quella serenità che permetterà loro di affrontare la detenzione come una conseguenza giusta del loro comportamento, durante la quale prendere coscienza degli errori fatti. Il carcere: un grande “contenitore” Sono entrata in molti carceri in questi anni ed ognuno è un pò un mondo a sé. È vero che esistono regole comuni (il numero di ore mensili di colloquio o di “pacchi” che si possono consegnare al detenuto, ad esempio…) ma nella realtà ogni volta si devono imparare regole e percorsi nuovi. Differenti sono anche le strutture, il rapporto con il personale, il modo di affrontare i problemi più importanti: la salute, le attività educative, la scuola, il lavoro… Potrei raccontare tantissimi aneddoti ma preferisco riassumere in una frase la mia impressione: fatte salve rare eccezioni, il carcere è un enorme “contenitore” con pochissimi strumenti, umani e materiali, a disposizione ed un enorme contributo, tra mille difficoltà, di coloro che vi operano come volontari. Durante un colloquio, mia figlia mi ha detto che la carcerazione “fa uscire la parte peggiore di una persona…”. Credo che abbia individuato uno dei principali problemi, perché fino a quando i detenuti si sentiranno “cattivi ed arrabbiati” e vivranno in condizioni disagiate (penso al sovraffollamento, alle disastrose condizioni delle strutture, ai problemi economici che frenano le attività…), sarà facile per loro assumere un ruolo di “vittime”, sensazione che troppo spesso le famiglie avvallano. Questo vuol dire che il carcere non riesce, se non raramente, a raggiungere il suo principale obiettivo: restituire alla società una persona migliore, consapevole del proprio errore e fiduciosa nel proprio futuro. Mi permetto di concludere con un pensiero inerente il mio caso personale: io sono la madre “fortunata” perché posso ancora abbracciare mia figlia e pensare ad un futuro per lei. (L’intervento di Marina è stato fatto nel corso della Giornata di studi “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi”, il 20 maggio scorso nella Casa di reclusione di Padova) Giustizia: migliaia di detenuti e oltre 500 loro familiari in sciopero della fame per amnistia Notizie Radicali, 23 maggio 2011 “Aderisco per la giustizia sostanziale, perché la giustizia formale ha fallito”, ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone (Associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale) che in questi giorni festeggia i vent’anni di attività, annunciando ai microfoni di Radio Radicale l’adesione all’iniziativa di Marco Pannella, giunto oggi al 33 esimo giorno di digiuno affinché venga varato un provvedimento di amnistia. “68 mila detenuti ristretti in 44 mila posti letto, condizioni di vita intollerabili per un paese democratico, internamento di massa di persone che non sono socialmente pericolose. Di fronte a tutto ciò è necessario un atto di giustizia sostanziale, per questo è importante lo sciopero della fame di Pannella ed è importante che vi sia adesione da parte dei detenuti e di chi come noi da vent’anni ripropone e sostiene con forza le sue stesse argomentazioni. Insieme potremo forse rompere l’omertà mediatica che ci opprime e quell'indifferenza politica che impedisce non solo di discutere l’amnistia o un progetto più ampio di riforma del codice, ma anche alcune insignificanti mozioni parlamentari. Amnistia è una parola che deve far ricordare a tutti che nelle galere ci sono persone i cui diritti umani sono profondamente violati”, ha spiegato Gonnella. Ed è sempre più ampia la partecipazione all’iniziativa del leader radicale nelle carceri d’Italia, dove sono ormai migliaia i detenuti in sciopero della fame. In queste ore hanno aderito gli istituti di Brindisi e dell’Ucciardone, mentre si continua a digiunare a Regina Coeli, Rebibbia, Rieti, Fuorni, Poggioreale, Catania Piazza Lanza, Sassari San Sabastiano, Agrigento, Cagliari Buon Cammino, Vercelli, Velletri, Milano Opera e San Vittore, Imperia, Ancona, Prato, Ariano Irpino, Venezia, Alessandria, Lanciano, Lucca, Marassi e Santa Maria Capua Vetere. Oltre cinquecento sono invece le adesioni tra i familiari dei detenuti, che si sono così uniti alla lotta di Marco Pannella e dei loro cari, per porre fine allo stato di illegalità delle carceri italiane. Carceri italiane, detenuti in sciopero: digiunare per cambiare! Marco Pannella digiuna da circa un mese, perché l’Italia torni a poter essere in qualche misura considerata una democrazia, ma soprattutto per la situazione disumana delle carceri italiane. E proprio dalle carceri arriva il segnale di reazione più forte a questa nuova lotta nonviolenta: detenuti e familiari, ma anche agenti di custodia e direttori degli istituti di detenzione, a centinaia in tutta la penisola, hanno iniziato a loro volta scioperi della fame perché finalmente si trovi via d’uscita ad una situazione divenuta insostenibile. Non solo messaggi di solidarietà, ma adesioni concrete e condivisione di un metodo. Obiettivo comune e dichiarato è che venga finalmente varato un provvedimento di amnistia, che nel nostro paese manca da oltre 20 anni, unica strada percorribile per un sistema da tempo al collasso, sovraccarico al 150% della propria capacità massima. Una notizia che non fa notizia, ma che dovrebbe, soprattutto ora che le carceri compaiono sulle cronache dei giornali solo perché la maggioranza ha subito quattro sconfitte consecutive alla Camera sugli emendamenti presentati dalle opposizioni. La radicale Rita Bernardini ha tempestivamente commentato: “A cosa serve discutere e votare le mozioni, se quelle approvate oltre un anno fa, nel gennaio del 2010 e che impegnavano l’esecutivo ad affrontare con misure tempestive e strutturali l’emergenza carcere, non sono state in alcun modo attuate dal Governo, né dal Parlamento?”. Come Radicali continuiamo ad attivare quante più iniziative possibili per riportare i riflettori su questo problema. Non ultimo il siti - in e la veglia che domenica 15 maggio sono stati organizzati davanti a Regina Coeli, sotto la pioggia battente. Al presidio hanno preso parte circa venti manifestanti che, trascorrendo la notte sotto un gazebo di appena 7,5 metri quadri, hanno voluto simulare la situazione nella quale sono costretti i detenuti delle carceri italiane. Associazione Antigone aderisce a sciopero fame amnistia “Aderisco per la giustizia sostanziale, perché la giustizia formale ha fallito”. Lo ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone che in questi giorni festeggia i vent’anni di attività, annunciando ai microfoni di Radio Radicale l’adesione all’iniziativa di Marco Pannella, giunto oggi al 33 esimo giorno di digiuno, affinché venga varato un provvedimento di amnistia. “Sono 68 mila i detenuti ristretti in 44 mila posti letto - ha aggiunto Gonnella - condizioni di vita intollerabili per un paese democratico, internamento di massa di persone che non sono socialmente pericolose. Di fronte a tutto ciò è necessario un atto di giustizia sostanziale, per questo è importante lo sciopero della fame di Pannella ed è importante che vi sia adesione da parte dei detenuti e di chi come noi da vent’anni ripropone e sostiene con forza le sue stesse argomentazioni. Insieme potremo forse rompere l’omertà mediatica che ci opprime e quell’indifferenza politica che impedisce non solo di discutere l’amnistia o un progetto più ampio di riforma del codice, ma anche alcune insignificanti mozioni parlamentari. Amnistia è una parola che deve far ricordare a tutti che nelle galere ci sono persone i cui diritti umani sono profondamente violati”, ha spiegato Gonnella. Ed è sempre più ampia la partecipazione all’iniziativa del leader Radicale nelle carceri d’Italia, dove sono ormai migliaia i detenuti in sciopero della fame. In queste ore hanno aderito gli istituti di Brindisi e dell’Ucciardone, mentre si continua a digiunare a Regina Coeli, Rebibbia, Rieti, Fuorni, Poggioreale, Catania