Giustizia: Ardita (Dap); lavora solo 1 detenuto su 5, fondi dedicati in calo del 30% www.giustizia.it, 1 maggio 2011 Sono 14.174 i detenuti che lavorano. Rappresentano il 20,8% della popolazione carceraria: una percentuale ancora modesta, ma la prospettiva è quella di creare sempre più reali opportunità di inclusione socio-lavorativa. Lo scrive il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nell’ultima relazione al Parlamento sul lavoro dei detenuti. Il lavoro penitenziario, infatti, è forse lo strumento principale grazie al quale il detenuto riesce a riacquistare una patente di credibilità sociale. Lo stesso riconoscimento costituzionale come uno dei principi fondanti della Repubblica rimanda alla funzione che il lavoro svolge nella società, come mezzo di produzione di ricchezza tanto materiale quanto morale per la persona: non come merce necessaria alla massimizzazione dei profitti, non come mero fattore di produzione, ma come realizzazione dell’individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali, e quindi della società tutta. Ma mentre il lavoro per la persona libera è un’opportunità attraverso la quale trovare senso identitario e innescare meccanismi di riconoscimento sociale, in carcere esso è innanzitutto strumento di riscatto. La dimensione sociale prevalente resta quella di persona detenuta che però, attraverso il lavoro, può guadagnarsi mezzi e risorse derivanti dall’impegno e la volontà di uscire fuori dalla sua condizione di devianza. In occasione della Festa dei lavoratori, abbiamo chiesto al Direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap, Sebastiano Ardita, di analizzare e commentare per noi gli ultimi dati relativi ai corsi professionali e alle attività lavorative dei detenuti per l’anno 2010. I dati 2010 evidenziano un leggero incremento dei detenuti che lavorano e un impegno maggiore dell’Amministrazione per favorire la nascita di nuove opportunità formative e/o professionali. A che punto siamo rispetto all’attuazione dei desiderata della legge, che prevede l’obbligatorietà del lavoro carcerario come trattamento rieducativo? Partiamo dal fatto che oggi in Italia il 20% della popolazione detenuta lavora. È un dato di media entità, che di per sé sembrerebbe modesto, tenendo conto del fatto che il lavoro dovrebbe essere una delle componenti fondamentali dell’attività di trattamento penitenziario, ma è più realisticamente accettabile se consideriamo che in Italia, dei 67 mila detenuti presenti, una grande parte è in transito dal carcere e non in condizione di stabile detenzione. La porzione di popolazione che ha una certa stabilità si attesta attorno ai ventimila unità, perché abbiamo una buona metà che sono soggetti giudicabili che entrano in carcere per periodi molto brevi (si consideri che il 50% degli arrestati resta in carcere per non più di trenta giorni) e che non avrebbero neanche il tempo di iniziare un’attività lavorativa. La porzione dei definitivi, che si attesta a poco più della metà dei presenti, in realtà poi presenta caratteristiche di stabilità in pochi casi: quindi realisticamente possiamo dire che questo è un numero legato alla scarsità di presenze stabili in carcere. Il carcere, infatti, assomiglia sempre più ad una caserma di polizia e questo è un aspetto che abbiamo più volte denunciato nel corso degli anni: è stato sottratto al suo scopo naturale, che è quello di servire alla rieducazione dei condannati e creare percorsi alternativi, ed è diventato uno strumento per tamponare dei momenti di difficoltà sociale. Ma la ragione per cui lavorano in pochi non è soltanto legata alla facile giustificazione della mancanza di un tessuto connettivo su cui intervenire, poiché ci sono anche attività lavorative che potrebbero essere svolte da detenuti che permangono per un breve periodo, come ad esempio i piccoli lavori di pulizia e manutenzione della struttura penitenziaria. La vera ragione, come si legge nella Relazione che abbiamo presentato al Parlamento nel gennaio scorso, è rappresentata dalla scarsità dei fondi che, dal 2006 a oggi, sono stati assegnati per il lavoro dei detenuti e con i quali dovremmo far funzionare le carceri, mantenere condizioni igieniche accettabili, gestire alcuni servizi interni come quelli della mensa. Siamo passati dai 71.400.000 euro del 2006 ai 49.664207 del 2011. Noi dobbiamo far fronte a una popolazione detenuta che dal 2006, anno dell’indulto, è cresciuta dalle 50mila unità alle attuali 70mila circa, con un aumento demografico di circa il 40% e una contestuale perdita di fondi pari al 30%. Le due curve si sono incrociate, mentre in realtà avrebbero dovuto seguire una linea coerente. Come risultato, abbiamo oggi una disponibilità pro capite dimezzata rispetto a quello che avevamo nel 2007 per far lavorare un detenuto. Questo cosa ha comportato? Un grosso stop nell’attività di rilancio del lavoro penitenziario. Infatti nel dicembre 2001 - anno dal quale ricopro l’incarico di direttore generale - lavoravano 13.800 persone, di cui 2.000 per ditte esterne; alle soglie dell’indulto del 2006, ne lavoravano già 15.500, di cui 3.000 non alle dipendenze dell’amministrazione. Quindi era cresciuta del 50% la quantità di lavoro ‘vero’, quello cioè alle dipendenze di imprese esterne che comporta la messa in regola e la permanenza nell’occupazione anche dopo l’uscita dal carcere. Insomma i lavoranti nel 2006 erano pari al 30% della popolazione detenuta, rispetto al 20% di oggi. Poi è arrivato l’indulto, che ha colpito quella porzione di popolazione detenuta sulla quale era possibile fare il trattamento, lasciando invece intatta la porzione di quelli che possiamo definire transitanti. Un provvedimento che doveva accompagnarsi ad alcune riforme strutturali e che azzerando quel sovraffollamento doveva giovarsi di alcune riforme del sistema penale che non sono mai arrivate. Qui dobbiamo fare un’analisi un po’ più ampia. Noi facciamo lavorare persone che hanno infranto il patto sociale, quindi rieduchiamo persone che hanno imboccato una strada sbagliata; ma abbiamo un sistema che in certi casi ha finito per colpire persone che semplicemente vivevano dei disagi derivanti da una condizione di povertà, tossicodipendenza, esclusione sociale, non appartenenza al contesto sociale e culturale ed extracomunitari per i quali si è fatta una scelta che è ‘politica’, ma nella quale è rientrato anche il carcere. Il carcere come luogo dell’estrema ratio, in cui si rieducano persone che hanno violato gravemente il patto sociale e spesso pericolose, si è trovato a dover gestire anche la presenza di soggetti reclusi per illeciti e fatti bagatellari. Perché è accaduto questo? Perché da anni in Italia la sanzione penale è diventata una sanzione meramente virtuale. L’arresto e la reclusione, la multa o l’ammenda, non ci sono altre possibilità in prima battuta: è chiaro che se tutte le persone che commettono reati finissero in carcere non basterebbero un milione di posti. Allora il carcere è divenuto una realtà virtuale, uno spauracchio: questi meccanismi, che rendono formale la sanzione, legati alla incensuratezza, alla scarsezza di entità del reato sono saltati per alcune categorie di imputati in base ad un criterio teoricamente corretto che è quello della recidiva, ma che praticamente diventa sbagliato perché nelle sanzioni penali che colpiscono il disagio la recidiva si fa, purtroppo, regola. Il fatto di commettere due o tre volte un reato con il quale un soggetto cerca di risolvere un problema esistenziale di fondo legato al disagio - mangiare, trovare un ricovero, un