Giustizia: un Codice Etico per chi lavora in carcere, è in arrivo dal Consiglio d’Europa di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 12 maggio 2011 È in arrivo dal Consiglio di Europa il Codice Etico per chi lavora in carcere. Con la supervisione del professore universitario inglese Andrew Coyle, già redattore delle Regole Penitenziarie Europee del gennaio 2006, il Comitato europeo sui problemi criminali di Strasburgo ha di recente chiuso i lavori di redazione del testo che ora aspetta solo la successiva adozione formale. In apertura del Codice si afferma che i principali obiettivi professionali dello staff penitenziario in una società democratica devono essere: proteggere e rispettare i diritti umani così come definiti dalla Convenzione europea del 1950 e dalle Regole Penitenziarie del 2006; garantire il diritto della collettività a essere salvaguardata dalla criminalità; favorire la reintegrazione sociale dei detenuti assicurando un utile impiego del tempo da loro trascorso in prigione. Si afferma perentoriamente che il Codice etico si applica anche alle prigioni private (diffuse ad esempio in Inghilterra). Viene chiarito che lo staff penitenziario non deve essere militare, non deve confondersi con le forze dell’ordine che hanno compiti di polizia giudiziaria e deve garantire il pieno rispetto del diritto di difesa delle persone recluse. Al punto quattordici si sottolinea che il servizio penitenziario deve essere gestito in modo da promuovere buone relazioni con le autorità locali, con le organizzazioni non governative, con i rappresentanti della comunità pubblica ed infine coi media offrendo informazioni obiettive e tempestive. Nella selezione del personale vanno accertate l’integrità morale, la capacità di giudizio, la maturità, la capacità di relazionarsi con le altre persone, e per chi deve gestire la struttura, la capacità di leadership. Non vi deve essere discriminazione nel reclutamento. Sarebbe infatti importante che lavorassero nelle carceri anche esponenti delle minoranze nazionali ed etniche. La formazione viene ritenuta decisiva per sviluppare un buon clima dentro le prigioni. Deve essere periodica e di qualità. I contenuti dei programmi formativi devono principalmente riguardare le modalità di dialogo coi detenuti e solo secondariamente le forme di auto-difesa purché conformi al diritto internazionale dei diritti umani. Gli operatori penitenziari devono essere i primi avversari del razzismo e della xenofobia, a partire dal linguaggio usato. Affinché svolgano bene e serenamente il loro lavoro devono vedere pienamente tutelati i loro diritti sociali e sindacali. Ad esempio devono avere una retribuzione appropriata e una speciale assicurazione che li protegga dai rischi professionali a cui possono andare incontro. Diritti che spettano a tutti allo stesso modo: sia a chi ha compiti di custodia che a chi ha compiti più specificatamente educativi. Chiunque lavora in carcere non deve infliggere, istigare o tollerare un qualsivoglia atto di tortura o violenza anche se ordinato da un superiore. In nessun caso l’operatore penitenziario deve entrare in relazione privata di amicizia con i detenuti o i loro familiari. Ciò favorirebbe ipotesi di corruzione. L’istituzione penitenziaria deve rendersi permeabile a controlli esterni. Lo staff penitenziario deve sempre collaborare nel caso di inchieste su fatti avvenuti dentro le mura carcerarie. Chiunque lavori in un istituto penitenziario e ritenga che siano violate norme del codice etico di condotta deve avvertire obbligatoriamente i superiori gerarchici. Infine si prevede che i singoli Stati facciano propri i contenuti del codice etico europeo. Giustizia: cosa sono le carceri in Italia di Riccardo Arena www.ilpost.it, 12 maggio 2011 208. Sono le carceri italiane. La metà costruite nel 1200, nel 1500 o nell’800. 42mila. Sono i posti a disposizione. 67.510. Sono le persone detenute alla data del 30 aprile. Ovvero circa 25mila persone in più. 37 mila. Sono condannati in via definitiva. 29 mila. Sono i detenuti imputati, ovvero sottoposti a misura cautelare. 15 mila. Sono le persone che in carcere attendono un primo giudizio. Presunti non colpevoli. 90 mila ogni anno, sono coloro che entrano in carcere per qualche giorno e poi escono. 173. Sono i detenuti morti nel 2010. 61. Sono le persone detenute morte dall’inizio del 2011. Una media di 12 decessi al mese. 22 si sono suicidati. 39 sono morti per malattia. 42. Sono i bambini di età inferiore ai tre anni che stanno in carcere con le loro madri. Questi i dati, i numeri, che dimostrano il collasso del sistema penitenziario. Un collasso determinato dalla crisi del processo penale e del sistema delle pene. Ma se è facile snocciolare le cifre, più difficile è capire come tale collasso si traduca nel quotidiano vissuto all’interno di una cella delle patrie galere. Ecco una fotografia. 6 persone detenute sono rinchiuse in una cella grande appena 10 mq. 6 persone detenute che restano chiuse in quella piccola cella per 22 ore al giorno. Una cella buia e fredda, come una caverna. I letti a castello sono accatastati alle pareti. Letti che non bastano per tutti e 6 quei detenuti. Così uno di loro dorme per terra, su materasso vecchio e rovinato. In un angolo di quella cella c’è il bagno. Una tazza alla turca, senza bidè, e un piccolo lavandino. Un lavandino da cui spesso l’acqua non esce. Quelle 6 persone detenute vivono nella sporcizia e nel degrado. Non hanno nulla per tenere pulita la loro cella. Non a caso ogni tanto spunta uno scarafaggio o un topo a tenergli compagnia. I muri sono scrostati, pieni di muffa e quando fuori piove l’acqua inonda quella cella sovraffollata. Tra quelle 6 persone detenute c’è chi è malato e non viene curato. C’è chi è tossicodipendente e, non ricevendo il metadone, si droga in carcere magari usando una penna bic a mò di siringa. Già, perché in carcere la droga c’è, è solo più cara, mentre mancano le siringhe. Tra quelle 6 persone detenute c’è chi è straniero e si taglia le braccia per disperazione perché non riesce ad avere l’espulsione. C’è chi è malato e non viene curato, c’è chi si imbottisce di tranquillanti (in gergo le gocce) pur di non vivere quel degrado. C’è chi in un angolo si dispera perché da mesi attende di essere processato. Ed infine, c’è chi non ce la fa più a sopportare quel degrado. Così, aspetta che i suoi compagni di cella sono all’ora d’aria e decide di farla finita. Si impicca e muore. È questa la fotografia di una tra le tante celle che compongono le 208 carceri italiane. Per non essere generico, indico qualche esempio. È questa la realtà presente nel carcere di Trieste, Venezia, Padova, nel carcere San Vittore di Milano, Torino, Genova, nel carcere Sollicciano di Firenze, Regina Coeli di Roma, nel carcere Poggioreale di Napoli, Lecce, e nel carcere l’Ucciardone di Palermo, per non parlare del carcere dell’isola di Favignana, dove le celle sono situate a 10 metri sotto il livello del mare. Una fotografia drammatica delle carceri italiane che, oltre alle statistiche, ci aiuta a immaginare il collasso in cui versa oggi il sistema penitenziario. Un collasso che determina innumerevoli sofferenze in più, non previste in nessuna sentenza di condanna, patite dalla singola persona detenuta. Un collasso del sistema penitenziario che si manifesta in quotidiana violazione della legge e nel conseguente trattamento disumano e degradante patito dalla singola persona detenuta. La legge sull’ordinamento penitenziario, contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica del 30 giugno 2000 n. 230, stabilisce come deve essere tratta una persona detenuta e come devono essere strutturati gli istituti penitenziari. Leggendo tale normativa, sembra davvero che nelle carceri tutto funzioni bene. Peccato che la realtà sia assai diversa rispetto a quanto previsto dalla legge. Ecco tre casi, tre esempi, del divario esistente tra legge e realtà. L’art. 6 dell’ordinamento penitenziario afferma che “i locali in cui si svolge la vita dei detenuti devono essere igienicamente adeguati”. Ebbene nella maggior parte delle carceri italiane le celle sono, non solo sovraffollate, ma anche sporche e igienicamente inadeguate. Penso al carcere di Sassari, dove il bagno altro non è che un buco posto al centro della cella. Penso al carcere dell’Ucciardone di Palermo, dove topi e scarafaggi girano liberamente. Penso agli innumerevoli casi di detenuti colpiti da malattie, per noi ormai sconosciute, come la scabbia. Ma non solo. L’articolo 6 dell’ordinamento penitenziario afferma anche che : “Le finestre delle camere devono consentire il passaggio diretto di luce e aria naturali. Non sono consentite schermature che impediscano tale passaggio”. Altra norma inosservata. Spesso nelle patrie galere, fuori dalle finestrelle delle celle ci sono schermature che impediscono l’ingresso di luce e aria. A volte si tratta di fitte reti metalliche (dette in gergo gelosie), in altri casi ci sono vere e proprie schermature di ferro dette bocche di lupo. Non a caso, sono frequenti i casi di persone detenute che, dopo la detenzione, hanno seri problemi con la vista. Infine, l’articolo 37 dell’ordinamento penitenziario che è dedicato ai colloqui, ovvero ai luoghi dove il detenuto incontra i propri familiari. Nell’art. 37 vi è scritto: “I colloqui avvengono in locali interni senza mezzi divisori o in spazi all’aperto a ciò destinati”. Ora, gli spazi all’aperto sono una rarità, mentre in moltissime carceri ci sono mezzi divisori, come vetri o muretti. L’ultimo caso lo ha segnalato Laura Longo, che è Presidente del Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila. Il presidente Longo, dopo aver ispezionato le sale colloqui del carcere di Sulmona, ha scritto al Ministro Alfano affermando: “All’esito dei vari sopralluoghi effettuati presso il carcere di Sulmona, questa Presidenza formula l’auspicio che venga disposta la rimozione dei muretti divisori nelle tre sale destinate ai colloqui con i familiari”. Un capitolo a parte merita infine il rispetto del diritto alla salute riconosciuto dalla legge alle persone detenute. La legge 230 del 1999 ha trasferito la sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Servizio pubblico Nazionale, ovvero alle Asl. Una legge definita epocale che però poco o nulla ha cambiato sul fronte della tutela del rispetto del diritto alla salute dei detenuti. Una legge che recita solennemente: “I detenuti hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate”. Bene, bravi, bis! Strano però che negli ultimi 10 anni nelle carceri italiane sono morte 1.797 persone, la maggior parte delle quali morte per malattia. Direte: ma saranno stati tutti incurabili! Beh, non è proprio così. Un caso emblematico di come oggi in carcere si muoia perché non curati, è quello di Graziano Scialpi. Graziano era detenuto nel carcere Due Palazzi di Padova. Graziano da un anno stava male. Da un anno chiedeva ai medici del carcere di essere visitato. Da un anno accusava dei terribili dolori. Nulla è stato fatto. Nessuna cura. Nessuna analisi. Anzi, i medici del carcere ritenevano che Graziano fingesse, pensavano che simulasse una malattia! E infatti. A fine agosto del 2010 Graziano è paralizzato nel letto della sua cella. Sta talmente male che non riesce neanche a urinare. Solo allora i “medici” del carcere di Padova, si decidono a portare Graziano in ospedale. Ospedale dove si scopre che Graziano ha un tumore ai polmoni e alla spina dorsale. Giovedì 14 ottobre, verso mezzanotte, Graziano muore. Questo, a grandi tratti, è il collasso dei sistema detentivo. Un collasso ben noto al Ministro della Giustizia Angelino Alfano. Ministro che però, a proposito della situazione carceraria, recentemente ha affermato: “Abbiamo seminato bene e continueremo a farlo”. Parole surreali che sono sfuggite alla c.d. politica di opposizione. Parole surreali che, ascoltate invece nelle carceri, hanno indotto ilarità in alcuni, mentre in altri hanno fatto sorgere una domanda: “di grazia signor Ministro, che cosa continuerete a fare?”. Giustizia: Consulta; misure cautelari alternative al carcere anche ad imputati per omicidio Il Velino, 12 maggio 2011 Chi ha commesso un omicidio potrà beneficiare anche di misure cautelari alternative al carcere. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale dichiarando, nella sentenza n. 164, “l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo” per aver violato sia “l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti considerati a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi; sia l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuiva alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena”. Partendo da due istanze presentate dal Tribunale di Lecce e dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, la Consulta ha analizzato la tipologia dei reati per le quali è prevista la permanenza in carcere, soffermandosi in particolare su quelli di tipo mafioso (caratterizzati da “radicamento nel territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice” vincoli che “solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di interrompere”) e distinguendoli da quelli - fra i quali l’omicidio - che non implicano o presuppongono “necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità”. “Al contrario - si legge nella sentenza della Corte Costituzionale, l’omicidio può bene essere, e sovente è, un fatto meramente individuale, che trova la sua matrice in pulsioni occasionali o passionali”. Nonostante l’Avvocatura dello Stato avesse ribadito “l’insussistenza della denunciata violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, tenuto conto della gravità del reato di cui si discute, lesivo del supremo bene della vita”, per la Consulta ci sono ancora altre considerazioni da tener presente: “Ulteriore indefettibile corollario dei principi costituzionali di riferimento - si legge nella sentenza - è che la disciplina della materia debba essere ispirata al criterio del minore sacrificio necessario (sentenza n. 295 del 2005): la compressione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto”. Perciò, “a fronte della tipizzazione di un ‘ventagliò di misure, di gravità crescente (artt. 281-285), il criterio di adeguatezza (art. 275, comma 1) - dando corpo al principio del minore sacrificio necessario - impone, difatti, al giudice di scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto”. Secondo la Corte Costituzionale, “da tali coordinate si discosta vistosamente la disciplina dettata dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen. - inserita tramite una serie di interventi novellistici - la quale stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti, una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari; assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata, ove la presunzione relativa non risulti vinta, unicamente la custodia cautelare in carcere, senza alcuna possibile alternativa”. La Corte Costituzionale ha ricordato che “proprio per i marcati profili di scostamento rispetto al regime ordinario, la disciplina derogatoria - riferita, ai suoi esordi, ad un ampio ed eterogeneo parco di figure criminose - era stata circoscritta, a partire dal 1995 e in una prospettiva di recupero delle garanzie, ai soli procedimenti per delitti di mafia in senso stretto (art. 5, comma 1, della legge 8 agosto 1995, n. 332, recante “Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa”). Ma a questo punto per la Consulta, “con l’intervento novellistico del 2009 (art. 2, comma 1, lettere a e a-bis, del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009), il legislatore ha compiuto un ‘salto di qualità a ritroso”, riespandendo l’ambito di applicazione della disciplina eccezionale a numerose altre fattispecie penali, in larga misura eterogenee fra loro quanto a oggettività giuridica (fatta eccezione per i delitti a sfondo sessuale), struttura e trattamento sanzionatorio”. Insomma, ha precisato la Corte Costituzionale, “per quanto odiosi e riprovevoli, i delitti in discorso - oltre a presentare disvalori nettamente differenziabili - possono essere, e spesso sono, meramente individuali e tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo con la massima misura. Sovente, inoltre, essi si manifestano all’interno di specifici contesti (ad esempio, quello familiare o scolastico o di particolari comunità), così che le esigenze cautelari possono trovare risposta in misure, diverse da quella carceraria e già previste allo scopo, che comportino l’esclusione coatta dal contesto”. Nella sentenza si ricorda così la possibilità di ricorrere agli “arresti domiciliari in luogo diverso dall’abitazione (art. 284 cod. proc. pen.), eventualmente accompagnati da particolari strumenti di controllo (quale il cosiddetto braccialetto elettronico: art. 275-bis); obbligo o divieto di dimora o anche solo di accesso in determinati luoghi (art. 283); allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis)”. Quindi, alla luce di queste motivazioni, la Consulta ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575 (l’omicidio, ndr) del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”. Mantovano: alla Consulta non compete discrezionalità “La Corte Costituzionale è chiamata a verificare la compatibilità con la legge fondamentale della Repubblica delle scelte legislative ordinarie del Parlamento. Non le compete invece esercitare quella discrezionalità che rinvia all’opzione politica del legislatore”. Lo ha dichiarato in una nota Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno. “Con la sentenza di oggi - ha osservato - la Corte non nega in assoluto il carcere come sola misura cautelare, tant’è che la ammette per reati di mafia. Boccia invece la scelta fatta dal Parlamento due anni fa di rendere il carcere obbligatorio per l’omicidio. In sintesi, se vengo imputato per concorso esterno in associazione mafiosa non ho alternativa alle sbarre, se mi sono invece limitato ad ammazzare una persona posso restare nel salotto di casa. Se vi erano dunque ancora dubbi sulla necessità di una riforma della giustizia e della Consulta questa sentenza li fuga completamente”. Lussana (Ln): Consulta disattende volontà dei cittadini “Ancora una volta con questa decisione la Corte costituzionale disattende quelle che sono le volontà dei cittadini che vogliono pene certe ed esemplari per chi commette gravi reati come chi ha a proprio carico gravi indizi di colpevolezza di omicidio”. A dichiararlo è la deputata leghista Carolina Lussana, vicepresidente del Gruppo della Lega nord a Montecitorio che sottolinea: “Grazie a questa sentenza - continua - da oggi in poi chi è accusato di omicidio potrà attendere processo e sentenza agli arresti domiciliari e non più obbligatoriamente in carcere. Si tratta di una decisione, dopo quella che era stata presa sempre dalla Consulta lo scorso anno per quanto riguardava i procedimenti per violenza sessuale, atti sessuali con minorenni e prostituzione minorile, che rende parzialmente illegittima una parte del pacchetto sicurezza, e che rende la stretta che era stata voluta da questo Governo nei confronti di tali brutali reati meno efficace. Dopo questa decisione - conclude Lussana - se i cittadini si lamenteranno perché un omicida invece di essere in carcere è a piede libero o agli arresti domiciliari sapranno con chi prendersela”. Giustizia: La Loggia (Pdl); amnistia difficile da varare, meglio usare misure alternative Il Velino, 12 maggio 2011 Il presidente della commissione bicamerale sul Federalismo fiscale, Enrico La Loggia, dice no ad una amnistia prima della riforma della giustizia annunciata dal ministro Alfano. “Onestamente non credo che il Parlamento possa varare una amnistia - spiega a Radio Radicale il deputato del Pdl - già la scorsa volta con l’indulto si è creata una enorme quantità di problemi che solo parzialmente hanno risolto il sovraffollamento delle carceri che poi si è riformato. Secondo me servono un paio di interventi sostanziali in più rispetto a quanto già prevede al riforma Alfano e che condivido perfettamente: misure alternative per quelli che sono in attesa di giudizio e la costruzione di nuove carceri, cosa su cui siamo a buon punto”. Giustizia: Alfano; dalla Polizia penitenziaria professionalità e fedeltà alle Istituzioni Il Velino, 12 maggio 2011 Il Ministro della Giustizia Angelino Alfano e il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta, in occasione della Festa del Corpo di Polizia Penitenziaria, 194esimo Annuale di Fondazione, che si terrà il 13 maggio 2011 a Roma, sito archeologico Arco di Costantino, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una nota congiunta, esprimono la più alta considerazione per la professionalità e la fedeltà alle Istituzioni della Repubblica, che gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria dimostrano, ogni giorno, durante lo svolgimento dei compiti loro assegnati. “Nell’anno del 150esimo Anniversario dell’Unità d’Italia e a pochi giorni dalla commemorazione del Giorno della memoria delle vittime del terrorismo, ritengo doveroso ribadire che la Polizia Penitenziaria è un Corpo moderno, rispettoso dei valori e del giuramento di fedeltà alle Istituzioni democratiche, che ha pagato un drammatico tributo di sangue per la lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata”. Lo ha dichiarato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, aggiungendo che “la Polizia Penitenziaria, garante della sicurezza e della legalità nella gestione delle persone private della libertà, opera a garanzia della sicurezza dei cittadini. È grazie, dunque, alla sua attività che è possibile operare per l’attuazione degli interventi di risocializzazione che consentono una riduzione della recidiva”. “Il rilancio dell’azione penitenziaria a favore della stabilizzazione e della modernizzazione del sistema - ha precisato Frano Ionta - sta dando segnali importanti di ripresa. La Polizia Penitenziaria ha bisogno di risposte chiare e di indirizzo, che valorizzino le attività, le professionalità, gli uomini e le donne che ne fanno parte. Ho appena emanato il provvedimento dell’assetto organizzativo delle attività di polizia stradale, così come è allo studio la stabilizzazione del funzionamento del Nic e il modello organizzativo del servizio traduzioni. Di concerto con il Ministro Alfano - ha proseguito Ionta - la Polizia Penitenziaria è destinataria di attenzione costante e di interventi che doverosamente ripagano il suo grande sacrificio e il suo prezioso lavoro”. Giustizia: boss della ‘ndrangheta scarcerati per malattia, indagati 7 medici Agi, 12 maggio 2011 Sette medici operanti nelle province di Reggio Calabria, Cosenza, Catanzaro e Crotone, sono indagati per i reati di abuso d’ufficio, false comunicazioni all’autorità giudiziaria, corruzione in atti giudiziari e falsa perizia aggravati. Avrebbero certificato false patologie al fine di consentire la scarcerazione di alcuni esponenti della criminalità organizzata. Gli avvisi di garanzia sono stati notificati dai carabinieri del Ros. Le cosche di ‘ndrangheta favorite sarebbero i Pelle di San Luca (Rc), i Mantella di Vibo Valentia, gli Arena di Isola Capo Rizzuto (Kr) ed i Forastefano della Sibaritide. Ad alcuni degli indagati è inoltre contestato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. L’operazione è scattata in esecuzione di due decreti di perquisizione emessi dalle direzioni distrettuali Antimafia delle procure della Repubblica di Catanzaro e di Reggio Calabria nell’ambito delle rispettive indagini collegate e denominate Villa Verde e Reale, entrambe condotte dai carabinieri del Ros e dei Comandi provinciali di Reggio Calabria, Catanzaro e Cosenza. L’attenzione degli inquirenti è stata focalizzata sull’elevato numero di scarcerazioni di detenuti mafiosi dovute a motivi di salute, che si registra da tempo in Calabria e che ha quindi determinato la necessità di individuare i casi in cui tali benefici sono concessi in virtù di false attestazioni sanitarie redatte da medici collusi con le cosche. Le perquisizioni sono eseguite nelle abitazioni e negli studi professionali dei sette medici sottoposti ad indagine, nonché in due importanti cliniche private della provincia di Cosenza. Gli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini avrebbero consentito di accertare il sistematico ricorso, da parte di diversi appartenenti alla ‘ndrangheta, alla simulazione, favorita dalla corruzione di medici compiacenti, di patologie inesistenti (prevalentemente di tipo psichiatrico) allo scopo di beneficiare, per motivi di salute, di scarcerazioni o, in altri casi, di ricoveri, in regime di arresti domiciliari nelle cliniche oggetto delle indagini, dove potevano godere di una serie di agevolazioni illecite. Diversi gli episodi documentati dagli inquirenti. Dagli elementi di prova acquisiti emergerebbe, in particolare, il legame esistente tra la famiglia mafiosa dei Pelle, detti “gambazza”, di San Luca (Rc) e due professionisti: il direttore sanitario di un presidio ospedaliero