Convegno di Ristretti Orizzonti: il rifiuto di pensare che i detenuti “sono persone come noi” Redattore Sociale, 20 maggio 2011 “Non ci hai pensato prima? Paga”. È una delle reazioni più comuni quando si parla di carcere, supportata dalla convinzione che il percorso che porta alla reclusione non potrà mai intersecarsi con la propria storia personale. Nessuno è disposto, insomma, a identificarsi con l’autore di reato ammettendo che “potrebbe capitare anche a me”. È più facile immedesimarsi nella vittima e quindi lanciare accuse e condanne. “Eppure le carceri sono piene e dentro ci sono persone” fa riflettere Ornella Favero di Ristretti Orizzonti, nel corso del convegno odierno a Padova (vedi lancio precedente). Il problema maggiore è che del carcere - e dei reclusi - non passa all’opinione pubblica la “complessità”, termine su cui Favero mette l’accento rivolgendosi soprattutto ai giornalisti: “Non capiscono che spesso la realtà è più articolata rispetto a quello che fotografano - spiega. Invece sarebbe molto importante tentare di afferrare la complessità della persona e porsi qualche domanda in più”. All’opinione pubblica quello che più serve è iniziare a ragionare sui temi della pena senza sensazionalismo e pregiudizi, guardando al carcere “togliendosi i paraocchi”, come spiega Davide Ferrario, regista che ha incontrato il mondo della detenzione per caso, per lavoro. Riguardo alla sua esperienza, ricordando il primo approccio con i detenuti, sottolinea che “per avvicinarsi al carcere si deve essere onesti e corretti”. E aggiunge: “Io ci sono entrato in modo casuale: la prima volta nel 2009 per fare un corso di montaggio professionale a San Vittore. Ho conosciuto questo mondo fatalmente e ho imparato a starci dentro come volontario, producendo storie autogestite e lavorando con i detenuti”. Il film “Tutta colpa di Giuda”, lavoro prodotto nel 2009, è frutto di questa esperienza, che dura da quasi 9 anni. “In carcere ci si sta dentro così, guardando le cose e le persone senza i paraocchi - commenta. La reclusione è una situazione estrema che ti costringe a confrontarti brutalmente con la realtà, senza scuse e senza alternative”. Un atteggiamento diverso contraddistingue l’informazione attuale: “È difficile fare ragionamenti pacati per capire davvero cosa c’è dentro la galera e per rendersi conto che, ad esempio, non ha senso recludere persone tossicodipendenti, il cui primo problema da affrontare è la dipendenza, che va curata altrove, non dietro le sbarre”. Convegno di Ristretti Orizzonti: gridare al mostro… un modo per calpestare i diritti Redattore Sociale, 20 maggio 2011 Convegno di Ristretti Orizzonti “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi”. Gaia Rayneri, autrice di “Pulce non c’è” punta il dito contro l’allarmismo usato come arma e la “presunzione di colpevolezza”. “Mostro” è un termine abusato a corredo di fatti di cronaca, nei dibattiti televisivi, nel commento degli esperti. Ma chi sono davvero i “mostri”, che faccia hanno, quali le loro storie? E come si può guarire da un’etichetta attaccata ingiustamente? Quest’anno il tradizionale convegno di Ristretti Orizzonti, dal titolo “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi”, in corso al Due Palazzi di Padova, punta a eliminare le etichette e abbattere gli stereotipi sul carcere. Lo scopo è di dimostrare che al di là delle parole a effetto ci sono storie da narrare e ragionamenti da fare. Perché la cura dai luoghi comuni passa dalla voce dei protagonisti, dal racconto di cicatrici invisibili. Come quella di Gaia Rayneri e della sua famiglia, che ha vissuto sulla propria pelle gli effetti di un’accusa pesante ma soprattutto ingiusta, raccontata nel romanzo “Pulce non c’è”. “Mia sorella, autistica, è stata tenuta in comunità alloggio per un anno a causa di un’interpretazione sbagliata del suo modo di comunicare, che ha spinto sospetti di pedofilia su mio padre”. Sospetti che si sono trasformati in un macigno: “Avevamo le prove per dimostrare l’innocenza di mio padre, ma nonostante questo le accuse sono andate avanti e mia sorella è stata portata via, dall’oggi al domani”. Il problema con le accuse infamanti e spregevoli come quella di pedofilia è che “sembrano giustificare qualsiasi cosa - riferisce Rayneri, in primis il mancato rispetto del diritto alla presunzione d’innocenza. Nel caso di mio padre abbiamo assistito, piuttosto, alla presunzione di colpevolezza”. L’allarme sociale intorno a certi reati porta con sé anche rischi di strumentalizzazione: “Il pedofilo è considerato unanimemente, in modo trasversale, il “mostro” per eccellenza, quello che tutti possono additare, ma poi non c’è analisi, non c’è riflessione”. E aggiunge: “L’opinione pubblica, fomentata, fa sì che diventi tollerabile agire in fretta per allontanare il presunto pedofilo, calpestando i diritti della persona. Mia sorella è stata portata via dopo due giorni dalle presunte accuse”. Convegno di Ristretti Orizzonti: i giornalisti e la presunzione di saper leggere la mente altrui Redattore Sociale, 20 maggio 2011 Convegno di Ristretti Orizzonti. Un detenuto del Due Palazzi di Padova: “Il giornalista ha scritto che dopo la sentenza ero tranquillo. Ma cosa ne sapeva delle mie reazioni ed emozioni?”. Contro la cattiva informazione e gli stereotipi continua il lavoro Per abbattere gli stereotipi sul carcere e sulla pena bisogna intervenire sull’informazione, troppo votata al sensazionalismo e troppo poco disposta a entrare nel merito delle questioni e delle situazioni. Se ne discute a Padova, nel corso del convegno “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi”, organizzato da Ristretti Orizzonti per favorire un dibattito sano sul mondo della pena, facendo anche dialogare reclusi e famigliari di vittime di reato (vedi lanci precedenti). Un esempio di informazione disonesta è quello raccontato da Andrea, detenuto: “Il giorno seguente alla mia condanna, sul giornale era scritto che avevo reagito alla sentenza tranquillamente e che avevo lo sguardo “di uno cui non importa niente”. Il giornalista ha avuto la presunzione di capire ciò che io provavo, di interpretare le mie reazioni senza conoscermi”. Elton, un altro recluso, aggiunge: “I cronisti non hanno tanta voglia di andare a fondo delle cose, scrivono quello che viene loro detto e dimenticano che oltre al diritto d’informazione esistono anche altri diritti”. Una fotografia del panorama informativo italiano è fornita da Paola Barretta dell’Osservatorio di Pavia, che cita i dati del rapporto realizzato con Demos & Pi: “Emerge una profonda discrepanza tra la sovra rappresentazione mediatica dei reati, specialmente quelli comuni, e l’insicurezza dei cittadini, che perlopiù si incentra altrove, su questioni economiche”. All’informazione italiana, specialmente televisiva, piace sbattere in prima pagina i fatti di cronaca, con una frequenza che non ha eguali in Europa. “All’estero non fanno come facciamo noi - spiega Barretta: la media europea di notizie legate a crimini nei tg è del 6%, da noi è oltre il doppio”. Tutto questo clamore e sensazionalismo non aiuta a fare ragionamenti seri e a promuovere una nuova cultura sul carcere. “Quando incontriamo gli studenti grazie al nostro progetto con le scuole - racconta Ornella Favero di Ristretti - capita che alcuni ragazzi commentino, riferendosi alla condanna di un detenuto, “si è fatto solo 17 anni”. La sfida vera è riuscire ad abbattere quel “solo”. Allora cerchiamo di far immaginare che la lunghezza della pena equivale alla durata della loro intera vita. Così riusciamo a far cambiare loro prospettiva e 17 anni non sembrano più così pochi”. Per valutare se il lavoro con le scuole contribuisce davvero all’abbattimento degli stereotipi, l’Università di Padova ha dato avvio a una rilevazione d’impatto: “L’obiettivo - spiega Francesca Vianello, docente di Sociologia - è di capire se davvero si riesce a decostruire gli stereotipi e a fare prevenzione. Per quanto riguarda i detenuti, ci interessa vedere se l’esperienza porta a una rielaborazione del reato”. I primi risultati della rilevazione saranno disponibili a settembre. Giustizia: Ionta (Dap): l’emergenza carceri non è superata, ma poste basi giuste Adnkronos, 20 maggio 2011 Quella del sistema carcerario italiano “è un’emergenza non ancora superata” anche se gli interventi compiuti “hanno posto le basi per farlo, e per arrivare a una stabilizzazione”. Lo ha detto il capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, intervenuto ad un convegno su “Giustizia, sicurezza, carceri”, organizzato dall’associazione Antigone in occasione del ventennale della sua fondazione. Ionta ha invitato a distinguere le “emergenze del sistema” dalle “emergenze quotidiane” quelle che riguardano, ha spiegato, “il singolo carcere, il singolo detenuto o agente penitenziario”. Quanto all’aspetto più eclatante di questa emergenza, quello dei numeri, Ionta ha poi osservato che spesso si discute di “capienza massima delle carceri, ma l’aspetto numerico andrebbe sempre coniugato con la dignità della detenzione”. Dunque, accanto a una “capienza regolamentare, basata su calcoli di tipo ospedaliero”, ha osservato Ionta va valutata la “capienza tollerabile” che abbia “attenzione alla dignità detentiva”. Ionta ha elencato, tra gli elementi di intervento che è necessario portare avanti, l’edilizia delle carceri, l’incremento del numero degli agenti penitenziari e l’aumento del ricorso alla detenzione domiciliare. “È un sistema complesso - ha detto il capo del Dap - che si deve affrontare attraverso la partecipazione di tutti gli attori coinvolti, nel reciproco rispetto dei ruoli”. Ionta ha poi ringraziato l’associazione Antigone per il suo “ruolo fondamentale di coscienza critica dell’amministrazione penitenziaria” con l’obiettivo di ricordare che “la vita dei detenuti deve essere il bene primario del sistema”. Per quanto riguarda l’edilizia, Ionta prevede tempi certi. “I tempi dell’edilizia sono difficili, ma contiamo di poter nell’arco di questa legislatura di portare a compimento tutte le strutture che abbiamo pensato di dover fare a cominciare dai padiglioni, strutture che andranno già inserite nelle carceri già esistenti”. Il piano, infatti, prevede un “incremento di 20 padiglioni e 11 istituti penitenziari - ha puntualizzato Ionta. I padiglioni sono strutture che comportano una capienza di circa 200 persone, invece gli istituti sono calibrati su 450 persone per istituto”. Strutture, ha spiegato Ionta, che saranno a misura di detenuto. “Non avremo più delle strutture antiche riadattate ad uso penitenziario, ma strutture immediatamente pensate per la struttura penitenziaria. Questo rende già la situazione logistica completamente diversa. Spazi interni alla cella ed esterni, spazi per le famiglie, per l’istruzione e laboratori, tutto pensato per il miglioramento della qualità delle detenzione delle persone a cui si aggiunge il miglioramento del lavoro della polizia penitenziaria”. Secondo Ionta, però, occorre intervenire anche sul reinserimento sociale. “Abbiamo visto un positivo apporto dalla legge sulla detenzione domiciliare per le persone che hanno meno di un anno da scontare - ha spiegato Ionta. Abbiamo già fatto uscire attraverso l’opera dei magistrati di sorveglianza oltre 2mila persone in 5 mesi di applicazione. Penso che sia una misura saggia, che non ha avuto al momento nessuna controindicazione e che ha una sua temporizzazione alla fine del 2013. Mi auguro che questa misura possa essere invece inserita in un sistema di alternatività al carcere”. Giustizia: Li Gotti (Idv); le parole di Ionta smentiscono Alfano Dire, 20 maggio 2011 “Dopo le enfatiche affermazioni del ministro Alfano sul ritorno alla normalità del problema carcerario senza indulti, è arrivata oggi la parola responsabile del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che ha smentito il ministro, assumendo che l’emergenza carceri è grave e per nulla superata”. Lo dice Luigi Li Gotti, capogruppo dell’Italia dei Valori in commissione Giustizia al Senato. “Giustamente Ionta richiama la necessità della copertura degli organici, presupposto per l’apertura di nuovi istituti penitenziari, nonché una maggiore diffusione del regime degli arresti domiciliari. La serietà del capo del dipartimento - conclude Li Gotti - riporta il problema sul terreno del realismo, affrancandolo dagli spot pubblicitari di un ministro per caso”. Giustizia: Cascini (Anm); misure alternative in calo del 75% rispetto al 2005 Redattore Sociale, 20 maggio 2011 Il segretario dell’Anm: “La legislazione non riesce a programmare l’intervento penale in maniera razionale e crea ingolfamento del sistema penale e affollamento del sistema penitenziario”. “Oggi siamo ad un quarto del numero di soggetti in misura alternativa rispetto al 2005. Questo è frutto di una legislazione che voleva mandare un messaggio di rigore, austerità e di maggiore incidenza repressiva ma che di fatto ha creato una situazione insostenibile sia per il processo penale che per le carceri”. Così Giuseppe Cascini segretario dell’Associazione nazionale magistrati a margine del convegno dell’associazione Antigone in occasione dei vent’anni di attività in corso presso palazzo S. Macuto della Camera dei deputati a Roma. Per Cascini, in Italia “i tempi di durata dei processi sono enormi, il numero dei processi che finiscono in prescrizione è altissimo e nello stesso tempo si produce un numero di detenuti di gran lunga superiore alle capacità del sistema penitenziario”. Una situazione, ha puntualizzato, che dipende “da una legislazione schizofrenica, che non riesce a programmare l’intervento penale in maniera razionale, che pretende di dare risposte di tipo emotivo, simbolico a problemi di carattere sociale e quindi crea da un lato l’ingolfamento del sistema penale, dall’altro un affollamento del sistema penitenziario. Basti pensare alla drastica riduzione della possibilità di ricorso a misure alternative al carcere, uno degli strumenti che ha funzionato di più nella storia del nostro Paese e che consentiva davvero il recupero e la risocializzazione degli autori di reato”. Amnistia, una cosa buona della prima Repubblica L’amnistia “non è un buon governo del sistema penale” ma è stata “una delle cose buone della prima Repubblica”. Lo ha detto il segretario dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), Giuseppe Cascini, intervenuto, oggi a Roma, un convegno su Giustizia, sicurezza e carceri, organizzato dall’Associazione Antigone nel ventennale della sua fondazione. Cascini ha ripercorso alcune tappe della legislazione penale, ricordando che “amnistia e indulto sono stati un sistema per render più mite il diritto, considerato crudele sulla carta. Ogni 4 anni si faceva un’amnistia o un indulto, ma evidentemente non si poteva andare avanti così e questo ha creato un corto circuito nel quale siamo ancora immersi”. Il segretario dell’Anm si è poi soffermato sui numeri dei detenuti nelle carceri italiane “cresciuti dal 1990 in modo esponenziale. C’è stato un calo dopo l’indulto del 2006 e adesso la situazione si sta assestando ma non è una cosa positiva”. Giustizia: Antigone: nostro lavoro non ha inciso sulla produzione di politiche “umano-centriche” Redattore Sociale, 20 maggio 2011 L’associazione ha festeggiato 25 anni di attività. Gonnella: “Abbiamo aperto uno squarcio di luce su questo mondo. Ma questa opera di informazione fa fatica a produrre un lavoro di pressione per fare politica in controtendenza”. “Il carcere trasparente”. È sempre stato questo, in fondo, il sogno dell’associazione Antigone che ieri ed oggi ha festeggiato i suoi vent’anni di attività con un convegno tenutosi presso la Camera dei deputati a Roma. Carcere trasparente è anche il titolo del primo rapporto sulle condizioni di detenzione pubblicato 11 anni fa. Un percorso ad ostacoli, quello di Antigone, che per prima metteva le mani su una materia fino ad allora quasi del tutto sconosciuta. Antigone nasce nel 1991. Allora i detenuti erano più di 35 mila, gli stranieri poco più del 5% e il 33% della popolazione detenuta era “dentro” per reati di droga. Oggi, a distanza di venti anni, i detenuti nelle carceri sono circa 68 mila su una capienza di 42 mila posti, la presenza di stranieri è salita al 35% e la percentuale dei detenuti per reati legati alle droghe è del 38,2%, più del doppio della media europea. Un’emergenza ancora in atto, ha affermato stamattina Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, su cui ancora una volta l’associazione chiede trasparenza, affinché nessuno possa dire di non sapere. “Penso che il nostro lavoro di monitoraggio, di denuncia, di prospettive di uscita abbai creato una maggiore conoscenza pubblica che non c’era - ha spiegato Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. Quando abbiamo iniziato a lavorare non c’era neanche l’osservazione statistica