documento o un lavoro - è naturale. Anzi è fisiologico che si cada nella recidiva. Quindi, il recidivante che cerca di superare un disagio trova poi nella recidiva uno strumento che gli apre le porte del carcere e rende effettiva la sanzione virtuale. Noi ci troviamo detenuti definitivi che non hanno nessun tratto di pericolosità e hanno viceversa tutte le caratteristiche che servono a garantirne una facile rieducabilità. Un extracomunitario che ha commesso quattro reati bagatellari, che ha violato il permesso di soggiorno, ha tre volte l’obbligo di espulsione e ha venduto le collanine, se lo porto dentro e gli offro un lavoro vero, gli faccio una cortesia: non faccio nessun sacrificio e la rieducazione è automatica, ma l’errore sta a monte e sta nell’averlo portato in carcere. Con questo, non si deve sminuire il senso dell’obbligatorietà dell’azione penale, bisogna piuttosto pensare ad una sanzione diversa, perché quando una sanzione si inflaziona bisogna rivolgersi a sanzioni più dirette, immediate e meno coinvolgenti l’estrema ratio del sistema penale. Ora è chiaro che il carcere continua ad essere un presidio di legalità per alcune forme gravissime di criminalità grazie al quale arginiamo la presenza di criminalità organizzata di tipo mafioso ma anche la presenza di soggetti che compiono reati gravi, seppure non sono organizzati, criminali incalliti che hanno commesso una pluralità di fatti pericolosi. Però è anche vero che appesantire il sistema con la presenza di soggetti che non sono tali da giustificarne la presenza in carcere fa perdere il senso della stessa pena e si crea un pericoloso presupposto che è quello di far scarseggiare le risorse per tutti e di mettere in condizione, chi ha la responsabilità di gestire l’Amministrazione Penitenziaria, di non trovare criteri idonei, utili, validi per distribuire bene tali risorse. Si viene a creare una situazione nella quale la presenza di molti reati di poco conto fa pressione sul carcere e porta all’assunzione di provvedimenti di clemenza. A loro volta, i provvedimenti di clemenza che si agganciano ad un dato certo, che è la condanna definitiva, finiscono per avvantaggiare i detenuti che meno sono meritevoli di questo tipo di risultato e di rimedio. E quindi? Il problema è che a fronte di una crescita di fatti penalmente rilevanti, il carcere è rimasto un luogo nel quale le risorse sono sempre le stesse. Nessuno ha mai pensato che ad un aumento della popolazione penitenziaria consegue un aumento dei costi di gestione, cioè nessuno ha mai pensato che la variabile dell’aumento dei detenuti sia una variabile che incide sul bilancio economico, perché crea ulteriori esigenze trattamentali e di sicurezza. Attorno a tutto questo passa la problematica del lavoro penitenziario che è la più manageriale delle problematiche esistenti, cioè quella più legata anche alla dimensione retributiva della pena. Parliamo di un’attività che viene promossa in tutte le realtà penitenziarie, anche in quelle che negano i diritti del detenuto e dove la pena è concepita solo come afflizione e il lavoro come una conseguenza ulteriore di questa afflizione. Quindi parliamo di un elemento di base anche se il lavoro in Italia ha una sua forte derivazione costituzionale. È veramente un’attività di base, che si svolge con la testa, ma il carcere ha bisogno anche di cuore: per adesso senz’altro dobbiamo garantire il lavoro perché se non c’è questo non c’è nemmeno speranza, ma ci sono anche attività che vanno svolte col cuore e che sono appunto quelle per la costruzione di modelli di trattamento rieducativo rispetto ai quali il lavoro è un tassello importantissimo e appunto basilare. Da molte parti si polemizza sul fatto che in u momento di crisi economica così stringente, in cui è sempre più facile perdere il posto di lavoro e sempre più complesso trovarne uno, la società civile debba farsi carico di garantire un’occupazione ai detenuti? Il problema è di grande complessità e quindi merita una risposta articolata. Il lavoro previsto dalla Costituzione, infatti, è un lavoro pensato per persone libere e che hanno voglia, possibilità e necessità di svolgere un’attività conforme alle inclinazioni personali, quindi un lavoro ispirato dalla condizione di libertà. Il lavoro penitenziario, invece, per quanto non sia uno strumento di afflizione, è soltanto una parte del progetto definitivo che si vuole realizzare, dal momento che è la società l’ultimo e il principale soggetto beneficiario. Deve essere un’attività remunerata finalizzata a creare un percorso di rieducazione. Uno dei nostri obiettivi prioritari, infatti, è quello di garantire che i detenuti vengano sciolti dal pervicace legame con l’attività criminale ritornando a una condizione di civiltà e di rispetto delle regole che comporta conseguenze anche in termini di più ampia sicurezza sociale. È chiaro allora che, il sacrificio rappresentato dall’impiego di risorse economiche e la garanzia di un accesso privilegiato al lavoro, conformemente al dettato della legge Smuraglia, è un sacrificio soltanto apparente. C’è poi da affrontare un’altra questione. Mentre il cittadino comune ha diritto in senso programmatico a che la Repubblica gli garantisca le condizioni che favoriscono il lavoro, il detenuto ha diritto a ricevere l’indicazione di un criterio oggettivo per il superamento della sua condizione di perversione, depravazione e violazione delle regole, insomma, della sua ‘cattiveria’ nel senso criminologico del termine. Al carcerato viene proposto un programma e questi deve aderirvi con l’impegno che il patto trattamentale comporta. È chiaro, allora, che le polemiche sugli aspetti economico-sociali del lavoro dei detenuti non hanno fondamento salvo che si vogliano investire risorse in attività di prevenzione, polizia e cancelli automatici, sistemi di protezione passiva che dal punto di vista economico comporterebbero un dispendio di gran lunga più elevato e rappresenterebbero un’operazione insensata sia razionalmente che politicamente. I lavoranti non alle dipendenze dell’Amministrazione e quelli dipendenti dall’Amministrazione penitenziaria sono in un rapporto di circa 1 a 10. Come si commenta questo dato? Non è forse il lavoro presso enti e imprese esterni all’Amministrazione penitenziaria la strada più utile al reinserimento sociale del detenuto? Certo. Gli incentivi alle imprese sono compendiati in una tabella in cui sono riportati i fondi di cui disponiamo, sempre nel solco della legge Smuraglia, per offrire alle imprese crediti d’imposta e agevolazioni nel pagamento degli oneri di carattere contributivo. Si tratta di un capitolo gestito direttamente da Agenzia delle Entrate e Inps che inizialmente hanno seguito le procedure tipiche di autodichiarazione. Tale meccanismo, nel suo primo anno di attuazione, ha comportato un utilizzo improprio delle somme destinate e questo ha reso necessario un maggiore controllo da parte dell’Amministrazione Penitenziaria al fine di concedere benefici fiscali solo a fronte di un’effettiva fornitura di manodopera da parte delle ditte richiedenti. Secondo dato importante: i lavoranti dipendenti dal Dap svolgono un’attività che è indispensabile a far funzionare le strutture carcerarie. Ad esempio la pulizia, la manutenzione degli ambienti, la cucina dei detenuti sono attività che devono essere svolte in ogni caso, indipendentemente dal coinvolgimento degli stessi carcerati. Destinare i fondi al lavoro di questi ultimi, quindi, produce due effetti importanti: il primo è rappresentato dal regolare svolgimento della vita all’interno del