Piazza Lanza, Sassari San Sabastiano, Agrigento, Cagliari Buon Cammino, Vercelli, Velletri, Milano Opera e San Vittore, Imperia, Ancona, Prato, Ariano Irpino, Venezia, Alessandria, Lanciano, Lucca, Marassi e Santa Maria Capua Vetere. Oltre cinquecento sono invece le adesioni tra i familiari dei detenuti, che si sono così uniti alla lotta di Marco Pannella e dei loro cari, per porre fine allo stato di illegalità delle carceri italiane. Giustizia: Ionta (Dap); il concetto di “capienza regolamentare” va superato www.justicetv.it, 23 maggio 2011 È ancora stato di emergenza nelle carceri italiane. Rimangono ancora tante le criticità da affrontare: il sovraffollamento, la carenza di personale, le strutture fatiscenti. Lo ha puntualizzato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e Commissario straordinario per il piano carceri, Franco Ionta, che ai nostri microfoni, a margine di un incontro organizzato da Antigone, ha parlato dei dettagli del piano carceri, dell’utilizzo delle misure alternative e delle problematiche legate alla capienza regolamentare. “Io ho previsto - ha spiegato Ionta - per questo piano delle carceri un incremento di venti padiglioni e di undici istituti penitenziari. I padiglioni sono delle strutture che comportano una capienza di circa 200 persone e invece gli istituti sono calibrati su 450 persone per ogni struttura. Questo è diciamo la massa di posti detentivi in più che verranno ad essere terminati ma come ho detto più volte io vorrei finalmente superare questa dicotomia della capienza regolamentare e della capienza tollerabile e parlare di una capienza nella sua massima dignità possibile. In questo momento anche questa capienza massima disponibile l’abbiamo sostanzialmente superata ecco il perché dell’emergenza ed ecco il perché degli interventi straordinari”. “Noi abbiamo visto - ha continuato Ionta - un positivo apporto dalla legge sulla detenzione domiciliare per le persone che hanno meno di un anno da scontare. Abbiamo già fatto uscire attraverso l’opera dei magistrati di sorveglianza oltre 2.000 persone in cinque mesi di applicazione. Io penso che questa misura sia una misura saggia che non ha avuto al momento nessuna controindicazione e che ha una sua temporizzazione alla fine del 2013. Mi auguro che questa misura possa essere invece inserita in un sistema di alternatività al carcere”. “Per quel che riguarda la capienza regolamentare, ci dovrebbe essere un sistema di calcolo - ha concluso Ionta - che non è solamente un calcolo aritmetico o semplicemente dei metri quadri ma un calcolo che tenga conto di una persona che deve essere detenuta in una situazione con tutto quello che è il completo della situazione. Non esiste un regolamento che abbia stabilito quanti metri quadri una persona debba godere all’interno di una struttura penitenziaria. Si fa riferimento ad un regolamento che riguarda tutt’altro ambiente che è l’ambiente ospedaliero e dunque è difficile dire qual è la capienza regolamentare”. Giustizia: Berselli (Pdl); rischio di sommosse se non si affronta problema sovraffollamento Dire, 23 maggio 2011 “Se non si affronta seriamente questo problema, a questo sovraffollamento potrebbero subentrare altri fenomeni come le sommosse. Non è un fuoco che cova sotto le ceneri, è una bomba che può scoppiare da un momento all’altro sotto il sedere”. Così Filippo Berselli, coordinatore del Pdl in Emilia - Romagna e presidente della commissione Giustizia al Senato, sul tema delle carceri, su cui oggi pomeriggio si è svolto un convegno organizzato dalla Cisl. Cosa fare per arginare il problema delle carceri che scoppiano? Per Berselli le cose da fare sono tante, a partire dal fatto che servono “più risorse e più agenti”. Poi bisogna risolvere il problema degli stranieri (limitando il loro ingresso), sostiene il senatore, e far diminuire il numero di persone che si trovano in cella in custodia cautelare, magari ridimensionando, per alcuni reati, la sanzione detentiva in sanzione amministrativa e pecuniaria. La presenza massiccia di stranieri (a Bologna sono il 62%) e l’alto numero di detenuti in custodia cautelare, secondo Berselli, sono due “anomalie” delle carceri italiane, su cui occorre intervenire. Come? Per gli stranieri occorre “stringere accordi bilaterali con i paesi di provenienza affinché limitino l’ingresso di clandestini” dice Berselli davanti a una platea di appena 15 spettatori. Infatti, secondo il senatore “gli stranieri che arrivano qui e hanno una casa e un lavoro hanno la stessa possibilità di commettere reati di chiunque altro”. Invece, “quando uno arriva clandestinamente senza casa e senza lavoro, non potete pretendere che si lasci morire all’angolo della strada chiedendo l’elemosina”. Insomma, la probabilità che commetta reati è maggiore, per cui bisogna fare accordi con i paesi di provenienza, perché ne limitino l’arrivo ma anche perché “poi gli stranieri vadano a scontare la pena in patria”. Quanto invece alla questione dei detenuti non definitivi in custodia cautelare (che a Bologna è a quota 67%), per Berselli occorrerebbe “far valere maggiormente la presunzione di innocenza, che in questo paese è quotidianamente calpestata”, dal momento che spesso si utilizza la custodia cautelare come sistema per aggirare la futura e certa prescrizione. Berselli crede sia opportuno, “per alcuni reati meno gravi che non destano allarme sociale, ipotizzare delle sanzioni amministrative e pecuniarie e abrogare quelle penali della detenzione, o per lo meno limitarsi a quella domiciliare”. Tra l’altro “la sanzione pecuniaria può essere spesso molto più dissuasiva di quella penale”, dice Berselli, citando a questo proposito come positivo il nuovo regolamento di Polizia urbana messo a punto a Bologna dal commissario Anna Maria Cancellieri, dove le multe salate la fanno da padrone. Inoltre, secondo il senatore azzurro sarebbe il caso che il Parlamento desse delle “linee direttive alla magistratura per garantire la priorità ai reati più gravi”. Berselli ricorda infine che la legge svuota carceri “non ha svuotato niente ed è stato un fallimento”, basta pensare che in Emilia - Romagna sono usciti in tutto 390 detenuti e a Bologna solo 67. Il senatore, che è d’accordo con i rappresentanti della Cisl circa “la situazione intollerabile” a cui si è arrivati, cita anche le parole che il procuratore capo di Modena, Vito Zincani, ha pronunciato la settimana scorsa dopo una visita al penitenziario modenese parlando di “pene non certe e crudeli”. I nuovi padiglioni di cui è prevista la costruzione? “È bene che li realizzino, per rendere la vita più umana. Conseguentemente, però, bisogna aumentare i numeri della Polizia penitenziaria, che è già carente oggi”, conclude Berselli. Giustizia: intervista a Loic Wacquant; carceri strapiene, ma solo il 3% per reati gravi di Susanna Marietti Il Manifesto, 23 maggio 2011 Gli Stati di oggi, in Europa come al di là dell’oceano, vivono di un paradosso. Sono loro stessi a creare quella marginalità alla quale rispondono con il carcere”. Il sociologo francese Loic Wacquant - l’allievo di Pierre Bourdieu che in libri tradotti in decine di lingue ci ha raccontato la globalizzazione del nuovo senso comune punitivo - ci spiega l’utilizzo del sistema penale nelle nostre democrazie. Venerdì ha aperto lui i lavori della seconda giornata del convegno che Antigone ha organizzato in occasione dei propri venti anni di vita. Nella Sala del Refettorio della camera dei - “non ho mai parlato in una sala così bella”, ci dice mentre scatta fotografie tutto intorno - gli chiediamo perché nelle ultime decadi gli Stati Uniti d’America, dove Wacquant insegna alla University of California di Berkeley, abbiano visto un’esplosione che pare inarrestabile del numero dei detenuti. “Quel che è certo è che tutto ciò c’entra assai poco con il controllo del crimine. Il sistema penale