La pena deve tendere alla rieducazione Il Mattino di Padova, 17 maggio 2011 Non è un caso che i padri costituenti avessero sperimentato sulla propria pelle il carcere durante il regime fascista: è da lì, da questa esperienza drammatica che è nato quell’articolo 27 della nostra Costituzione, il quale afferma che “la pena deve tendere alla rieducazione”. A raccontarci il senso della pena, e quindi anche il senso e le finalità del loro lavoro quotidiano, sono tre educatrici della Casa di reclusione di Padova. Il ruolo dell’educatore all’interno di un carcere L’educatore penitenziario per adulti, oggi definito “Funzionario giuridico-pedagogico”, è uno dei punti fondamentali e maggiormente innovativi della riforma penitenziaria del 1975, una legge concepita come una “summa” di interventi rieducativi necessari a perseguire il reinserimento sociale delle persone detenute, al fine di abbattere il numero delle recidive e, implicitamente, contribuire alla maggiore sicurezza dei cittadini. L’educatore, attraverso lo strumento del colloquio, raccoglie informazioni sulle problematiche consapevoli ma anche inconsce dell’autore di reato, in merito all’ambiente familiare e sociale di provenienza, alla sua capacità di formulare programmi per il futuro e all’evoluzione - o involuzione - della sua condizione personale dal momento della presa in carico in Istituto. L’intero flusso di contributi provenienti dagli attori esterni (assistenti sociali, familiari, istituzioni) ed interni (polizia penitenziaria, insegnanti, volontari) trova nell’educatore il punto di raccordo, e supporta spesso in maniera determinante la condizione complessa del lavoro educativo, che è quello di individuare i bisogni del detenuto soprattutto come “persona”, perché egli possa giungere progressivamente all’assunzione di cosciente e matura responsabilità dei propri comportamenti ed azioni, durante e dopo la detenzione. E sarebbe questo, quanto meno, il primo sensibile passo per una forma di rispetto e di doverosa memoria per vittime spesso inermi ed innocenti. All’educatore viene richiesta un’assunzione di elevata responsabilità nell’esprimere il proprio giudizio su ciascun soggetto. La complessità dei compiti affidati all’educatore richiederebbe un numero maggiore di operatori rispetto a quelli attualmente disponibili, ed un generale potenziamento dell’intero sistema, al fine di normalizzare il rapporto numerico educatori/detenuti, che oggi appare sbilanciato. L’auspicio è che le previsioni sulla persona siano fatte con cautela e saggezza, pur camminando sempre sulla strada dell’investimento per il futuro della persona detenuta: questo è anche il modo migliore di radicare nella coscienza i principi e le prospettive del carcere della speranza, per costruire un sistema penitenziario sempre più civile e avanzato. Irene Georgoulis Le pene devono rieducare tutelando le vittime di reato Le pene devono “tendere alla rieducazione” senza ignorare la tutela delle vittime di reato. È difficile affrontare un tema complesso come quello delle carceri e dei diritti da garantire a chi popola gli istituti penitenziari, senza scadere in facili, e spesso inefficaci, denunce che gettano talvolta ombra sul dolore di chi il reato lo ha subìto. Possiamo, però, iniziare con il chiederci perché e come la società e il suo grado di civiltà siano connessi alla vita degli istituti penitenziari e come sia attuabile il principio costituzionale secondo cui le pene devono “tendere alla rieducazione” senza ignorare la tutela delle vittime di reato. Il perché è presto detto: cosa è reato e cosa non lo è viene stabilito dal potere legislativo dello Stato. La ragione per cui una pena deve tendere alla rieducazione risiede nella constatazione: quanto più si offre ai reclusi la possibilità di sviluppare attitudini e potenzialità, tanto più si avranno dei cittadini “migliori” una volta riammessi nella società esterna. Quanto più la società esterna è sensibile ai temi della giustizia e della risocializzazione, tanto più all’interno del carcere saranno presenti risorse per realizzare il principio costituzionale della rieducazione. Oggi viviamo uno scarto tra il “com’è” e il “come dovrebbe essere” poiché le strutture spesso inadeguate e la carenza di personale a tutti i livelli, rendono difficile l’attuazione di una programmazione delle attività che tenga conto della diversità insita nella popolazione carceraria. Sara Gambino Educare anche con misure alternative alla detenzione Le persone condannate a una pena detentiva, dopo avere scontato una porzione di pena, possono chiedere una misura alternativa alla detenzione. Se concessa, non significa che la persona è libera, ma che sconterà la pena in un modo diverso, trascorrendo parte della giornata a lavorare fuori dal carcere con precisi obblighi da rispettare (semilibertà) oppure, in caso di affidamento in prova al servizio sociale o detenzione domiciliare, avendo anche la possibilità di risiedere in una struttura protetta o in comunità oppure presso la propria abitazione. Le misure alternative sono concesse dal Tribunale di Sorveglianza, sulla base di valutazioni tali da consentire un giudizio favorevole circa la rieducazione del condannato e la non reiterazione dei reati. La detenzione provoca una frattura nella vita personale, nel contesto sociale e familiare ed è per questo che la persona detenuta dovrebbe essere preparata al rientro in società con un graduale percorso di reinserimento esterno, che passa anche attraverso le misure alternative, che come confermato da numerose ricerche abbattono il tasso di recidiva in modo drastico da circa il 75% al 19%. L’elevato tasso di recidiva costituisce uno degli aspetti più critici del nostro sistema penale, rispetto al quale il ruolo della comunità locale e delle politiche di inclusione risulta determinante. Ciò significa che l’accompagnamento al reinserimento sociale si traduce in benefici concreti non solo per la persona in misura