carcere, il secondo, dall’opportunità di lavoro che si crea per i detenuti. Ecco perché la percentuale di dipendenti dall’Amministrazione Penitenziaria è sempre preponderante. Perché sostanzialmente copre servizi che altrimenti dovrebbero essere commissionati a società esterne. Fino a che punto le attività lavorative riescono a concretizzare le finalità rieducative e di reinserimento sociale cui sono preposte? È possibile effettivamente sottrarre alla recidiva persone abituate a guadagnare illegalmente e facilmente grandi somme di denaro? Il meccanismo della probation in Italia è legato essenzialmente alla possibilità di guadagnarsi un lasciapassare per il futuro mettendosi nella condizione di avere la possibilità, grazie al lavoro, non solo di migliorare la propria condizione economica ma anche di avere uno sconto di pena piuttosto che una possibile misura alternativa al carcere. Il lavoro, quindi, non è visto come fonte di mero guadagno economico quanto, invece, come fonte del più importante guadagno giuridico di una patente che consenta poi al detenuto di rivolgersi alla sorveglianza dicendo: “Io ho fatto questo cammino, mi è stato imposto questo percorso, l’ho fatto in modo aderente alla volontà dello Stato e oggi chiedo di uscire dal carcere quattro anni prima. Voglio essere semilibero”. Per quanto riguarda l’occupazione femminile, l’Amministrazione Penitenziaria ha siglato un protocollo d’intesa con quattro cooperative sociali presso gli istituti di Lecce, Trani, Vercelli, Torino, Milano San Vittore e Milano Bollate. Come mai? Le donne sono più recettive a questo tipo di attività rispetto agli uomini? Partiamo da un presupposto: il carcere non è in Italia un luogo femminile. Il carcere è maschile sia per quello che riguarda le sue caratteristiche strutturali, nel senso che il 95 % della popolazione carceraria è maschile, sia per le modalità dure di custodia, perché è ispirato a una capacità di contenimento che sottrae all’uomo energie fondamentali mettendolo in condizioni di sofferenza non indifferenti. Il carcere femminile è soltanto il 5 % del carcere totale in Italia a differenza di altri paesi in cui costituisce, invece, almeno il 20%. In termini assoluti le donne sono 3.000 e gli uomini 65.000. Questo dà luogo a due esigenze. La prima è quella di venire incontro alle differenze di genere. Il carcere, infatti, come tutte le realtà istituzionali, è calato nell’ambito dei principi della Costituzione Repubblicana per cui, come ogni altra attività, deve essere avulso da discriminazioni di sesso, lingua, religione, cultura, il che ci rimanda al secondo comma dell’art. 3 della Costituzione. Alla luce dello stesso vanno fissati i presupposti affinché le donne abbiano un carcere che è più uguale rispetto alle loro condizioni di partenza. Quindi non un carcere costruito al maschile con le logiche purtroppo negative che questo comporta anche in termini di contenimento muscolare. Proprio per questo abbiamo cercato di valorizzare gli aspetti più tipici dell’universo femminile. Primo fra tutti il problema, laddove c’è, della maternità. Il ruolo della donna, madre e detenuta. Qualcuno potrebbe ricondurre i termini della questione all’ambito di competenza dei servizi sociali esterni che si occupano dei bambini. Si tratta, invece, di un problema strettamente connesso alle donne perché non possono funzionare dei percorsi di rieducazione che non tengano conto della delicatezza di un momento particolare qual è, appunto, la maternità. A ciò si aggiunga anche lo stigma rappresentato dall’idea per cui vanno in carcere soltanto gli uomini, il che contribuisce a far vedere le donne in maniera ancora più negativa da parte della società. Tutti questi problemi ci hanno indotti a redigere un Pea (programma esecutivo d’azione) tarato sulla dimensione femminile che è stato presentato nell’ultima direttiva del ministro nel 2010. Quanto alle differenze tra detenuti italiani e detenuti stranieri? È una differenza legata più alle caratteristiche di partenza che alla condizione di extraterritorialità, di appartenenza a una cultura e a un territorio diversi. Sostanzialmente lo straniero, raggiunto dalla carcerazione per ragioni di disadattamento sociale, risponde quasi sempre positivamente all’offerta di trattamento. Anzi, diciamo che molte volte cerca il lavoro perché il lavoro che trova in carcere è un surrogato di quello che aspirava a svolgere altrove. Fino a raggiungere l’estremo di situazioni nelle quali il detenuto, rispetto al fine pena, si trova imbarazzato e scontento perché, pur ottenendo la libertà, sa di perdere, insieme alla carcerazione, il lavoro. Ma è chiaro che, anche dal punto di vista della popolazione carceraria nazionale, il detenuto avverte il bisogno di lavorare perché vede in questa forma di coinvolgimento uno strumento in grado di portarlo al di fuori di quella dimensione di noia e routine che rende intollerabile la condizione di non libertà. Pochi giorni fa il ministro Alfano ha firmato un accordo interregionale per l’inclusione socio-lavorativa dei soggetti in esecuzione penale. Quali orizzonti si aprono, a suo avviso? Il meccanismo dell’attenzione al carcere ha una dimensione prima di tutto locale quindi è assolutamente naturale che un territorio percepisca la realtà penitenziaria come di sua competenza. È giusto, quindi, che un Comune affronti il problema di pianificare le vite che si svolgono all’interno del carcere nel modo più coerente possibile rispetto ai fini costituzionali e a quelli che sono anche gli scopi dell’ente pubblico territoriale. Io vedo quindi con molto favore ogni tipo di incrocio, di incontro tra realtà che non vengono caricate di responsabilità politiche ma che sono legate alla buona gestione del territorio. Giustizia: troppi tossicodipendenti in carcere, sono più di quelli che entrano in comunità Avvenire, 1 maggio 2011 Carceri sovraffollate, con 25mila detenuti in esubero. In buona parte si tratta di persone con problemi legati al consumo di stupefacenti. Secondo i dati presentati al convegno del Gruppo Abele, sono gli effetti di quella che gli esperti chiamano “detenzione sociale”, la delega al carcere del recupero di soggetti marginali. In alcuni capienti istituti penitenziari come il milanese San Vittore, il torinese Le Vallette, il romano Rebibbia, il genovese Marassi e il napoletano Poggioreale, i tossicodipendenti presenti sono anche più del 50%, la media nazionale si aggira sul 27%. Da tempo il numero di tossicodipendenti che transita annualmente per i 207 istituti per adulti e i 17 per minori è maggiore di coloro che passano dalle comunità terapeutiche: circa 26mila contro 16mila. Si tratta di persone con un cumulo di problemi: poli dipendenza, patologie psichiatriche associate, famiglie disfunzionali, bassa scolarizzazione, povertà. Servirebbero per loro interventi sociali. Ma per la prima voltai dati al 30 giugno 2010 mostrano come il numero di affidati ai servizi sociali fuori dal carcere sia inferiore a quello degli affidati in detenzione. Il motivo sarebbe anzitutto la legge ex Cirielli, che vieta ai recidivi l’accesso ai percorsi alternativi alla detenzione. “Ma - spiega il sociologo del Gruppo Abele Leopoldo Grosso - per definizione scientifica la tossicodipendenza è recidiva. Questo ha invalidato il pur nobile intento della legge Fini-Giovanardi, da noi non condivisa, che voleva incarcerare i tossicodipendenti per consentire loro l’accesso alle cure”. Preoccupa poi gli operatori la riduzione della spesa media annua per ogni detenuto, passata dai 13.170 euro del 2007 ai 6.257 del 