Giustizia: chiudere subito gli Ospedali psichiatrici giudiziari, sono uno scandalo Corriere della Sera, 11 maggio 2011 “Gli ospedali psichiatrici giudiziari vanno chiusi e subito”. Lo chiedono 25 associazioni - cui man mano se ne stanno aggiungendo altre - che hanno promosso la Campagna “Stop Opg” (per non far cadere nell’oblio le condizioni disumane di chi ancora vi è recluso, denunciate anche dalla Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale. L’estate scorsa, infatti, alcuni suoi membri e il presidente Ignazio Marino avevano effettuato un sopralluogo a sorpresa negli Opg e girato immagini shock, diffuse circa un mese fa. I parlamentari avevano trovato un vero e proprio inferno: celle di contenzione, ambienti fatiscenti e spazi angusti per i detenuti, sporcizia dappertutto. E poi: un uomo legato a un letto con un foro in corrispondenza del bacino per i bisogni; un altro, di proroga in proroga, “dentro” da 25 anni; un’altra persona immobile a letto da cinque giorni, senza neppure un campanello per richiamare l’attenzione degli operatori. In queste strutture sembra che non sia mai arrivata la legge “Basaglia”, a 13 anni dalla sua entrata in vigore, il 13 maggio 1978. “Sono persone malate e hanno diritto a essere curate”, chiosa Marino. Oggi sono circa 1.400 le persone recluse negli Opg, un centinaio in più rispetto al 2007. Eppure nel 2008 era stato emanato un Decreto della presidenza del consiglio dei ministri che prevedeva il trasferimento della sanità penitenziaria dal ministero della Giustizia a quello della Salute, quindi percorsi alternativi per la presa in carico dei pazienti. A fine 2009 è stato fatto un elenco numerico di 300 pazienti “dimissibili”, perché hanno finito di scontare la pena e non sono più socialmente pericolosi. Ma sono ancora dentro. “Più di 350 internati potrebbero uscire subito: dovrebbero essere accolti in strutture adatte grazie a progetti individualizzati di cura e reinserimento”, sottolinea Stefano Cecconi, uno dei promotori della campagna - . Uno di loro nei giorni scorsi si è suicidato nell’Opg di Aversa, dopo otto anni di reclusione. “Dobbiamo restituire loro la cittadinanza, un nome, una casa - continua Cecconi - . Regioni e Asl devono prevedere programmi per il loro reinserimento e strutture esterne di accoglienza. Intendiamo monitorare quelle inadempienti”. “Non si può più dire che non ci sono i fondi per farli uscire - incalza Marino. Il ministro della Salute Ferruccio Fazio ha comunicato che è partita l’erogazione delle risorse promesse per agevolare l’assistenza sul territorio dei pazienti che possono essere dimessi. Dei 5 milioni stanziati, però, solo 3 milioni e 400mila sono stati effettivamente erogati alle Regioni”. I motivi? Spiega il presidente della commissione d’inchiesta: “Solo alcune ne hanno fatto richiesta presentando dei progetti di assistenza. Il Lazio non l’ha fatto, pur avendo 41 cittadini che hanno il diritto di lasciare gli Opg. E non hanno richiesto i fondi nemmeno la Liguria che ha 11 cittadini da accogliere, l’Abruzzo che ne aspetta 6, la Campania dove dovrebbero tornare 75 internati, la Calabria e la Sicilia che devono riaccogliere rispettivamente 11 e 31 persone, il Friuli Venezia Giulia che ne aspetta 7. Questa evidente mancanza di cooperazione va fermata al più presto”, conclude Marino. A dare voce al tormento interiore di chi soffre di una malattia mentale è un recente libro-testimonianza di Giovanna Altobel, “Il rumore dell’anima” (edito da Albatros). Una storia di denuncia, dopo la legge 180 e la difficile trasformazione dei reparti psichiatrici, ma anche di speranza. “Ho deciso di scrivere questo libro per rielaborare un mio momento di sofferenza vissuto con una persona spenta nel nulla della malattia mentale - racconta Altobel. Mi sono ispirata a un uomo che frequentava un centro di salute mentale vicino casa mia e mi chiedeva sempre 100 lire: come se fosse rimasto indietro nel tempo, a quando non era malato”. “Anche se sei guarito continui a essere discriminato e gli altri ti guardano con diffidenza - sottolinea l’autrice del libro. Nei centri di salute mentale non esiste più la contenzione fisica della camicia di forza o dell’elettroshock, ma spesso sono i farmaci a “legarti”. Le leggi non bastano - conclude Altobelli. La differenza la fanno le persone e gli operatori”. Giustizia: una Campagna contro l’orrore dell’Opg… di Giovanna Del Giudice (Portavoce nazionale Forum Salute Mentale) Il Manifesto, 11 maggio 2011 Lenzuola non sostituite per settimane, lezzo d’urina, tanfo e sporcizia ovunque, letti arrugginiti, in alcuni casi letti di contenzione con un foro nel mezzo per la caduta