alternativa, ma soprattutto per la società che vede ridurre il numero dei reati commessi. Nei diversi momenti storici le misure alternative vengono applicate in maniera più ampia o più restrittiva, a scapito però anche della collettività. Perché la domanda è: la persona che si fa tutta la “galera” come la mandiamo fuori? Sicuramente più cattiva ed arrabbiata e magari con desiderio di vendetta e per questo ad altissimo rischio di commissione di nuovi reati. Invece la persona accompagnata in un percorso alternativo alla detenzione può acquisire il piacere di un nuovo stile di vita, intriso di valori socialmente condivisi. La misura alternativa aiuta la persona a trovare uno spazio di ascolto per gestire le difficoltà, le paure le ansie, a valorizzare sia i punti forti che quelli deboli a trovare uno stile di vita diverso da quello passato. Le misure alternative alla detenzione promuovono legalità, in quanto favoriscono la riduzione della reiterazione dei reati. È proprio restituendo a chi prima o poi uscirà dal carcere una vita normale che si renderanno le città più sicure e vivibili. Tali percorsi possono a volte essere costellati da ricadute, ma vanno in ogni caso perseguiti per il recupero delle persone condannate. Anna Maria Morandin Giustizia: cresce il male di carcere e uccide anche gli agenti di Valter Vecellio Europa, 17 maggio 2011 A Vincenzo Lemmo, 48 anni, detenuto nel carcere torinese delle Vallette, condannato per spaccio di droga, non gliel’avevano detto che l’emergenza carceri non è poi così tanto emergenza, che il ministro della giustizia Alfano è ottimista, che le nuove carceri sono in arrivo, che...che... A Vincenzo Lemmo non gli hanno detto nulla di tutto ciò; così l’altro giorno ha deciso di prendersi la sua amnistia definitiva: ha preso una cintura, e si è impiccato alle sbarre. Il 24esimo suicidio ufficiale dall’inizio dell’anno, quello di Vincenzo Lemmo. Neppure a Viterbo è giunta la notizia che l’emergenza carceri non è poi così tanto emergenza, che il ministro della giustizia è ottimista, che le nuove carceri sono in arrivo, che...che...Così accade che a togliersi la vita sia un assistente capo della polizia penitenziaria, con un colpo di pistola di ordinanza. È il terzo poliziotto penitenziario suicida quest’anno, il 19° nell’ultimo quinquennio. Numeri eloquenti, osserva Eugenio Sarno della Uil penitenziaria “rispetto ai quali il governo, il ministro della giustizia e i vertici del Dap avrebbero l’obbligo civile e morale di intervenire”. Neanche a Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp - un sindacato della polizia penitenziaria - gliel’hanno detto che l’emergenza carceri non è poi così tanto emergenza, che il ministro della giustizia Alfano è ottimista, che le nuove carceri sono in arrivo, che...che...A Leo Beneduci non hanno detto nulla di tutto ciò. E Beneduci, meschino, così sostiene: “Eravamo stati facili profeti sul trend delle morti per suicidio in carcere. Le cause sono svariate: dalle condizioni della detenzione ai tempi della giustizia e al grave e costante calo della polizia penitenziaria in servizio, sia nelle sezioni detentive che nei nuclei traduzioni e piantonamenti. Basti pensare - continua - che l’organico del corpo è di 5.500 unità inferiore a quello previsto. Quest’anno saranno assunte solo 760 unità e ne andranno via 2mila. L’anno prossimo ne andranno via 2.500 e ne saranno assunte 1.150. Per chi fa il poliziotto penitenziario, e ha il compito di tutelare anche la vita dei detenuti, due volte deludente: in primo luogo perché si è impotenti, in secondo perché chi ha il compito di assumere urgenti e rilevanti iniziative in sede politica a parte le chiacchiere non fa nulla”. Neanche al detenuto cinquantunenne recluso nel carcere di Porto Azzurro all’isola d’Elba, nessuno si è dato pena di raccontare che l’emergenza carceri non è poi così tanto emergenza, che il ministro della giustizia Alfano è ottimista, che le nuove carceri sono in arrivo, che...che...Nessuno si è preoccupato di dirlo, a questo detenuto; che, indelicato, si è fatto trovare privo di vita steso nella sua branda. Dicono che abbia avuto un malore. Male di carcere, si dovrebbe e potrebbe dire. Come tante altre, verrà rubricata sotto l’incredibile voce: “da accertare”, un numero in un registro, una pratica da infilare in una busta e dimenticare. Anche a Pavia si sono dimenticati di dire che l’emergenza carceri non è così tanto emergenza, che il ministro della giustizia Alfano è ottimista, che le nuove carceri sono in arrivo, che...che...Non gliel’hanno detto, così nel carcere di Pavia ci sono per esempio vistose infiltrazioni d’acqua su quadri elettrici e l’assenza di misure di sicurezza e posti di servizio igienicamente invivibili. Un’”ispezione” il cui esito è stato riferito dal segretario della Uil Penitenziari Eugenio Sarno: “A Pavia, a parte la prospettiva di ingresso pieno di verde e di spazi igienicamente sani, entrando all’interno della struttura si vive una vera e propria escalation di brutture, fatta di ambienti sporchi, cancelli sudici e pareti piene di macchie e muffa. Da quello che ho visto, probabilmente, l’ultima tinteggiatura è stata fatta 10 anni fa. Ho visto condizioni al limite della legalità: infiltrazioni d’acqua su quadri elettrici, assenza di misure di sicurezza e posti di servizio igienicamente invivibili. Mi riservo di fare un esposto all’Asl ed alle autorità dipartimentali competenti. Il personale di polizia penitenziaria che presta servizio, soprattutto in alcuni settori, è esposto a rischi notevoli. Può rimanere folgorato da probabili cortocircuiti o essere arrostito dalle conseguenti fiamme. In tutto questo contesto ho rilevato che alcuni posti di servizio sono addirittura privi di misure antincendio”. A Pavia la presenza dei detenuti raggiunge quasi il doppio della capienza regolamentare. I posti previsti sarebbero 244. Oggi a Pavia sono ristretti 480 persone. Una situazione che chiaramente