delle questioni penitenziarie. Abbiamo progressivamente aperto uno squarcio di luce su questo mondo. Ora si può dire che un lettore di giornali, perché sulla tv c’è ancora tanto da fare, o chi smanetta sul web ha la possibilità di essere informato e non può dire che non sa cosa significa la terribile condizione carceraria”. Vent’anni di ‘pressing’ a livello istituzionale che, nonostante abbia richiamato l’attenzione su un tema dimenticato dietro le mura dei penitenziari, non ha portato sempre ai frutti sperati. “La sconfitta di questi anni è che il nostro lavoro non necessariamente ha avuto un legame sulla produzione di politiche umano-centriche. Questa opera di informazione fa fatica a produrre un lavoro di pressione per fare politica in controtendenza. Perché oggi le politiche non si formano più intorno a una visione programmatica, ma intorno alla necessità di costruire e interpretare gli umori a breve termine e di conseguirne successo elettorale”. Durante i lavori del convegno, il capo del Dap ha rinnovato la fiducia all’associazione, l’unica ad avere accesso al sistema penitenziario e poter monitorare le condizioni di vita all’interno delle mura carcerarie. Una fiducia che dura ormai da anni, dal ‘98. Oggi però, spiega Gonnella, occorre guardare al futuro e la sfida più grande è quella di riuscire a dare una risposta concreta a quella che chiama “ipertrofia penitenziaria”. Una strada possibile è quella delle misure detentive alternative, spiega Gonnella, ma gli ostacoli non sono pochi. “Bisogna modificare le leggi perché sono stati messi tanti di quei paletti per l’accesso alle misure alternative che il numero di persone che potenzialmente possono usufruirne si è fortemente ridotto. Se escludi le misure alternative per i recidivi, oltre per chi compie reati molto gravi, di fatto hai fortemente ridotto il bacino utilizzatori di tali misure”. Ma a preoccupare sono anche le risorse da poter investire. “Se non investi alla fine sono misure finte che ricreano recidiva. Bisogna creare occasioni autentiche di reinserimento e non funzionali ad una rapida via d’uscita”. Probabilmente, però, per attuare delle politiche efficaci contro l’aumento della popolazione penitenziaria, conclude Gonnella, serve “intervenire non sui flussi in uscita, ma in quelli in entrata. In alcune grandi questioni bisogna rinunciare all’impatto penale. Come ad esempio per il problema delle droghe. Il 38% dei detenuti in Italia è dentro o per aver violato la legge sulle droghe o perché ha un problema di tossicodipendenza. È il più alto livello di impatto punitivo in Europa occidentale”. Giustizia: delegazione di Psichiatria Democratica ricevuta al Senato da Commissione sugli Opg Ristretti Orizzonti, 20 maggio 2011 Una delegazione di Psichiatria Democratica (Pd) guidata dal Segretario e dal Presidente Nazionale Lupo ed Attenasio e composta dai membri del Comitato Direttivo Bondioli, Interlandi, Ortano e Sorrentino è stata ricevuta dai Senatori componenti la Commissione di indagine sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari - presieduta dal Sen. Ignazio Marino - per una audizione sul tema. In quella sede i Dirigenti di Psichiatria Democratica, nel sottolineare ancora una volta tutte le loro preoccupazioni sulle gravi condizioni in cui sono costretti a vivere le persone costrette nei sei Opg italiani, hanno indicato le loro articolate proposte per chiudere presto e bene questa brutta pagina della nostra storia contemporanea. Pd ha richiesto con forza: 1) che il Governo fissi - attraverso una disposizione legislativa - il tempo massimo entro cui chiudere gli Opg imponendo, in caso di ritardo, sia sanzioni economiche nei confronti degli Enti inadempienti sia il ricorso ai “commissaria ad acta” laddove si riscontrassero gravi rallentamenti nell’attuazione dei programmi; 2) Che il Presidente della Conferenza Stato - Regioni diventi il punto di raccordo e di garanzia per la piena attuazione dei programmi di dismissione, personalizzati, da attuarsi nel Paese; 3) Che si individuino risorse certe ed adeguate alle necessità e durature, acché il programma di dismissione di ciascun Opg possa essere portato avanti d’intesa con tutti gli interessati; 4) Che in ogni Ospedale Psichiatrico Giudiziario vengano costituiti Uffici di dismissione ed Equipes di dismissione (task force), quali bracci operativi e di collegamento tra il “dentro” e il “fuori”. Il segretario Nazionale di Pd Emilio Lupo, durante la lunga audizione - presieduta dal Senatore Alfonso Mascitelli - ha anche chiesto ai Senatori presenti, di dare, da subito, un segnale forte ed inequivocabile in quelle realtà più compromesse, con i poteri propri della Commissione, perché l’indignazione nel Paese aspetta risposte rapide e concrete. Di seguito alcune Senatrici - dicendosi d’accordo sulla richiesta di determinare i tempi per la chiusura degli Opg - hanno posto ai Dirigenti di Psichiatria Democratica una serie di domande sul progetto-percorso avanzato dall’Associazione, ricevendo puntuali riscontri, soprattutto per quel che attiene l’operatività da porre, in essere, secondo PD, per chiudere presto e bene quei terribili luoghi di concentrazione. Il Senatore Mascitelli, in conclusione, a nome della Commissione ha ringraziato i Dirigenti di PD impegnandosi a informare, compiutamente, i componenti l’intero gruppo di lavoro circa il pacchetto di proposte giunte alla loro attenzione, che ritiene interessanti e importanti per il prosieguo dei lavori della Commissione, a cominciare dalla indicazione certa della data di chiusura degli Opg. Giustizia: carceri sovraffollate e processi lentissimi, dalle carceri di Roma parte la protesta Corriere della Sera, 20 maggio 2011 Lo sciopero della fame dei detenuti di Regina Coeli contagia i penitenziari di tutta Italia: condizioni disumane. I Radicali: amnistia per tutti. Il governo non li ascolta e allora la legge se la sono scritta da soli. I detenuti del carcere romano di Regina Coeli hanno dato via a una dura protesta, che in questi giorni sta contagiando anche altri penitenziari d’Italia, per denunciare le drammatiche condizioni di vita nelle carceri con uno sciopero della fame (in corso da domenica 15 maggio e sospeso mercoledì 18) e l’incessante battere sulle sbarre delle celle. Ma soprattutto, i reclusi romani hanno redatto un disegno di legge “autoprodotto” per la riforma del sistema carcerario che il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ha inviato al premier Silvio Berlusconi e alle più alte cariche dello Stato. La proposta di disegno di legge preparata dai detenuti è composta da quattro articoli ed è volta a “garantire la celerità del processo penale e l’accesso alle misure alternative al condannato che ne risulti meritevole” spiega Marroni. “I detenuti - aggiunge il Garante - non vogliono premi né indulgenze, ma solo certezza di giustizia. Sono infatti convinti che, con le loro proposte, si arriverà a snellire le procedure, e con un minore afflusso di detenuti potranno migliorare le condizioni di vita nelle carceri”. “Sono mesi che denuncio la reale e grave situazione in particolare nella nostra regione Lazio - aggiunge Chiara Colosimo consigliere regionale Pdl. Lo scorso febbraio, a Regina Coeli, a fronte di una capienza regolamenta di 950 detenuti, la popolazione carceraria è arrivata 1125 persone, per il 75% stranieri”. Centinaia di detenuti in tutta Italia e più di 300 tra i loro familiari stanno attuando lo sciopero della fame per chiedere al governo un’amnistia “che ponga fine all’illegalità delle carceri italiane e di una giustizia sopraffatta e bloccata da milioni di processi arretrati che danno origine all’irresponsabile amnistia illegale di 170 mila prescrizioni all’anno” spiegano i Radicali. L’iniziativa è partita dai reclusi di tutte le sezioni del carcere romano di Regina Coeli ed è a sostegno del digiuno che il leader del partito Marco Pannella porta avanti da ormai trenta giorni, “affinché l’Italia possa tornare in qualche misura a essere definita una democrazia”. Da domenica 15 stanno rifiutando il cibo i detenuti delle carceri di Regina Coeli (dove lo sciopero è sospeso grazie all’intervento del Garante Marroni), Rieti, Fuorni, Poggioreale, Catania Piazza Lanza, Sassari San Sebastiano, Agrigento, Cagliari Buon Cammino, Vercelli, Velletri, di Opera e San Vittore a Milano, Imperia, Ancona, Prato, Ariano Irpino, Venezia, Alessandria, Lanciano e Marassi. “Una partecipazione