è d’altra parte uno strumento ben poco efficiente in questa direzione. Negli Stati Uniti, ma certo non solo, meno della metà dei reati gravi arriva alle orecchie delle forze di polizia, e quelli che ottengono una sentenza sono tanti meno ancora. Penalmente non si riesce a rispondere a più del 2 o 3 per cento dei crimini seri”. E allora tutta questa espansione dell’uso delle carceri, che anche in Europa sperimentiamo, non produce risultati? Eccome se ne produce. Ma non nella lotta alla criminalità. Sono altre le funzioni che si demandano al sistema penale. Quali? In questo i sociologi si dividono tra chi segue la tradizione marxista sostenendo che la prigione svolga un ruolo materiale di controllo e chi segue la tradizione che si ispira a Durkheim sostenendo che svolga invece un ruolo simbolico. Io credo che per comprendere il sistema delle pene le due tradizioni vadano tenute assieme. Il carcere oggi viene usato sicuramente per eseguire due compiti materiali: quello di piegare la parte reticente della classe lavoratrice, disciplinare il nuovo proletariato alle tendenze del mercato, e quello di togliere dalla circolazione le persone “inutili”, coloro che neanche nel mercato lavorativo del precariato potrebbero entrare: i senza casa, i malati di mente che altrimenti lo Stato dovrebbe preoccuparsi di curare. E quanto al ruolo simbolico? Il carcere serve per riaffermare l’autorità dello Stato. In questo ha una fortissima carica simbolica. Dicono che l’opinione pubblica chiede sicurezza. È per questo che i detenuti aumentano? Sì, certo, ma in realtà è una sicurezza sociale quella di cui c’è davvero bisogno. Le vite sono incerte perché il lavoro è sempre più precario, la povertà aumenta a causa di politiche economiche scellerate e di un welfare ridotto all’osso. A queste nuove forme di povertà le democrazie di oggi rispondono con le prigioni. Non è cambiato niente negli ultimi cinquecento anni. In che senso? La prigione aveva queste stesse funzioni all’inizio della sua storia, nel XVI secolo. Serviva a ripulire le strade. L’istituzione carceraria è nata come risposta a delle forme di povertà. E oggi si risponde allo stesso modo contro i “nuovi poveri”. Cosa dobbiamo fare per interrompere questa crescita nell’uso del carcere? Come possiamo destituirlo dal suo ruolo simbolico e di gestione delle marginalità e restituirgli a pieno titolo la sola lotta al crimine? Innanzitutto evitando di fare quello che si fa oggi, quando le politiche penali vengono modulate momento per momento sull’emozione causata da un singolo episodio di cronaca. Le politiche economiche non rispondono alla chiusura di una singola fabbrica. Perché il sistema penale dovrebbe star dietro a un singolo crimine? Solo perché gli strumenti mediatici gli danno tanto spazio? E poi? E poi bisogna lavorare sulla lunga distanza. Bisogna farsi carico della marginalità. Badate che io non parlo di inclusi e di esclusi, ma di “marginali”. Nessuno sta fuori dal sistema: può starne ai margini, ma sono tutti inclusi. È il sistema stesso che li colloca ai margini. E allora bisogna uscire dal paradosso di cui parlavo prima. Lo Stato deve riaffermare la propria missione economica e sociale e diventare un generatore di autentica sicurezza. Giustizia: da inizio anno 67 detenuti morti, di cui 24 per suicidio, e 337 tentati suicidi Ansa, 23 maggio 2011 Con l’ ex brigatista rosso Luigi Fallico, trovato morto nella sua cella nel carcere di Mammagialla a Viterbo, salgono a 67, dall’inizio dell’anno, i decessi conteggiati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nelle sovraffollate carceri italiane. Del totale, 24 sono suicidi mentre gli altri 43 vengono attribuiti a cause naturali. Passato l’effetto indulto del 2006, i 208 istituti penitenziari italiani sono tornati a riempirsi nuovamente fino ad arrivare, lo scorso 30 aprile, a 67.510 detenuti contro 45.543 posti regolamentari. Una situazione di sofferenza, questa, che si traduce in un peggioramento delle condizioni igienico - sanitarie e in un incremento del numero di morti. Sempre nel 2011, sono stati 337 i tentati suicidi, mentre gli atti di autolesionismo sono arrivati a 1.858, e a questi vanno aggiunte le aggressioni che hanno portato a 1.389 ferimenti e a 508 colluttazioni. In carcere si muore, e sempre di più. In base all’elaborazione dei dati del Dap compiuta da Ristretti Orizzonti, dal 2000 ad oggi Dal 2000 ad oggi sono morti 1.800 detenuti, di cui un terzo (650) per suicidio. E ancora: dal 1990 al 2010 sono stati 1.093 i detenuti che si sono tolti la vita in cella, mentre i tentati suicidi sono stati 15.974, con una frequenza media di 150 casi ogni 10mila detenuti. Il 2010 si è chiuso con 63 casi di suicidio, in lieve flessione rispetto a quelli del 2009 (72), ma comunque superiori alla media del decennio (57 casi l’anno). Se nel caso del brigatista Fallico solo l’autopsia potrà dare certezze sulle cause della morte, non sempre è facile stabilire la volontà suicidaria dei decessi in cella. Alcuni detenuti, ad esempio, utilizzano le bombolette del gas come sostanza stupefacente, oltre che per togliersi la vita. E altrettanto vale per i mix letale di alcuni farmaci assunti da detenuti tossicodipendenti. Giustizia: figli di detenuti; ogni anno sono dai 95 ai 105 mila in Italia, 1 milione nell’Ue Redattore Sociale, 23 maggio 2011 Bambinisenzasbarre pubblica il primo “libro bianco”, condotto dall’unità d’Italia ad oggi, sul carcere e i bambini con genitori detenuti. Il 26 maggio la presentazione. Bambinisenzasbarre, associazione no - profit, apre a Roma la Settimana di Sensibilizzazione Europea, promossa in collaborazione con Eurochips (di cui è membro per l’Italia), con la presentazione in anteprima assoluta dello studioricerca “Quando gli innocenti sono puniti: i figli di genitori detenuti. Un gruppo vulnerabile”. La ricerca, coordinata in Italia da Bambinisenzasbarre, finanziata dall’Unione Europea, è stata diretta dall’Istituto Danese per i Diritti Umani (Dihr), in collaborazione con Eurochips, l’Università Statale Bicocca di Milano e con il Ministero della Giustizia, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. È il primo “libro bianco”, condotto dall’unità d’Italia ad oggi, sul carcere e i bambini con genitori detenuti: ogni anno 95 - 105mila in Italia, circa 1 milione in Europa. Lo studio riporta la storia del sistema penitenziario del nostro Paese e fotografa il rapporto fra i minori, la detenzione dei loro genitori e l’amministrazione penitenziaria con testimonianze, analisi, dati esclusivi e grafici. I risultati, diffusi nella conferenza stampa di Roma del 26 maggio, verranno presentati a Bruxelles a parlamentari europei con le raccomandazioni per il legislatore in tema di diritti dei bambini, figli di genitori detenuti. La conferenza stampa - dibattito vede la partecipazione di Giuliano Amato, Presidente del Comitato per le Celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, di Anna Finocchiaro, Presidente del gruppo Pd al Senato e membro Commissione Giustizia, di Sebastiano Ardita, Consigliere, Direzione Generale Detenuti e trattamento, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Ministero di Giustizia, di Luigi Pagano, Provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, di Mauro Palma, Presidente della Commissione europea per la prevenzione alla tortura e membro del Comitato etico di Bambinisenzasbarre, di Luigi Manconi, Presidente dell’associazione A buon diritto. È stata invitata Mara Carfagna, Ministro per le Pari Opportunità. La pubblicazione di questo studio - ricerca sul carcere e i bambini italiani ed europei apre la Settimana di Sensibilizzazione, che si svolge dal 6 al 12 giugno, contemporaneamente nei 14 paesi membri del network, con eventi, conferenze, mostre e con la campagna di comunicazione “Parliamone!”