comprime gli spazi dei reclusi ed abbatte al minimo i livelli di civiltà. Una evidente condizione di insofferenza che si riverbera sull’intero sistema”. Bisognava infine dirlo ai deputati calabresi del Pd Nicodemo Oliverio e Franco Laratta. Che accidenti sarà venuto loro in mente di andare a visitare il carcere di Siano, a Catanzaro...E sì che lo si era detto e ripetuto che l’emergenza carceri non è così tanto emergenza, che il ministro della giustizia Alfano è ottimista, che le nuove carceri sono in arrivo, che...che...Oliverio e Laratta, hanno raccolto l’allarme lanciato nei giorni scorsi dalla direttrice della struttura, Angela Paravati. “La situazione - dicono Oliverio e Laratta - ha ormai raggiunto livelli esplosivi, tanto da non poter più accogliere nuovi detenuti. Si registra infatti un sovraffollamento del 40% (in carcere ci sono circa 600 detenuti, il 20% di stranieri), a fronte di un organico che è del 50% in meno di quello previsto, basti considerare che nell’ultimo anno su 30 pensionamenti non c’è stata alcuna sostituzione”. Oliverio e Laratta sottolineano che “a fronte di un numero alto di detenuti sono in servizio soltanto cinque educatori, e di conseguenza il lavoro propedeutico alla riabilitazione di chi ha sbagliato è impossibile realizzarlo. Mercoledì prossimo sarà in discussione alla camera dei deputati una mozione sulla situazione delle carceri italiane come partito chiederemo interventi per la Calabria e per Catanzaro in particolare. Il governo ha una diretta responsabilità sulle condizioni assai gravi in cui versano le carceri italiane. Ci chiediamo che fine abbia fatto l’annunciato “Piano carceri” del ministro Alfano, che fine abbiano fatto le risorse finanziarie che avrebbero dovuto rendere più vivibili i nostri istituti di pena. In carcere ormai l’allarme è quotidiano, anche dal punto di vista igienico-sanitario, considerato inoltre che sono sempre più frequenti i tentativi di suicidio. Le condizioni di vita di tante persone in attesa di giudizio sono insostenibili e soprattutto non favoriscono la cosiddetta opera rieducativa, che è alla base di una società civile e democratica. L’opera della direttrice del carcere di Siano di Catanzaro, che più volte ha lanciato l’allarme sulla situazione generale della struttura è meritoria, ma rischia di risultare vana”. Nel frattempo c’è un uomo che, ad ottantuno anni, dal 20 aprile è in sciopero della fame perché in questo paese, straripante di imbroglioni, millantatori e opportunisti, possa esserci un barlume, una briciola, di democrazia. Si parla di Marco Pannella in sciopero della fame perché, dice, l’Italia “torni a potere in qualche misura essere considerata una democrazia”. Con Pannella sono scese in digiuno, dentro e fuori le carceri, altre duecento persone circa. Gli obiettivi, che riassumo, sono semplici e condivisibili: l’istituzione di una commissione di inchiesta sullo stato della democrazia composta da accademici. La situazione della giustizia e delle carceri in Italia, e la possibilità di un’amnistia. Mozione per le armi di “attrazione” di massa da usare in Libia, Siria. Iniziativa rivolta al Pd per la questione, dal Pd abbandonata, del sistema elettorale uninominale. Ho detto obiettivi semplici e condivisibili, ma può benissimo essere che in realtà appaiano complicati e contrari al nostro credere e sentire. Quello che però in ogni caso non è inaccettabile che su queste questioni non si apra un dibattito, non se ne discuta. Giustizia: Fp-Cgil; 4 internati morti in 4 mesi, chiudere subito gli Opg Agi, 17 maggio 2011 “Procedere alla chiusura dei 6 ospedali psichiatrici giudiziari italiani, come previsto dalla legge, e farlo velocemente. Si è perso già troppo tempo e il numero degli internati è costantemente lievitato. Fino all’ultima escalation, con 4 decessi in poco più di 4 mesi nell’Opg di Aversa, l’ultimo per soffocamento, un ragazzo meno che trentenne. Ha fatto bene il comitato Stop Opg, di cui siamo tra i promotori assieme alla Cgil nazionale e a molte associazioni dei settori della salute mentale e penitenziario, a manifestare di fronte all’Opg di Aversa. Chiediamo un intervento immediato del Governo, una vera e propria road map per chiudere le strutture e prevedere percorsi di reinserimento per gli oltre 1400 internati, 350 dei quali già dimissibili ma inspiegabilmente tenuti dentro gli ospedali psichiatrici”. Queste le parole di Rossana Dettori, segretaria generale dell’Fp-Cgil nazionale, in merito a quanto avvenuto nell’Opg di Aversa e alla proposta avanzata dal Comitato StopOpg di chiusura immediata delle strutture, senza l’esclusione di commissari ad acta, e l’indicazione di un percorso chiaro di recupero degli internati. “Gli Opg sono luoghi di privazioni e sofferenze inaccettabili tanto per chi è ristretto in condizioni disumane quanto per chi lavora nel degrado. Va posto fine a questo stillicidio. Al Ministro Fazio - conclude Dettori - chiediamo di fare un primo passo importante: un piano straordinario per la sanitarizzazione immediata delle strutture, attraverso l’affidamento totale dei pazienti al solo personale del Servizio Sanitario Nazionale”. Giustizia: proteste contro il sovraffollamento nelle carceri di Verona e Venezia 9Colonne, 17 maggio 2011 Da alcune ore i detenuti ristretti negli istituti penitenziari di Verona Montorio e Venezia Santa Maria Maggiore stanno protestando contro il sovrappopolamento e le condizioni di reclusione. “Monitoriamo con una certa preoccupazione quanto accade a Verona, dove la polizia penitenziaria è impegnata a mantenere la situazione sotto controllo - dichiara Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari. Nelle scorse ore, infatti, i detenuti non hanno dato vita solo alle classiche battiture delle stoviglie contro le grate ed i cancelli ma hanno anche appiccato tanti mini roghi e fatto scoppiare diverse bombolette, mettendo a serio rischio la sicurezza e l’incolumità. Ieri pomeriggio, dopo che il comandante