straordinaria e in continuo aumento anche tra i familiari dei detenuti”, sottolineano i Radicali. Un appello a cittadini e associazioni perché partecipino all’iniziativa è stato rivolto mercoledì 18 maggio da don Andrea Gallo: “La legge per l’amministrazione carceraria non è applicata, le carceri oltre ad essere discarica sociale, sovraffollate, sono case dell’illegalità” ha detto il religioso ospite con Pannella di Radio Carcere, il programma in onda su Radio radicale. A protestare contro il sovraffollamento delle carceri sono anche gli agenti di polizia penitenziaria di un altro carcere romano: Rebibbia. “Da giorni sono in agitazione per denunciare, ancora una volta, la situazione di disagio in cui sono costretti ad operare” afferma il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti. “La protesta - conclude il sindacalista - è più che legittima perché, a causa del sovraffollamento, ci troviamo davanti ad un carico di lavoro difficile da portare a compimento sotto organico. Le denunce sull’emergenza sovraffollamento, la carenza di organico e l’inadeguatezza delle strutture e delle risorse purtroppo non trovano ancora e inspiegabilmente risposte adeguate”. Giustizia: Ilaria Cucchi; contro l’arroganza dello Stato, solo l’informazione può essere efficace La Nuova Sardegna, 20 maggio 2011 Leggere un libro come “Vorrei dirti che non eri solo”, parlare con l’autrice, Ilaria Cucchi, non è facile. Perché si prova un certo imbarazzo quando ci si trova di fronte a una dramma familiare: la morte di un ragazzo, Stefano, fratello di Ilaria. Una morte inspiegabile avvenuta dopo l’arresto per droga, per la quale sono sotto processo dodici persone. Per l’accusa Stefano Cucchi fu picchiato nelle camere di sicurezza del tribunale, in attesa dell’udienza di convalida, e poi lasciato senza assistenza. Questo lo portò alla morte. Per suo fratello Ilaria ha scritto - insieme al giornalista Giovanni Bianconi - “Vorrei dirti che non eri solo” (edito da Rizzoli), di cui ha parlato a Sassari in un incontro, organizzato dall’associazione Turritana 52, durante il quale è stato anche presentato il libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone, “Quando hanno aperto la cella” (Il Saggiatore) che racconta di Stefano Cucchi e di altri ragazzi uccisi dallo Stato. Cosa vi aspettate dal processo? “Qualunque risultato riusciremo a ottenere, se l’otterremo, non servirà ovviamente a restituirci Stefano. Ma probabilmente potrà servire a qualcun altro, a far sì che queste vicende non si ripetano più. Fino a un anno e mezzo fa io ero tra quelle persone che ascoltano queste storie sempre con un certo distacco: tanto a me non capiterà mai e se gli è capitata in fondo se l’è cercata. E questa l’idea comune ed è il motivo per il quale la maggior parte di queste vicende finiscono nel silenzio”. Anche grazie a lei finalmente se ne parla. “Guardandomi indietro vedo che sono stati fatti molti passi avanti dalla morte di Stefano a oggi. Perché quello che vedevamo all’inizio era silenzio e ipocrisia. Ci veniva detto che Stefano si era spento. Si parlava di morte naturale, poi che era caduto dalle scale, che Stefano si era lasciato andare. Ma tutto questo non era possibile, era ovvio che si trattava di bugie. Così facendo leva su tutta la nostra forza, su tutta la nostra rabbia e il bisogno di sapere abbiamo deciso di intraprendere questa battaglia e abbiamo avuto la fortuna di incontrare in questo nostro percorso tante persone che hanno creduto innanzitutto in noi, in quello che dicevamo, e ci hanno dato la forza, il sostegno, il coraggio di andare avanti”. Ma quanto è dura, difficile questa battaglia di fatto contro lo Stato? “Credo sia una delle cose più difficili chiedere allo Stato di giudicare se stesso. Però la realtà dei fatti è questa: mio fratello era sotto la tutela dello Stato. In tanto momenti, nel libro, racconto della nostra travagliata vita per colpa dei suoi problemi con la droga. In tanti momenti avevo temuto per la salute di Stefano, ma in quei giorni in cui era detenuto nemmeno per un istante, nel peggiore degli incubi avrei potuto lontanamente immaginare quello che mio fratello stava vivendo e che sarebbe successo da lì a poco. Stefano è stato vittima del pregiudizio, è stato picchiato, è stato lasciato morire da dei medici che per quanto mi riguarda non sono degni di essere chiamati tali. E tutto nel disinteresse generale, alla totale insaputa della sua famiglia”. Ne viene fuori una situazione carceraria davvero preoccupante. “Ho vissuto la realtà carceraria come una realtà assurda, fuori dal mondo, Mio fratello in quei sei giorni è stato inghiottito dal carcere, a noi nessuno diceva quello che stava capitando. Sappiamo che Stefano è stato picchiato nei sotterranei del tribunale, che è stato messo in atto un meccanismo di copertura e mio fratello è stato posto in una struttura del tutto inadeguata alle sue condizioni e con una procedura del tutto anomala. E tutto questo mentre mio fratello passava sotto gli occhi di chi l’aveva picchiato, dei medici che lo avevano abbandonato, e di una moltitudine di altre persone che hanno ignorato quello che stavano vedendo. Io non posso non pensare che se una sola di quelle persone avesse compiuto il suo dovere Stefano non sarebbe morto”. Il ruolo dell’informazione, spesso assente in queste vicende che faticano a emergere, quanto è stato importante nel vostro caso? “Per quanto mi riguarda la realtà carceraria è davvero preoccupante. Per quanto mi riguarda il ruolo della stampa, dell’informazione pubblica è stato fondamentale. Sono convinta che se non avessimo fatto appello a questa, se non avessimo fatto le denunce pubbliche e non avessimo deciso di pubblicare le foto del corpo martoriato di mio fratello, non saremmo oggi qui a parlare della sua morte. Perché purtroppo la realtà e questa: in Italia per sperare di avere giustizia bisogna rivolgersi all’informazione, rendere la vicenda pubblica, altrimenti nessun pubblico ministero si prende la briga di indagare”. Ha accennato a quelle foto di suo fratello. La decisione di pubblicarle non deve essere stata facile. “Le avevamo fatte scattare dall’agenzia di pompe funebri sperando di non vederle mai, però immaginavo che un giorno sarebbero potute servire. Ne abbiamo discusso a lungo, mia madre era contraria. Continuava a ripetere che Stefano non avrebbe voluto fasi vedere in quelle condizioni. Oggi quella decisione, che al momento mi sembrò terribile, sono sicura che è stata la svolta. Ogni persona che le ha viste si è resa conto che quello che stavamo dicendo era vero”. Lettere: vite senza valore… di Riccardo Arena www.ilpost.it, 20 maggio 2011 Pisa, 18 maggio. Mario Santini, persona detenuta nel carcere Don Bosco di Pisa, viene trovato morto in cella. Lo rende noto Ristretti Orizzonti. Una morte annunciata. Una morte che, magari non si poteva evitare, ma che si doveva rendere meno dolorosa e più dignitosa. Ma è noto. Nelle carceri non ha valore la legge né la dignità e il rispetto della persona. Mario Santini, che aveva 60 anni, stava già male. Da anni tossicodipendente soffriva anche di Aids. A marzo le sue condizioni di salute peggiorano. Sta male tanto che sputa sangue. I medici decidono allora di sottoporlo a degli esami clinici. Esami che accertano l’esistenza di un tumore ai polmoni. Tuttavia, Mario resta in carcere. Passano due mesi e, come era prevedibile, Mario sta di nuovo male. Ha una grave crisi respiratoria. Finalmente viene trasportato all’ospedale Santa Chiara. Ospedale dove Mario resterà però solo fino al 18 maggio, giorno in cui viene riportato nel carcere Don Bosco di Pisa. Alle ore 14 del 18 maggio Mario è dentro la sua cella. Ma, dopo poco, Mario ha una nuova crisi respiratoria. Alle ore 16 Mario muore. Nessuno si accorge di nulla. Nessuno guarda dentro. Nessuno vede quel corpo senza vita. Un corpo che verrà ritrovato, ormai freddo, alle ore 18. La storia della morte di Mario non è che l’ennesima. La numero 65 del 2011. Ed è l’ennesima dimostrazione, purtroppo, che il carcere oggi non è solo un luogo senza legge e senza giustizia. Il carcere oggi è anche un luogo dove la vita non ha valore. In Italia non c’è la pena di morte. Ma per una pena si muore. Per una pena si è lasciati morire impunemente. Per una pena si muore perché viene negato il diritto alla salute. Omicidi colposi. Persone morte per l’indifferenza e nell’indifferenza. Persone morte a causa del collasso del