. Un appuntamento annuale in cui il problema della genitorialità in carcere viene ampiamente dibattuto e presentato alla società civile, come problema che coinvolge l’intera comunità chiamata a tutelare i diritti della sua parte più debole, i bambini, gruppo vulnerabile con particolari bisogni, esposto a possibili disagi psico-affettivi e a rischio di grave esclusione sociale. Giustizia: “Quando hanno aperto la cella”, uomini e diritti uccisi dentro quelle carceri di Sonia Oranges Il Riformista, 23 maggio 2011 Un’opera narrativa, un libro politico, una successione di storie di vita, dolore e morte di chi ha perso prima la libertà e poi la vita. Paradigmatici i casi di Cucchi, Mastrogiovanni, Aldrovandi, Pinelli, Uva. Un saggio per chiedere allo Stato di garantire l’incolumità dei suoi cittadini. Sembra la Spoon river di chi ha perso prima la libertà e poi la vita. Carceri, manicomi giudiziari, centri d’identificazione ed espulsione: in Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri (edito dal Saggiatore con prefazione di Gustavo Zagrebel - sky), il sociologo Luigi Manconi (che presiede l’associazione A Buon Diritto) e la ricercatrice Valentina Calderone raccontano la storia (e lo stato) della democrazia italiana attraverso storie e luoghi di privazione della libertà, da Giuseppe Pinelli a Stefano Cucchi. “In tanti considerano il nostro volume come un’opera narrativa, prima ancora che saggistica - spiega Manconi - Ci pare un effetto positivo perché, in una cornice storica e sociologica, abbiamo inserito una successione di storie di vita, dolore e morte che rappresentano la materia reale che dà un senso al quadro”. Storie di vita, dolore e morte raccontate evidenziando, attraverso una cura certosina della documentazione, la dimensione biografica dei protagonisti: “Sono vicende che rimandano a fenomeni solitamente relegati nelle statistiche o rinchiusi nelle colonne della cronaca nera. In entrambi i casi, i soggetti sono ridotti a una successione di episodi critici e di fatto trasformati in cose, privati di identità e corpo”. Con la scelta di una scrittura narrativa, invece, gli autori si prefiggono di restituire ai protagonisti proprio il corpo e, dunque, l’identità che la morte ha cancellato, lasciandone solamente l’esito tragico, cui nel libro invece fanno da contrappeso la gioia, le speranze, gli affetti e gli amori di queste vittime. “È un libro politico, perché io sono un politico a tempo pieno e intendo la mia ricerca sociologica e il mio impegno culturale sempre nella dimensione dell’iniziativa pubblica e politica - aggiunge Manconi - E anche la coautrice, valente ricercatrice ventisettenne, pur non avendo una storia di militanza politica, condivide questo piano come fondamentale”. Così, partendo dagli istituti, dai luoghi e dalle norme legati alla privazione della libertà individuale, ampliati fino a creare quel circuito integrato che Michel Foucault chiamava del “sorvegliare e punire”, gli autori parlano della democrazia italiana: “Sia ben chiaro, i buoni sentimenti riguardano la sfera individuale di ognuno di noi, mentre lavori come questo o come quello che svolgiamo con A Buon Diritto hanno una finalità pubblica e, dunque, politica”. Ma come sta la democrazia? Manconi suggerisce tre casi, tra i tanti narrati nel volume, a paradigma dello stato dell’arte: Giuseppe Uva, Francesco Mastrogiovanni e Federico Aldo - vrandi: “Uva e Mastrogiovanni sono morti senza che prima gli sia stato imputato alcun reato. Mastrogiovanni, è stato soggetto a trattamento sanitario obbligatorio per un infrazione automobilistica e dopo alcuni atteggiamenti di trasgressione (per rifiutare il Tso è rimasto nel mare del Comune di Pollica per un paio d’ore, ndr). È stato tenuto in un letto di contenzione per 80 ore finché non è morto di edema polmonare. A Uva, invece, hanno comunicato una contravvenzione per aver spostato alcune transenne nel mezzo di una strada di Varese, in stato etilico. La comunicazione è arrivata solamente dopo la sua morte. Anch’egli è stato sottoposto a Tso e gli sono stati somministrati farmaci controindicati al suo stato, che ne hanno causato la morte. Non è solamente il carcere dunque, uno dei luoghi di privazione della libertà, ma anche i Cie, o semplicemente la strada, come nel caso di Federico Aldovrandi che tutti conosciamo”. E ora il sistema del “sorvegliare e punire”, lungi dal tramontare, trova nuove incarnazioni. “Negli ultimi tre mesi la toponomastica e i dizionari dei centri per immigrati e profughi si sono ampliati e diversificati - ricorda Manconi - Si è passati da un ventaglio di nomi corrispondenti a luoghi per definire le sedi dell’accoglienza, che andavano dai Cpt ai Cie, alla totale confusione”. La cesura è stata l’ultima crisi sull’isola di Lampedusa quando i centri si sono moltiplicati con nuove quanto provvisorie e occasionali specificazioni da introdurre per decreto: “Attraverso nuove denominazioni si è definita l’incapacità di una programmazione politica della materia. Con Lampedusa è saltato tutto il sistema e il Governo e il ministro dell’Interno Roberto Maroni hanno perso la testa”. Simbolo di questa disfatta è stato il campo di Manduria che nessuno sapeva cosa fosse in termini di qualificazione amministrativa: “Importava solamente identificare dei luoghi sorvegliati, non sempre sicuri, dove rinchiudere quei cittadini dal destino incerto. Un paradosso per cui i migranti trattenuti in questi luoghi non possono allontanarsi, ma se riescono a fuggire non possono essere sanzionati perché, formalmente, non sono detenuti”. Luoghi nei quali, al contrario che in carcere (che pure si trova ben più in alto nella scala dei luoghi di coercizione), a nessuno è permesso entrare e in cui non vige alcun regolamento: “Ecco dunque crearsi il sistema che si traduce in una successione di interdizioni, veti e divieti che creano un meccanismo esteso e articolato, anche se non immediatamente coercitivo. Vale per i Cie come per il Tso, prima ancora che per i penitenziari”. Un sistema specchio di un’impostazione culturale che viene da lontano. Non a caso, la galleria di Manconi e Calderone si apre con un capitolo dedicato a Giuseppe Pinelli, morto il 15 dicembre 1969, introdotto dalle parole a lui dedicate nel 2009 dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano: “Un nome, un uomo, di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendolo alla rimozione e all’oblio”. Parole che fanno il paio con quelle di un ex inquilino del Quirinale, Oscar Luigi Scalfaro, richiamato nel capitolo dedicato alla morte di Salvatore Marino (2 agosto 1985): “Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia ed è uscito morto”. Segno che, nonostante tutto, nella percezione del “sorvegliare e punire” il tempo ha avuto il suo peso. “Nel ‘69, Napolitano stava dalla parte quasi opposta di Pinelli - sottolinea Manconi - Il Pci riteneva seriamente che Valpreda fosse colpevole e Pinelli non suscitava grande interesse. Eppure, Napolitano nel 2009 ha deciso che dopo 40 anni era giunto il momento di rendergli giustizia. Probabilmente, senza il discorso del Capo dello Stato Pinelli non avrebbe trovato spazio in questo libro. Per la stessa ragione per cui ho voluto citare Scalfaro, l’unico ministro dell’Interno che in 60 anni abbia pronunciato parole simili, riferite alla morte di un sospettato di un omicidio di mafia”. Nel libro, insomma, non si dibatte la modalità della morte di Pinelli (come di Marino), ma la necessità di spiegare le dinamiche di avvenimenti come quelli, per cancellare qualsiasi dubbio in proposito. “È a piazza Fontana che comincia la storia contemporanea del Paese, con gli anni della massima mobilitazione sociale, la volontà di trasformazione e, insieme, con gli arroccamenti istituzionali di fronte alla difficoltà di tradurre la domanda di libertà in riforme. Una spinta straordinaria che ha prodotto anche il terrorismo di sinistra e lo stragismo”. Un passaggio che