in provincia di Cosenza ed il direttore sanitario, nonché proprietario per quote, di una delle case di cura private interessate. In particolare, nel corso delle attività d’indagine sulla famiglia Pelle, sarebbe emerso che, in vista delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo 2010, due dei medici indagati, uno dei quali da tempo legato ai Pelle, avevano richiesto un intervento della famiglia di S. Luca per dirimere alcune problematiche legate alle candidature all’interno del partito politico in cui uno dei medici stessi era candidato. Nello stesso contesto era inoltre emerso che, nel passato, uno dei medici in questione avrebbe compilato in favore di Giuseppe Pelle più certificazioni sanitarie falsamente attestanti condizioni di salute incompatibili con la detenzione carceraria. Nell’inchiesta emerge, inoltre, il legame tra Andrea Mantella, indicato come esponente mafioso di rilievo del Vibonese, e alcuni medici di una delle cliniche coinvolte nelle indagini, fra i quali, in particolare, il dirigente sanitario della struttura. I medici, in questione, in occasione di prolungati ricoveri di Mantella e di altri affiliati in regime di arresti domiciliari nella loro clinica, avrebbero sistematicamente redatto in loro favore certificazioni sanitarie mendaci e messo loro a disposizione utenze telefoniche e locali della clinica, utilizzati per contattare o incontrare altri esponenti della cosca. Gli stessi medici avrebbero favorito Mantella, ottenendo a loro vantaggio la disponibilità anche di altri professionisti, esterni alla clinica, ugualmente prestatisi a redigere ulteriori consulenze compiacenti. Alcuni episodi di corruzione sarebbero stati posti in essere da familiari di Antonio e Pasquale Forastefano e da altri esponenti della loro cosca, consistiti nel richiedere ed ottenere, a fronte della consegna di somme di denaro o altre utilità, elaborati peritali favorevoli, da parte di alcuni medici, fra i quali un professionista reggino con importanti incarichi universitari e ospedalieri, nonché da parte di alcuni medici legali che fino ad oggi avevano goduto della fiducia di diversi uffici giudiziari. I medici in questione,, in diversi procedimenti penali avevano ricevuto dagli organi giudiziari competenti l’incarico di perito affinché accertassero la compatibilità col regime carcerario delle condizioni di salute dei Forastefano. Tra i boss favoriti da uno dei medici legali indagati, figura Nicola Arena, capo storico dell’omonima cosca di Isola Capo Rizzuto (Kr). In particolare, il professionista catanzarese, nella sua veste di perito cui il Tribunale di Sorveglianza del capoluogo aveva conferito l’incarico di verificare la compatibilità col regime carcerario delle condizioni di salute del boss, avrebbe redatto un certificato che ha recentemente determinato la concessione degli arresti domiciliari in favore del detenuto. Nell’accettare l’incarico, il medico aveva anche commesso il reato di abuso d’ufficio, per aver nascosto al Tribunale l’esistenza di una causa di incompatibilità per la quale avrebbe avuto l’obbligo di astenersi, in quanto egli stesso, pochi giorni prima, aveva prestato attività di consulenza medica legale proprio nell’interesse dello stesso Arena e proprio ai fini della sua scarcerazione. Medici indagati: decisive dichiarazioni 3 pentiti Le indagini dei Carabinieri, cordonate dalle Dda di Catanzaro e di Reggio calabria, che hanno portato all’emissione di 7 avvisi di garanzia a carico di altrettanti medici sospettati di aver redatto false perizie sullo stato di salute di alcuni boss, sono basate su attività di intercettazione telefonica ed ambientale e di accertamento documentale, ma anche sulle dichiarazioni rese da tre pentiti. Sono persone legate alla cosca Forastefano, divenute collaboratori di giustizia nel corso del 2010. Si tratta di Lucia Bariova, ex convivente di Vincenzo Forastefano, Salvatore Lione, già reggente della cosca Forastefano, e Samuele Lovato, pure legato ai Forastefano, il quale, avendo trascorso un lungo periodo di ricovero in una delle cliniche al centro delle indagini, ha potuto fornire un importante contributo. Per la Dda della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, l’operazione odierna costituisce l’ulteriore sviluppo delle indagini del Ros dei Carabinieri sulla cosca Pelle di San Luca che nei mesi scorsi avevano già portato all’esecuzione di un provvedimento di fermo a carico di alcuni importanti affiliati. Il fermo si era reso necessario per arginare le reiterate fughe di notizie sulla maxi operazione “Il crimine”, conclusa dall’Arma lo scorso 13 luglio con l’arresto di oltre 300 persone. Dello stesso contesto, ulteriori filoni investigativi avevano riguardato docenti, impiegati e studenti dell’Università di Reggio Calabria indagati per falsità ideologica, truffa aggravata ed altri reati, per collusioni con la cosca Pelle, nonché il condizionamento delle elezioni amministrative del 29 e 30 marzo 2010, esercitato dal capo cosca Giuseppe Pelle al quale si sarebbero rivolti alcuni candidati che per questo motivo erano stati arrestati il 21 dicembre 2010. Si tratta di Santi Zappalà, poi eletto Consigliere regionale della Calabria, di Francesco Iaria e di Liliana Aiello, non eletti. Per la Dda di Catanzaro, secondo quanto si apprende, l’operazione di oggi rappresenta un approfondimento sulle collusioni della ‘ndrangheta nel settore sanitario, frutto di importanti indagini condotte dal Ros Carabinieri negli ultimi anni. Tra queste, l’operazione ‘Ghiblì contro la cosca Arena di Isola Capo Rizzuto, grazie alla quale erano stati arrestati oltre 20 esponenti di vertice della cosca, recentemente tutti condannati, ed era emersa la collusione con la ‘ndrina degli Arena anche di alcuni imprenditori, di un carabiniere e di un avvocato, recentemente condannato proprio per tale motivo, e le indagini Omnia e Timpone Rosso che hanno colpito le cosche degli zingari ed i Forastefano. Nell’ambito di queste ultime due indagini, nei mesi scorsi il Ros Carabinieri aveva arrestato i latitanti Nicola Acri e Salvatore Galluzzi, catturati rispettivamente a Bologna lo scorso mese di novembre, ed a Vigevano nel febbraio di quest’anno. Lettere: riflessioni per la Giornata di studi “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi” di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 12 maggio 2011 Il vero progresso, in ogni aspetto della conoscenza, si misura nella conquista di nuovi e più ricchi metodi per la ricerca della verità. Ciò vale anche rispetto alle problematiche della giustizia e proprio in questo campo è utile la Giornata Nazionale di Studi “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi” di venerdì 20 maggio 2011 che, nella Casa di Reclusione di Padova, Ristretti Orizzonti organizza allo scopo di favorire il dialogo fra studiosi, figure istituzionali, vittime, detenuti e parenti di questi ultimi. Le tematiche del convegno riguardano il modo in cui spesso vengono considerati gli autori dei reati, la creazione del “mostro”, il come raccontare storie di galera, la pretesa dei “buoni cittadini” di “assomigliare” a chi ha subito i reati, l’idea secondo cui una lunga pena detentiva - ad esempio di 17 anni - sia una piccola punizione e il come fare un’informazione onesta dal carcere. Gli argomenti hanno degli aspetti specifici ma presentano anche un comun denominatore di alto profilo culturale. Pongono di fatto degli interrogativi sul nodo centrale della filosofia degli ultimi secoli. L’essere umano, che cos’è l’essere umano? È forse buono in sé come credeva Jean-Jacques Rousseau o è un lupo divoratore per ogni altro uomo come affermava Thomas Hobbes? L’esperienza concreta, prima ancora che qualche teoria, ci permette di rispondere a domande così difficili senza cadere in affermazioni unilaterali: ognuno di noi fa parte della natura e quest’ultima, stante la propria contraddittorietà, non risulta essere cattiva e neanche buona in sé. Il nostro corpo è unità di corpo fisico e corpo in relazione (con gli altri e con il resto della natura). In sette anni cambiamo tutte le nostre cellule e anche le nostre relazioni si modificano assieme al mutevole ambito in cui viviamo. Ogni sette anni siamo diversi da prima, sia fisicamente che socialmente. Le nostre idee, condizionate dalle trasformazioni materiali, mutano. Inevitabilmente. Ciò che nel 1945 sembrava giusto ad alcuni dei nostri padri o nonni, ad esempio usare la violenza contro determinati cadaveri e poi - con l’idea di produrre un male minore - metterli appesi a testa in giù e in alto, come successe il 29 aprile a Piazzale Loreto, solo qualche anno dopo risultava del tutto inconcepibile a molti degli stessi ex partigiani antifascisti. La folla in certi momenti storici, soprattutto dopo anni di populismo penale, guerre e perciò di cattiva educazione, tende a divenire giustizialista in maniera autonoma e finanche spietata verso i morti della parte avversa. Un’eccezione è la folla costituente della Comune di Parigi del 1871, quel movimento di massa che - tanto per dirne una - bruciò gioiosamente la ghigliottina perché ebbe uno spirito pluralistico e libertario. Il contesto, in ogni caso, gioca un ruolo importante rispetto alle nostre azioni. La stessa Comune di Parigi non sarebbe potuta nascere se non come uno degli effetti della guerra franco-prussiana. Noi facciamo la storia, in parte come agenti e in parte come prodotti. In altri termini, ad ognuno può capitare di compiere anche delle azioni del tutto irreparabili. Sembra banale capirlo ma diversi dispositivi, sedicenti culturali, spesso ce lo fanno dimenticare. E così la storia più che maestra della vita si fa veicolo della coazione a ripetere il rito millenario del capro espiatorio. Ognuno, se imputato per un atto particolarmente grave, rischia ad esempio di essere presentato come un “mostro” e tale marchio tende a non essere più eliminato. Il “mostro”, una volta prodotto dai mezzi di comunicazione, difficilmente potrà essere ricordato in altro modo. È il destino che colpì un uomo come Girolimoni. L’innocente Gino Girolimoni arrestato a Roma il 7 maggio 1927 con l’accusa di pedofilia e omicidio. La creazione del “mostro” non si ferma qui. Opera in profondità nella psicologia sociale. Produce individui menefreghisti, così privi di spirito critico che poi accettano le leggi e le avventure statuali più vergognose. Per quanto riguarda l’Italia, una chiara e tragica esperienza è costituita dalle leggi razziali del 1938 e 1939. Nella società moderna e contemporanea i difetti maggiori non derivano in realtà da singole persone o da specifiche categorie di soggetti. Il vero nemico, capace di condensare quei difetti, è il potere non antropomorfo e corruttivo del denaro che si fa legge e della legge che, a furia di non essere equa e stabilita secondo criteri di obiettività, si fa merce come un gratta e vinci. La difficoltà nel far comprendere oggi questo discorso non è, sia ben chiaro, solo colpa della cattiva informazione. Nel caso italiano deriva da un insieme di fattori e, in termini specifici, dall’esistenza di un codice penale del 1930, peggiorato dalle leggi dell’Emergenza negli ultimi tre decenni, solo in parte mitigato dalla riforma carceraria del 1975 e dalla legge Gozzini del 1986, e destinato al fallimento. Con quale tesi scientifica si può ritenere valido un codice scritto 80 anni fa? Con quale tesi scientifica si può affermare che il carcere debba essere la sola risposta alle trasgressioni considerate gravi? Nell’Italia di oggi pochi hanno l’onestà intellettuale di riconoscere quanto siano discutibili gli stessi concetti di pena e “fine pena mai”. La parola pena significa sofferenza e le leggi liberticide non fanno che aggravare la situazione. Alcune leggi, nate per scopi demagogici, invece di favorire la riduzione dei reati sono automaticamente criminogene. Trasformano in reato qualcosa che non è un vero crimine. Una di queste leggi è la Bossi-Fini che, per buona fortuna, il 28 aprile di quest’anno ha ricevuto una precisa critica dalla Corte di Giustizia Europea: la clandestinità di molti immigrati è una transitoria e dura condizione sociale e non certo un effettivo reato in sé. In questo quadro, per chi finisce in carcere come persona detenuta, innocente o colpevole che sia e al di là delle imputazioni, è inevitabile sentirsi vittima di una realtà oppressiva. Le condizioni di vita nelle galere, specie se sovraffollate, sono sempre dannose a livello psico-fisico ma non riguardano solo chi le conosce dall’interno. Costituiscono