sistema penitenziario. Un collasso che determina un primo drammatico dato di fatto. La vita di una persona in carcere non ha nessun valore. Muore un detenuto malato perché è mal curato? Non interessa. Ieri è stato lasciato morire un detenuto a Pisa. Pazienza! E allora? Era solo un vecchio tossico! Vite senza importanza. Senza valore. Uno di meno. Morti ignorate dalla Giustizia, dall’informazione e da gran parte della politica. Sia quella della maggioranza che gran parte di quella della cosiddetta opposizione. Una politica impegnata solo a darsi battaglia su mozioni senza valore (come è successo ieri) e che resta indifferente rispetto a questioni assai più concrete e serie. Questa è la realtà. Sarebbe meglio prenderne atto. Aiuterebbe, quanto meno, a non essere anche degli ipocriti. Calabria: la Uil-Pa in visita alle carceri, situazione allarmante a Catanzaro e Rossano Adnkronos, 20 maggio 2011 Sovraffollamento e insufficienze organiche della Polizia penitenziaria. Sono le criticità rilevate dalla Uil Pa Penitenziari, a conclusione di una visita di due giorni nelle carceri calabresi di Catanzaro e Rossano. Alla visita hanno partecipato, oltre al segretario generale Eugenio Sarno, il segretario nazionale, Giuseppe Sconza, e quello regionale, Gennarino De Fazio. Per quanto riguarda i numeri, a Catanzaro a fronte di una ricettività massima di 354 detenuti sono ospitati 593 detenuti ( di cui 273 classificati A.S.), a Rossano la capienza massima è fissata in 233 ma ieri erano presenti 358 detenuti (di cui 171 Alta Sicurezza e 9 detenuti A.S. per terrorismo internazionale di matrice islamica). Sul fronte del personale a Catanzaro si afferma una vacanza organica di circa trentacinque unità della polizia penitenziaria. Per quanto riguarda Rossano e la sua peculiarità nel dovere detenere soggetti pericolosi e dalla particolare posizione giuridica, le dotazioni organiche dovrebbero essere rimpinguate con non meno di venti unità. “Ciò che desta maggiore apprensione - dichiara Eugenio Sarno commentando la visita - è il desolante stato di abbandono in cui si sentono, giustamente, relegati tutti gli operatori penitenziari che è anche correlato anche all’assenza di un Provveditore Regionale titolare. Assenza che, oramai, si protrae da circa un anno. È evidente che la situazione penitenziaria calabra, con tutte le sue criticità - conclude il segretario Uil-Pa - sarà posta ai massimi livelli dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Giustizia”. Bari: giallo in carcere; sangue sulle scarpe di Carlo Saturno, disposto l’esame del Dna La Repubblica, 20 maggio 2011 Tracce di sangue su una delle scarpe che Carlo Saturno, il detenuto di 22 anni morto suicida il 7 aprile scorso dopo una settimana di agonia, indossava il giorno che si è impiccato con un lenzuolo al letto a castello della sua cella. Su quelle tracce ematiche, la procura di Bari ha disposto nuovi accertamenti, incaricando il perito di estrarne il Dna ed eventualmente, in seguito, compararlo con quello delle guardie carcerarie presenti in quel turno. Secondo la denuncia presentata dalla famiglia di Carlo Saturno, il giovane si sarebbe tolto la vita dopo essere stato picchiato dagli agenti di polizia penitenziaria, nell’ambito di una rissa scoppiata quando gli fu comunicato che avrebbe dovuto cambiare cella. Il sostituto procuratore incaricato dell’inchiesta, Isabella Ginefra, allo scopo di chiarirei contorni della vicenda e accertare le eventuali responsabilità, ha incaricato il medico legale dell’Università di Bari, Francesco Introna di eseguire l’autopsia sul cadavere del ragazzo. E, dai primi accertamenti, non emergerebbero lesioni tali da giustificare violenze. Ma questo non esclude l’ipotesi di istigazione al suicidio, per la quale il fascicolo è stato avviato. Il giovane, infatti, era molto depresso e già il 17 novembre aveva provato a suicidarsi tagliandosi le vene, ma infilando la lametta nella parte superiore delle braccia e non nei polsi. Questo aveva indotto gli inquirenti a ritenere che non avesse davvero intenzione di uccidersi. In quel caso infatti le lesioni che riuscì a procurarsi furono lievi e gli agenti di polizia penitenziaria lo bloccarono in tempo. In una lettera a sua sorella, alla quale era molto legato, Carlo si era poi scusato per quel gesto e per averla fatta preoccupare: “Vienimi a trovare presto - aveva scritto. Qui mi sento molto solo”. Porto Azzurro (Li): detenuto ritrovato morto, c’è il sospetto di una overdose Il Tirreno, 20 maggio 2011 Forse un decesso causato da infarto provocato da una assunzione di sostanza stupefacente. Potrebbe essere questa la causa della morte di Enrico Brera, trovato cadavere nei giorni scorsi nella sua cella nel carcere di Porto Azzurro. Ieri è stata fatta l’autopsia ma occorrerà attendere ancora sessanta giorno di tempo. Il periodo necessario per i risultati tossicologici, per i chiarimenti del caso, per avere la certezza. Si cerca di capire se motivo scatenante potrebbe essere stata l’assunzione di sostanza stupefacente che l’uomo, che era ritornato da un permesso premio a Milano per sbrigare alcune faccende personali, forse potrebbe aver portato con se nascondendola ai pur meticolosi controlli che erano stati fatti. Qualcosa di più di una ipotesi da parte degli inquirenti che stano occupandosi del caso. Sarà il risultato dell’autopsia a chiarire ogni dubbio su questa morte improvvisa dentro una cella del carcere e che non ha lasciato scampo. Brera ormai cadavere era stato trovato sabato scorso dagli agenti di turno della polizia penitenziaria del carcere di Porto Azzurro: era privo di vita, disteso nel suo letto nella sua cella che occupava da solo. Enrico Brera aveva da poco compiuto 53 anni. Gli restavano da trascorrere in cella due anni. Era giunto a Porto Azzurro quasi al termine della sua pena. Era un detenuto tranquillo, con la passione per la scrittura, in particolare per la poesia. Con una sua opera, nel 2005 aveva partecipato al premio nazionale “Emanuele Casalini”, promosso dalla San Vincenzo De Paoli e dall’Università della Terza Età. Non aveva vinto ma i suoi versi, che raccontano il dramma della prigione e della mancanza di libertà, erano stati segnalati dalla giuria tra i migliori. Salerno: i familiari dei detenuti di Fuorni avviano lo sciopero della fame per chiedere l’amistia La Città di Salerno, 20 maggio 2011 Ad oggi sono 130 i familiari dei detenuti della struttura carceraria di Fuorni che hanno aderito allo sciopero della fame, promosso dai Radicali per “l’amnistia nelle martoriate comunità penitenziarie e la democrazia negata”. Ad annunciarlo è il Donato Salzano, giunto anch’egli al settimo giorno di digiuno insieme a Patrizia, una detenuta della sezione femminile del carcere di Salerno che da otto giorni rifiuta il vitto. A sostegno del satyagraha di Marco Pannella, al ventottesimo giorno di sciopero della fame, si sono aggiunti Giulia Formosa avvocato e già coordinatrice cittadina d’Italia dei Valori e Tiziana Aiello, avvocato e già candidata al consiglio comunale per Sel, Andrea Petrone diacono della chiesa valdese. In questi giorno hanno già partecipato Silvestro Marino della chiesa evangelica, Gennaro de Feo operaio, Marco Petillo, Valentina Restaino avvocato, e decine di altre persone. “L’appello continuamente rivolto direttamente ai detenuti e ai loro familiari, a i loro avvocati, ma più in generale alla comunità penitenziaria di Fuorni - dice Salzano. Continueremo fino a quando le condizioni fisiche ce lo consentiranno. In questo paese sono ventuno anni che non si concede un’amnistia”. Venezia: il Sindaco; nessun ultimatum di Ionta, ma sul nuovo carcere procedura straordinaria Il Gazzettino, 20 maggio 2011 “Ultimatum sul carcere a Campalto? Non c’è nulla di ufficiale. Se volete sapere qualcosa in più chiedete al presidente del Consiglio comunale, Roberto Turetta. Eppoi è una procedura straordinaria: il Comune non c’entra niente”. Calmo, calmissimo. Il sindaco Giorgio Orsoni prende le distanze dalla vicenda del nuovo carcere che il commissario straordinario del Piano carceri nazionale, Franco Ionta, vuole iniziare a costruire entro l’anno nella contestatissima ex struttura militare di via Orlanda, a Campalto. Prende le distanze e rigetta la palla al Consiglio comunale, dove il Pdl ha formalizzato la richiesta di una convocazione straordinaria per decidere un’alternativa a Campalto. Mentre si scopre che, se non si troverà un accordo entro