sul piano della difesa dei diritti ha portato in qualche maniera a un arretramento: “Dal 1972 in poi, gli abusi non si denunciavano più, per timore di fare il gioco dei terroristi. Criticando gli apparati si rischiava di mettere sullo stesso piano Stato e antistato. Da allora a oggi, dunque, è difficile rilevare statisticamente le variazioni nei casi di abuso sui soggetti privati della libertà - spiega ancora Manconi. A mio avviso, però, se c’è stata una riduzione, non è significativa. Semmai c’è una maggiore consapevolezza dei diritti e, dunque, maggiori denunce. Ma non c’è un analogo grado di ascolto da parte delle istituzioni e dei media”. Il j’accuse, però, non è rivolto in maniera generalizzata agli apparati preposti alla funzione di “sorvegliare e punire”: “Siamo riformatori radicali, non antagonisti. Viviamo in uno Stato democratico che è tale ma in cui vi sono ancora manifestazioni autoritarie, spazio per la violazione dei diritti, ambiti dove prevalgono pulsioni antigarantiste. Pretendiamo invece, che lo Stato sia democratico fino in fondo. Uno Stato pienamente legittimato chiede ubbidienza ma garantisce l’incolumità dei suoi cittadini. Ma se lo stato diventa una minaccia per i suoi membri, rischia di non essere più riconosciuto”. Giustizia: processo sulla morte di Cucchi; in udienza odierna audizione di undici testimoni Ansa, 23 maggio 2011 Undici i testimoni citati oggi per la nuova udienza del processo che, davanti alla III Corte d’assise di Roma, si occupa della morte di Stefano Cucchi, il romano di 31 anni fermato il 15 ottobre 2009 nei pressi dell’Appio Claudio mentre stava cedendo sostanza stupefacente e poi morto una settimana dopo nella struttura di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini. Tra coloro i quali è prevista l’audizione ci sono Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, nonché il magistrato e il pm che il giorno dopo l’arresto del giovane furono presenti all’udienza di convalida. Sul banco degli imputati ci sono dodici persone: i sei medici che ebbero in cura il giovane (Aldo Fierro, Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Stefania Corbi, Luigi De Marchis Preite, Rosita Caponetti), tre infermieri (Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe) e tre agenti della polizia penitenziaria (Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici). I reati contestati, a vario titolo e a seconda delle posizioni, vanno dalle lesioni, all’abuso di autorità, al favoreggiamento, all’abbandono di incapace, all’abuso d’ufficio e alla falsità ideologica. Secondo l’accusa, rappresentata dai pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, Stefano Cucchi fu picchiato nelle camere di sicurezza del tribunale in attesa dell’udienza di convalida, caddero nel nulla le sue richieste di farmaci, e in ospedale praticamente fu reso incapace di provvedere a se stesso e lasciato senza assistenza, tanto da portarlo alla morte. Agente: mi disse che lo picchiarono i Carabinieri Quando Stefano Cucchi, dopo la convalida del suo arresto per droga, entrò in carcere a Regina Coeli, disse all’agente dell’ufficio casellario della struttura penitenziaria “che lo avevano arrestato per droga e che era stato menato all’atto dell’arresto”. La prima volta disse “che era stato picchiato dai carabinieri”; in un secondo momento sottolineò solo che “era accaduto all’atto dell’arresto”, senza andare oltre. Lo ha detto l’assistente della polizia penitenziaria Bruno Mastrogiacomo, sentito come testimone al processo per la morte di Cucchi avvenuta una settimana dopo quell’arresto. “Cucchi mi disse - ha aggiunto Mastrogiacomo - che fino a quando, durante il suo arresto, era stato in piedi, era riuscito a parare qualche colpo; poi non più”. L’agente, sollecitato con domande sui tratti somatici e sulle movenze di Cucchi quando lo vide, ha precisato che “era violaceo in viso, tumefatto, rossastro sotto gli occhi, ma non so dire se erano lividi. Tant’è che mi venne spontaneo chiedergli Ma hai fatto un frontale con un treno?. Poi, aveva un segno rosso all’altezza dell’osso sacro. Camminava a fatica, trascinava un po’ la gamba e non poteva stare seduto”. Un’altra frase di Cucchi è rimasta impressa alle forze dell’ordine. Portato con urgenza al pronto soccorso del Fatebenefratelli due giorni dopo l’arresto, nel lamentarsi per dolori alla schiena, disse all’agente Mauro Cantone: “I servitori dello Stato mi hanno fatto questo. Lo dirò al mio avvocato”. Dal Fatebenefratelli fu poi portato al reparto detenuti del Pertini. E, secondo Cantone, lì, all’agente della penitenziaria che lo accolse, Cucchi disse “Accetto il ricovero, accetto tutto; basta che mi fate parlare con il mio avvocato”. Sorella: Stefano scrisse lettera, fu spedita dopo sua morte Stefano Cucchi, la sera prima della sua morte, scrisse una lettera indirizzata a un operatore della Comunità per tossicodipendenti che frequentava. Ma quella lettera fu spedita due giorni dopo la morte. La circostanza è stata confermata oggi in aula da Ilaria Cucchi, nel corso della sua testimonianza. “Caro Francesco - si legge nella lettera datata 20 ottobre 2009 - sono al Pertini in stato di arresto. Scusami se ora sono di poche parole, ma sono giù di morale e posso muovermi poco. Volevo sapere se potevi fare qualcosa per me. Adesso ti saluto a te e agli altri operatori. Ciao. Stefano Cucchi. Ps: per favore almeno rispondimi. A presto”. Ilaria Cucchi ha raccontato in aula le difficoltà a ricevere e leggere le parole del fratello. “Dagli atti dell’inchiesta del Dap - ha detto - abbiamo saputo che una Sovrintendente della polizia penitenziaria aveva detto che la sera prima della sua morte aveva visto Stefano scrivere una lettera. Ma nella scatola dei suoi effetti personali, che con difficoltà riuscimmo ad avere, quella lettera non c’era. Credevo ci fossero scritte parole indirizzate a me; successivamente fummo contattati dalla Comunità che l’aveva ricevuta. Scoprimmo che era stata spedita due giorni dopo la morte di Stefano”. Lettere: quel detenuto meritava una morte più dignitosa di Raimondo Pistoia Il Tirreno, 23 maggio 2011 Un detenuto del carcere Don Bosco, malato terminale, dopo il ricovero presso il nostro ospedale è stato letteralmente rispedito nel carcere, dove è deceduto due giorni dopo. Come cittadino di questa nostra società, sempre meno comprensibile, mi pongo alcune domande: 1) i carcerati, non sono forse delle persone e in quanto tali devono essere trattati? Per questo “poveretto” deceduto in carcere, v’è stato questo trattamento?; 2) Pisa è come sappiamo ai vertici nazionali se non europei del trattamento dei malati terminali, le famiglie che hanno avuto rapporti con l’Hospice di via Garibaldi, lo sanno benissimo, mi domando allora: perché questo signore non lo abbiamo mandato presso queste cliniche, anziché rimandarlo in carcere magari a morire fra i dolori? Grazie per le risposte. Quando si calpesta la dignità umana, da “Zone del silenzio - Pisa” Le speranze di vita per il detenuto Mario Santini di 61 anni, erano ridotte al lumicino, malato terminale è stato mandato dall’ospedale al Carcere dove è spirato due ore dopo. Protocolli sanitari a parte, lo hanno mandato a morire dietro le sbarre nonostante la incompatibilità del paziente (per le sue gravi condizioni di salute) col regime detentivo. La magistratura di sorveglianza, timorosa di scontentare potere politico e lobbyes mediatiche, è tra i responsabili principali del trattamento disumano e degradante riservato ai detenuti costretti a vivere, e a morire, nel grigiore di ferro, cemento e sovraffollamento degli istituti di pena. Ci chiediamo allora perché trasportare un detenuto in carcere quando aveva solo poche ore di vita e se lo stesso trattamento sarebbe stato riservato ad un malato terminale non detenuto. Esistono due pesi e due misure diverse, un non detenuto sarebbe stato giustamente