ed il direttore hanno incontrato i detenuti ed ascoltato le loro ragioni, la protesta è in parte rientrata. A Venezia, invece, i detenuti hanno annunciato che da oggi, e sino a giovedì prossimo, si asterranno dal consumare il vitto fornito dall’amministrazione penitenziaria”. Anche il Regina Coeli di Roma è stato attraversato da momenti di tensione, causa le proteste dei detenuti. La Uil Pa Penitenziari non nasconde “la propria preoccupazione su quanto sta accadendo in alcuni istituti di pena e il timore di una protesta generalizzata, che rischia di non poter essere controllata e gestita”. Proprio ieri il segretario generale della Uil Pa Penitenziari aveva inoltrato al presidente della Repubblica un accorato appello perché sensibilizzasse il governo ed il parlamento a trovare le necessarie soluzioni per quello che Eugenio Sarno definisce “il dramma penitenziario”. Giustizia: processo per la morte di Cucchi; “Stefano mi disse papà, mi hanno incastrato” di Luca Lippera Il Messaggero, 17 maggio 2011 “La mattina in Tribunale - sostiene il padre - era gonfio come un pallone”. “La sera prima in caserma - ricorda un carabiniere - dichiarò: M’hanno menato gli amici miei”“. La seconda udienza del processo Cucchi, il trentenne di Tor Pignattara morto in ospedale dopo un fermo per spaccio, non scioglie i rebus di un giallo in cui il crollo d’immagine dello Stato continua a mescolarsi senza sosta con dubbi, incertezze e versioni sideralmente lontane. I giudici in aula hanno ascoltato la voce del detenuto registrata il 16 ottobre del 2009 -”Scusate, non riesco a parlare tanto bene” - ma hanno anche scoperto due cose che potrebbero non essere un dettaglio. Cucchi, secondo il papà, si allenò in una palestra di boxe anche il giorno prima dell’arresto e due anni prima disse al medico di un centro per tossicodipendenti - la relazione è stata acquisita dai giudici su richiesta di uno dei difensori - di essere caduto da una finestra riportando alcune fratture alle vertebre. Il dibattimento sta cercando di diradare le nebbie in un labirinto giudiziario dove ognuno porta acqua al suo mulino. Non sarà un gioco. Ieri i magistrati e i giurati popolari, prima di sentire i genitori della vittima, hanno avuto al conferma che Cucchi nella notte del fermo rifiutò il ricovero. Lo ha ricordato l’infermiere del 118 Francesco Ponzo, un teste fuori dalla mischia, che arrivò con un’ambulanza in caserma su richiesta dei carabinieri. “Mi disse - ha raccontato - che non aveva nessun tipo di problema. Stava su un tavolaccio, era tutto coperto. Gli scoprii il volto e lo vidi per qualche secondo: aveva sotto gli occhi degli arrossamenti tipo eritema e forse un’ecchimosi a sinistra. Insistetti perché venisse a fare controlli e lui si spazientì: “Aho, basta! Non ho bisogno di niente, in ospedale non ci vengo”. Ma Pietro Schironi, il carabiniere che la mattina del 16 ottobre 2009 prelevò il trentenne per portarlo in Tribunale, ha confermato che sulla faccia di Cucchi c’era certamente qualcosa di strano. “Qualche schiaffo - ha detto in aula - lo aveva preso. Gli domandai come mai e chi fosse stato. Mi spiegò che lo avevano menato i suoi amici”. A casa di Cucchi a Morena - è stata ripercorsa anche questa parte della vicenda - i genitori trovarono quasi un chilo di hashish, cocaina e soldi. Il sospetto, fin dall’inizio, è che qualche trafficante avesse affidato alla vittima merce in conto vendita e che lo tenesse spietatamente sotto pressione con ogni mezzo. La cosa, ovviamente, non cambierebbe le eventuali responsabilità degli imputati. Tre agenti della Polizia Penitenziaria sono accusati di aver picchiato il detenuto nelle celle di sicurezza del Tribunale. Ma le lesioni, secondò l’accusa, non erano fatali. Perciò per il decesso sono chiamati in causa sei medici e tre infermieri del reparto carcerario del “Sandro Pertini”. La madre di Cucchi, Rita, sentita ieri come ultima teste, ha detto che il figlio, la sera della perquisizione in casa, “camminava bene e non aveva segni sul volto”. “Quando l’ho rivisto morto era irriconoscibile - ha aggiunto - Prima stava bene e non aveva malattie”. Il marito, Donato, ha confermato che il figlio, la mattina dopo il fermo, camminava normalmente sulle gambe e che gli disse di essere “stato incastrato”. “In aula - ha aggiunto il signor Cucchi - era molto più gonfio della sera prima”. Il magistrato che lo mandò in carcere però non notò nulla. Misteri, almeno per ora. Prossima udienza lunedì 23 maggio. La sorella: per difendersi spacciano il falso per vero, di Ilaria Cucchi Riceviamo e pubblichiamo questa lettera inviataci dalla sorella di Stefano Cucchi. Sta succedendo qualcosa di strano durante il processo pei la morte di mio fratello. E come se fosse lui sotto accusa, non chi ne ha provocato la morte. Si raccontano storie e fatti che alla famiglia non risultano. Affermazioni che sono comunque del tutto irrilevanti rispetto a quello che è realmente accaduto. E c’è chi vuol propagandare come vero il fatto che Stefano abbia riportato nella sua vita, in seguito a cadute, numerose fratture. E che per quegli incidenti fosse stato addirittura in coma farmacologico. Ma la realtà è un’altra, perché chi dice questo lo fa esclusivamente per difendere da gravi responsabilità gli imputati, o condizionato da pregiudizi ideologici. Vengono utilizzate dichiarazioni che Stefano avrebbe rilasciato entrando in comunità terapeutica, ma che erano false. Per considerarle vere si dimentica che mio fratello aveva anche dichiarato successivamente al giudice di essere celiaco e non lo era, di essere anemico e non lo era, di essere anoressico e non lo era. E ancora, si ignora, consapevolmente, che non esiste un solo documento di cartella clinica che lo possa confermare. Che gli accertamenti clinici compiuti su di lui, negli anni successivi, non hanno rilevato segni di fratture sulla schiena. Che mai la mia famiglia è stata informata di un fatto così grave, in spregio a tutte