degli escrementi di internati legati per giorni: dopo la diffusione del video girato durante le visite del giugno-luglio 2010 nei sei Ospedali psichiatrici giudiziari dalla Commissione d’inchiesta per l’efficienza e l’efficacia del Sistema sanitario nazionale, preseduta dal sen. Marino, nessuno può più dire di non conoscere l’orrore delle condizioni in cui versano più di 1400 persone, “gli ultimi”, dacché il manicomio criminale è prioritariamente contenitore della miseria e dell’abbandono. Il 19 aprile a Roma il Forum salute mentale e la Cgil nazionale, insieme a molte altre associazioni, hanno lanciato la campagna “Stop Opg: per l’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Per ribadire l’inaccettabilità dell’istituto, sviluppare conoscenza, fare proposte, stimolare le istituzioni, denunciare quelle inadempienti. La presenza dell’Ospedale psichiatrico giudiziario conferma uno statuto speciale per il malato di mente e il permanere di un “doppio binario” per le persone con disturbo mentale che hanno commesso reato; mentre è consapevolezza diffusa tra gli operatori della psichiatria e del diritto che l’incapacità totale di intendere e di volere, alla base dell’istituto, è evento eccezionale e che di norma il disturbo mentale, anche gravissimo, non è in grado di spegnere completamente la capacità della persona di aver coscienza di stare commettendo un reato. Il perdurare dell’istituto è soprattutto frutto di pratiche omissive e mancate assunzioni di responsabilità, in particolare dei Dipartimenti di salute mentale (Dsm), che non si fanno carico dei cittadini del loro territorio che hanno commesso un reato proponendo percorsi alternativi o di avviare progetti di dimissioni di quelli/e internati/e. Di contro sono all’evidenza le esperienze di alcuni Dipartimenti di salute mentale che non hanno cittadini del proprio territorio negli Opg. Il che dimostra che, volendo, si può fare. L’emanazione del decreto del presidente del consiglio dei ministri (Dpcm) del 1 aprile 2008, che trasferisce la medicina penitenziaria dal Ministero della giustizia a quello della sanità, prevede una serie di interventi graduali per il superamento dell’Opg. Il decreto è stato assunto da tutte le regioni in cui sono allocati gli Opg (tranne la Sicilia), che quindi sono diventate titolari della salute delle persone lì recluse. Peraltro, contro le disposizioni del decreto, continuano il trasferimento in Opg di persone provenienti dal carcere e l’ammissione di persone in attesa di perizia. Perciò, le associazioni che hanno promosso la campagna “Stop Opg” chiedono al governo di rispettare gli impegni finanziari per il passaggio della medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale; alle Regioni di assumere l’onere dei cittadini internati negli Opg, attribuendo ai Dipartimenti di salute mentale le necessarie risorse; ai Dsm di avviare pratiche concrete di presa in carico degli internati e delle internate; alla Conferenza Stato-Regioni di sanzionare le Regioni e i Dsm inadempienti; alla magistratura di sorveglianza di mettere fine alla pratica di proroga della misura di sicurezza in relazione alla indisponibilità del Dsm di farsi carico della persona in dimissione. Giustizia: Passoni (Pd); ministro Fazio chiuda ospedali psichiatrici giudiziari Il Velino, 11 maggio 2011 "L'ennesimo suicidio negli ospedali psichiatrici giudiziari del nostro Paese rende sempre piu' intollerabile una situazione anacronistica come quella degli Opg, luoghi di sofferenza e privazione". Lo dichiara il senatore del Pd Achille Passoni, che ha predisposto in merito un'interrogazione parlamentare al ministro della Salute. "Dopo il suicidio del giovane avvenuto per soffocamento nell'ospedale psichiatrico di Aversa - continua, il terzo caso in quattro mesi, il ministro Fazio deve intervenire immediatamente, sbloccando tutte le risorse per agevolare l'assistenza sul territorio dei pazienti che possono essere dimessi. Gli ospedali psichiatrici giudiziari vanno chiusi e subito, perchè le condizioni disumane di chi vi è recluso sono indegne di un paese civile, e a denunciarlo non sono solo le associazioni che hanno promosso la campagna Stop Opg (www.stopopg.it), ma anche la Commissione parlamentare di inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del Servizio sanitario nazionale, che visitando le varie strutture sul territorio nazionale ha trovato delle vere e proprie cayenne in cui i malati sono reclusi, in ostaggio della malattia e abbandonati dallo Stato. Dal 2008, con un decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri, la sanita' penitenziaria è di competenza del ministero della Salute, ma