metà giugno, il nuovo carcere di Venezia finirà in coda rispetto agli 11 penitenziari da costruire in Italia. E ciò non significa che non verrà fatto, ma che il progetto potrà godere di meno risorse economiche. “Ho solo a disposizione la lettera informativa del presidente Turetta dopo l’incontro che ha avuto con Ionta. Nient’altro. Ripeto, è il Consiglio comunale che deciderà il da farsi”. Se Orsoni si smarca, Renato Chisso lancia l’affondo. “Turetta e Centenaro hanno fatto bene a mettere i ferri in acqua, andando da Ionta a chiedere a che punto stiamo - commenta l’assessore regionale che non vuole far passare l’ipotesi Campalto. Per me il carcere deve essere fatto più in là, verso il Montiron, ma se il Comune non si muove a decidere ce lo ritroveremo in via Orlanda”. “Il Consiglio, ma soprattutto la maggioranza, devono dire con chiarezza se vogliono il carcere a Campalto oppure no - interviene Michele Zuin, capogruppo Pdl che ieri ha depositato la richiesta di un Consiglio comunale straordinario, assieme a Lega nord e Lista Brunetta. Da parte nostra continueremo a proporre l’area alternativa di Forte Pepe”. “Mercoledì vedrò i capigruppo, quindi vedremo di fissare una data nella quale potranno essere presenti anche i tecnici del Dipartimento dell’amministrazione carceraria - anticipa Roberto Turetta - . Il fatto è che, senza una soluzione condivisa, Venezia si trova già tra il 9° e l’11° posto, assieme a Puglia e Campania, sugli undici siti nei quali dovranno essere realizzati i nuovi penitenziari”. Il documento con il “no” a Campalto approvato in marzo (ma senza indicare alternative) è quindi finito dritto nel cestino del commissario straordinario che deve procedere alla realizzazione del carcere, passando alla progettazione esecutiva da metà giugno e all’appalto in ottobre. E senza accordo col Comune la posizione “in classifica” resterà bassissima, facendo scivolare le maggiori risorse economiche verso i primi in graduatoria. Turetta è lapidario: “Il sistema penitenziario è al collasso. S. Maria Maggiore è in condizioni allarmanti. Non sta a me dire cosa dovrà decidere il Consiglio, ma riunirsi avrà senso solo se si raggiunge una sintesi: accettare il carcere a Campalto oppure proporre un altro sito dove il progetto possa essere realizzato”. Imperia: arresti domiciliari per il presidente del Tribunale, accusato di corruzione Corriere della Sera, 20 maggio 2011 Il presidente del Tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte, è stato posto agli arresti domiciliari in quanto avrebbe concesso sconti di pena a esponenti della criminalità organizzata. L’accusa è corruzione in atti giudiziari e millantato credito. Nell’ambito della stessa inchiesta sono stati arrestati due pregiudicati calabresi ed è stata notificata al suo autista, già in carcere, un’ordinanza di custodia cautelare. Boccalatte al momento si trovava in malattia, in attesa del trasferimento a Firenze che aveva richiesto qualche mese fa. Oltre al Presidente del Tribunale di Imperia finito agli arresti domiciliari, il Gip del Tribunale di Torino ha poi emesso una nuova ordinanza di custodia cautelare per il suo autista, Giuseppe Fasolo. Inoltre, sono finiti in carcere anche due calabresi ritenuti vicini alla malavita, i quali avrebbero beneficiato secondo il castello accusatorio, dei favori del giudice e del suo autista. In particolare si parla di attenuazioni delle misure di prevenzione, che venivano disposte da Boccalasse in qualità di presidente del Tribunale. Ma i due calabresi, secondo gli inquirenti, non sarebbero gli unici ad aver beneficiato di favori. Al momento non risulterebbero i nomi di altre persone nel registro degli indagati. A Fasolo che già si trova in carcere a Torino, l’ordinanza è stata notificata in cella. Dalla ricostruzione degli inquirenti, sembra che Fasolo avesse il ruolo di intermediario tra gli “amici” legati alla malavita e il giudice chiamato a decidere sulle loro sorti. Sarebbe stato lui a garantire a queste persone, che tramite l’intercessione del giudice, avrebbero potuto ottenere dei favori. L’inchiesta per corruzione in atti giudiziari e millantato credito era stata avviata nei mesi scorsi. Caselli fa arrestare il suo amico giudice, di Sonia Oranges (Il Riformista) Concedeva sconti di pena e altri favori a membri delle cosche della regione. Finisce ai domiciliari Giancarlo Boccalatte, a capo dell’ufficio ligure. Un fulmine a ciel sereno nella Liguria dei comuni sciolti per mafia e sotto l’attacco delle cosche Calabresi: ieri mattina all’alba, il presidente del Tribunale di Imperia Gianfranco Boccalatte, è stato messo agli arresti domiciliari, accusato di aver favorito esponenti dei clan. La storia è di quelle che rimarranno nella memoria della gente, visto che fino a ieri mattina il giudice era considerato persona specchiata e integerrima, uno di cui tutti parlavano bene. E invece no. Secondo l’accusa rivoltagli dalla Procura di Torino (competente per reati commessi da magistrati liguri), avrebbe concesso sconti di pena e altri favori a membri delle cosche criminali che da anni si sono installate nella regione. La vicenda comincia lo scorso 18 gennaio, quando Boccalatte è stato iscritto nel registro degli indagati, a seguito dell’arresto del suo autista, Giuseppe Fasolo, cui sono stati contestati i reati di corruzione e millantanto credito. Gli stessi di cui ora deve rispondere il presidente del Tribunale di Imperia, dov’era stato trasferito un anno e mezzo fa, proveniente dal tribunale di Sanremo, uno dei Comuni che sono sotto la lente d’ingrandimento degli inquirenti, descritto nell’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia come “un paradiso ove poter riciclare le ingenti ricchezze prodotte dalle attività illecite, una piazza tranquilla dove svolgere con sistematicità le più proficue attività di estorsione e di usura, il tutto, per così dire, all’ombra del paravento legale offerto dal Casinò”. Stavolta, però, la parte dell’estorsore sarebbe stata impersonata dal giudice Boccalatte, come avrebbero accertato le indagini del procuratore Giancarlo Caselli (che è stato peraltro compagno di università di Boccalatte), che a gennaio ha torchiato per quasi un intero giorno il fedele autista Fasolo (cui ieri è stato notificato in carcere a Torino un altro ordine d’arresto) che da Sanremo si era trasferito a Imperia insieme con il presidente del Tribunale con cui, evidentemente, era in grande confidenza. Degli elementi, evidentemente, accusavano Boccalatte già allora, visto che ad aprile la sezione disciplinare del Csm aveva sanzionato in via cautelare il magistrato, trasferendolo d’ufficio alla Corte d’Appello di Firenze, su conforme richiesta della Procura generale presso la Corte di Cassazione. Tre, in particolare, sarebbero gli episodi che dimostrerebbero come il giudice chiedesse denaro a malviventi, in cambio di provvedimenti a loro favorevoli. Avvenimenti in cui sono coinvolti il pregiudicato calabrese Michele Leonardo Andreacchio e Nicola Sansalone, entrambi destinatari di altrettanti provvedimenti di custodia cautelare, sempre per gli stessi reati. In un caso, Boccalatte, Fasolo e Sansalone avrebbero assicurato gli arresti domiciliari a un condannato, in un altro Andreacchio avrebbe offerto una bella somma a Boccalatte e Fasolo in cambio di una relazione che bloccasse la proposta della questura di Imperia di sottoporlo a sorveglianza speciale, mentre nell’ultimo episodio incriminante, Fasolo e Sansalone giuravano di poter intercedere con il Tribunale della Libertà di Genova per far ottenere a un detenuto misure restrittive più lievi. Il tutto, naturalmente, in cambio di soldi. Per ora, dunque, sarebbero queste le uniche attività che forniscono gravi indizi di colpevolezza contro Boccalatte (per, peraltro, ha 68 anni e quindi potrebbe andarsene in pensione) e i suoi presunti complici, anche se l’inchiesta torinese si sta concentrando anche su centinaia di cause civile in cui il presidente del Tribunale sarebbe intervenuto per aggiustare le controversie in favore di chi poteva ricompensarlo. Per ora, comunque, l’inquisito eccellente attende di essere interrogato dal gip, nella sua villa alle porte di Sanremo. Il suo avvocato, Alessandro Moroni, non ha voluto commentare l’improvvisa accelerazione delle indagini che hanno portato all’arresto del suo assistito: “Non ho ancora letto l’ordinanza di custodia cautelare”. Come resta secretata negli atti delle