un problema politico nella misura in cui, nelle vigenti condizioni storiche, sono uno dei migliori termometri per misurare il grado di salute di un paese e, come paradossale conseguenza, potrebbero fungere da terreno di riflessione critica e autocritica per inventare nuove regole e proposte sociali. Un fiore può nascere anche sopra un muro di cinta. Fra le persone detenute, chi ha prodotto l’altrui sofferenza ha il diritto e il dovere di assumersi le proprie responsabilità senza scaricarle sulla pelle degli altri e il compito di svolgere attività culturali e informative rispetto all’arcipelago carcerario, durante e anche dopo l’esperienza inframuraria. Sappiamo che il carcere è un sistema doloroso ma proprio per questo motivo le testimonianze delle persone detenute debbono essere oneste, senza piagnistei e capaci di oltrepassare le logiche individualistiche, settoriali e mercantili. In diversi settori sociali si sta ormai facendo strada la coscienza delle disumane condizioni di vita nelle carceri e di quanto sia importante la ricerca della verità in tutte le diverse questioni riguardanti la giustizia. Diversi fra gli stessi parenti di vittime di reati di sangue chiedono una giustizia equilibrata e, al tempo stesso, un’approfondita ricerca della verità storica quando quest’ultima, come nel caso della strage di Brescia del 1974, è stata calpestata da una verità giudiziaria incapace di trovare i responsabili. Stragi come quella, su cui risultano ad ogni modo illuminanti le pagine della Sentenza - ordinanza del Giudice Istruttore di Milano Guido Salvini che porta la data del 3 febbraio 1998, pur non essendo il prodotto di un’unica strategia erano delle risposte reazionarie e conservatrici ai movimenti di contestazione della classe lavoratrice, degli studenti, delle donne e dei detenuti. In quella situazione, specialmente sul finire degli anni ‘70, emerse anche una vasta area dell’estrema sinistra che, pur avendo diverse strategie, scelse di praticare la lotta armata. Senza dubbio, fra il 1969 e i primi anni 80, in Italia ci fu un aspro conflitto sociale e politico durante il quale morirono molte persone. Da una parte e dall’altra, da diverse parti, istituzionali ed extraistituzionali, in tutte le aree politiche e sociali e addirittura con guerre intestine a questa o quell’area. Per questo motivo, perfino dopo tre decenni, è difficile trovare il modo giusto per l’elaborazione del lutto delle numerose vittime di quel passato ma la realtà concreta fornisce delle possibili soluzioni. Quelle persone furono protagoniste, alcune non coscienti, ad esempio perché piccole di età, di anni nei quali nacquero grandi conquiste anti oppressive nel campo dei diritti sociali e civili. Non dobbiamo mai dimenticarlo. A maggior ragione, qualunque siano le nostre attuali idee politiche, pensare alle vittime di quel tempo significa guarire le relative ferite sociali e individuali, difendere le migliori conquiste di civiltà dell’Italia e progettare dei rinnovati modi di produzione e riproduzione della nostra vita reale. Significa perciò anche comprendere e socializzare il contenuto dell’invisibile e implicito messaggio che quelle stesse persone, decedute in maniera tragica, hanno lasciato in eredità per la rivoluzione del nostro pensiero: è sbagliato dividere il mondo in “totalmente buoni” e “assolutamente cattivi”. Milano: chiudere San Vittore… fa discutere la proposta della Lega Redattore Sociale, 12 maggio 2011 Naldi (Antigone Lombardia): “Ci piacerebbe, a patto che non se ne costruiscano altri”. Urso (UilPa Penitenziari): “Parlare di chiusura è fuori luogo. Già ora Milano non regge il suo bacino d’utenza”. Chiudere San Vittore per farne una biblioteca. Questa la proposta di Matteo Salvini, capogruppo della Lega Nord al Comune di Milano. “Nel 2011 un carcere a dieci minuti da piazza Duomo non può esserci - commenta Salvini. È una struttura sovraffollata e cadente. Meglio chiuderlo e riallocare altrove gli attuali ospiti”. La Lega Nord propone di dare attuazione al progetto presentato dall’associazione “Italia Nostra” che prevede l’abbattimento delle mura esterne del penitenziario per ospitare all’interno dei raggi la Biblioteca europea. “Milano è l’unica città italiana ad avere quattro penitenziari -conclude Salvini-. Da vent’anni se ne parla, è ora di chiudere San Vittore”. Un’idea che lascia perplesso il segretario della UilPa Penitenziari Angelo Urso: “Chiudere San Vittore significa perdere un pezzo di storia - commenta. Ma soprattutto, la chiusura di questo istituto è fuori luogo: già ora Milano non regge il suo bacino d’utenza”. Un’ipotesi che si potrebbe riprendere in considerazione se in città ci fosse un nuovo penitenziario. “La prima domanda da fare a Salvini è: dove verrebbero allocati gli altri detenuti? - aggiunge Urso. Le altre carceri a Milano sono piene”. “Ci piacerebbe chiudere San Vittore -commenta Alessandra Naldi, di Antigone Lombardia- a patto però che questa decisione sia inserita in un percorso che riduca l’eccessivo uso della carcerazione”. Guido Chiaretti, volontario e presidente della Sesta opera San Fedele, sottolinea come le condizioni interne siano “indecenti e disumane. Ma non basta proporre la chiusura di San Vittore. Occorre fare il passo successivo, quali alternative ci sono?”. Chiaretti poi sottolinea l’importanza del fatto che il carcere stia all’interno della città: “Avere un carcere in centro significa renderlo visibile e presente nella società civile - spiega. Il 60% dei nostri volontari vuole andare lì a prestare il proprio servizio. E non solo per motivi logistici o di trasporto: San Vittore è parte della città di Milano”. Un parere condiviso da Alessandra Naldi: “Se un carcere ci deve essere, allora deve restare all’interno della città. Perché i milanesi lo vedano e si ricordino della sua presenza”. Catanzaro: maxi rissa tra detenuti all’Istituto penale minorile, feriti 2 agenti Agi, 12 maggio 2011 Due agenti di polizia penitenziaria, intervenuti per ripristinare l’ordine, sono rimasti feriti, in modo non grave, nel carcere minorile di Catanzaro, dove si è verificata una maxirissa tra detenuti. L’episodio, avvenuto martedì, è stato reso noto stamane da Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato di categoria Sappe, e Damiano Bellucci, segretario nazionale dello stesso sindacato. Il fatto, sottolineano i due sindacalisti, “riporta all’attenzione la questione delle carceri minorili, dove gli eventi critici (aggressioni, danneggiamenti e atti di etero e autolesionismo) si susseguono a ritmi frequenti. Già lo scorso anno, sempre nel carcere minorile di Catanzaro, un agente di polizia penitenziaria fu colpito al volto da un pugno sferratogli da un detenuto che stava frequentando un corso di boxe, all’interno del carcere. Bisogna ricordare che in queste strutture sono spesso reclusi giovani che hanno un percorso criminale rilevante e si sono resi responsabili anche di gravi reati. In un territorio come quello calabrese, poi alcuni di questi giovani potrebbero anche appartenere a famiglie legate alla ‘ndrangheta. Sarebbe quindi opportuno fare più sicurezza, fermo restando un adeguato percorso rieducativo”. E concludono: “Noi del Sappe siamo sempre più convinti della necessità di far passare la gestione della giustizia minorile al Dipartimento per adulti, fermi restando l’impianto processuale e penale esistenti. Ciò determinerebbe un notevole risparmio di risorse economiche ed umane”. I due esponenti del sappe fanno rilevare che “oggi, all’interno del dipartimento Giustizia minorile, ci sono tre direzioni generali, sul territorio sono dislocati undici centri giustizia minorile, diciannove istituti per minori e vari centri di prima accoglienza, per gestire circa 480 reclusi. Il personale di polizia penitenziaria è di circa 850 unità”. Modena: incontro tra magistrati, avvocati operatori penitenziari sui problemi del carcere Gazzetta di Modena, 12 maggio 2011 I problemi del carcere sono problemi di tutta la città: ne sono certi magistrati e avvocati, che il 19 maggio saranno al Sant’Anna, per un incontro con la Polizia penitenziaria e con il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. Fra le tante carenze delle carceri modenesi, da tempo lamentate dai sindacati della polizia penitenziaria, quello che più preoccupa in questo momento è l’apertura della nuova ala al Sant’Anna, 150 posti, sulla carta, che probabilmente diventeranno di più aggiungendo, come nelle altre celle, posti letto, quando sarà necessario. Un carcere più grande per far fronte a una grave situazione di sovraffollamento, ma che non sarà accompagnato da un adeguato aumento degli agenti della penitenziaria addetti al controllo della struttura, già adesso sotto organico. Un problema, questo, che riguarda tutta la città, e di cui si sono fatti carico per primi magistrati e avvocati, che il 19 maggio si recheranno proprio al Sant’Anna. Assieme al procuratore capo Vito Zincani, incontreranno i rappresentanti della polizia penitenziaria, ma anche il nuovo direttore Rosalba Casella. Ci saranno anche il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Nello Cesari, e i magistrati di sorveglianza di Modena e Bologna. All’appuntamento sono invitati tutti i politici modenesi, perché si attivino nelle sedi opportune, in modo da arrivare a una soluzione del problema. Udine: detenuti a lezione per diventare manutentori stradali Corriere Veneto, 12 maggio 2011 Trovare un lavoro dopo il carcere. Purtroppo non sempre è semplice perché i pregiudizi pesano sull’eventuale ammissione. Per evitarlo, la Casa circondariale di Udine, insieme con il Centro edile per la formazione e la sicurezza, ha pensato a un corso di 600 ore per ottenere la qualifica di manutentore stradale. Le lezioni sono iniziate ad aprile, quando dieci detenuti, di cui due in pena esecutiva esterna, hanno cominciato a frequentare le aule di via Bison per cercare di ricostruirsi una vita. “Si tratta di un supporto alla ricollocazione lavorativa - spiega il direttore del Cefs, Amabile Turcatel - nato su impulso di una richiesta avanzata dal direttore della Casa circondariale, Francesco Macrì, mirata a immaginare soluzioni formative che facilitassero l’ottenimento di misure alternative alla detenzione o il ricollocamento lavorativo”. E così, dieci persone fra i 26 e i 54 anni, ora possono guardare al futuro con maggiore serenità. La prospettiva è l’inserimento come operai del Comune di Udine (partner dell’iniziativa) impegnati in lavori di pubblica utilità. Ma il Cefs pensa anche al tessuto economico friulano. “Il progetto - continua Turcatel - intende restituire manodopera alle imprese. Alcuni insegnanti, infatti, sono anche artigiani specializzati del territorio. Molta attenzione, per esempio, è riservata alle tecniche autoctone di posa del porfido, un’arte che stiamo rischiando di perdere. I ragazzi stanno dando una risposta straordinaria, potrebbero persino essere usati come modello per gli altri corsisti”. A fine di agosto la consegna degli attestati. Per il corso, cofinanziato dalla Regione Fvg e dal Fondo sociale europeo, la Cassa edile ha messo a disposizione anche piccole borse di studio che consentono di far fronte alle spese quotidiane. Pavia: la denuncia degli operatori; chi esce dal carcere è “senza rete” La Provincia Pavese, 12 maggio 2011 Chi esce dal carcere è senza rete. Gli stranieri non hanno neppure una casa e una famiglia ad aspettarli. E si spalanca il problema del reinserimento sociale e nel mondo del lavoro. In provincia di Pavia più difficile che altrove perché il tessuto imprenditoriale è più sfilacciato, gli enti pubblici non hanno risorse e le poche iniziative in campo sono ad opera del volontariato. Ma non c’è solo il “dopo”. Ogni giorno l’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Pavia cerca soluzioni per i detenuti da affidare ai servizi sociali o da impiegare in attività di pubblica utilità. “Ci occupiamo di giustizia riparativa - spiega Maria Perriello, direttore dell’Uepe. Il magistrato di sorveglianza ci chiede di trovare luoghi e attività per impostare percorsi di riparazione del danno. Un lavoro non facile”. E ieri, al convegno che ha messo a fuoco la realtà delle tre case circondariali della provincia - organizzato dalla direzione sociale dell’Asl - è emersa proprio questa necessità: “Creare una rete operativa che possa affiancarsi al terzo settore” dice il direttore sociale Giorgio Scivoletto. Che attualmente non sia “possibile pensare a forme di collaborazione per le attività esterne senza