le leggi vigenti in materia. E tutto ciò con lo scopo di spacciare il falso per vero. Insisto sulla questione proprio perché questo gravissimo evento sarebbe stato curato al Pertini, e che ora medici, infermieri e responsabili di quell’ospedale sono gli imputati. Non è strano che non sia stato reperito alcun certificato o documento sanitario che comprovi tutto ciò? Sentiamo come ignobile questo processo alla nostra famiglia e la sistematica strategia di far dire a Stefano cose dalle le quali non può più difendersi. Porto Azzurro (Li): morte “sospetta” in carcere, si attendono risposte dall’autopsia Il Tirreno, 17 maggio 2011 Gli restavano da trascorrere in cella due anni. Era giunto quasi al termine della sua pena e anche per questo, appena due giorni fa, aveva beneficiato di un permesso premio per sbrigare alcune faccende personali a Milano. Ma Enrico Brera, 53 anni, originario di un paesino nelle vicinanze del capoluogo lombardo, la soglia del carcere non potrà più varcarla sulle sue gambe. Alle tre di ieri mattina gli agenti di turno della polizia penitenziaria del carcere di Porto Azzurro lo hanno trovato senza vita nel suo letto in cella. Una morte misteriosa, almeno per il momento. I primi accertamenti avrebbero fatto pensare a un improvviso malore. Ma la Procura di Livorno vuole vederci chiaro e per fare piena luce sul decesso è stata disposta immediatamente un’autopsia programmata per domani. La salma è stata trasferita all’obitorio dell’ospedale di Portoferraio dopo i primi accertamenti in carcere da parte del medico legale. Brera, dopo un permesso premio, sabato sera era rientrato in istituto e, come prevedono le norme, era stato sottoposto alla visita medica di routine. Le sue condizioni erano buone e l’uomo è rientrato in cella e si è messo a letto. Alle tre, come prassi, gli agenti di turno hanno fatto il giro delle celle e si sono accorti che il cinquantenne non dava segni di vita. La notizia della morte del detenuto è stata annunciata dal sindacato degli agenti della penitenziaria Sappe. Il consigliere nazionale del Sappe, Aldo Di Giacomo, sottolinea come quello di Porto Azzurro sia purtroppo l’ennesimo decesso per cause naturali che avviene dietro le sbarre dove spesso si trovano recluse persone malate, bisognose di assistenza ma non sempre in grado di essere curate per problemi di personale e risorse economiche. “La percentuale di questi decessi - afferma Di Giacomo - è altissima, molto più alta che fuori dagli istituti detentivi e questo deve farci riflettere, ancora di più perché ciò avviene dentro il carcere di Porto Azzurro, fino a qualche anno fa una struttura modello”. Una valutazione analoga a quella che il Sappe aveva fatto solo pochi giorni fa di fronte al tentativo di suicidio di un giovane straniero in cella nell’istituto elbano. Enrico Brera era un detenuto tranquillo, con la passione per la scrittura, in particolare per la poesia. Con una sua opera, intitolata “Se fossi” - che riportiamo qui sopra - nel 2005 aveva partecipato al premio nazionale “Emanuele Casalini”, promosso dalla San Vincenzo De Paoli e dall’Università della Terza Età. Non aveva vinto ma i suoi versi, che raccontano il dramma della prigione e della mancanza di libertà, erano stati segnalati dalla giuria tra i migliori. Di lui restano molti scritti, conservati dall’associazione Dialogo, da anni in prima fila nella battaglia per fare delle carceri italiane un luogo di recupero e rieducazione. Viterbo: il Garante Marroni; agente suicida è ennesimo allarme, personale lasciato solo Asca, 17 maggio 2011 “Purtroppo il carcere c’entra eccome con la tragica fine dell’agente di polizia penitenziaria in servizio a Viterbo. Non basta attribuire quanto accaduto, come si sta ipotizzando, ai suoi problemi personali. È evidente che nel suo gesto hanno avuto un peso le difficili condizioni di lavoro e una pressione psicologica che, in altri momenti e con altre condizioni, poteva sicuramente essere gestita”. È questo il commento dei garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni alla notizia del suicidio di un ispettore della polizia penitenziaria di 42 anni in servizio al carcere Mammagialla di Viterbo. Secondo quanto ricostruito l’uomo si è tolto la vita nello spogliatoio del carcere subito dopo aver preso servizio, sparandosi in testa con la pistola di ordinanza. Secondo le organizzazioni sindacali, quello di domenica è il suicidio numero 75 fra gli agenti di polizia penitenziaria negli ultimi dieci anni, il terzo del 2011. “Hanno pienamente ragione i sindacati ad indignarsi davanti a tragedie di questo genere e denunciare tutta la drammaticità delle proprie condizioni di lavoro - ha aggiunto Marroni. Il dato inequivocabile di questi anni è il drammatico sovraffollamento degli istituti, con il peggioramento della qualità di vita nelle carceri e, quindi, non solo dei detenuti ma anche di tutti coloro che vivono questo mondo, a partire dagli agenti di polizia penitenziaria. Il sovraffollamento acuisce i problemi legati alla gestione di strutture fatiscenti e inadeguate, costringe gli agenti, in drammatiche condizioni di carenza di organico, a lavorare abbandonati a loro stessi, in condizioni di estrema precarietà senza avere, per altro, un adeguato sostegno di carattere psicologico. Sovraffollamento, carenze di organico e penuria di risorse stanno portando il sistema al collasso, come denunciano da mesi gli agenti con le loro proteste in ogni parte d’Italia. La realtà è che fin quando non si deciderà di intervenire politicamente in maniera concreta, considerando la riforma del codice penale e le risorse anche economiche da mettere in campo, ci sarà sempre emergenza nelle carceri”. Agrigento: accordo tra Comune e Tribunale; ci sarà lavoro per cinque detenuti La Sicilia, 17 maggio 2011 Cinque persone che hanno avuto problemi con la giustizia potranno scontare la loro condanna svolgendo lavori di pubblica utilità per conto del Comune. L’accordo è stato