ricoverato nella struttura sanitaria più idonea. Allora ci chiediamo perché un detenuto oggi non abbia gli stessi diritti di altri cittadini e per quale ragione il carcere sia una discarica sociale dentro cui sono sospesi diritti, principi elementari come quello della salute e della stessa dignità umana. Nelle carceri italiane c’è una situazione drammatica che non ha niente da invidiare ai carceri dei paesi dittatoriali. Una vergogna da contrastare con tutte le nostre forze. Del resto, il trattamento riservato ai carcerati e ai migranti rappresenta un ammonimento per chi sta fuori, per chi dissente, per chi si oppone e si ribella. Oggi ai detenuti, domani a tutti gli altri? Lettere: un detenuto vive in tre metri quadrati… serve aggiungere altro?!? di Daniele Carcea (Radicali Italiani) Il Tirreno, 23 maggio 2011 Quando uno esce da una visita ispettiva dal carcere livornese delle “Sughere” la prima considerazione che fa, è: “strano che non ci siano rivolte, sommosse disordini”. Quindi la notizia di una protesta basata sullo sciopero della fame, di alcuni detenuti non può affatto meravigliare. Il carcere di Livorno non è però diverso dalla maggioranza degli altri istituti italiani, dove il sovraffollamento è il comune denominatore; nel nostro Paese ci sono 70 mila detenuti a fronte di una capienza, che garantisca condizioni minime di vivibilità, della metà di posti. A Livorno abbiamo i detenuti di bassa e media pericolosità rinchiusi in tre, in celle di 9 metri quadri, con letti a castello e un minuscolo bagno per fare i propri bisogni, mentre le stanze più grandi dai 12 ai 15 mq. “ospitano” 5 detenuti. Solo questo dettaglio fa comprendere quanto le condizioni carcerarie di vita, sono da considerare senza ombra di dubbio inumane. Se poi si aggiunge il fatto che ci sono poche docce fuori dalle celle, piene di umidità e fatiscenti, pochi spazi in cui socializzare, scarsa se non nessuna possibilità di lavorare e occupare in maniera costruttiva il proprio tempo, carenza di un numero adeguato di guardie penitenziarie, a causa dei continui tagli imposti dal contenimento della spesa pubblica nazionale, il quadro diventa ancora più drammatico. Lazio: oggi Consiglio regionale del Sappe; serve una nuova politica carceraria Comunicato stampa, 23 maggio 2011 “Le criticità penitenziarie del Lazio si chiamano sovraffollamento e carenza di Personale di Polizia: alla data del 30 aprile c’erano infatti nelle 14 carceri laziali 6.587 detenuti rispetto ai circa 4.800 posti letto regolamentari. E negli organici dei Reparti di Polizia Penitenziaria di tutta la Regione mancano complessivamente più di 1.000 Baschi Azzurri. Non a caso la corale ed unitaria protesta dei Sindacati concentra su questi due significativi criticità il disagio ed il malessere che si respira nelle carceri laziali. La mia presenza ai lavori del Consiglio del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, rappresentante del Sindacato, vuole concretamente dimostrare l’attenzione che la Segreteria Generale del Sappe ha per il Lazio”. Lo dichiara Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, che questa mattina presiede a Roma il Consiglio regionale del Lazio. Ad esso, oltre ai componenti la Segreteria Generale del Sindacato, vi partecipano il Segretario nazionale Sappe per il Lazio Maurizio Somma, i rappresentanti ed i delegati sindacali delle 14 carceri della Regione e degli Uffici ministeriali e dipartimentali. Commosso il ricordo di Giuseppe Ledda, ispettore di 43 anni in servizio a Viterbo e valente segretario del direttivo provinciale del Sappe, che domenica scorsa si è suicidato mentre era in servizio: “Una tragedia immane”, ricorda Capece. “Serve una politica della pena nuova: poco o nulla ha inciso la legge sulla detenzione domiciliare sul sovraffollamento costante del Lazio: a 5 mesi dall’approvazione della legge, ne hanno beneficiato solamente 215 detenuti dei 14 penitenziari regionali. Gli eventi critici del 2010 dimostrano chiaramente che “aria tira” nelle carceri nazionali: 352 atti di autolesionismo e 116 tentativi di suicidio. Le morti per cause naturali in carcere sono state 7 mentre 4 sono i detenuti che in cella si sono tolti la vita. 191 sono stati i detenuti che hanno posto in essere ferimenti. Le manifestazioni di protesta hanno visto 454 detenuti fare nel corso dell’anno lo sciopero della fame, 232 hanno rifiutato il vito o le terapie mediche, 117 detenuti sono stati coinvolti in proteste violente con danneggiamento o incendio di beni dell’Amministrazione penitenziaria. 3 sono state le evasioni da penitenziari, delle quali 2 a seguito di mancato rientro in carcere dopo aver fruito di permessi di permessi premio e 1 dalla semilibertà. Capitolo a parte, infine, lo hanno le manifestazioni di protesta collettive sulla situazione di sovraffollamento delle carceri e sulle critiche condizioni intramurarie che si sono tenute nel 2010: 5 le proteste collettive che si sono tenute nei 14 penitenziari del Lazio, proteste che si sono concretizzate in scioperi della fame, rifiuto del vitto dell’Amministrazione e soprattutto nella percussione rumorosa dei cancelli e delle inferriate delle celle (la cosiddetta battitura). Fino ad oggi la drammatica situazione è stata contenuta principalmente grazie al senso di responsabilità, allo spirito di sacrificio ed alla grande professionalità del Corpo di Polizia Penitenziaria, Corpo di Polizia dello Stato che lamenta nel Lazio gravissime carenze di organico quantificate in oltre mille unità. Ma è evidente che bisogna intervenire, e con urgenza, sulle criticità penitenziari regionali”. Viterbo: detenuto di 57 anni muore per infarto; nell’istituto è il terzo decesso in un mese Ansa, 23 maggio 2011 Tre detenuti deceduti nell’arco di un mese nel carcere di Viterbo. È stato trovato senza vita nella sua cella del carcere “Mammagialla” dagli agenti di polizia penitenziaria stroncato, forse, da un malore, l’ex brigatista rosso Luigi Fallico, 57 anni. A quanto appreso dal Garante dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni Fallico era in attesa di giudizio, accusato di banda armata finalizzata all’associazione sovversiva nell’ambito dell’inchiesta sulle Nuove Brigate Rosse. Arrestato l’11 giugno 2009 ed assegnato al carcere di Catanzaro, il 14 settembre 2010 era stato trasferito a Viterbo perché il processo a suo carico si stava celebrando presso la Corte d’Assise di Roma. Giovedì scorso 19 maggio Fallico, sofferente di problemi cardiaci ed ipertensione, aveva accusato un dolore al petto ed era stato visitato in infermeria, dove gli erano state somministrate una tachipirina ed un farmaco dilatatore delle coronarie. Sulla morte di Fallico il Garante ha rilevato come quella di oggi sia la terza morte in un mese registrata nel carcere di Viterbo. Il 18 aprile scorso a morire era stato un senegalese di 30 anni, Dioune Sergigme Shoiibou che poco prima di essere arrestato era stato operato alla testa per asportare un ematoma dal cervello e, per questo, era in cella pur essendo privo di parte della calotta cranica. Domenica 15 maggio, invece, un agente di polizia penitenziaria 42enne si era tolto la vita sparandosi nello spogliatoio del carcere poco prima di prendere servizio. “Tre decessi in un mese nel carcere di Viterbo sono una media altissima che ci preoccupa molto - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - perché sono avvenuti nonostante l’impegno della direzione, degli agenti di polizia penitenziaria e delle altre professionalità che lavorano in quella struttura. Ognuno di questi decessi è una storia diversa con, però, una matrice comune: quella di poter essere attribuito al sovraffollamento e alle drammatiche condizioni di vita negli istituti”. Sappe: l’80% dei detenuti ha problemi di salute, servono circuiti differenziati “La notizia della morte per infarto di un detenuto italiano in attesa di giudizio