il privato sociale” l’ha ammesso anche Marco Odorisio, magistrato di sorveglianza a Pavia. “Se chi esce non trova lavoro il rischio di recidiva diventa alto” dice Davide Pisapia, direttore del Piccolini di Vigevano. Le strutture sono sovraffollate. Pavia (490 posti sulla carta ma spesso si sta in tre in cella) sta per raddoppiare. E così pure Voghera. Milano: pestò un detenuto considerato spia, condannato a 3 anni Ansa, 12 maggio 2011 È stato condannato a 3 anni e 8 mesi di reclusione, con rito abbreviato, un detenuto che nei mesi scorsi nel carcere di Bollate (Milano) pestò con violenza un altro detenuto, perché lo riteneva una “spia” che andava in giro a raccontare cosa succedeva nel loro reparto. Lo ha deciso il gup di Milano Bruno Bruno Giordano. L’uomo era stato aggredito nel reparto infermeria del carcere da quattro detenuti (tre sono già a processo con rito ordinario). Lo avevano colpito in faccia con una caffettiera e avevano anche cercato di accecarlo a mani nude, proprio per punirlo, secondo il codice carcerario, perché osservava troppo i comportamenti degli altri. Ai quattro, dopo il pestaggio, venne notificata un’ordinanza di custodia cautelare per lesioni gravissime, su ordine del gip Vincenzo Tutinelli e su richiesta del pm Giuseppe D’Amico. I detenuti erano stati poi trasferiti in altri penitenziari. Firenze: teatro-carcere; Ulisse era un clandestino, in scena gli attori detenuti La Repubblica, 12 maggio 2011 Il 22 e 23 giugno nel Teatro del Carcere di Sollicciano la “Compagnia di Sollicciano” formata da attori-detenuti diretta dalla regista Elisa Taddei mette in scena Odissea. Ovvero storia di Ulisse, immigrato clandestino. Per assistere allo spettacolo è necessario prenotare entro il 12 giugno inviando la fotocopia del documento di identità al numero di fax 055.7372363. Nel fax dovrà essere specificato a quale delle due date si vuole partecipare e indicare un recapito telefonico. La persona che ha inviato i propri dati, dovrà presentarsi il giorno prescelto direttamente all’ entrata del carcere con un documento. Libri: “Quando hanno aperto la cella”, di Valentina Calderone, Luigi Manconi www.ilpost.it, 12 maggio 2011 Da Pinelli a Cucchi, le storie delle persone morte nelle mani dello Stato. Il 5 maggio è uscito per il Saggiatore “Quando hanno aperto la cella”, di Luigi Manconi e Valentina Calderone. Giovedì 22 ottobre 2009 ore 6.15 di mattina. Stefano Cucchi, 31 anni, nella sua stanza all’interno del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini, dove era ricoverato da sabato 17 ottobre, non “risponde agli stimoli”. Gli infermieri di turno quel giorno scriveranno sul diario clinico di aver tentato la rianimazione senza riuscirci. L’autopsia, di cui verranno resi noti i risultati solo qualche mese dopo, stabilisce che il decesso è avvenuto verso le 3 di notte. Stefano Cucchi, quindi, viene letteralmente “trovato morto”. Chi lo aveva in cura se ne accorge quasi accidentalmente e anche la successiva decisione di provare a rianimarlo pare sia più un’occasione per assolvere stancamente il proprio dovere e compilare un diario clinico, piuttosto che un reale tentativo di salvargli la vita. In effetti, non era impossibile salvarlo. La sua condizione clinica non era disperata, non si trovava da giorni in bilico tra la vita e la morte. Fino alla settimana prima non era neanche immaginabile che potesse correre un rischio simile. Il 15 ottobre, la sera del suo arresto, Stefano era un ragazzo sano. Da quando viene privato della libertà, il suo stato di salute non fa che peggiorare. I medici sono perfettamente a conoscenza dell’aggravamento delle sue condizioni. Come è possibile che non si siano preoccupati di monitorare il suo stato durante la notte? Per ore nessuno, in quel reparto, si è reso conto che non respirava più. La sua vicenda è piena di anomalie come questa, che suscitano domande banali e che necessitano di una risposta: troppe sono state le dimenticanze, le sottovalutazioni, le leggerezze. È stato un iter lungo meno di una settimana, in cui si sono accumulate colpe, negligenze e indifferenze che lo hanno portato alla fine. La storia di Stefano Cucchi non è una storia di malasanità e neanche una storia di carcere. La sua vicenda è un esempio paradigmatico del fallimento della “macchina della giustizia” e di come questa sia in grado di provocare danni incalcolabili: insinuandosi, espandendosi, coinvolgendo e contagiando tutta una serie di apparati e figure che avrebbero tutt’altra missione rispetto a quella, evidentemente così prioritaria, della repressione e della custodia. Non è solo una storia di prigioni o di ospedali. Dal giorno del suo arresto fino alla sua morte, Stefano Cucchi ha attraversato un numero elevato di luoghi istituzionali e di apparati statuali: due caserme dei carabinieri, le celle di sicurezza, le aule e l’ambulatorio del tribunale di Roma, l’infermeria e una cella del carcere di Regina Coeli, il pronto soccorso del Fatebenefratelli, il reparto detentivo del Sandro Pertini. Complessivamente, si è trattato di un itinerario verso la morte scandito da dodici passaggi: le dodici stazioni di una via crucis, da quella caserma di via del Calice nella tarda serata del 15 ottobre fino all’obitorio, dove viene portata la salma nella tarda mattinata del 22 ottobre. Sono dodici tappe di un calvario, corrispondenti ad altrettante sedi dove lo Stato è presente con i suoi apparati, le sue procedure, i suoi funzionari (compresi i presidi medici dove opera personale sanitario appartenente all’amministrazione pubblica e i posti di polizia presso il pronto soccorso degli ospedali) e dove Cucchi viene trattenuto e sorvegliato, trattato e costretto e dove subisce abusi e illegalità. E dove, ancora, una lunga schiera (decine di persone) di carabinieri e agenti di polizia penitenziaria, magistrati e avvocati, medici e infermieri, funzionari e operatori penitenziari - dal momento in cui la violenza fisica viene inferta, forse da più autori -, chiudono gli occhi per non vedere, si astengono, omettono, quando non contribuiscono a fare del male, abusando del loro ruolo o mancando ai doveri che quel ruolo impone, negando e falsificando, trascurando e abbandonando. Bisogna indagare lungo tutti questi passaggi per individuare le cause, le colpe e le complicità di tutti quelli che, a vario titolo e secondo la propria funzione hanno, con i loro comportamenti, contribuito a determinare la morte di Stefano Cucchi: nessuno degli attori intervenuti è riuscito a interrompere (più probabilmente non ha voluto interrompere) il corso degli avvenimenti; ognuno, con le proprie azioni, ha collaborato a che quegli eventi precipitassero, fino al loro epilogo. È questa visione d’insieme che nei primi mesi dopo l’accaduto e nel corso delle indagini ha stentato ad affermarsi e, tuttora, non è patrimonio condiviso da tutti. La morte di Cucchi è stata il risultato di una lunga serie di eventi, la concatenazione e la sommatoria di fatti legati tra loro, il cui nesso di causalità non può venire ignorato. Nesso che è stato chiaramente definito dall’autopsia effettuata dopo la riesumazione della salma dai medici legali nominati dalla famiglia Cucchi, i professori Vittorio Fineschi e Cristoforo Pomara. I consulenti di parte giungono a queste conclusioni circa le cause della morte di Cucchi. La morte del signor Stefano Cucchi è addebitabile ad un quadro di edema polmonare acuto in soggetto politraumatizzato ed immobilizzato, affetto da insufficienza di circolo sostenuta da una condizione di progressiva insufficienza cardiaca su base aritmica […], intimamente correlata all’evento traumatico occorso e al progressivo scadimento delle condizioni generali del Cucchi. In particolare, i periti evidenziano che Cucchi non aveva manifestato in precedenza patologie cardiache. Anche dagli esami effettuati nei primi giorni del ricovero non viene rilevata alcuna patologia funzionale, né tanto meno cardiaca. Gli stessi sanitari che lo hanno assistito registrano sempre “frequenze normali e ritmo sinusale”. Per i medici legali, all’esame macroscopico “il cuore risulta anatomicamente normale e il successivo esame istopatologico non rivela alterazioni patologiche”. Al momento del suo ingresso in ospedale, quindi, Stefano Cucchi non presentava patologie funzionali di rilievo ma era un soggetto sano, se non per il fatto di avere subito delle fratture. Possiamo leggere dall’autopsia: “Frattura somatica del corpo della terza vertebra lombare (con cedimento ed avvallamento dell’emisoma sinistro) e frattura del corpo della I vertebra sacrale con vasta area di infiltrato emorragico in corrispondenza dei muscoli lombari, del pavimento pelvico e della parete addominale, a dimostrazione della violenza degli effetti lesivi”.17 L’unico motivo per cui aveva bisogno di assistenza era, dunque, le conseguenze di quelle fratture che - per guarire - richiedevano solo riposo a letto e immobilità. E, allora, come è stato possibile che nel giro di pochi giorni le condizioni di Cucchi scadessero a tal punto da far scendere il suo peso da 52 chili a 37 chili? Di Stefano Cucchi, nelle settimane successive alla sua morte, si è detto di tutto: che era drogato, sieropositivo, anoressico. Il tentativo di screditare la sua figura è stato messo in atto più volte, e più volte si è cercato di attribuire alla sua condizione “debole” la principale causa della morte. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi, nel corso della trasmissione Radio mattino su Radio24, dopo aver definito Cucchi “anoressico tossicodipendente […] larva zombie”, ha sostenuto che la sua morte è stata causata “soprattutto perché era di 42 chili”. La verità, invece, è totalmente diversa da quella descritta dalle parole di Giovanardi e, probabilmente, è ancora diversa da quella che si sta delineando con la conclusione delle indagini avvenuta a giugno 2010. I pm responsabili del caso hanno rinviato a giudizio tredici persone tra medici, agenti di polizia penitenziaria e un funzionario dell’amministrazione penitenziaria. Per i medici i reati vanno dal falso ideologico all’abuso d’ufficio, dall’abbandono di persona incapace al rifiuto in atti d’ufficio fino al favoreggiamento e all’omissione di referto. Per i poliziotti, invece, i reati contestati sono lesioni aggravate e abuso di autorità nei confronti di arrestato. Il direttore dell’ufficio detenuti e del trattamento del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap), Claudio Marchiandi, l’unico ad avere chiesto il rito abbreviato, è stato condannato a due anni per i reati di favoreggiamento falso e abuso in atti d’ufficio nel corso dell’udienza del 25 gennaio 2011 in cui il giudice ha confermato il rinvio a giudizio per tutti gli altri imputati. Qui emerge nitidamente una grave contraddizione: quel nesso di causalità, di cui prima si è detto, non sembra tenuto in alcun conto dagli inquirenti. In altre, e semplicissime, parole: 1) è stata esercitata violenza nei confronti di Stefano Cucchi e quella violenza ha prodotto “lesioni”; 2) nel reparto detentivo del Pertini, Cucchi ha subito una serie abnorme di illegalità e abusi per la quale nove persone sono state rinviate a giudizio e una ha subito una condanna. Ma tra le due fasi non c’è consequenzialità, non c’è relazione diretta e stringente, non c’è rapporto di causa-effetto. Insomma, Cucchi ha subito comportamenti illegali in due spazi fisici e temporali tra loro distinti e non interdipendenti. La sua storia viene spesso presentata come l’esito di una successione di episodi sfortunati e scissi l’uno dall’altro. Non è così. Stefano Cucchi il 15 ottobre 2009, trascorre una giornata come tante altre: sveglia alla mattina, il lavoro presso lo studio di geometra del padre, la palestra, dove gioca a boxe, la cena a casa dei genitori. Dopo cena, come d’abitudine, esce a portare fuori il cane. Va verso il parco degli Acquedotti e lì incontra un amico con cui si mette a parlare. Verso le 23.30 viene fermato da alcuni carabinieri della stazione Appia e trovato in possesso di una ventina di grammi di hashish e pastiglie, indicate inizialmente come ecstasy, e poi rivelatisi farmaci per l’epilessia; viene portato nella caserma di via del Calice e da lì accompagnato a casa per la perquisizione. Sarà l’ultima volta che sua madre lo vedrà vivo. La perquisizione non dà risultati e i genitori, che in quel momento lo trovano in buone condizioni, si preoccupano che Stefano sia riuscito ad avvisare il suo avvocato, in vista del processo per direttissima del giorno seguente. I carabinieri rispondono che è stato fatto. Da questo momento, si verificano le prime anomalie. Stefano viene riportato alla caserma di via del Calice, dove viene compilato il verbale d’arresto e preparati i documenti necessari al processo per direttissima del giorno seguente. Il verbale è pieno di errori: “Cucchi Stefano, nato in Albania il 24 ottobre 1975, in Italia senza fissa dimora, identificato a mezzo rilievi fotosegnaletici e accertamenti dattiloscopici”; l’arresto è indicato alle 15.20 nonostante sia avvenuto dopo le 23; nello spazio riservato alla nomina del legale si legge “il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler nominare un difensore di fiducia”. Insomma, è tutto sbagliato. Cucchi nasce a Roma il primo ottobre del 1978, aveva un domicilio (ne è prova la perquisizione effettuata a casa dei genitori quella notte, se non bastassero i due documenti, patente e carta d’identità, che aveva con sé) e, anche in presenza dei genitori, aveva espresso la volontà di essere assistito dal suo legale di fiducia. In quella caserma dei carabinieri passa qualche ora, ma non essendovi là celle utilizzabili, verso le 4 del mattino viene trasferito nella stazione di Tor Sapienza di via degli Armenti. Il carabiniere che lo prende in consegna e procede all’ispezione, privandolo dei lacci delle scarpe e degli effetti personali, riferisce agli inquirenti che Cucchi, quando gli viene chiesto di dare la cintura, risponde “che me devo toglie la cinta che m’hanno rotto?”