indagini (di cui Caselli fa trapelare ben poco) se le promesse che Boccalatte avrebbe fatto agli uomini delle cosche, siano state mantenute o meno. Perugia: Carmelo Musumeci si laurea in legge, un importante risultato “contro l’ergastolo” Asca, 20 maggio 2011 Dopo 20 anni ininterrotti di carcere, Carmelo Musumeci, siciliano, oggi 56 enne, ergastolano a Spoleto e simbolo della lotta per l’abolizione dell’ergastolo, ha ottenuto qualche ora di permesso per laurearsi all’Università di Perugia. Entrato in carcere con la licenza elementare, si è diplomato nel 2005 e la scorsa settimana, si è laureato alla Facoltà di Giurisprudenza di Perugia, con una Tesi di Laurea Magistrale in Diritto Penitenziario: La “pena di morte viva”: ergastolo ostativo e profili di costituzionalità. Relatore è stato il Prof. Carlo Fiorio, docente di Procedura Penale. C’era anche Stefano Anastasia, ricercatore di filosofia e sociologia del diritto, tra i fondatori dell’associazione Antigone, della quale è attualmente Presidente onorario e Difensore civico dei detenuti. Carmelo Musumeci ha raggiunto l’Università senza scorta, grazie all’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza che l’affidava ai volontari della Comunità Papa Giovanni XXIII e una volta superato “l’esame finale” quello di laurea triennale, ha festeggiato nella struttura di Bevagna (Pg) assieme a Nadia Bizzotto che è la sua tutor negli studi. Musumeci ha ottenuto un permesso di necessità che viene concesso per eventi gravi, ma anche lieti e irripetibili, non cambiando la posizione giuridica di fronte all’ostatività ad ottenere benefici penitenziari. Oggi il Tg di Rai3 metterà in onda un servizio di Alessia Gizzi sull’ergastolano dottore in legge, mentre Famiglia Cristiana, nel prossimo numero settimanale, dedicherà un servizio a “Carmelo Musumeci, l’ergastolano che si laurea in legge”. Venti minuti di domande poste dal prof. Carlo Fiorio, poi le strette di mano, l’applauso e la corona d’alloro come è tradizione, i saluti dei familiari e degli amici della casa accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII. ‘Carmelo Musumeci, siciliano di Aci Sant’Antonio, oggi ha 56 anni. Ne aveva 36 quando - scrive Alberto Laggia sul prossimo numero di Famiglia Cristiana - nell’ottobre del 1991 fu catturato dalla polizia. Era a capo di una banda che gestiva i traffici malavitosi in Versilia. Già fin da ragazzo aveva bruciato le tappe: collegio e riformatorio prima, carcere minorile poi. “Ero nato colpevole”, dice Musumeci usando il titolo del suo prossimo libro, “dentro una famiglia dove non c’era amore perché l’amore non si mangia e noi eravamo preoccupati solo di trovare qualcosa da mettere sotto i denti almeno alla sera”. Un giorno gli spararono sei colpi di rivoltella. Ma riuscì a scampare all’agguato. “Ho reagito nell’unico modo che conoscevo: facendomi giustizia da solo. Ho seguito solo le regole con cui mi hanno cresciuto. Condannato all’ergastolo, ha scontato finora vent’anni. Adesso è rinchiuso nel carcere di Spoleto assieme ad altri settecento detenuti”. Ivrea: si costituisce detenuto fuggito martedì scorso durante visita a madre malata Adnkronos, 20 maggio 2011 Si è costituito ieri sera, poco prima di mezzanotte, Giovanni Zecchilli, il detenuto di 32 anni che martedì pomeriggio durante un permesso speciale per vedere la madre malata, era fuggito. L’uomo infatti era stato accompagnato da alcuni agenti penitenziari dal carcere di Ivrea, nel torinese, a Milano dove si trovava la madre. Lui li aveva strattonati e era scomparso. Ieri sera si è presentato al carcere di Ivrea. Lo rende noto Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria che sottolinea che “questo è stato possibile anche grazie all’attenta, costante e scrupolosa azione ed opera di convincimento di tutti gli appartenenti alla polizia penitenziaria in forza alla casa circondariale di Ivrea. A loro - conclude - esprimiamo tutto l’apprezzamento e la gratitudine in nome di tutto il corpo di polizia penitenziaria”. Immigrazione: in Campania c’è un Lager… il Cie di Santa Maria Capua Vetere deve chiudere Carta, 20 maggio 2011 La militarizzazione con cui il governo ha intesto gestire l’arrivo di profughi e migranti dal nord - africa rispecchia la retorica emergenziale e securitaria del discorso pubblico sul tema dell’immigrazione e il suo continuo incattivirsi in chiave razzista. Ed è il volto interno della guerra che anche per questi motivi si sta conducendo in Libia! La trasformazione della caserma E. Andolfato di Santa Maria Capua Vetere in un centro di detenzione per immigrati e rifugiati è avvenuta in un regime di puro Stato d’eccezione, di autoproclamata “emergenza”, con la costituzione di un campo chiuso e sorvegliato denominato Cai, acronimo sconosciuto alla pur fantasiosa proliferazione semantica che caratterizza la macchina della deportazione in Italia. Con un’ordinanza del 21 aprile la caserma è stata infine trasformata in un Cie, un “centro di identificazione ed espulsione”. Sono le famigerate galere etniche per migranti istituite nel ‘98 dalla legge Turco - Napolitano e per le quali il “pacchetto - sicurezza” ha allungato i tempi di detenzione fino a sei mesi! Una lunga reclusione per persone accusate di nulla, se non di cercare una vita diversa, un lavoro o magari l’asilo politico e la protezione internazionale. La pratica della libertà di alcune migliaia di persone che hanno attraversato il Mediterraneo in queste settimane ha mandato però in crisi le procedure esistenti, dimostrandone tutto il carattere puramente ideologico. Così, saltato anche il paravento di burocrazie e dispositivi, la violenza e l’arbitrio si sono mostrate nella loro nuda realtà! Inizialmente il governo è stato costretto a riconoscere la protezione umanitaria, ma inspiegabilmente solo per le persone arrivate fino al 5 aprile e con un permesso “non rinnovabile” che di fatto posticipa semplicemente la condizione di clandestinità. Poi c’è stata la detenzione illegittima, ai limiti del sequestro di persona, nei nuovi Cai/Cie di Santa Maria Capua Vetere, Palazzo San Gervasio, Civitavecchia… con molteplici violazioni dei diritti umani e delle stesse garanzie costituzionali. Fin dai primi giorni la Caserma Ezio Andolfato è diventata infatti un centro della vergogna, con centinaia di persone costrette a vivere in una tendopoli perennemente esposta al sole e con la polizia che ha represso il loro comprensibile malessere con cariche ripetute, lacrimogeni sparati tra le tende, uso di unità cinofile… Mentre decine di profughi si fratturavano gambe e braccia nel tentativo di saltare le mura e guadagnarsi la libertà! I rifugiati che sono oggi reclusi nel Cie di S.M. Capua Vetere sono stati detenuti per circa due settimane, prima su una nave militare trasformata in prigione galleggiante e poi nella caserma Andolfato, senza il vaglio di nessuna autorità giudiziaria. E quando infine è arrivata l’udienza del giudice di pace, al danno si è aggiunta la beffa, col rifiuto di scarcerarli per scadenza dei termini di legge e arrivando anzi ad affermare che i migranti si erano “autoreclusi” di propria spontanea volontà, che si lanciavano dalle mura perché forse non gli piace uscire dalla porta! Oggi le condizioni di detenzione sono diventate ancora più assurde, con le persone rinchiuse l’intera giornata nelle tende, private persino delle reti dei materassi, costrette spesso a usare le bottiglie per i bisogni fisiologici…! Intanto le mura della caserma Andolfato confezionano un chiaro messaggio di criminalizzazione sociale. Sono una vera frontiera del senso: al loro interno, dietro i pattugliamenti della polizia a cavallo (!), circondati giorno e notte dai reparti antisommossa, i “giovani coraggiosi che in Nord Africa si rivoltano per la democrazia”, diventano rapidamente “pericolosi e inquietanti clandestini”… e si svela tutta l’ipocrisia di chi a parole incoraggia la “lotta per la democrazia” e nei fatti vorrebbe continuare ad avere regimi polizieschi che impediscano la libertà di movimento ai propri cittadini, garantendo la blindatura della fortezza europa. Cancellare il Cie Andolfato è perciò una responsabilità di tutti! È necessario mobilitarsi per pretendere la chiusura di questo lager, come degli altri campi detentivi; per rivendicare il diritto a una vera accoglienza e alla regolarizzazione attesa anche dai tanti migranti che ancora sono costretti alla clandestinità in tutta Italia; ci mobiliteremo