2010. Risorse che il sistema carcerario mette a disposizione per il cibo, l’igiene, l’assistenza e l’istruzione dei detenuti, oltre che per la manutenzione delle carceri. Il dimezzamento fa intuire il forte degrado della vita carceraria. Drasticamente ridotte anche le risorse per retribuire le attività di lavoro interne agli istituti penitenziari. Solo un detenuto su quattro lavora. Giustizia: prime scarcerazioni di immigrati clandestini, sotto esame migliaia di fascicoli Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2011 Scattano le prime scarcerazioni dopo la decisione della Corte di giustizia europea che giovedì ha bocciato la sanzione penale, (reclusione da uno a quattro anni) prevista in caso di inottemperanza del clandestino all’ordine di abbandonare lo stato. Ieri hanno ritrovato la libertà quattro immigrati irregolari detenuti nel carcere di Marassi di Genova. I pm della procura ordinaria e di quella generale del capoluogo ligure hanno ritenuto subito applicabile la sentenza dei giudici europei e hanno ripreso in mano più di mille fascicoli non solo per verificare il numero degli immigrati potenzialmente interessati, ma anche per ricalcolare la pena per i clandestini finiti in carcere anche per altri reati: occorre, a questo punto, togliere dal computo i giorni già scontati in cella per clandestinità. Ma non c’è solo Genova. “La sentenza conforta la nostra interpretazione sull’esecutività della direttiva europea” osserva da Firenze il procuratore Giuseppe Quattrocchi, che con una circolare il 18 gennaio scorso ha stabilito che per i clandestini non ci sarebbero stati arresti, ma solo denunce. Un magistrato fiorentino, Paolo Barlucchi, il 6 gennaio scorso, è stato fra i primi in Italia a rimettere in libertà due clandestini arrestati per non aver rispettato l’ordine di allontanamento del questore. Pronti a scendere in campo anche i garanti dei detenuti, che solleciteranno i magistrati “a compiere gli atti dovuti” cioè a “provvedere all’immediata scarcerazione delle persone arbitrariamente detenute” come annuncia Franco Corleone, coordinatore dei garanti territoriali e garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze. La sentenza, tra l’altro, raccomanda all’Italia un punto: “Il trattenimento avviene di norma in appositi centri di permanenza temporanea” oggi chiamati Cie (centri di identificazione ed espulsione). Ma “qualora uno Stato membro non possa ospitare il cittadino un paese terzo interessato in un apposito centro” per mancanza di posti disponibili, per esempio, “i cittadini di paesi terzi trattenuti sono tenuti separati dai detenuti originari”. L’Italia, tuttavia, da questo punto di vista è con le carte in regola: gli stranieri in carcere finiscono in celle miste solo se hanno commesso un reato di tipo tradizionale, quindi non siamo più nella fase del “trattenimento”. I carcerati non italiani negli istituti di pena sono in totale circa 24mila (si veda la tabella a fianco) secondo gli ultimi dati del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La metà sono africani. Ed è indubbio che una serie di norme più volte oggetto di polemiche contribuiscono a una presenza abnorme - a volte solo di pochi giorni - degli immigrati. Il problema irrisolto è che in sostanza moltissimi stranieri entrano ed escono dal carcere per pochi giorni. Mentre alcuni reati commessi, come la contraffazione, nonostante il massimo impegno delle forze di polizia non accennano a diminuire. Il risultato è carceri sovraffollate anche a causa degli stranieri e deterrenti inefficaci contro la clandestinità. Giuristi: con sentenza Ue clandestini da scarcerare La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che ha bocciato la norma italiana sul reato di clandestinità “non lascia dubbi a interpretazioni e avrà effetti molto rilevanti, perché? tutte le persone in carcere per questo titolo di reato dovranno essere liberate immediatamente, non appena i loro avvocati avranno presentato un’istanza” sulla base della sentenza Ue. È quanto ha chiarito Luca Masera, uno degli avvocati che ha presentato alla Corte di giustizia dell’Ue il ricorso contro l’arresto dell’algerino Hassen El Dridi, sul caso del quale la Corte si è espressa giovedì?. Secondo Masera con questa sentenza usciranno dal carcere “almeno un migliaio di persone” e “non c’? nessun dubbio” sulla sua applicazione: “Serviranno i tempi tecnici per i ricorsi al giudice, ma la questione è già decisa. Gli immigrati devono essere scarcerati, poi il giudice concluder? l’iter processuale con l’assoluzione”. Anche Bruno Victor Nascimbene, professore ordinario di diritto dell’Unione europea all’Università degli studi di Milano, conferma che “per ora chi ha un processo pendente, sia in primo che in secondo grado, sarà assolto, perché il fatto non sussiste. La norma va disapplicata, il giudice non può più applicarla. D’altra parte molti giudici italiani già avevano adottato questa formula”. Il problema ora è per le sentenze passate in giudicato: per l’avvocato Masera anche in questo caso “molto probabilmente” si dovrà applicare la sentenza della Corte Ue, ma “è meno scontato: la Corte ha detto che l’applicazione ? retroattiva, ma bisogna chiarire se questo vuol dire anche travolgere le sentenze passate in giudicato. A fare chiarezza sarà la giurisprudenza, ma i precedenti vanno nel senso della scarcerazione”. Giustizia: Sappe; indispensabile riassetto gerarchico e funzionale Polizia penitenziaria Ansa, 1 maggio 2011 “È assolutamente necessaria e non più rinviabile una complessiva ed organica riforma del Corpo, indispensabile al riassetto gerarchico e funzionale della Polizia Penitenziaria ad oltre 20 anni dalla precedente riforma. È necessario riallineare i ruoli dei vice Sovrintendenti, dei vice Ispettori e dei vice Commissari della Polizia Penitenziaria, oggi penalizzati rispetto ai pari grado della altre Forze di Polizia, per rendere le progressioni di carriera davvero in linea e senza più alcuna differenziazione a seconda del Corpo di appartenenza. In questo contesto, ci confortano le dichiarazioni rilasciate ieri dal Ministro della Giustizia Alfano che si è ufficialmente impegnato sulla questione del riallineamento dei nostri Funzionari del Corpo con i colleghi della Polizia di Stato. Ma questo non può che essere il presupposto per addivenire al più complessivo riordino di tutte le carriere che preveda l’unificazione del ruolo degli Agenti ed Assistenti con quello dei Sovrintendenti”. Lo scrive in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, nota diretta al Ministro della Giustizia Angelino Alfano. Capece sottolinea come “non si possa fare sicurezza senza avere adeguati strumenti di formazione ed aggiornamento professionale: quella che attualmente ci propina la Direzione Generale del Personale e della Formazione del DAP è una formazione vecchia di trent’anni, è abbondantemente superata perché non tiene nel debito conto la composizione dell’attualità penitenziaria (continuando, ad esempio, a trascurare la necessità di organizzare corsi di lingua straniera per i nostri Agenti, visto che quasi 25mila degli attuali 68mila detenuti sono appunto stranieri) e le prerogative di Polizia giudiziaria e di Pubblica sicurezza dei Baschi Azzurri. È insomma necessaria una nuova e non più rinviabile riforma della Polizia Penitenziaria, partendo anche dalla necessità di istituire, nell’ambito del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, una Direzione generale del Corpo sulla cui ragion d’essere ogni giorno di più siamo fermi e convinti sostenitori. E questo prevedendo che