. Il militare constata, effettivamente, che la fibbia della cintura è rotta e non si chiude, ma ritiene di non dover chiedere ulteriori spiegazioni perché l’arrestato “era vestito in maniera piuttosto trasandata”. Oltre a questo, nota degli “arrossamenti” sul volto che “sembravano più delle macchie dovute al freddo che lividi, che partivano da sotto le palpebre e si estendevano fino alle guance”. Venti minuti dopo essere stato messo in cella, Cucchi si sente male e viene chiamata un’ambulanza: dal verbale del 118 si legge che “il paziente rifiuta l’assistenza sanitaria e il ricovero in ospedale”. Successivamente il medico dichiarerà di non essere neanche riuscito a vederlo: Cucchi si era completamente coperto il corpo con un lenzuolo e non voleva farsi visitare. Qualche ora dopo due carabinieri della stazione di via del Calice vanno a prelevare Cucchi per condurlo in tribunale. Uno dei due riferisce di un colloquio avuto con lui. Mentre si alzava a fatica dalla branda, ho avuto modo di osservare che sul viso aveva due ematomi che gli circondavano gli occhi, i quali erano particolarmente evidenti a causa del colorito pallido che aveva in viso. A quel punto gli ho chiesto cosa gli fosse capitato e lui mi ha risposto: “M’hanno menato gli amici miei”, al che io gli chiedevo quando ciò fosse avvenuto e lui mi rispondeva: “Ieri pomeriggio”. Il carabiniere ricorda che Cucchi lamentava dei dolori alla testa e alla gamba e riferisce anche uno scambio di battute avuto con il militare incaricato di piantonare l’arrestato durante la notte: “Lui ci avvertiva che durante la notte il detenuto era stato particolarmente agitato e che aveva anche dato delle testate al muro”. La circostanza che Cucchi manifestasse già dolore la mattina prima dell’arrivo in tribunale e il fatto che ben due carabinieri riferiscano di avere notato “arrossamenti” ed “ematomi” sul suo volto, risulta ignorato dall’indagine. Ci sono anche gli interrogatori dei due detenuti albanesi accompagnati in tribunale con lui, nei quali dicono che Cucchi ha affermato di essere stato picchiato dai carabinieri la sera dell’arresto. Alle 13 di quel 16 ottobre, nell’aula dell’udienza, è presente anche il padre di Stefano, Giovanni Cucchi, che ha un ricordo molto preciso di quella giornata: ho visto mio figlio con il volto gonfio e due segni neri sotto gli occhi. Poiché Stefano era magro, io ho notato questa diversità nel suo aspetto in modo evidente. Dopodiché, egli si è seduto sulla panca attendendo il suo turno e, siccome ha visto presentarsi un avvocato d’ufficio, ha chiesto perché il giorno prima non avessero chiamato il suo legale di fiducia (che è poi lo stesso legale della nostra famiglia). I carabinieri sono come caduti dalle nuvole e di questo lui si è molto adirato, pronunciando queste testuali parole: “Vi avevo chiesto ieri sera di chiamarlo. Perché non lo avete chiamato?”. I carabinieri hanno mostrato indifferenza […] e, praticamente, non gli hanno dato risposta. Attenzione: questo è un punto essenziale. A quattordici ore dal suo fermo, Cucchi ha già sollecitato per due volte l’assistenza del proprio legale di fiducia. Che non risulta avvisato. Tale omissione, che costituisce una vera e propria illegalità, sarà determinante, come vedremo oltre. Il giudice rinvia la causa al 13 novembre e decide per la custodia cautelare in carcere (Stefano aveva dei precedenti poco significativi e potevano essergli concessi gli arresti domiciliari. Quanto ciò che risultava scritto nel verbale di arresto, cioè che Cucchi era senza fissa dimora, ha influito sulla decisione del giudice?). Il padre non è l’unico ad accorgersi dei lividi sul suo volto, gli agenti di polizia penitenziaria che lo prendono in custodia ritengono necessario farlo visitare dal medico del tribunale prima di trasferirlo al carcere di Regina Coeli. Qui, ora del referto 14.05, vengono rilevate “lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente […] e lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori”, queste ultime non visionate, ma solo dichiarate da Stefano Cucchi, in quanto lo stesso rifiuta di farsi controllare. La foto segnaletica scattata al momento dell’ingresso in carcere evidenzia chiaramente i segni sul volto e Cucchi, com’è prassi, viene sottoposto alla visita medica di primo ingresso, che darà lo stesso risultato: “ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione”. Le sue condizioni sembrano aggravarsi, il dolore inizia a farsi più insistente, così viene deciso il trasporto all’ospedale Fatebenefratelli, dove potranno essere predisposti ulteriori accertamenti: in particolare radiografie alla schiena e al cranio non effettuabili in quel momento all’interno dell’istituto penitenziario. Il risultato di quegli esami al Fatebenefratelli sarà: “frattura corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e frattura della vertebra coccigea”. In ospedale gli viene proposto il ricovero, la prognosi è di venti giorni con indicazione di riposo assoluto a letto e immobilità. Stefano rifiuta e, contro il parere dei sanitari, firma per le dimissioni e viene riportato a Regina Coeli. La mattina dopo, sabato 17 ottobre, i medici del carcere che lo visitano nuovamente giudicano incompatibile il suo stato di salute con la permanenza nell’istituto penitenziario. Viene accompagnato ancora una volta al Fatebenefratelli. I medici ravvisano l’assoluta necessità di trattenerlo e questa volta il paziente non si oppone. Come logica e terapia vorrebbero, Cucchi è destinato dunque al ricovero in un reparto del Fatebenefratelli, nel regime di sorveglianza che il magistrato volesse imporre. Ma, per volere di un funzionario del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (condannato a due anni), che insisterà e firmerà per il suo trasferimento, andando personalmente al Pertini al fine di convincere il personale sanitario, Cucchi verrà ricoverato nel reparto detentivo di quell’ospedale (anche se quel reparto non è il più attrezzato per prendere in carico pazienti con un quadro clinico tanto complesso). Che la decisione non sia stata lineare né priva di contrasti è provato, oltre che dall’attesa di molte ore prima del ricovero, anche dalle dichiarazioni di una infermiera che confermerà agli inquirenti la singolarità di quell’intervento definendolo “un procedimento assolutamente fuori dall’ordinario. In tanti anni di lavoro qui non avevo mai vista tanta urgenza”. I genitori vengono avvertiti solo verso le 22: si precipitano in ospedale, se non possono vedere Stefano, vorrebbero almeno parlare con i medici per sapere cosa è successo, dato che non hanno ricevuto alcun tipo di informazione. Da quel momento e da quel luogo si snodano due vicende parallele: la prima riguarda il travaglio subito in quei giorni dai genitori di Cucchi, sbattuti da un ufficio all’altro e da un silenzio all’altro. Dai loro racconti è facile capire quale sia stato il grado di rigidità e di insensibilità manifestato nei loro confronti. La seconda vicenda riguarda invece gli ultimi giorni di vita di Cucchi, ricostruibili solo attraverso i documenti clinici e le testimonianze di chi, a vario titolo, ha avuto modo di entrare in contatto con lui. Partiamo dalla prima. Rita e Giovanni Cucchi, appena avuto notizia del ricovero di Stefano, vanno all’ospedale Sandro Pertini, vogliono portargli un cambio di vestiario, sperano di poter avere qualche informazione sul suo stato di salute. Alla richiesta di vedere il figlio, il piantone di turno quella sera risponde: “Questo è un carcere e non sono possibili visite”. Chiedono come sta il figlio, li fanno aspettare ma l’unica risposta che ottengono è: “Tornate lunedì, dalle 12 alle 14, orario di visita dei medici”. Tornano a casa e, comprensibilmente, passano la domenica in preda all’angoscia, aspettando l’indomani per andare in ospedale e finalmente avere qualche notizia. Lunedì, alle 12 sono davanti alla porta del reparto e citofonano per salire. Li fanno entrare, e dopo la verifica dei documenti di identità sono costretti ad aspettare. Poi una vice sovrintendente dice loro che non avrebbero potuto parlare con i medici, l’autorizzazione non era ancora arrivata. “Tornate domani, sicuramente sarà pronta.” Non riescono neanche a lasciargli la borsa con gli indumenti: viene infatti detto loro che lì, Stefano, ha già tutto quello che gli occorre. Possono solo lasciargli dei cambi di biancheria intima, che, però, Stefano non indosserà mai: nessuno lo ha cambiato e, data l’impossibilità per Stefano di muoversi, pare improbabile che potesse farlo da solo. Stefano Cucchi morirà con ancora indosso gli indumenti con cui era uscito da casa il 15 ottobre. Alle insistenti richieste dei genitori di sapere almeno il motivo del ricovero la donna risponde semplicemente “il ragazzo è tranquillo”. Rassegnati e impotenti, si allontanano. Il giorno dopo, stessa scena. Si ripresentano al Sandro Pertini, come lunedì, all’ora della visita. Questa volta non vengono nemmeno fatti entrare. La risposta che sentono uscire dal citofono li lascia storditi: “Ma quale autorizzazione, qui non è arrivata. Siete voi che dovete andare a fare richiesta al tribunale e poi farvela convalidare da Regina Coeli”. Come è possibile che nei tre giorni precedenti nessuno si sia preoccupato di dare istruzioni precise a quei genitori che in più di un’occasione, e insistentemente, avevano chiesto di poter avere informazioni sullo stato di salute del figlio? Chi, tra medici agenti e funzionari della polizia penitenziaria, ha il dovere di informare i congiunti sulle pratiche da assolvere per poter parlare con i medici, per fare i colloqui, per lasciare pacchi o oggetti personali? Il carcere è un mondo difficile da conoscere, chi lo incontra per la prima volta è disorientato da regole, consuetudini, obblighi e divieti a cui bisogna attenersi. Per chi osserva da fuori e non ne ha esperienza è impossibile arrivare intuitivamente a comprenderne i meccanismi e i funzionamenti, ci vuole tempo. E i genitori di Stefano Cucchi quel tempo non l’hanno avuto e mai avrebbero immaginato di doversi procurare un’autorizzazione per ricevere, da un medico, informazioni sullo stato di salute del figlio. Mercoledì mattina Giovanni Cucchi va in tribunale, ottiene il permesso per il colloquio, non riesce però a farlo convalidare dal carcere di Regina Coeli, l’ufficio preposto a queste pratiche chiude alle 12.45. Il giorno dopo, Giovanni Cucchi si reca a Regina Coeli, sua moglie Rita resta ad aspettarlo a casa, prendendosi cura della nipotina di un anno, figlia della figlia Ilaria, che ha la febbre. Verso mezzogiorno, suona il citofono, la signora Rita risponde a un carabiniere che le chiede di seguirlo in caserma. Lei non può, deve rimanere a casa con la bambina, il carabiniere dice che sarebbe tornato da lì a poco. Sono le 12.30, suonano di nuovo alla porta: “Signora dobbiamo farle firmare dei documenti”, Rita li lascia entrare, i carabinieri le dicono di posare la bambina nel box, la fanno sedere, le danno dei fogli. “Cosa devo firmare?” “La notifica del decreto del