sottoscritto tra il sindaco di Canicattì Vincenzo Corbo ed il presidente del Tribunale di Agrigento Luigi D’Angelo. Saranno impiegati nella manutenzione del verde pubblico e dell’arredo urbano, la pulizia di immobili di proprietà comunale. L’attività che sarà svolta dai cinque soggetti non sarà retribuita ed inoltre coloro i quali espiano la pena dovranno sottostare alle decisioni dei dirigenti che assegneranno loro compiti e mansioni. Durante lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità il comune dovrà assicurare il rispetto delle norme previste dalla legge e le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale dei condannati accertando inoltre che l’attività da loro svolta sia in perfetta regola con quanto previsto dalle legge. Se il Comune, inoltre, segnalerà delle trasgressioni di coloro i quali stanno espiando la pena, il Tribunale potrà decidere nei loro confronti delle pene alternative che prevedono anche la revoca del beneficio e la detenzione carceraria. I condannati, infine scontata la pena dovranno redigere una relazione che documenti che accertino l’effettivo svolgimento degli obblighi da parte di queste persone per il lavoro svolto. La convenzione che è stata sottoscritta dal sindaco Vincenzo Corbo, avrà la durata di tre anni. “Si tratta - ha detto il capo dell’Amministrazione - di un accordo importantissimo che la nostra città ha sottoscritto con il Ministero della Giustizia. Non solo avremo effettuati dei lavori di manutenzione e cura del verde pubblico e degli immobili a costo zero ma permetterà a persone che hanno avuto inflitte condanne di poca rilevanza di scontare la pena in libertà o quasi. Già la nostra città - ha concluso il sindaco - ha delle persone che hanno avuto problemi con la giustizia che svolgono lavori per conto dell’ente. A loro abbiamo affidato la manutenzione di alcuni spazi verdi come quello ad esempio che si trova nei pressi di largo Aosta e vi è la statua di San Pio Da Pietrelcina”. Ivrea (To): progetto “Verdura scatenata”; se le verdure sono senza catene La Sentinella, 17 maggio 2011 Una lettera dei detenuti indirizzata ai bambini. Disegni dei bambini per i detenuti. Semi piantati nelle serre del carcere che diventano piantine e, negli orti scolastici curati dai bambini, produrranno verdura e aromi. È uno dei tanti risvolti di “Verdura scatenata”, progetto che si svolge tra le mura del carcere e seguito con passione dalla San Vincenzo de Paoli e dall’associazione volontari penitenziari “Tino Beiletti” grazie al finanziamento di Idea Solidale. Le serre, all’interno del carcere, erano abbandonate da tempo. “Nel 2009 - sottolinea il direttore della Casa circondariale Maria Isabella De Gennaro - sono state ristrutturate e riportate in funzione con un progetto finanziato dall’amministrazione penitenziaria”. E, di lì, si è cominciato a lavorare. Gli orti in serra coinvolgono in maniera continuativa una ventina di detenuti. Pomodori, peperoni, fagiolini e insalate biologiche finiscono nelle tavole della Casa circondariale. Certo, sarebbe bello fare di più e arrivare a commercializzare i prodotti delle serre, fare in modo che le “verdure scatenate” possano essere consumate in più tavole. Impresa non facile, ma non impossibile. Sono in corso contatti con i gruppi di acquisto solidali e chissà che superando alcune difficoltà burocratiche il progetto possa crescere ancora di più. Per il momento, intanto, l’iniziativa esce dalle mura di via Burolo e avvia un contatto con gli orti dei bambini, esperienza che, ormai da anni, è avviata con buoni risultati nelle scuole di Ivrea. Il primo orto dei bambini in tutta la provincia di Torino, tra l’altro, fu proprio quello della scuola primaria Olivetti in collaborazione con Slow Food e, da allora, ogni anno si promuove un pranzo con i prodotti coltivati durante l’anno. Da quell’orto (era la fine degli anni Novanta) ne sono nati altri, alla Sant’Antonio, alla Massimo d’Azeglio, a Chiaverano, e anche al nido Olivetti. E proprio il nido è stato scelto dai detenuti per la consegna delle piantine: zucchine, basilico, fagiolini, erbe officinali, peperoni. Per valorizzare attività educative declinate in mille modi è stato quindi organizzato un momento formale per il dono delle piantine, con gli assessori alle Politiche sociali Paolo Dallan e ai Sistemi educativi Augusto Vino. E i detenuti che lavorano nelle serre hanno voluto scrivere una lettera per i bambini e, la sera, avranno potuto appendere colorati disegni regalati dagli alunni. “I detenuti sono stati contenti di partecipare a questo progetto - sottolinea il direttore De Gennaro - perché il tema della famiglia e degli affetti è sempre forte, tanto più in persone private della libertà personale”. Certo, in tempi con poche risorse economiche sarebbe importante che iniziative come queste si moltiplicassero fino a coinvolgere la quasi totalità della popolazione carceraria, invece di minoranze. Ma intanto si fa ciò che si può e, come sottolinea il direttore: “Ci si ingegna”. E con l’ingegno e i fondi che si riescono a reperire in progetti è stato riattivato il laboratorio di falegnameria (i lavori dei detenuti saranno in mostra, a Santa Marta, l’11 e il 12 giugno) e, tiene a sottolineare il direttore, sono promossi corsi di formazione (con la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri onlus) e di scolarizzazione e continuiamo a presentare progetti. Non solo. “Abbiamo individuato uno spazio verde - anticipa De Gennaro - che rimetteremo in sesto per creare una zona di gioco e di incontro all’aperto dei detenuti con le loro famiglie, per sostenere la genitorialità e avere un luogo dove vedere i propri affetti”. Caltanissetta: appello detenuto a Alfano e al Papa; non sono colpevole, non mangio più La Sicilia, 17 maggio 2011 “Mi accusano ingiustamente di avere abusato di una minorenne, ma io non ho fatto nulla”. È il disperato appello del nisseno Antonino Fiume, che sta scontando una condanna a 10 