del ruolo dirigenziale della Polizia Penitenziaria possano far parte esclusivamente poliziotti e non, come invece qualcuno vorrebbe, esterni al Corpo come i dirigenti del Comparto Ministeri che tentano in ogni modo di occupare spazi che a loro non competono. Si pensi all’istituzione dei ruoli tecnici del Corpo di polizia Penitenziaria, finalizzati ad incrementare i contingenti specialistici impiegati nel contrasto del terrorismo, della criminalità transfrontaliera e della migrazione illegale, dove si vorrebbero far transitare Personale del Comparto Ministeri che non indossa la nostra divisa e che sono altro rispetto alla Polizia Penitenziaria. A questo lobbismo strisciante teso a impedire il transito di poliziotti in questi ruoli noi ci opporremo con tutte le forze, perché dei Ruoli tecnici della Polizia Penitenziaria dovranno far parte principalmente quei Baschi Azzurri cui la stessa Amministrazione penitenziaria, con atti interni, ha riconosciuto loro la funzione di tecnico tutelandone quindi la professionalità ed i poliziotti in possesso dei previsti titoli.” Giustizia: Carmelo entra alla Camera… di Daniela Domenici www.italianotizie.it, 1 maggio 2011 Ma chi è Carmelo e cosa ha fatto di così tanto importante da entrare nel luogo-simbolo della legalità? Carmelo Musumeci è una persona ristretta ormai da molti anni con una condanna all’ergastolo con l’aggravante dell’ostatività, il 4bis, ed è attualmente detenuto nel carcere di Spoleto; sembrerebbe una contraddizione, ma per noi non lo è, che una persona che dovrebbe aver commesso un reato, e quindi infranto la legalità, entri alla Camera dei Deputati, (deputata, appunto, a creare legalità), luogo in cui dovrebbero stare solo persone legalmente e moralmente integre, ineccepibili, ma il condizionale è d’obbligo, lo riteniamo necessario, non ci sentiamo di non usarlo, in questo sostenuti da alcune affermazioni ascoltate ieri. Carmelo, in questi lunghi anni trascorsi in varie carceri italiane dove ha sperimentato anche l’atrocità del 41bis, non si è mai arreso, ha sempre fatto sentire la sua voce con articoli e interviste e ha scritto vari libri sia di fiabe che di racconti e uno di questi, il suo più recente, “Gli uomini ombra”, pubblicato da Gabrielli editore, è stato presentato ieri a Roma nella Sala del Refettorio della Camera dei Deputati in via del Seminario. Hanno parlato di Carmelo e del suo libro persone che, a vario titolo, sono in contatto con lui: ha introdotto e coordinato gli interventi Susanna Marietti dell’associazione Antigone che dopo aver riassunto brevemente, per chi non la conoscesse, la storia di Carmelo, ha dato la parola a Giovanni Russo Spena, autore della postfazione al libro di Carmelo e responsabile giustizia del Prc; è stato poi il turno di Vauro Senesi, noto semplicemente come Vauro, disegnatore, che ha arricchito il libro di Carmelo con alcune sue creazioni. È toccato poi a Rita Bernardini, deputato radicale eletta nelle liste del Pd, da sempre molto attenta ai problemi del pianeta carcere, a intervenire. Dopo di lei ha parlato Giuseppe Ferraro, docente di filosofia all’università di Napoli e volontario nel carcere di Spoleto dov’è Carmelo, e Carlo Florio, docente di diritto penitenziario all’università di Perugia, con cui Carmelo sta per discutere la tesi della sua laurea specialistica in Giurisprudenza. Ha concluso la serie degli interventi Nadia Bizzotto, della comunità Giovanni XXIII, che da tempo è presente nel carcere di Spoleto con i suoi volontari, la quale incontra settimanalmente Carmelo e ne è diventata amica come lo sono i docenti Ferraro e Florio. Ci ha personalmente emozionato l’intervento del prof. Ferraro che ci ha fatto percepire quanto profonda e sentita sia ormai la sua amicizia con Carmelo con cui condivide da tempo anche una sorta di dialogo a distanza pubblicato su http://urladalsilenzio.wordpress.com/; ci hanno lasciato piacevolmente sorpresi le parole del prof. Florio quando ha raccontato che porta i suoi allievi in carcere da Carmelo per imparare dal vivo cosa sia il diritto penitenziario e vogliamo concludere con l’affermazione finale del caloroso intervento di Vauro che ci trova totalmente consenzienti: “Non è Carmelo ad aver bisogno di noi e delle nostre lettere ma noi di lui”: ci auguriamo che la richiesta di grazia a suo favore, che sta per essere inoltrata a Napolitano, possa essere esaudita. Per informazioni sul libro info@gabriellieditori.it - www.gabriellieditori.it. Giustizia: caso Cucchi; Ilaria parla del processo “ho brutta sensazione”... Dire, 1 maggio 2011 “Ho una brutta sensazione, perché sentire e vedere che una o due persone sentite ieri ammettono che mio fratello era come quando è entrato in carcere e non come le foto che abbiamo visto tutti...”. A parlare è la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, il romano di 31 anni fermato dai Carabinieri per droga il 15 ottobre 2009, al Parco degli Acquedotti di Roma, e morto il successivo 22 mattina nella struttura di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini. Intervistata dall’emittente radiofonica Centro Suono Sport, ha spiegato: “La donna che disse di non intervenire quando furono udite le urla d’aiuto? Fra gli imputati ci sono anche infermiere e dottoresse, ma nessuna del carcere però. Il fatto che mio fratello urlasse, è l’anello mancante, e che fa più male. Vedere l’indifferenza di fronte a mio fratello, un ragazzo che ha perso la vita così...”. Si sono sentite molte testimonianze discordanti (ieri c’è stata la seconda udienza del processo): “Alcuni prima affermavano una cosa che adesso rinnegano. Io vorrei solo sapere la verità”. Durante l’udienza un carabiniere ha parlato della paura che aveva Stefano del giudizio della famiglia per il nuovo problema giudiziario: “Sì, è un cosa che fa male perché in quei momenti quella era la sua più grande preoccupazione, noi non solo abbiamo saputo dell’arresto ma abbiamo risaputo anche della droga”. Secondo Ilaria verranno chiamate a testimoniare le donne che erano recluse con Stefano quella sera: “Penso di sì, ci sono circa 150 testimoni, i capi d’accusa si basano su quello. In più vorrei avere tante risposte anche di altri momenti. Ogni elemento è indispensabile quando si cercano di ricostruire determinate situazioni”. Giustizia: stupro in caserma a Roma; chiede incidente probatorio Agi, 1 maggio 2011 La procura di Roma ha chiesto al gip di fissare un incidente probatorio nell’ambito dell’inchiesta sullo stupro ai danni di una donna di 32 anni, originaria di Crema, avvenuto la notte tra il 23 e il 24 febbraio scorso all’interno della caserma dei carabinieri del Quadraro. Il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il pm Eleonora Fini intendono, in particolare, cristallizzare (dandone valore di prova prima del processo) una serie di elementi (cioè le tracce biologiche) acquisiti dall’esame dei vari reperti posti sotto sequestro per compararli con il dna dei quattro indagati, tre carabinieri e un vigile urbano, accusati di violenza sessuale di gruppo compiuta “su un soggetto comunque sottoposto a limitazioni della libertà personale” con l’aggravante dell’abuso dei poteri e dei doveri inerenti a una funzione pubblica e dell’uso di sostanze alcoliche. Secondo la ricostruzione dell’accusa, infatti, la donna, che era detenuta per un furto di abiti, era stata fatta uscire dalla cella di sicurezza e poi, una volta invitata a bere dell’amaro, indotta a subire ripetuti atti sessuali. Venezia: Radicali; il carcere di Santa Maria Maggiore fuori dalla legalità Notizie Radicali, 1 maggio 2011 161 