nel carcere di Viterbo, accusato di banda armata finalizzata all’associazione sovversiva nell’ambito dell’inchiesta sulle Nuove Brigate Rosse, intristisce tutti, specie coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità. Proprio a Viterbo, peraltro, i nostri Baschi Azzurri piangono il recente suicidio, domenica scorsa, di un collega benvoluto da tutti, l’ispettore Giuseppe Ledda. Molto probabilmente, nel caso del decesso di Luigi Fallico, 57 anni, coinvolto nel processo alle Nuove Brigate Rosse, si è trattato di un infarto poiché lo stesso era sofferente di problemi cardiaci ed ipertensione. Una prima soluzione al pesante sovraffollamento penitenziario può essere la concreta definizione dei circuiti penitenziari differenziati e, in questo contesto, la costruzione di carceri per così dire leggere per i detenuti in attesa di giudizio o con gravi disabilità destinando le carceri tradizionali a quelli con una sentenza definitiva da scontare. Secondo i dati recentemente diffusi, è infatti emerso che l’80% dei circa68 mila detenuti oggi in carcere in Italia ha problemi di salute, più o meno gravi. Il 38% versa in condizioni mediocri, il 37% in condizioni scadenti, il 4% ha problemi di salute gravi e solo il 20% è sano. Un detenuto su tre è tossicodipendente. Del 30% dei detenuti che si è sottoposto al test Hiv, il 4% è risultato positivo. E ancora, il 16% soffre di depressione o altri disturbi psichici, il 15% ha problemi di masticazione, il 13% soffre di malattie osteoarticolari, l’11% di malattie epatiche, il 9% di disturbi gastrointestinali. Circa il 7% è infine portatore di malattie infettive. Tutto questo va ad aggravare le già pesanti condizioni lavorative delle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, oggi sotto organico di ben 6mila unità. Forse è il caso di ripensare il carcere proprio prevedendo un circuito penitenziario differenziato per queste tipologie di detenuti”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, il più rappresentativo della Categoria, in relazione alla morte nel carcere di Viterbo di un detenuto. Capece, che proprio questa mattina a Roma ha presieduto il Consiglio Regionale Sappe del Lazio, sottolinea che “a Viterbo mancano ben 208 agenti di Polizia Penitenziaria (dovrebbero essere 540, ve ne sono in forza 332) mentre i detenuti sono costantemente oltre la capienza regolamentare: 730 i presenti a fronte di 444 posti letto regolamentari. E gli eventi critici in carcere sono notevoli: nel 2010 a Viterbo si sono contati 63 episodi di autolesionismo e 15 tentativi di suicidio sventati dal tempestivo intervento dei nostri Agenti di Polizia Penitenziaria, il decesso di un detenuto per cause naturali e 120 episodi di sciopero della fame. Da questi dati emerge una volta di più quali e quanti sacrifici affrontano ogni giorno le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria per garantire vigilanza e sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti di pena liguri partecipando nel contempo alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti. Rinnoviamo dunque il nostro appello ai vertici del Ministero della Giustizia e del Dap affinché si intervenga concretamente sulle criticità penitenziarie, anche incrementando concretamente gli organici dei Baschi Azzurri in servizio a Viterbo”. Brindisi: Nessuno Tocchi Caino; da stamattina 194 detenuti in sciopero della fame Ansa, 23 maggio 2011 Da stamattina 194 detenuti del carcere di Brindisi sono in sciopero della fame a sostegno della iniziativa di Marco Pannella che digiuna da oltre un mese perché “l’Italia torni a poter essere in qualche misura considerata una democrazia, ma soprattutto per la situazione disumana delle carceri italiane”. Ne dà notizia il segretario dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”, Sergio D’Elia, secondo il quale “obiettivo comune e dichiarato è che venga finalmente varato un provvedimento di amnistia, che nel nostro Paese manca da oltre 20 anni, unica strada percorribile per un sistema da tempo al collasso, sovraccarico al 150% della propria capacità massima”. “L’adesione allo sciopero di tutti i detenuti brindisini, eccetto due che per motivi di salute non hanno potuto interrompere l’alimentazione”, è stata comunicata a D’Elia dall’Associazione Famiglie Fratelli Ristretti, costituita un anno fa a Brindisi proprio per promuovere e difendere i diritti dei detenuti. “Il carcere di Brindisi - afferma D’Elia - è tra i più sopportabili dell’universo penitenziario pugliese che complessivamente è però ai primi posti nella triste classifica nazionale del sovraffollamento”. “La lotta non violenta dei detenuti di via Appia - sostiene - solleva quindi un problema più generale delle carceri pugliesi e non solo e, ne sono certo, si svolgerà nel modo più pacifico e meno gravoso per gli operatori penitenziari anche loro vittime della stessa emergenza umanitaria che affligge le carceri”. “La cosa grave - conclude - è che nessuno, eccetto i Radicali, pare preoccuparsi del fatto che in Italia si contano sulle dita di una mano i Garanti regionali delle persone private della libertà. Neanche la Puglia di Nichi Vendola, con il suo infelice primato di sovraffollamento e morti in carcere, ha il suo Garante, nonostante siano passati ormai cinque anni dalla legge istitutiva”. Catanzaro: Uil-Pa; il carcere è inadeguato e sovraffollato, rapporto inviato al Dap Agi, 23 maggio 2011 La relazione è stata inoltrata al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal segretario generale della Uil Pa penitenziari, Eugenio Sarno. Il segretario generale della Uil Pa penitenziari, Eugenio Sarno, ha inoltrato ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) e del provveditorato Regionale (Prap) una relazione sugli esiti della visita effettuata nel carcere di Catanzaro il 18 maggio scorso. “Il penitenziario - scrive Sarno - sorge nel circondario cittadino, collocato in una conca che amplia gli effetti delle condizioni climatiche, in special modo nelle stagioni estive. Edificato negli anni ‘80, è collocabile nel novero delle cc.dd. “carceri d’oro” e presenta tutte le criticità strutturali già riscontrate in analoghi plessi penitenziari. Il primo impatto con la struttura (anche da distanza notevole) - sostiene - è molto negativo in quanto è possibile scorgere gli inequivocabili segni del degrado, dovuti allo scorrere del tempo ed alla mancata manutenzione del fabbricato per l’insufficienza delle risorse economiche. Il block - House ( a suo tempo realizzato in economia) - scrive - offre immediatamente uno spaccato delle condizioni che la delegazione visitante riscontrerà in quasi tutti gli ambienti : inadeguatezza , insalubrità, spazi ridotti e assenza di servizi igienici. La portineria non appare adeguata (per spazi ed arredi). Come in molti altre strutture il passaggio pedonale della portineria per l’accesso all’istituto condivide spazi in comune con la porta carraia. Pertanto il transito degli automezzi e la mancanza degli impianti di aspirazione espone gli operatori penitenziari e tutti coloro che accedono all’interno ai rischi derivanti dall’inspirazione, in alta concentrazione, dei gas di scarico e delle polveri sottili. Singolarmente ( ed in barba ad ogni procedura di sicurezza) nella stessa porta carraia, senza alcuna delimitazione, transitano e sostano anche i familiari dei detenuti che si recano a colloquio. Appena giunti in prossimità delle aree detentive - fa rilevare - l’attenzione è attratta sull’inadatta recinzione, quasi di fortuna, realizzata per delimitare il cantiere dov’ è in costruzione un nuovo padiglione. Facilmente superabile, rappresenta un serio rischio per l’incolumità per indebiti avventori. Tra l’altro la sua inconsistenza abbatte notevolmente i livelli di sicurezza e , come recentemente accaduto in altra sede, potrebbe favorire tentativi di evasione. Gli uffici destinati