anni di reclusione per avere abusato di una minore, almeno secondo quanto stabilito dai giudici della Corte di Cassazione, i quali nei mesi scorsi hanno messo il sigillo definitivo sulla condanna emessa dal Tribunale e poi confermata dalla Corte d’Appello. Fiume ha iniziato uno sciopero della fame nel carcere dove è detenuto e questa decisione ha suscitato forti preoccupazioni nei familiari, soprattutto nel fratello Alessandro Fiume, il quale adesso ha deciso di rivolgere un appello alle Istituzioni e di inviare una lettera al ministro della Giustizia Angelino Alfano e persino a papa Benedetto XVI. “Siamo sicuri dell’innocenza di mio fratello - ha affermato Antonino Fiume - le accuse scaturiscono da un desiderio di vendetta. Da parte nostra crediamo di avere dimostrato e siamo pronti a rifarlo, la totale estraneità di mio fratello. L’innocenza di Antonino emerge dai referti medici e chiediamo che vengano nuovamente eseguite le perizie e tutti gli accertamenti che saranno necessari”. Lo stesso Antonino Fiume ha scritto una lettera ai suoi familiari nella quale ha sostenuto con forza la sua innocenza affermando: “Se mi fossi macchiato di una colpa così grave avrei provveduto da solo a togliermi la vita; chiedo che il mio appello venga diffuso perché quello che sto subendo non è giusto”. Milano: Sappe; detenuto Ivrea evade mentre visita madre malata Adnkronos, 17 maggio 2011 Un detenuto italiano di 32 anni, con fine pena 2013, che scontava la condanna nel carcere di Ivrea è evaso a Milano spintonando gli agenti che lo accompagnavano per una visita autorizzata alla madre malata. Ne dà notizia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). "L'interesse primario ora - continua Capece - è partecipare attivamente alle ricerche in collaborazione con le altre Forze di Polizia per catturare il fuggitivo, ma questo episodio conferma ancora una volta le criticita' del sistema carcere e mette in luce sui gravi rischi per la sicurezza connessi ai servizi di traduzione e trasporto dei detenuti''. Capece sottolinea che ''nel 2010 ci sono state complessivamente 139 evasioni di detenuti a livello nazionale: 15 da istituti, 3 da soggetti ammessi a fruire di permessi di necessita' (come in questo caso), 38 da chi godeva di permessi premio, 3 di lavoro all'esterno, 12 da semiliberi e ben 68 sono stati gli internati che non sono rientrati dopo avere avuto periodi di licenza''. Il segretario generale del Sappe torna a proporre con urgenza un nuovo ruolo per l'esecuzione della pena in Italia, che preveda circuiti penitenziari differenziati ed un maggiore ricorso alle misure alternative, e sottolinea l'importante ruolo svolto quotidiano dai Baschi Azzurri del corpo. "Quest'episodio conferma ancora una volta le criticita' del sistema carcere e mette in luce sui gravi rischi per la sicurezza connessi ai servizi di traduzione e trasporto dei detenuti". Così Donato Capece, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, Sappe, sull'evasione di un detenuto di Ivrea avvenuta oggi a Milano. "Nel 2010 - spiega Capece - ci sono state complessivamente 139 evasioni di detenuti a livello nazionale: 15 da istituti, tre da soggetti ammessi a fruire di permessi di necessita', 38 da chi godeva di permessi premio, tre di lavoro all'esterno, 12 da semiliberi e ben 68 gli internati che non sono rientrati dopo avere avuto periodi di licenza". Il segretario del sindacato dei baschi azzurri - si legge in una nota - torna a proporre con urgenza un nuovo ruolo per l'esecuzione della pena in Italia, che preveda circuiti penitenziari differenziati e un maggiore ricorso alle misure alternative. Libri: “Cronaca di un’attesa… un anno di libertà condizionale”, di Barbara Balzerani www.linkontro.info, 17 maggio 2011 Sarà in libreria da mercoledì 18 maggio, per la casa editrice Derive Approdi, l’ultimo libro di Barbara Balzerani dal titolo “Cronaca di un’attesa”. L’autrice, che già aveva dato alle stampe Compagna luna (Feltrinelli, 1998), La sirena delle cinque (Jaca Book, 2003), Perché io, perché non tu (Derive Approdi, 2009), racconta qui l’ultimo anno da lei trascorso in libertà condizionale prima di aver espiato completamente la propria pena. Il libro verrà presentato mercoledì 25 maggio alle ore 18.00 presso la Casetta Rossa Via Magnaghi 14, Roma. Ne discuterà con l’autrice Tano D’amico. A seguire Reading di Tamara Bartolini, Michele Baronio, Carmen Iovine. Dalla quarta di copertina: “Quando il tempo si può cominciare a contare a mesi, dopo i decenni passati tra clandestinità e galera, cambia lo sguardo e la prospettiva. Come vivere un tempo sospeso di una vigilia sullo stipite di una soglia che dà su un paesaggio sconosciuto, invitante e sfuggente. I giorni passano con estenuante lentezza, come se tutto si fosse fermato, come se la vita immaginata nei lunghi anni alle spalle mostrasse il conto delle sue illusorie promesse. L’alibi della costrizione sta per abbandonarla e deve imparare a vivere la libertà, in un mondo che le appare sfigurato, triste, infelice, senza bellezza. La cronaca offre spaccati di vita sociale e lei cerca di interpretare i nuovi linguaggi usando la memoria del suo universo emotivo che la porta lontano, alla sua infanzia, all’infanzia di tutto. Ha imparato a diffidare del sovrapporsi di voci e ascoltare il silenzio. A cercare le ragioni di un insostenibile presente mettendo distanza, tornando indietro, fin dove è ancora possibile vedere e sentire. Una memoria visionaria la guida per ritrovare parole di senso per descrivere l’inimmaginabile di un fine corsa senza più fiato e attese. Forse ha sognato, forse non è successo nulla e tutto, nel migliore dei mondi possibili, scorre come dovrebbe. Ma la memoria è là a raccontarle che c’è sempre possibilità di scelta e che il tempo presente è solo l’ultimo, non l’unico”. Un assaggio: “Mia madre tornava dal turno di fabbrica con i segni della fatica nei gesti d’ira per la sua giornata ancora lunga. Io a scuola studiavo