sebbene siano passati tre anni non si è messa la parola fine allo scandalo degli Opg, che tengono segregati e senza speranza piu' di 1.500 persone. Il ministro Fazio - conclude Passoni - nomini dei commissari ad acta, e si definiscano una volta per tutte tempi certi per la chiusura degli Opg". Giustizia: Mastella (Udeur); l’indulto ha funzionato, ma quasi nessuno lo dice Ansa, 11 maggio 2011 “L’indulto ha funzionato. Ma quasi nessuno lo dice. A dispetto di un’ossessiva campagna mediatica, che ha tentato di demolirlo e di demonizzarlo, l’indulto si è dimostrato efficace, al punto che la percentuale di recidiva è crollata dal 68 al 27 per cento. Per alcune categorie, addirittura al 18 per cento. Uno studio di livello universitario, molto accurato, pubblicato da un solo grande quotidiano nazionale, ha dimostrato che, in alcuni casi, ben 9 beneficiari su 10 non sono mai più rientrati in carcere. Questi sono i fatti, ben lontani da certi giudizi negativi e affrettati, condizionati dalla volontà di colpire la mia persona”. Così si è espresso Clemente Mastella, candidato a Sindaco di Napoli per l’Udeur, nel corso di un incontro con un gruppo di agenti della Polizia penitenziaria. l’Ex ministro della Giustizia ha voluto ringraziare gli uomini della Polizia penitenziaria, perché “hanno saputo giudicare l’indulto per quello che è stato, senza pregiudizio, valorizzandone i tanti risvolti positivi”. Mastella ha aggiunto: “L’indulto è stato un provvedimento corretto sul piano costituzionale, un gesto opportuno sul piano dei valori, delle convinzioni cristiane. Piuttosto - ha continuato Mastella rivolto sempre agli agenti penitenziari - devo lamentare le difficili, drammatiche condizioni delle carceri napoletane, condizioni che voi ben conoscete. A paragone con altre esperienze, bisogna prendere atto che una certa borghesia, quella che io chiamo borghesia vippaiola e giustizialista, niente fa e niente ha fatto per contribuire, con generosità, a rendere più sopportabile, più umana la condizione carceraria a Napoli. Se non fosse per l’impegno del Volontariato, della Chiesa, sarebbe davvero il deserto”. Giustizia: l’idea del carcere e la diffusione delle droghe, un “manuale per il cambiamento” di Stefano Sinibaldi www.linkontro.info, 11 maggio 2011 Negli ultimi trent’anni si è registrata, praticamente in tutto il mondo, una crescita notevole della popolazione penitenziaria. Questa crescita appare costante e ha negli Usa il suo apice. Alto è anche il tasso di recidività, cioè la percentuale di coloro che tornano a delinquere una volta scontata la pena. Coloro, però, che usufruiscono di misure alternative risultano essere recidivi in percentuale molto minore, all’incirca la metà, di chi sconta tutta la pena in regime di detenzione. La grande maggioranza dei detenuti ha commesso reati perlopiù contro il patrimonio riconducibili alla loro precaria condizione economica. Si può dire, pur nella discordanza dei dati, che solo una piccola parte intorno al 20%, nel mondo, è detenuta per reati gravi, di entità economica notevole o contro la persona. La strada, almeno per i soggetti meno pericolosi, dovrebbe essere innanzitutto quella di studiare e applicare pene alternative alla detenzione; spesso dal carcere si esce peggiori di come si è entrati. Una questione, poi, che va urgentemente affrontata è quella del diritto ad avere una vita affettiva con la possibilità di incontri anche intimi. Il carcere, così com’è, difficilmente riesce a riabilitare e a reinserire i detenuti. Il carcere, cito dall’articolo 27 della Costituzione italiana, ma mi sembra un criterio universalmente adottabile, dovrebbe “tendere alla rieducazione del condannato”; ormai, però, è un’istituzione che arriva a spezzarne la mente e, a volte, anche il corpo. E ancora: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, ma nel sovraffollamento e nell’assenza di validi provvedimenti di recupero si creano situazioni di invivibilità, diminuiscono le possibilità di accesso ai diritti fondamentali e aumentano gli episodi di violenza e i suicidi. La tendenza attuale in molti paesi sembra poi essere quella di evitare la detenzione per reati commessi per lo più da soggetti economicamente forti: evasione fiscale, falso in bilancio, abusi edilizi etc. e condannare con severità quelli come i piccoli furti e lo spaccio di limitate dimensioni, tradizionalmente commessi da soggetti poveri. Questa istituzione diventa così uno strumento di divisione sociale, dove si evidenzia che la legge non è uguale per tutti. Gli “onesti” ne fanno lo specchio dove far risaltare per contrasto la propria pretesa rettitudine nella convinzione che chiunque