posti, 345 detenuti. Potrebbero bastare queste due cifre per comprendere la situazione di invivibilità del carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia. Ma se non bastasse la drammaticità del sovrannumero, per completare il quadro si può aggiungere la pesante carenza di organico della polizia penitenziaria, praticamente solo 85 agenti divisi su quattro turni per la sorveglianza di 345 persone, l’assoluta carenza di fondi, già finiti i 5.000 euro annui stanziati dal ministero per l’ordinaria amministrazione dell’istituto, il congelamento dei fondi previsti per riparare/ammodernare la vetustissima sala “regia” della videosorveglianza con la scusa che si costruirà il nuovo carcere a Mestre, carcere per il quale al momento non si conosce neanche il luogo di costruzione. Di fatto Santa Maria Maggiore oltre ad essere invivibile per i detenuti, 8 stipati in stanze per 4 su letti a castello a 3 piani quando non con materassi per terra, lo è anche per gli agenti e tutti gli operatori a quali, inoltre, è di fatto reso impossibile adempiere ai compiti costituzionali di recupero e reinserimento. Sono i numeri che lo dicono, il carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia è costretto dallo Stato ad operare in una situazione di illegale invivibilità. Il Papa vada a visitare il carcere Al carcere di Santa Maria Maggiore, la direzione ha già finito il misero budget 2011 di 5 mila euro destinato dal ministero a carta per fotocopie, lampadine, carta igienica. Qui i detenuti dovrebbero essere 161: sono in 345, otto uomini in celle da quattro, letti a castello a tre piani (e anche l’altro giorno una persona è caduta nel sonno, ferendosi). Al contrario, gli agenti di polizia penitenziaria dovrebbero essere 165, ma in servizio effettivo sono solo 85, suddivisi in 4 turni. Una ventina di agenti per sorvegliare 345 detenuti, su diverse ali e piani. Numeri che raccontano la quotidiana, gravissima emergenza sociale che da troppi anni affligge carcere di Santa Maria Maggiore, crescendo di anno in anno. A snocciolarli è il senatore radicale Marco Perduca, con Franco Fois (dell’Associazione radicali veneti) ieri in visita al carcere maschile. “Rispetto all’anno scorso”, osserva il parlamentare, “è stato completato il restauro di una nuova ala e la situazione generale è migliorata, ma sono aumentati anche i detenuti: al terzo piano la situazione più difficile, con celle da 4 occupate da otto persone. Metà dei detenuti è in attesa di giudizio, qui convivono 30 diverse etnie, ci sono tossicodipendenti: le discussioni scoppiano facilmente”. “L’emergenza attuale, ci ha spiegato la direttrice”, prosegue Perduca, “è aggravata dalla mancanza di fondi per la gestione quotidiana. Non ci sono più soldi per la carta igienica e le fotocopie dei documenti: bisogna che le amministrazioni locali facciano la loro parte, soprattutto la Provincia sinora assente (almeno con i mediatori culturali) e la Regione. Il Comune un contributo lo dà, ma speriamo lo incrementi”. Altra emergenza è rappresentata dall’incognita nuovo carcere. “Questo”, conclude il senatore radicale, “determina l’assurda situazione per la quale sono stati congelati i fondi per Santa Maria Maggiore, compresi i 900 mila euro stanziati e poi bloccati per l’adeguamento della sala controllo, oggi una sorta di stanza degli anni ‘70 con monitor senza zoom per controllare 350 detenuti. Lancio un appello alle autorità: portate papa Benedetto XVI per 15 minuti in visita a Santa Maria Maggiore, per accendere un faro di attenzione su una situazione non più tollerabile”. Brescia: il successore di Fappani; sarò super partes… il Garante di tutti i detenuti Brescia Oggi, 1 maggio 2011 Chapeau al mio predecessore. Peccato non sia stato raccolto il suo appello all’unità. La linea: “Non ho mai avuto una tessera di partito. Non sono targato”. Nuovo carcere: “Lavorerò con tutti. Serve sinergia fra governo e Loggia”. Emilio Quaranta, magistrato di lungo corso, ha 69 anni. L’unico rammarico è che il suo nome abbia finito per spaccare il consiglio comunale e non abbia raccolto i consensi bipartisan che la sua biografia lo autorizzava ad attendersi. E allora Emilio Quaranta, magistrato in pensione e da venerdì nuovo Garante dei diritti dei detenuti, usa una metafora evangelica: “Veniamo dalla settimana santa, diciamo che sono stato segno di contraddizione. La mia non è una vittoria politica ma, credo, il riconoscimento a un valore professionale dimostrato in 42 anni”. Sulla collocazione politica, Quaranta è netto: “Non ho mai avuto una tessera di partito, non ho mai scritto un programma di partito. L’unico non targato politicamente sono io”. Una linea di demarcazione però, il nuovo Garante la mette: “Arcai, che conosco da quando era bambino, sa bene che io sono agli antipodi della sua concezione politica”. E l’appoggio della Lega? “Si vede che sono gli unici che hanno letto il curriculum che ho presentato”, taglia corto Quaranta. Quanto alla sinistra, che non ha partecipato al voto, il neo-garante sospetta “si sia messa in un cul de sac”: “Tanto di cappello - dice Quaranta - al mio amico Mario Fappani. Ha operato benissimo, e ritirando la candidatura aveva fatto appello a un voto unitario: peccato il suo appello sia stato lasciato cadere nel vuoto. Chi non l’ha ascoltato ha rivolto uno sgarbo a lui, non a me”. Quaranta ricorda poi le battaglie bipartisan che ha condotto nella sua lunga carriera da magistrato: “Con l’appoggio di Martinazzoli, Alberini e Loda, riuscimmo a cancellare tanti rami secchi, otto sedi pretorili periferiche. Un’operazione giusta, pur se contestata”. Detto degli effetti politici della sua nomina, resta l’interrogativo: che Garante dei detenuti sarà Emilio Quaranta? “Il Garante - spiega lui - deve assicurare che tutti i detenuti vedano riconosciuti i loro diritti fondamentali. Ogni sofferenza supplementare non prevista dalla Costituzione dev’essere rimossa. La Costituzione è chiara: la privazione della libertà è un’afflizione sufficiente per i detenuti. Non devono essere inflitte pene degradanti. Invece il Comitato di prevenzione della tortura, emanazione del Consiglio d’Europa, visitando Canton Mombello un anno fa ha stilato un report agghiacciante. Brescia non merita questa situazione”. L’IMPEGNO per dotare la città di un nuovo carcere diviene prioritaria. Ma Quaranta sa bene che il Garante non ha poteri. “Brescia è rimasta esclusa dal piano carceri - dice - e questo è assurdo. Un problema di questa portata va affrontato in sinergia: il Comune deve individuare la collocazione della nuova struttura, il governo che deve trovare le risorse. Questa è una pratica da riaprire e in questo senso coinvolgerò tutti i parlamentari bresciani, di maggioranza e di minoranza, con i quali peraltro ho ottimi rapporti”. Rimane un dubbio: un professionista che ha lavorato a lungo nella magistratura inquirente riuscirà a stabilire - da Garante - il necessario rapporto fiduciario con i detenuti? “L’unica medaglia che mi appunto sul petto - osserva a questo proposito Quaranta - è una parola: umanità. Ho avuto la fortuna di collaborare con Giancarlo Zappa (“mitico” magistrato di sorveglianza, ndr): conosco i problemi, i drammi dei detenuti. In passato mi sono adoperato per trovare una soluzione alla situazione affettiva dei detenuti, con le allora presidenti dei consigli comunale e provinciale, Castelletti e Vilardi, creammo una stanza per i minori in visita ai genitori detenuti. Il problema dell’housing degli ex detenuti è un’altra priorità”. E poi, nelle frequentazioni pregresse con il mondo carcerario, Quaranta annovera anche episodi lievi. “Da pretore - ricorda - mi recavo spesso in carcere, anche con i miei figli piccoli. Una volta, mentre su un bus affollato passavano in zona con mia moglie, esclamarono: “Ecco il posto dove il papà viene tante volte!”