pubblico ministero che autorizza la nomina di un consulente di parte per eseguire l’autopsia.” È in questo modo che Rita Cucchi viene a sapere della morte del figlio Stefano, con un foglio su cui c’è scritto che può nominare un perito per l’autopsia. Viene avvertito anche Giovanni Cucchi che nel frattempo - e dopo 111 ore dal ricovero al Pertini - è a Regina Coeli a svolgere l’ultima incombenza per poter ottenere il colloquio. Ormai, non servirà più. Fuori dal reparto protetto del Sandro Pertini incontrano un medico, la fermano, le chiedono cosa sia successo. La risposta che ricevono è agghiacciante: “Vostro figlio si è spento”. Un ragazzo di 31 anni, fino a una settimana prima pieno di vita, come può “spegnersi”? Cosa è successo in quell’ospedale per giustificare una morte simile? Vediamo. Stefano Cucchi presenta una frattura al corpo vertebrale L3 e una frattura della vertebra coccigea. Non riesce a camminare, deve stare immobile e a riposo. Ha difficoltà nella minzione, gli applicano un catetere. In cinque giorni dimagrisce esattamente di quindici chili. Come si può deperire in questo modo in un ospedale, senza che nessuno tra medici e infermieri intervenga? Nel diario clinico, le annotazioni su Cucchi sono molto scarse, come se di lui, in quei giorni, non si fosse occupato seriamente alcuno. L’ortopedico che lo visita il 21 ottobre annoterà sul diario clinico che Cucchi ha bisogno di riposo a letto per quindici/venti giorni e che l’ospedalizzazione non è strettamente necessaria. Sembra evidente, quindi, che le sue condizioni, il giorno precedente al decesso, fossero non eccessivamente gravi e comunque riconducibili unicamente a un trauma da frattura. Come è potuto accadere che sia morto? Nel diario clinico, tra le poche cose annotate, troviamo una prima spiegazione: per ben due volte, in quelle pagine, c’è scritto che “il paziente rifiuta di alimentarsi ed idratarsi finché non avrà modo di parlare con il proprio avvocato o con un operatore della comunità terapeutica Ceis” (in una delle note è precisato che questo comportamento viene tenuto dal momento del suo ingresso in ospedale). Stefano Cucchi, quindi, ha deliberatamente e volontariamente attuato uno sciopero della fame per ottenere il rispetto di un suo fondamentale diritto: quello alla difesa. Che gli è stato negato fin dal primo momento (giova ricordarlo: sin dal primo ingresso nella caserma dei carabinieri). E non ha solo deciso di attuare questa forma di protesta, ma la ha dichiarata, in modo chiaro e comprensibile, a quanti si sarebbero dovuti occupare di lui. Sicuramente non immaginava che avrebbe perso la vita, probabilmente non gli è stato detto quanto fosse pericoloso nelle sue condizioni - e dopo aver subito violenze fisiche - astenersi dal cibo e dall’acqua e nessuno, evidentemente, ha preso sul serio il progressivo peggioramento del suo stato di salute. Stefano Cucchi stava pacificamente protestando attraverso il rifiuto di ogni trattamento finché non fossero stati rispettati i suoi fondamentali diritti. E invece, leggendo la documentazione clinica, sembrerebbe che il suo decesso sia stato un evento fortuito e imprevedibile. Sul certificato di morte, redatto il 22 ottobre, si legge: “Si certifica che il signor Stefano Cucchi è deceduto per presunta morte naturale in data odierna alle ore 6.45”.24 A distanza di 17 mesi da quella morte, alla fine del marzo 2011, vengono rese note le motivazioni della condanna del dirigente del Prap Claudio Marchiandi. È una lettura sconcertante: Stefano Cucchi “doveva essere necessariamente internato” nella struttura protetta dell’ospedale Pertini per “evitare che soggetti estranei all’amministrazione penitenziaria prendessero cognizione delle tragiche condizioni in cui era stato ridotto” e che il fatto “venisse portato a conoscenza dell’autorità giudiziaria”. Al Pertini Cucchi sarebbe rimasto “al riparo da sguardi indiscreti” e sottratto “intenzionalmente a tutte le cure di cui aveva bisogno”. Non solo: “Le condizioni fisiche di Stefano” scrive ancora il giudice dell’udienza preliminare, Rosalba Liso “erano palpabili e visibili a ciascuno, erano ben note nel contesto della polizia penitenziaria per la pluralità di soggetti che l’avevano visto ed accompagnato. Non c’era spazio a dubbi di sorta in ordine al fatto che Stefano fosse stato picchiato”. Di conseguenza, il comportamento del funzionario condannato mirava a disporre l’ingresso di Cucchi in un reparto in cui “non doveva assolutamente entrare”. Dunque, Cucchi doveva essere isolato in un luogo dove fosse più facile nascondere le gravi condizioni in cui versava. Condizioni ben note a Marchiandi che avrebbe cercato di “eludere le indagini “occultando” la circostanza che Stefano fosse stato picchiato e che aveva appreso con ragionevole certezza, duole dirlo, in primo luogo dal direttore del carcere Mariani”. Questa e altre considerazioni inducono il gup ad affermare che la vicenda di Stefano Cucchi “è connotata da indubbia gravità poiché si inserisce in un contesto di generale malcostume sociale e di omertà che […] apparirebbe determinato da mera leggerezza, mentre disvela una condotta allarmante”. Fino a far scrivere al magistrato del coinvolgimento di numerosi soggetti, “molti non ancora scoperti per chiara omertà”. La conclusione è netta: “Stefano era nelle mani dello Stato e nelle mani dello Stato è deceduto”. In questo quadro, la catena delle responsabilità appare nitida. Stefano Cucchi ha prima subito violenze e poi è stato letteralmente abbandonato a se stesso: innanzitutto dalle istituzioni che lo avevano in custodia e che hanno come dovere imprescindibile e prioritaria ragion d’essere la tutela dell’incolumità di chi viene loro affidato; e, successivamente, da una lunga serie di soggetti e apparati che, quando pure non colpevoli delle condizioni in cui si trovava, avrebbero dovuto operare per rimuovere quelle stesse condizioni. E poi, quei soggetti, dei quali “molti non ancora scoperti”. Per concludere una riflessione. La vicenda di Stefano Cucchi e la sua dolente via crucis attraverso le stazioni rappresentate da ben dodici luoghi istituzionali evidenzia come intorno a lui - e, come abbiamo visto, a tanti altri - si sia saldato un sistema integrato e una sorta di circuito esteso e chiuso, dove finiscono i gruppi e gli individui più deboli, e dove la differenza tra reclusione e vigilanza, sanzione e cura, repressione e assistenza può risultare assai labile. Caserma e carcere, tribunale e reparto detentivo, pronto soccorso e infermeria, camera di sicurezza e - per chi ha la ventura di essere straniero - centro di identificazione ed espulsione. In quel circuito del sorvegliare e punire, ruoli di custodia e repressione e funzioni di disciplinamento e assistenza sembrano intercambiabili, tendono a sovrapporsi e comunque a combinarsi. Il personale sanitario del Pertini rivela, al di là di ogni dubbio, una vocazione custodiale assai più pronunciata di quella terapeutica. E in tante altre vicende - da quella di Giuseppe Uva a quella di Francesco Mastrogiovanni - risulta determi- nante e letale il ricorso abusivo al Tso. Infine, la storia di Cucchi, al di là delle contraddizioni ravvisabili nei rinvii a giudizio, e dell’esito imprevedibile del dibattimento, ha mostrato come sia possibile sottrarre al silenzio (almeno alcuni degli) avvenimenti che accadono all’interno dei luoghi di privazione della libertà. Che restano tuttavia, in gran parte, tenacemente celati al nostro sguardo. Immigrazione: Cassazione; va assolto il clandestino che non ottempera all’espulsione Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2011 Non commette più alcun reato il clandestino che non ottemperando a un ordine di espulsione continua a soggiornare nel territorio italiano. Dopo la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 28 aprile scorso - che ha bocciato la politica immigratoria italiana perché contraria alle previsioni, più morbide, contenute nella direttiva 2008/115, mai recepita dal nostro paese - scattano le prime assoluzioni. La Corte di Lussemburgo, infatti, aveva stabilito che i giudici nazionali chiamati a giudicare dovevano disapplicare la disposizione interna - che il “pacchetto sicurezza” del 2009 aveva inasprito portando la pena fino a quattro di carcere - e così è stato. La Corte di cassazione, con la sentenza di oggi n. 18586, dopo aver bocciato tutti i motivi di ricorso sollevati da due extracomunitari irregolari, già condannati in primo grado e in appello per non aver ottemperato all’ordine di allontanamento intimato nel 2005 dal questore di Perugia, li ha comunque assolti utilizzando la formula “più favorevole per i giudicabili” e cioè “perché il fatto non costituisce reato”. La Suprema corte ha ripreso pari pari la motivazione dei giudici europei nella parte in cui prevede che “gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo, una pena detentiva, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio nazionale e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare in detto territorio”. Infatti, sempre secondo l’Europa la previsione di una pena detentiva “rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare nel rispetto dei loro diritti fondamentali”. L’Italia dunque è inadempiente per non aver recepito la direttiva entro il 24 dicembre 2010 e, dunque, da allora per la Corte Ue “i singoli sono legittimati ad invocare, contro lo Stato membro inadempiente, le disposizioni della direttiva”. Fra l’altro la Corte Ue ha stabilito anche che il trattenimento deve avere “durata quanto più breve possibile” ed essere “riesaminato ad intervalli ragionevoli”. Non solo ma “deve cessare appena risulti che non esiste più una prospettiva ragionevole di allontanamento e la sua durata non può oltrepassare i 18 mesi”. Inoltre gli interessati devono essere collocati “in un centro apposito e, in ogni caso, separati dai detenuti di diritto comune”. L’articolo 14, comma 5-ter, del Dlgs 25 luglio 1998 n. 286, come modificato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, recante disposizioni in materia di sicurezza pubblica, bocciato dalla Corte Ue prevedeva che: “Lo straniero che senza giustificato motivo permane illegalmente nel territorio dello Stato, in violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis, è punito con la reclusione da uno a quattro anni se l’espulsione o il respingimento sono stati disposti per ingresso illegale nel territorio nazionale ai sensi dell’articolo 13, comma 2, lettere a) e c), ovvero per non aver richiesto il permesso di soggiorno o non aver dichiarato la propria presenza nel territorio dello Stato nel termine prescritto in assenza di cause di forza maggiore, ovvero per essere stato il permesso revocato o annullato”. Non si può negare la sanatoria a colf e badanti colpevoli di non essere andati via dall’Italia dopo un provvedimento di espulsione. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato in adunanza plenaria con due sentenze “gemelle” del 10 maggio, le numero 7 e 8. L’articolo 1-ter, comma 13, lettera c) della legge 102/2009 impedisce la regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari condannati, anche con sentenza non definitiva per uno dei reati che prevedono l’arresto. E il ministero dell’interno aveva ritenuto che tra questi reati andava ricompreso anche la violazione dell’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato. Ma secondo i giudici di Palazzo Spada “l’entrata in vigore della normativa comunitaria ha prodotto l’abolizione del reato previsto” per l’inottemperanza dell’ordine di espulsione dei questore con “effetto retroattivo”. “Tale retroattività non può non riverberare i propri effetti - precisano i magistrati - sui provvedimenti amministrativi negativi dell’emersione del lavoro irregolare, adottati sul presupposto della condanna per un fatto che non è più previsto come reato”. Immigrazione: nessun futuro oltre le sbarre… tra i disperati del Cie di Trapani di Gabriele Del Grande L’Unità, 12 maggio 2011 Qualcuno di loro è lì dentro da mesi, è arrivato prima delle rivolte e ora attende senza sapere cosa ne sarà del suo futuro. “Pensavamo di lasciare la dittatura per trovare la democrazia. ma è democrazia questa?”