l’accelerazione che la rivoluzione industriale aveva portato al progresso dell’umanità. Ma non avevo il coraggio di dirlo a lei. Né della giannetta filatrice le dicevo, la macchina che aveva sostituito la spinning Jenny in carne ed ossa e velocizzato i tempi di produzione dell’arcolaio nelle tessiture inglesi. Un piccolo cambiamento, un nome vezzoso per il segnale che il mondo non sarebbe più stato quello lento, legato alle stagioni della miseria contadina. Millenni di incerto cammino e finalmente era sorta l’alba di una storia compiutamente umana, questo imparavo a scuola. Le magnifiche sorti e progressive inauguravano il loro tempo. Per qualche centinaio d’anni, padroni di filande e filatori, si sono contesi la superiorità della propria idea di futuro, a partire da quel nuovo marchingegno. Mia madre, nel reparto esplosivi, col marcatempo sul collo, con i mestieri che l’aspettavano a casa, avrebbe dato un’altra versione di tutto quell’affrettarsi. Ma si sa, un conto sono i processi storici e tutto un altro le vite delle persone. Specie quelle che se li caricano sulle spalle e arrivano per ultime a riscuoterne qualche vantaggio, quando ci arrivano. Per questo esistono i libri e quelli che hanno studiato a spiegare come è andata. E se la percezione non coincide, la colpa è del punto di osservazione di chi sta chino sul particolare, quasi sempre parziale e deviante. Adesso mia madre non c’è più. E mi manca per ogni cosa. Lei che mi avrebbe aiutato a farne un altro racconto. Di quelli che si trovano in pochi libri. Ci provo, caricandomi la sua fatica addosso”. Marocco: repressa rivolta detenuti islamici Ansa, 17 maggio 2011 Le autorità marocchine hanno usato lacrimogeni e manganelli per reprimere una rivolta carceraria da parte di presunti terroristi islamici che sono saliti su un tetto domandando l’amnistia o la revisione dei loro casi. Lo hanno reso noto attivisti per i diritti umani. Circa 150 persone hanno preso parte alla protesta nella prigione di Zaki a Sale, a nordest della capitale Rabat. Almeno 30 sono rimaste ferite, compreso uno che è caduto dal tetto, ha detto Binothmane Reda, membro del comitato di coordinamento per i detenuti islamici. “Vogliono che il governo mantenga la sua promessa di rivedere i processi o di liberali”, ha detto Reda, aggiungendo di aver parlato con i prigionieri per telefono dentro la prigione. Stati Unti: pena morte; detenuto ucciso in Ohio con anestetico per animali Adnkronos, 17 maggio 2011 Un detenuto di 63 anni è stato messo a morte oggi in un carcere dell'Ohio usando un potente anestetico veterinario. Daniel Bedford è stato ucciso nella prigione di Lucasville attraverso un'iniezione mortale. Questa è la terza esecuzione effettuata in Ohio facendo ricorso alla sostanza usata per uccidere gli animali, a causa della carenza negli Usa delle sostanze usate in passato per le esecuzioni. I legali di Bedford avevano tentato in extremis un ultimo appello alla Corte suprema degli Stati Uniti sostenendo che il condannato non era capace di intendere o volere. Bedford era stato condannato a morte per un doppio omicidio commesso nel 1984. Questa è la sedicesima esecuzione negli Stati Uniti dall'inizio dell'anno. Stati Uniti: direttore Fmi Strauss-Kahn detenuto al carcere di Rikers Island Ansa, 17 maggio 2011 Il direttore generale del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn resta in carcere ed è stato rinchiuso nella prigione di Rikers Island a New York; nel carcere newyorkese, Strauss-Kahn avrà a disposizione una cella individuale, ha indicato un portavoce dell’amministrazione penitenziaria della città. Dominique Strauss-Kahn “dormirà questa sera a Rikers Island in una cella individuale”, ha dichiarato ieri il portavoce sotto copertura di anonimato. Il direttore dell’Fmi “non sarà in contatto con gli altri prigionieri”, ha precisato il portavoce. “Ciò non vuole dire che sarà sempre nella sua cella, vuol dire che quando ne uscirà, sarà sempre accompagnato da una guardia”, ha aggiunto. La prigione di Rikers Island si trova su un’isola dell’East River, che occupa interamente, a nord della zona del Queens, al largo dell’aeroporto La Guardia. Circa 14.000 persone vi sono detenute, secondo il sito Internet di uno studio legale associato, secondo il quale “le guardie non sono sempre capaci di controllare la situazione”. 7 capi di accusa, rischia oltre 70 anni di carcere Dominique Strauss-Kahn ha a suo carico sette capi di accusa da parte della tribunale di New York e rischia oltre 70 anni di carcere. È quanto emerge dalla prima sentenza letta dal giudice Melissa Jackson che cita vari tipi di abusi sessuali commessi dal direttore del Fmi, tra cui anche la sodomia e la costrizione al sesso orale. Le accuse coincidono con quelle della cameriera del Sofitel di New York che ha denunciato sabato la violenza alla polizia. I graffi riscontrati sul torace di Strauss-Kahn al momento avallerebbero l’ipotesi di uno stupro al quale la vittima si sarebbe inizialmente ribellata. Egitto: fratello Al-Zawahiri, braccio destro di Bin Laden, impugna condanna a morte Aki, 17 maggio 2011 Mohamed al-Zawahiri, fratello di Ayman al-Zawahiri, braccio destro del defunto leader di al-Qaeda Osama Bin Laden, ha presentato ricorso in appello contro una sentenza che lo condanna a morte per terrorismo. Lo riferisce il sito di al-Masry al-Youm, ricordando che l’uomo è detenuto nel carcere egiziano di Aqrab. “Abbiamo impugnato la sentenza di morte del tribunale militare, contando di vincere e di poter riaprire il processo, soprattutto perché siamo stati condannati in absentia”, ha detto al-Zawahiri dal carcere. Insieme a lui, ha fatto ricorso in appello Abdel Aziz al-Gamal, anche lui condannato a morte per terrorismo. “Ci è stato promesso che il nostro caso sarà riesaminato e che saremo trattati in modo diverso, perché siamo vittime del vecchio regime, che ci ha trattato in modo brutale”, ha aggiunto il fratello del numero due di al-Qaeda.