contro le norme razziste approvate in questi anni e che servono solo a sfruttare i lavoratori immigrati, a speculare sulla politica della paura e ad affogare nella guerra tra poveri quel po’ di libertà che ancora esiste. È tempo invece di raccogliere il vento dei cambiamenti che arriva dal Sud per aprirci a una nuova visione del Mediterraneo. Che deve smettere di essere la tragica tomba di migliaia di persone che “non ce l’hanno fatta” per diventare un mare dei diritti e della libertà a partire dal fondamentale diritto di movimento degli esseri umani! Coordinamento antirazzista contro il Cie Andolfato Primi firmatari: Erri De Luca - scrittore, Luca Zulù - Cantante, Alessandro Ferrante - Musicista, Marco Zurzolo - musicista, Maurizio Braucci - scrittore, Domenico Ciruzzi - Avvocato, Cristian Valle - Avvocato, Kalifoo Ground (gruppo musicale italo - ghanese di Castelvolturno), Movimento immigrati e rifugiati di Caserta, Collettivo NoBorder di Napoli, Centri sociali della Campania, Usb, Confederazione Cobas, Cantieri Sociali, Cooperativa Dedalus, Collettivi studenteschi universitari, Studenti autorganizzati di Napoli e di Santa Maria Capua Vetere, Assopace, Donne in Nero, Collettivo femminista Degeneri, Comunità tunisina di Napoli, Comunità araba in Campania Europa: una protezione europea per le vittime dei reati di Viviane Reding e Antonio Tajani (Vicepresidenti della Commissione Europea) IL Messaggero, 20 maggio 2011 Immaginatevi una tiepida serata primaverile, mentre vi dirigete verso la metropolitana dopo aver visto un film al cinema. Improvvisamente due uomini vi aggrediscono, vi colpiscono alla testa, vi derubano di cellulare e portafogli e fuggono via lasciandovi frastornati e barcollanti in mezzo alla strada. In pochi istanti una piacevole serata si è trasformata in un incubo. Purtroppo storie come questa accadono tutti i giorni. Ogni anno in Europa oltre 75 milioni di persone, circa il 15% della popolazione dell’Unione europea, sono vittime di reati gravi. Attualmente il trattamento e la protezione delle vittime variano notevolmente da uno Stato membro all’altro dell’Unione europea. Alcune persone non ricevono assistenza giuridica dopo essere stati vittime di reati violenti e in alcuni Paesi non è previsto il servizio di traduzione per il cittadino straniero che denuncia Fautore di un reato di cui è stato testimone. A chi devono rivolgersi le vittime di reato per trovare assistenza, protezione o aiuto nell’orientarsi all’interno dell’ordinamento giudiziario nazionale? Quali diritti possono esercitare in ciascun Paese? La Commissione europea ha una risposta: standard minimi, applicabili in tutti gli Stati membri dell’Unione, che assicurino assistenza e sostegno alle vittime di tutti i reati, sia che si tratti di un incidente stradale nel tragitto verso il sud della Francia o di una aggressione a scopo di rapina a Barcellona, Liverpool o Amburgo. Le nuove misure che vengono proposte instaureranno un livello comune di protezione in tutta l’Unione europea per aiutare le vittime della criminalità a far valere i loro diritti. Qualunque sia la natura del reato subito - aggressione, rapina, furto con scasso, violenza, stupro, molestia, reati a sfondo razzista o omofobo, attacco terroristico, o traffico di esseri umani - tutte le vittime condividono gli stessi bisogni fondamentali. Le vittime della criminalità devono essere trattate con rispetto e sensibilità, garantendo loro sostegno medico, psicologico, giuridico e pratico. Bisogna fare in modo che le vittime possano testimoniare in tribunale senza temere intimidazioni da parte degli autori dei reati. Che accade se una donna vittima di stalking ottiene un “ordine di protezione”? Tale ordine è valido anche se la vittima si trasferisce in un altro Paese dell’Unione europea? La Commissione si adopererà perché l’ordine di protezione venga riconosciuto anche in altri Stati membri, garantendo così protezione alla vittima anche quando attraversa una frontiera. Chi è stato vittima di un crimine vuole vedere la giustizia compiere il proprio corso. Spesso le vittime necessitano di questo atto di liberazione per poter continuare a vivere: hanno bisogno di essere informate sulla data del processo, ottenere il rimborso delle spese di viaggio e usufruire di servizi di interpretazione e traduzione durante il procedimento giudiziario. La storia dell’Unione europea dimostra che lavorando insieme possiamo davvero cambiare in meglio la vita dei cittadini. In questa occasione la nostra attenzione è puntata sulle vittime, per fare sì che ottengano il sostegno di cui necessitano, il rispetto che meritano e i diritti che si sono guadagnate. Raggiungere questo scopo rafforzerà la fiducia dei cittadini nella giustizia e nei sistemi giudiziari in tutta Europa. Anche se non potremo mai cancellare le sofferenze delle vittime o restituire loro ciò che hanno perso, possiamo alleviare il senso di frustrazione e confusione che vivono dopo un crimine. Dobbiamo dare la priorità alle vittime: lo meritano. Messico: incendio in carcere, 14 morti e 35 feriti Ansa, 20 maggio 2011 Almeno 14 detenuti morti e 35 feriti, è il bilancio provvisorio di un incendio divampato poco prima delle 04:00 d oggi (le 11:00 in Italia), nel padiglione psichiatrico del carcere di Apodaca, alla periferia di Monterrey, capitale dello Stato di Nuovo Leon, a ridosso della frontiera con gli Usa. Lo hanno reso noto i media locali, precisando che, secondo i primi accertamenti, le fiamme, provocate da un cortocircuito, hanno fatto crollare il tetto che ha schiacciato i carcerati. Si tratta del secondo incidente con vittime registrato nelle carceri messicane questa settimana. Mercoledì scorso almeno otto detenuti avevano perso la vita in una rissa scoppiata in un penitenziario di Durango. Siria: detenuti fuggono da prigione in fiamme al confine con l’Iraq Ansa, 20 maggio 2011 Un numero imprecisato di detenuti sono fuggiti oggi da un carcere di Albukamal, nell’estremo est siriano al confine con l’Iraq, in seguito a un incendio della sede del governatorato, che ospita anche delle celle. Lo riferisce la tv panaraba al Arabiya, che cita testimoni oculari. Le fonti affermano che i detenuti sarebbero stati liberati dagli abitanti di Albukamal che avrebbero così impedito la morte dei prigionieri all’interno dell’edificio in fiamme. Stati Uniti: Strauss-Kahn formalmente incriminato e scarcerato su cauzione da 1 mln $ Asca, 20 maggio 2011 Dopo essere stato formalmente incriminato dal Gran Giurì riunitosi per esaminare le accuse di aggressione sessuale e stupro nei confronti di una cameriera del Sofitel di Times Square, a New York, Dominique Strauss-Kahn è stato scarcerato su cauzione da un milione di dollari, alla quale si aggiungono altri cinque milioni di assicurazione. Il tribunale di New York ha deciso che DSK non dovrà più stare in carcere ma dovrà restare a disposizione ai domiciliari (nella casa newyorkese della figlia), indossando però un braccialetto elettronico che controlli ogni suo movimento. Il timore è una fuga all’estero dell’ex direttore del Fondo monetario internazionale: a vigilare sull’imputato, infatti, ci sarà anche un poliziotto armato. Arrivando in tribunale, DSK ha tuttavia ribadito la sua innocenza e ha respinto le accuse di stupro e sequestro di persona. L’ex direttore del Fondo monetario internazionale è stato arrestato sabato, mentre cercava di lasciare il Paese a bordo di un volo Airfrance. Gli agenti della polizia lo hanno prelevato mentre già si trovava a bordo in attesa del decollo. La sua scarcerazione ha seguito le dimissioni dal Fondo, ufficializzate ieri con una lettera. “È con infinita tristezza che oggi mi sento costretto a presentare al Consiglio Esecutivo le dimissioni dal mio incarico di direttore operativo del Fondo”, ha scritto Strauss - Kahn nella lettera di rinuncia. “Voglio affermare che nego con la maggiore fermezza possibile tutti gli addebiti che sono stati formulati a mio carico. Voglio proteggere questa istituzione che ho servito con onore e dedizione”. Intanto continuano a circolare i nomi di un suo possibile successore: in pole position il ministro delle Finanze francese, Christine Lagarde. Subito dopo, secondo il China Daily, spunta un candidato cinese, Zhu Min, consigliere speciale dello stesso Strauss - Kahn. Per la cancelliera tedesca Angela Merkel, invece, non c’è dubbio: il Fondo monetario internazionale deve essere affidato a un europeo.