. Visto da fuori, il centro di identificazione e espulsione di Trapani ha la forma di una mano. Ma non di una sola. Di almeno una decina. Sono le mani dei suoi detenuti, una sessantina di tunisini recentemente sbarcati a Lampedusa e destinati al rimpatrio. Le loro mani spuntano tra i ferri della gabbia sul ballatoio del secondo piano. Alcune si aggrappano alle sbarre. Altre agitano in aria le due dita aperte a v in segno di vittoria. Mentre nel cortile rimbombano le grida della loro ennesima improvvisata protesta. “Libertà! Libertà!”, gridano a pieni polmoni. E il coro di protesta si propaga lungo la strada di fronte che, ironia della sorte, si chiama proprio via Tunisi. Dentro il cortile, i carabinieri lasciano fare. Da dietro la gabbia, strillando, un ragazzo tunisino ci chiede in francese: “Pensavamo di lasciare la dittatura per trovare la democrazia. Ma dov’è la libertà? È questa la democrazia? D’accordo abbiamo passato la frontiera senza documenti. Ma siamo persone per bene, lavoratori. Perché ci trattano come delinquenti? L’Italia per noi è soltanto un passaggio. Fateci uscire e domani partiamo per la Francia”. Le sue sono parole senza volto. Escono dalle grate senza che si riesca a vedere la sua faccia. Nascosta nella penombra dietro la macchia nera dei ferri della gabbia anneriti dal fuoco dell’ultimo rogo appiccato per protesta la scorsa settimana. È successo la sera del 4 maggio, quando alcuni tunisini reclusi hanno bruciato materassini, coperte e vestiti. L’incendio è stato spento dai vigili del fuoco. Dopodiché hanno fatto ingresso nella sezione polizia, militari e carabinieri. Secondo il racconto di chi ha assistito alla scena, gli agenti avrebbero fatto disporre in fila i detenuti e ne avrebbero manganellati alcuni a scopo dimostrativo, visto che non avevano prove per identificare gli effettivi responsabili dell’incendio. E infatti ad oggi nessuno è stato arrestato. In compenso otto ragazzi sono finiti in infermeria per le bastonate ricevute. Ne accadono spesso di roghi nei Cie. Ma al Vulpitta fa sempre uno strano effetto. Perché riporta la memoria alla notte tra il 28 e il 29 dicembre del 1999. Anche quella sera un gruppo di ragazzi tunisini appiccarono il fuoco ai materassi nella propria cella. La porta che dava sul ballatoio era chiusa a chiave e prima che intervenissero i soccorsi, il fuoco divampò bruciando vivi tre detenuti. Altri tre morirono nelle settimane successive in ospedale. Sei morti per cui nessuno è mai stato ritenuto responsabile, nemmeno l’allora prefetto di Trapani, Leonardo Cerenzia, che venne prima imputato per omissione di atti d’ufficio e concorso in omicidio colposo plurimo e poi assolto con formula piena. Da allora è cambiato poco o niente. Se non che la capienza del Cie è stato ridotta da 180 a 57 posti. La struttura però è sempre la stessa. Con le celle una a fianco dell’altra, affacciate in modo così claustrofobico su quell’unico ballatoio ingabbiato. I lucchetti si aprono quattro volte al giorno. Per i pasti, e per l’ora d’aria concessa nei pomeriggio, per giocare nel Campetto di calcio nel parcheggio all’ingresso, costantemente sotto la stretta vigilanza degli agenti. V. di tutto questo non ne può più. Lui è dentro da più di quattro mesi. È lui che ci ha telefonato e raccontato della rivolta. Nelle sue parole, il Vulpitta non si chiama più Cie e non si chiama più nemmeno centro di identificazione e espulsione. Si chiama ferro. “Mi alzo e trovo il ferro, esco dalla camera e trovo il ferro, vado alla mensa e trovo il ferro, dormo e trovo il ferro. Tutti i giorni la stessa cosa. Non riesco più a pensare a niente”. E l’ora d’aria, i 40 minuti concessi ogni giorno ai detenuti per sgranchirsi le gambe nel cortile della struttura, non servono a granché. “Giochiamo un po’ a pallone, ma sei sempre circondato dai militari e dalla polizia. Anche se vai in infermeria, sempre accompagnato dai militari e dalla polizia. Non siamo delinquenti, non siamo mafiosi, cosa abbiamo sbagliato?”. Lui l’Italia se l’immaginava diversa, migliore. É partito dalla Tunisia due anni e otto mesi fa. All’epoca c’era ancora la dittatura di Ben Ali. “Non sono partito per i soldi, ma per la libertà. Avevo un lavoro, ma nella vita la libertà è più cara di tutto, è più cara anche dei soldi. E in Tunisia non eri libero di gridare quello che pensavi. Ho attraversato il mare, pensavo di trovare la democrazia in Italia e invece è peggio che da noi”. Presto V. sarà finalmente di nuovo un uomo libero. Anche se a dire il vero fino a adesso non ha la più pallida idea di cosa farà. “Non riesco più a pensare. Sei mesi rinchiuso qua dentro, ti rendi conto? Sei mesi buttati via della mia vita... Il mio cervello si è spento. Ho degli amici, li chiamerò, magari per farmi ospitare i primi giorni, poi cerco un lavoretto. Dipende tutto dalla fortuna”. E dalla fortuna dipenderà anche non farsi riacciuffare dalla polizia. Esci dal Cie, non sai dove andare, ti trovi in mezzo a una strada, e magari una settimana dopo ti ferma di nuovo la polizia e ti chiede di nuovo i documenti. E tutto comincia da capo. Di nuovo il Cie, di nuovo sei mesi buttati via. E una fabbrica che oltre alla clandestinità e al consenso elettorale, genera sofferenza e emarginazione. Francia: chiarezza sulla fine di Franceschi… e sulle troppe morti in carcere, anche in Italia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 maggio 2011 Che cosa contenevano le pagine strappate del diario dell’ultimo mese di vita di Daniele Franceschi, il trentunenne italiano morto il 25 agosto scorso nel carcere di Nizza dopo cinque mesi di detenzione? Forse niente di rilevante, o forse molto. Forse solo qualche indizio per capire una storia ancora inspiegabile e inspiegata. In ogni caso, è inquietante che quelle pagine siano sparite. E basta il dubbio che siano state sottratte per nascondere qualcosa di indicibile per chiedere (e bisognerebbe dire pretendere) che là nuova denuncia dei familiari di Franceschi non cada nel nulla. Dopo la sua morte avvenuta per “arresto cardiaco”, espressione che non spiega nulla giacché tutti se ne vanno per quel motivo, il cadavere arrivò in Italia svuotato. “Privo degli organi”, spiegò il medico legale. C’era anche in quel caso qualcosa da celare? In una lettera restituita ai familiari insieme al diario strappato Franceschi avrebbe chiesto aiuto, sostengono i suoi familiari, e sollecitato accertamenti medici. Perché? Quando fu arrestato per uso improprio di carte di credito nel Casinò di Cannes stava bene. Che cosa è successo in prigione? Sono domande a cui non solo i parenti della vittima, ma l’Italia avrebbe diritto a una risposta. Tanto più da un Paese amico come la Francia. Il ministro della Giustizia Alfano è già stato sollecitato ad acquisire le informazioni necessarie a fare luce. Forse anche il ministro degli Esteri potrebbe fare un passo. Ma qualunque mossa in questa direzione avrebbe maggior valore se nel frattempo in Italia si riuscisse a ottenere un po’ di verità sui detenuti morti nelle patrie galere. O nei posti di polizia. Da Stefano Cucchi, per il quale il processo è alle battute iniziali, al caso di Giuseppe Uva, per cui un eventuale giudizio è ancora di là da venire, a tutte le altre persone morte mentre erano custodite nelle strutture dello Stato. Forse colpevoli di qualche reato o forse no, non importa. Quel che non è tollerabile è che una persona consegnata alle strutture pubbliche entri viva ed esca morta; e se ciò si verifica, che l’accaduto rimanga senza spiegazioni e conseguenze. Non per smania di giustizialismo, ma per un banale quanto insopprimibile dovere di giustizia. Il diario dalla cella ha le pagine strappate Un diario dal carcere con le pagine strappate e una lettera scritta poche ore prima della morte e nascosta tra le pieghe di un maglione di lana. Si infittisce il giallo di Daniele Franceschi, il carpentiere di 36 anni trovato cadavere il 25 agosto dello scorso anno in una cella del carcere francese di Grasse, entroterra di Cannes. Ieri Cira Antignano, la mamma coraggio che per cercare la verità sulla morte del figlio ha rischiato di essere arrestata dalla polizia francese, ha lanciato un ultimo appello. “Quelle pagine strappate del diario e la lettera, l’ultima testimonianza di Daniele - ha detto in lacrime - sono le prove che si deve ancora indagare. Non so se mio figlio è stato picchiato, certamente non è stato soccorso. Lo hanno fatto morire solo come un cane” . Nell’ultima lettera, datata 25 agosto 2010, Franceschi scrive alla mamma di sentirsi male e di aver deciso di rinunciare al lavoro in carcere anche se, come gli ha detto la psicologa, gli costerà molto. “Cara mà, oggi ho avuto un dolore alla spalla molto forte ed è una cosa che si ripete da settimane e di frequente - scrive Daniele - mi è appena presa una fitta forte di dolore dalla spalla sinistra fin verso il cuore, ma stamani mi hanno fatto la radiografia e mi hanno detto che cuore e polmone sono a posto. Tra una settimana mi rifaranno le lastre, ma ho l’idea che scoprire che cosa è e che cosa sarà non è un’impresa facile. Non ho mai avuto un infarto, ma se dovessi descrivere il dolore che provo direi che è simile a un infarto. Sento crescere il dolore a poco a poco dalla spalla verso il cuore” . Poche ore dopo Daniele veniva trovato privo di vita sul pavimento della cella. Arresto cardiaco, il referto di morte, ma per i legali del giovane sono molti i particolari ancora da chiarire. La lettera è stata trovata da mamma Cira quasi per caso. Aveva appena ricevuto dal carcere di Grasse gli effetti personali del figlio in due scatole e quando ha preso il maglione, nero a righe bianche, la lettera è caduta in terra. “La signora - dice l’avvocato Mariagrazia Menozzi - mi ha appena informato e io ho disposto l’invio del documento al giudice istruttore francese. Credo che la lettera sia una testimonianza estremamente importante per stabilire come è morto Daniele” . Su quella missiva, l’ultima, c’è anche una testimonianza: quella del compagno di cella di Daniele, assente al momento della morte del giovane versiliese. Alla madre aveva raccontato di aver visto l’amico scrivere una lettera il giorno stesso della morte ma di non sapere che fine avesse fatto. Qualcuno l’ha nascosta per poi farla recapitare alla famiglia. Anche il “diario di cella” , così il giovane aveva ribattezzato un quaderno dove annotava la cronaca di ogni giorno di carcere, è un altro mistero. “Le autorità francesi dovranno spiegarci perché alcune pagine del diario di Daniele sono state strappate - afferma l’avvocato Aldo Lasagna- e guarda caso sono le ultime scritte, dal 31 luglio in poi. Forse c’erano testimonianze importanti” . Mamma Cira ha deciso di lanciare un ultimo appello alle autorità d’Oltralpe sugli organi del figlio ancora “conservati in alcuni laboratori francesi” . “La Francia ce li aveva promessi ma ancora non sono arrivati” , conclude mamma Cira. Francia: dopo Corte Giustizia europea niente più carcere per gli immigrati clandestini Ansa, 12 maggio 2011 La Francia non metterà più in prigione gli immigrati stranieri per il solo motivo di un soggiorno irregolare sul suo territorio, anche se questi ultimi si rifiutano di essere ricondotti alla frontiera, in applicazione di una sentenza della corte di giustizia dell’Unione europea. È quanto emerge da una circolare del ministero della Giustizia rivelata dall’agenzia France Presse. Stati Uniti: il Pentagono valuta ipotesi di consentire visite parenti a detenuti Guantanamo Adnkronos, 12 maggio 2011 Il Pentagono sta valutando la possibilità di consentire ai parenti dei detenuti rinchiusi a Guantanamo di visitarli. A riferirne sono fonti del Congresso americano citate oggi dal Washington Post. Secondo queste fonti il Comitato Internazionale della Croce Rossa (Icrc) che valuta e controlla le condizioni di coloro che sono rinchiusi nella base americana a Cuba ed organizza videoconferenze tra questi detenuti e le loro famiglie, ha discusso seriamente di questa possibilità con il Pentagono. Simon Schorno, portavoce del Comitato Internazionale della Croce Rossa citato dal Washington Post ha sottolineato che l’organizzazione non rilascia commenti sui contenuti di dialoghi confidenziali con il governo americano. Ma, ha aggiunto, “aldilà del luogo in cui i detenuti sono rinchiusi, e soprattutto nel quadro di detenzioni di lunga durata, l’Icrc lavorerà sempre per fare in modo che prigionieri e famiglie siano in contatto gli uni con le altre, anche attraverso visite dei parenti”. Nessun commento neanche dal Pentagono su eventuali programmi di visite nel carcere di massima sicurezza a Cuba, scrive in conclusione il Washington Post, ma - in risposta alle domande formulate - al Dipartimento di Stato si sottolinea che “rivediamo costantemente le nostre politiche di detenzione relativamente alle nostre operazioni a livello globale”.