alle varie attività istituzionali e gestionali (matricola, ufficio comando, conti correnti, ecc.) - prosegue - sono allocati in spazi originariamente destinati alla detenzione (celle), tant’è che le porte di tali uffici non sono altro che i cancelli “blindati” con tanto di spioncino. L’ufficio smistamento posta dei detenuti è destinato (impropriamente) anche ad archivio cartaceo”. Treviso: Carabiniere sotto processo, accusato di aver pestato un detenuto in cella sicurezza La Tribuna, 23 maggio 2011 Carabiniere nei guai, con l’accusa di aver picchiato un giovane detenuto in cella di sicurezza causandogli un danno permanente alla vista. La Procura ha chiesto il processo per lesioni e danneggiamento nei confronti del brigadiere capo E.T., 53 anni. Il militare all’epoca dei fatti era in servizio alla stazione di Castelfranco; la vittima, il ventintreenne B.H., si è costituita parte civile e nell’udienza preliminare dello scorso 5 maggio ha presentato una richiesta di risarcimento da 140 mila euro e ha chiamato in causa anche il ministero della Difesa. I fatti contestati risalgono al 9 luglio dello scorso anno quando alla stazione di carabinieri di Castelfranco viene denunciato il furto di una moto. Il proprietario fornisce una descrizione molto accurata del ladro e i militari sospettano si tratti di B.H. di Castelfranco. Scatta il sopralluogo in casa del ragazzo: la moto, in effetti, è custodita nel suo garage. Il ventitreenne viene arrestato e portato nella cella di sicurezza della casera. Qui, verso le 18, va a trovarlo la fidanzata che lo trova in buono stato di salute. Mezz’ora più tardi, alle 18.30, arriva anche la madre che deve consegnargli dei farmaci. Stando alla ricostruzione degli inquirenti, la madre lo trova in ben diverse condizioni fisiche: un occhio pesto, uno zigomo gonfio. Uno stato che viene rilevato anche dal medico del carcere quando, alle 20, il giovane viene portato dalla cella di sicurezza al carcere di Santa Bona. Il medico che lo visita all’ingresso del penitenziario gli chiede cosa gli sia successo: B.H. dice di essere stato picchiato da un carabiniere mentre era detenuto in caserma. Il giovane viene mandato al Cà Foncello per essere medicato: qui gli diagnosticano 15 giorni di prognosi per lesioni all’occhio; gli viene prescritta anche una visita oculistica per valutare eventuali danni alla retina. Intanto, dall’infermeria di Santa Bona parte la segnalazione alla Procura del presunto pestaggio. Qualche giorno dopo il ventenne - nel frattempo scarcerato - viene convocato dalla polizia giudiziaria per essere sentito sull’accaduto e in quell’occasione viene formalizzata la denuncia nei confronti del brigadiere E.T. L’inchiesta del sostituto procuratore Francesca Torri si chiude con la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti del carabiniere a cui vengono contestati i reati di lesioni e abuso di autorità contro i detenuti: secondo la ricostruzione della Procura, il brigadiere avrebbe colpito il giovane con pugni al volto e con calci alle gambe. Ma non basta: al brigadiere viene contestato anche l’abuso d’ufficio. All’origine dell’aggressione, ritengono gli inquirenti, ci sarebbe stato infatti un torto fatto dal giovane a un’amica del carabiniere. Il giovane, nella scorsa udienza, si è costituito parte civile con gli avvocati Pietro Guidotto e Marco Furlan, chiedendo un risarcimento danni di 140 mila euro in quanto i pugni al volto gli avrebbero causato un danno permanente alla vista con restrizione del campo visivo. La prossima udienza è stata fissata per il 27 settembre. Usa: troppi detenuti; la Corte suprema della California ordina la liberazione per 37.000 Agi, 23 maggio 2011 Decisione senza precedenti da parte della Corte Suprema della California che ha ordinato il rilascio di migliaia di detenuti a causa del cronico sovraffollamento delle prigioni: nei 33 istituti di pena del Golden State, progettati per ospitare 80.000 carcerati, in realtà sono ospitati in 148.000. Per tornare ad una situazione quasi normale dovrebbero essere liberati 37.000 detenuti. Questa situazione rappresenta “un violazione dei diritti costituzionali dei prigionieri”, secondo la Corte che si è spaccata sul voto: 5 giudici hanno votato a favore e 4 contro La sentenza della Corte “lascia la scelta delle misure per ridurre il sovraffollamento ai funzionari dello Stato”, ma, “nel caso si mancato rispetto della decisione, o attraverso la costruzione di nuove prigioni, o il trasferimento dei detenuti in altri Stati, o altri mezzi...sarà richiesto alla California di rilasciare un certo numero di prigionieri prima che abbiano finito di scontare la pena”. Libia: Croce Rossa; presto ok del governo a visite ai detenuti Ansa, 23 maggio 2011 Il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) dovrebbe presto poter compiere visite ai detenuti nelle mani del governo libico, ha affermato oggi a Ginevra l’organizzazione umanitaria in occasione di un nuovo appello per la raccolta di fondi per finanziare gli aiuti alle persone colpite dagli scontri in Libia. I delegati del Cicr hanno già avviato in marzo le visite alle persone detenute dalle autorità del Consiglio nazionale di transizione, si tratta finora di circa 200 persone a Bengasi e 185 a Misurata. Presto, il Cicr dovrebbe poter compiere tali visite anche in favore di persone detenute dal governo libico: “le più alte autorità hanno acconsentito in linea di principio”, ha detto il Cicr precisando che delegati dell’organizzazione hanno già potuto intrattenersi nei giorni scorsi con alcuni detenuti, al sud-ovest di Tripoli. Le visite di detenuti mirano, tra l’altro, a controllare il loro trattamento. Più globalmente, il Cicr ha lanciato un appello ai donatori affinché forniscano ulteriori 47 milioni di franchi svizzeri (38 milioni di euro) per aiutare l’organizzazione a soddisfare i bisogni urgenti delle persone colpite dai combattimenti. Con questo appello, il totale della somma richiesta per le attività in Libia nel 2011 sale a oltre 77 milioni di franchi. Il Cicr teme che “fin quando il conflitto in Libia continuerà, le prospettive appaiono spaventose. Le condizioni di vita possono ulteriormente peggiorare per una buona parte della popolazione”. Oltre 850.000 persone colpite dal conflitto potrebbero beneficiare dell’assistenza del Cicr nel 2011. Gli scontri in Libia hanno causato centinaia di morti e migliaia di feriti, mentre i danni a case, strutture sanitarie, reti idriche e di energia elettrica hanno reso difficili le condizioni di vita, afferma il Cicr. Centinaia di migliaia di persone sono fuggite dal Paese, soprattutto in Tunisia e in Egitto. Bahrain: rilasciati 515 detenuti da inizio rivolte, 46 medici ancora in carcere Adnkronos, 23 maggio 2011 Le autorità bahrenite hanno rilasciato 515 manifestanti arrestati dall’inizio della rivolta, a metà marzo, contro la famiglia reale degli al-Khalifa nella monarchia del Golfo. È quanto ha annunciato Sheikh Fawaz bin Mohammed al-Khalifa, responsabile per la Comunicazione del regno, citato dall’agenzia d’informazione ufficiale Bna. Secondo Sheikh Fawaz, i 515 detenuti sono stati rilasciati “a causa delle loro condizioni di salute o dopo aver ritenuto sufficiente il periodo da loro trascorso in carcere”. Il responsabile, che fa parte della famiglia reale, ha quindi precisato che 46 medici sono ancora rinchiusi in prigione, 29 dei quali con a carico accuse pesanti. “Sei donne sono in carcere per aver commesso vari reati”, ha aggiunto. L’opposizione, intanto, continua a protestare contro il governo. Venerdì centinaia di persone hanno manifestato in diverse città del paese per chiedere il rilascio immediato degli attivisti anti - governativi arrestati. In particolare, diversi manifestanti sono scesi per le strade di Sanabis, vicino alla capitale Manama, per chiedere la fine del governo della dinastia sunnita degli al - Khalifa.