. I passeggeri guardarono mia moglie con compassione, prendendola per la moglie di un detenuto...”. Stando alle dichiarazioni d’intenti, Quaranta non dovrebbe scostarsi troppo dalla linea del suo predecessore: “A Fappani va tutta la mia riconoscenza e apprezzamento. Il rapporto con l’associazionismo è importante. Conosco e stimo Romano, Canori, le figure di riferimento di questo mondo. Chiederò l’apporto di tutti: occorre far partecipe l’intera comunità dei problemi carcerari. Canton Mombello non può essere un pianeta sconosciuto”. Così Quaranta si appresta ad assumere il nuovo incarico. E la definizione che gli è più cara? “L’ha coniata il direttore dell’ospedale dei bambini di Brescia, Raffaele Spiazzi, che è anche un bravo disegnatore. Ha fatto la mia caricatura e ci ha scritto sopra; “Bresciano con ascendente Vesuvio”“. Benevento: detenuto 28enne tenta il suicidio con una lama da barba, in prognosi riservata Il Mattino, 1 maggio 2011 Si è ferito al collo ed ora è in prognosi riservata al Rummo. Un tentativo di suicidio, quello compiuto ieri mattina da un detenuto ospite della casa circondariale di contrada Capodimonte. Si tratta di un 28enne siciliano, G.M. che, secondo una prima ricostruzione, avrebbe cercato di farla finita tagliandosi il collo con una lametta da barba. Soccorso dal personale medico e dalla polizia penitenziaria, il giovane è stato trasportato in ambulanza in ospedale, dove è stato giudicato in gravi condizioni per le lesioni riportate. Un episodio al centro delle indagini dei carabinieri del Comando provinciale. Restano da capire le motivazioni che avrebbero indotto il 28enne, noto per reati comuni, a tentare di togliersi la vita. Come si ricorderà, poco più di un anno fa - era l’8 aprile del 2010 - lo stesso carcere di Benevento era stato teatro di una tragedia. Quella della morte di un 39enne di Napoli che, coinvolto tre mesi prima in un blitz della Dda contro un clan camorristico, avevano cominciato a collaborare con la giustizia ma non era ancora stato ammesso al programma di protezione. L’uomo era stato trovato impiccato nella cella che occupava dal 2 febbraio: aveva legato un capo di una calzamaglia da sport alla cerniera della porta, poi si era stretto l’altro al collo e si era lasciato andare. Stesse scene anche nel novembre del 2005, quando un 31enne di Benevento aveva stroncato la sua esistenza con uguali modalità, usando i lacci delle scarpe. A febbraio del 2010, invece, un agente di custodia aveva evitato il peggio, riuscendo a salvare una persona con intenzioni suicide. Sulmona: detenuto riporta droga da licenza, denunciato Ansa, 1 maggio 2011 Aveva ingoiato ovuli contenenti cocaina e hashish sperando di farla franca al rientro dalla licenza premio che aveva ottenuto per le vacanze pasquali, ma è stato scoperto dai cani in dotazione della polizia penitenziaria del carcere di Sulmona, che con il loro fiuto lo hanno scoperto. Così A.C., recluso di 38 anni di Roma, è stato denunciato con l’accusa di detenzione di sostanze stupefacenti. Il quantitativo infatti, si parla di circa due grammi di droga complessiva, non era tale da giustificare un provvedimento più pesante. Subito dopo l’espulsione degli ovuli, il detenuto è stato accompagnato in ospedale per ulteriori accertamenti. Da quattro giorni erano stati disposti controlli in vista del rientro dei detenuti dalle licenze premio assegnate nel periodo di Pasqua, potenziati dalla presenza di unità cinofile. “La Uil penitenziari - afferma il segretario provinciale, Mauro Nardella - proprio in virtù dell’efficienza dimostrata dai cani antidroga chiederà ai competenti uffici l’istituzione, tra l’altro già prevista, di un’unità cinofila presso la scuola di formazione di Sulmona”. “Questo - prosegue - al fine di poterla avere non più part-time, ma con una certa continuità non solo in occasione dei rientri dalle licenze o permessi premio, ma anche e soprattutto durante l’effettuazione dei colloqui con i familiari altro punto cruciale utilizzato per l’introduzione di droga all’interno delle strutture penitenziarie”. Palermo: detenuto bulgaro tenta fuga dall’ospedale, ma è bloccato dagli agenti La Sicilia, 1 maggio 2011 “Venerdì all’Ospedale Civico, durante le visite ambulatoriali, un detenuto bulgaro ha tentato la fuga da una finestra del secondo piano ma è stato bloccato da due degli agenti di Polizia Penitenziaria della scorta in servizio presso il Nucleo Provinciale Traduzioni, che sono rimasti lievemente feriti e giudicati guaribili in pochi giorni”. Lo ha reso noto il vice segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp) Mimmo Nicotra, aggiungendo che il detenuto protagonista dell’episodio “non è nuovo a tentativi di fuga”. “Purtroppo - ha detto Nicotra - ancora una volta il personale operante Saluzzo: Progetta “Voltapagina”; grandi autori italiani tra le mura del carcere www.targatocn.it, 1 maggio 2011 Venerdì, presso la sala stampa della Casa di Reclusione “Rodolfo Morandi” di Saluzzo, si è tenuta la presentazione del progetto “Voltapagina” giunto alla 5° edizione, in collaborazione con il Salone del Libro di Torino. L’iniziativa letteraria prevede un ciclo di appuntamenti con grandi autori italiani tra le mura del carcere e quest’anno parteciperanno: Davide Ferrario, Giancarlo Decataldo, Silvia Avallone, Mino Milani e Gian Antonio Stella. “Ho fortemente voluto che questo progetto si svolgesse all’interno del carcere - spiega Giorgio Leggieri, Direttore della Casa di Reclusione. La cultura non deve essere un bene di poche persone e perseverare su questi progetti ci sembra un segnale molto forte. Noi non vogliamo relegare il carcere ad un muro di silenzio, perciò abbiamo instituito dei gruppi di lettura per preparare i detenuti a questi incontri”. Gli ospiti della Casa di reclusione, che hanno volontariamente scelto di aderire all’iniziativa, vengono guidati alla lettura ed all’approfondimento dei testi da assistenti sociali, educatori e volontari. L’evento è patrocinato dal Comune di Saluzzo, sempre sensibile a questo genere d’iniziative: “Siamo di fronte ad incontri di grande importanza - spiega Roberto Pignatta, assessore della cultura di Saluzzo. Vogliamo proseguire su questa strada cercando, sempre più, collaborazione tra il mondo carcerario ed il mondo esterno”. Presente all’incontro anche Licia Viscusi, assessore provinciale alla Cultura: “Siamo fieri di poter appoggiare questi progetti, fortemente voluti sia da noi che dai detenuti. Da ottobre partirà, inoltre, una classe di Liceo artistico frequentata dagli ospiti della Casa di reclusione che sta a dimostrare la loro volontà di acculturarsi ed il nostro impegno verso queste iniziative nonostante i tagli a fondi per la cultura”. I detenuti che aderiscono a “Voltapagina” avranno modo di discutere e confrontarsi con gli autori nei giorni del Salone Internazionale del Libro. Il primo incontro avrà luogo venerdì 13 maggio alle 17, mentre l’ultimo sarà lunedì 16 maggio, sempre alle 17. “È un’opera di grande valenza civile e morale - spiega Rolando Picchioni, Presidente della Fondazione del Libro -. Tengo a precisare che non è una manifestazione residuale o marginale dell’ampio programma proposto dal Salone Internazionale del Libro, ma bensì un fiore all’occhiello. Apprezziamo molto la dedizione che il Comune di Saluzzo, insieme alla Provincia di Cuneo, mettono in queste iniziative”. Il programma prevede incontri con tutti i generi letterari con una piccola novità: “Quest’anno sarà presente anche un esponente come Mino Milani, autore di libri per ragazzi e fumetti - spiega Marco Pautasso dell’Ufficio Eventi Salone del Libro. Non esiste una realtà del genere in tutta Italia e siamo fieri di questo”. Intervenuti all’incontro come ospiti, i detenuti hanno voluto precisare quanto sia importante per loro avere questi sfoghi creativi. “In carcere viviamo una vita molto scandita, dove succede tutto e niente - spiegano gli ospiti della Casa di reclusione. Quest’esperienza ci arricchisce e ci aiuta a comprendere il senso della vita”. Gli appuntamenti di Voltapagina sono aperti anche al pubblico esterno: chi desidera partecipare può prenotarsi scrivendo a cr.saluzzo@giustizia.it o telefonando ai numeri 0175-248125 o 0175-248225 entro sabato 7 maggio 2011. Pordenone: da carcerati ad attori grazie ai “Ragazzi della panchina” Messaggero Veneto, 1 maggio 2011 “Oltre le sbarre. Percorsi di integrazione tra sociale e tossicodipendenza”, ovvero la serata che Cinemazero e I Ragazzi della Panchina hanno dedicato alla carcerazione ha inaugurato un nuovo corso per il sodalizio impegnato nel recupero e integrazione di persone tossicodipendenti o con disagio sociale. La realizzazione di un lungometraggio da parte di Rai1 sull’associazione pordenonese e, a giugno, la rappresentazione all’interno del carcere cittadino di “La legge è uguale per tutti?”, opera inedita di Pino Roveredo, che sarà rappresenta dai carcerati stessi, sono i nuovi percorsi annunciati l’altra sera dalla presidente Ada Moznich. La serata ha preso il via con la messa in onda dello speciale trasmesso da Tv7, rotocalco del Tg1, nei mesi scorsi. Partendo da questo materiale la Rai ha deciso di realizzare un lungometraggio, uno degli otto finanziati nel 2011, che racconterà la storia de I Ragazzi della Panchina. Il cuore della serata ha visto sul palco lo scrittore e regista di teatro, storico amico de I Ragazzi e autore per loro di opere teatrali come “Le fa male qui”, “La bella vita” e “La Panka”. Roveredo ha presentato in anteprima la sua ultima fatica, realizzata in collaborazione con I Ragazzi della Panchina, che per la prima volta porta fisicamente l’associazione all’interno delle mura della Casa circondariale di Pordenone. “Abbiamo lavorato all’interno del carcere - ha detto Roveredo - con due ragazzi, Guerrino Faggiani e Valentina Furlan, che hanno seguito i detenuti nelle prove. Un esperienza unica e un modo nuovo di dare loro un alternativa all’ozio imposto dalle sbarre”. A chiusura della serata la proiezione del lungometraggio del regista padovano Rodolfo Bisatti, “La donna e il drago (2010)”. Tunisia: 300 detenuti evadono da carcere nel sud del Paese Ansa, 1 maggio 2011 Circa 300 detenuti sono fuggiti da una prigione nel sud-ovest della Tunisia dopo un incendio propagatosi in una delle celle. Lo ha riferito l’agenzia Tap. Il penitenziario si trova nell’area di Gafsa e 35 fuggiaschi sono stati riacciuffati. Nell’incendio è morta una persona. All’alba di oggi diversi prigionieri sono evasi da un altro carcere, Kasserine nel centro del Paese . Egitto: Mubarak se ordinò di sparare sulla folla rischia pena di morte Ansa, 1 maggio 2011 Hosni Mubarak potrebbe essere condannato a morte. La più estrema delle punizioni per il presidente egiziano deposto lo scorso febbraio non è esclusa, anzi, secondo il ministro della giustizia egiziano è una possibilità concreta se il rais verrà riconosciuto colpevole di aver dato l’ordine di sparare contro i manifestanti durante la protesta che ha portato alla sua caduta. Fin dalla sera dell’11 febbraio quando Mubarak lasciò il palazzo e il potere che deteneva da trent’anni rifugiandosi a Sharm el Sheikh, i quesiti sulla sua sorte si sono moltiplicati. Voci alimentate e smentite, di pari passo con le condizioni di salute, si sono diffuse per settimane e lo spettro della pena di morte è stato più volte evocato. Oggi però, per la prima volta, questa possibilità viene esplicitamente menzionata dal ministro Mohammad el Guindi, il quale ha detto chiaramente al giornale al Ahram che la possibilità esiste. “Assolutamente sì - ha detto El Guindi - perché il crimine di ammazzare manifestanti può portare alla pena di morte se confermato”. Mubarak, 82 anni, e i suoi figli Alaa e Gamal, sono dal 13 aprile scorso agli arresti nell’ambito dell’inchiesta sulla violenta repressione delle proteste cominciate alla fine dello scorso gennaio e che ha fatto oltre 800 morti secondo fonti ufficiali. E mentre i suoi due figli sono detenuti in una prigione al Cairo, Tora, l’ex presidente si trova ancora a Sharm el Sheikh dopo che lo scorso 12 aprile, apparentemente durante un interrogatorio, ha subito una grave crisi cardiaca. Condizioni di salute comunque difficili da verificare, così come imprevedibili al momento rimangono gli sviluppi del procedimento giudiziario in corso. Per ora si sa, secondo quanto riferito allo stesso giornale egiziano un paio di settimane fa dal presidente della corte d’appello del Cairo, Zakaria Shalash, che a inchiodare Hosni Mubarak sarebbe la testimonianza dell’ex ministro dell’Interno Habib al Adli secondo cui l’ex presidente gli ha ordinato di usare la forza contro i manifestanti. Al Adli è a sua volta accusato dello stesso crimine e rischia quindi anche lui finire impiccato, la modalità con cui in Egitto si esegue la pena capitale. Il processo a Mubarak e ai membri del suo regime rimane una delle principali rivendicazioni del movimento di protesta. Israele: sciopero fame detenuti palestinesi contro violenze in carcere Ansa, 1 maggio 2011 I detenuti palestinesi della prigione israeliana di Ashqelon (una sessantina di chilometri a sud di Tel Aviv) hanno annunciato in queste ore l’inizio di uno sciopero della fame in segno di protesta contro l’asserito pestaggio di un loro connazionale denunciato ieri in un altro carcere, quello di Eshel, e sfociato in tafferugli e violenze. L’iniziativa è stata riferita da alcuni media online all’indomani degli incidenti di Eshel, innescati - secondo testimonianze filtrate dalle celle e riprese dall’agenzia Maan - dalle percosse subite da un detenuto, Imad Al-Mardawn, a opera delle guardie. Un episodio al quale sono seguiti scontri fra altri reclusi e agenti della sicurezza israeliani, intervenuti in forze con manganellate e “strumenti di dissuasione”, e che ha lasciato uno strascico di almeno quattro prigionieri feriti. Di qui lo stato d’agitazione proclamato dai 144 detenuti palestinesi del penitenziario di Eshel, accompagnato da uno sciopero della fame collettivo oltre che da una petizione alla Corte suprema d’Israele per un’inchiesta sull’accaduto e sul comportamento degli agenti. Iniziative a cui si sono associati oggi per solidarietà i reclusi del carcere di Ashkelon, annunciando a loro volta il rifiuto del rancio. Siria: Ong; arrestati noti oppositori e gruppo donne Ansa, 1 maggio 2011 Le forze di sicurezza siriane hanno arrestato oggi due noti oppositori e un gruppo di donne che protestavano chiedendo democrazia. Lo ha reso noto il gruppo di difesa dei diritti umani “Centro siriano per la difesa dei prigionieri di coscienza”. L’organizzazione ha riferito che agenti della sicurezza hanno portato in carcere Hassan Abdel Azim, 81 anni, a Damasco, e Omar Qashash, 85 anni, ad Aleppo. Le donne, undici, sono invece state arrestate nel distretto di Salhyia, a Damasco, mentre partecipavano a un corteo di sole donne senza gridare slogan.