commetta reati lo faccia per una sua intrinseca disposizione. Riflettiamo su come ognuno di noi potrebbe comportarsi in condizioni di esclusione e di estrema indigenza. Per tentare di migliorare la situazione occorre come prima cosa rafforzare le strutture di reinserimento o, più correttamente, dovremmo dire di inserimento visto che molti delinquono proprio in quanto privi di un lavoro, di una funzione sociale. Rendendo poi la gestione dell’inserimento in società negli istituti penitenziari di competenza del Ministero dell’Apprendimento si evidenzierebbe lo scopo di un carcere in uno stato democratico che è quello di un recupero visto nella duplice finalità di una riduzione di rischio per la comunità e di crescita individuale. In quest’ottica anche alcune forme di rapporto tra detenuto, sorveglianti e operatori sociali dovrebbero subire delle modifiche. La semplicistica soluzione dell’aumento della capacità di ricezione, lasciando tutto sostanzialmente così come si trova, nasconde la volontà di lucrare anche sul carcere con la costruzione di nuove strutture, l’ampliamento delle esistenti e, soprattutto, con la loro gestione attraverso la privatizzazione. Una mostruosa ipotesi la cui giustificazione è quella della supposta convenienza economica per la comunità. I futuri gestori privati faranno risparmiare soldi allo stato, si dice. Ma sicuramente lo faranno decurtando le spese (vitto, assistenza sanitaria ,attrezzature, attività di recupero, personale) sulla conduzione degli istituti, ne aggraveranno le già problematiche condizioni e restituiranno alla comunità individui peggiori. Lo Stato deve assumersi la responsabilità di gestione di un settore tanto delicato e, nel caso, raccogliere intorno alla conduzione degli istituti penitenziari tutte quelle forze che già vi operano nel volontariato. Esistono poi associazioni che potrebbero gestirle in pari e al cui interno operano persone non assetate di guadagni ad ogni costo, sicuramente in grado di meglio adempiere alla funzione di recupero. La diffusione delle droghe La questione di questa enorme diffusione è di importanza notevole e andrà esaminata in tutte le sue implicazioni, cercando di individuarne le ragioni. Partiamo dal renderci conto che già dire in maniera generica “la droga”, accomunando una serie di sostanze con effetti molto diversi, è un approccio controproducente. Per capire e, soprattutto per poterci far prendere in considerazione da chi, specie tra le nuove generazioni, viene inevitabilmente in contatto con esse, occorre essere in grado di differenziare e non avere un atteggiamento di chiusura netto. Ad esempio, attualmente la sostanza più in uso in Europa e negli USA, dove è ormai un’emergenza, è la cocaina. Il suo consumo è in crescita continua. È la droga da prestazione ed è innegabile che l’aumento esponenziale del suo consumo è andato di pari passo con l’accettazione generalizzata di una certa visione di vita iperattiva considerata come positiva. In questo senso va anche interpretato il recente aumento della diffusione delle metanfetamine. Cercando di partire dalla base del problema consideriamo che il desiderio di evadere dalla condizione quotidiana è senz’altro caratteristico dell’essere umano che da sempre, per svago o per sottolineare particolari eventi, è ricorso all’uso saltuario di sostanze che alterino le sue percezioni. Oggi accanto al persistere di questo tipo di comportamento esiste la tendenza in alcuni e per alcuni tipi di sostanze ad incentrare la propria vita sul loro uso abituale fino alla dipendenza fisica o mentale. Alla base di quest’ultimo atteggiamento c’è un disagio sociale sempre più diffuso. La scelta tra due sostanze largamente presenti sul mercato e di facile reperibilità come la cocaina e i derivati della cannabis, sottintende, senza trascurare l’incidenza della casualità, due disposizioni molto diverse con la scelta di affluenza e conformità attraverso una droga come la cocaina o di rottura, di distacco dal modello dominante, con una sostanza come la marijuana. Ci troviamo quindi di fronte a due situazioni molto differenti. C’è, inoltre, un mercato in espansione, tra le giovani generazioni, che è quello delle droghe sintetiche come l’ecstasy. Il primo passo è di far conoscere le varie sostanze esistenti, le loro differenti caratteristiche e le loro pericolosità senza atteggiamenti di chiusura a priori. Se si approfitta della giusta battaglia contro le dipendenze per far passare un modello di persona affluente nella mentalità corrente, si è destinati alla sconfitta sicura. Non si può ignorare che un uso consapevole e non eccessivo di alcune sostanze come l’alcool o la marijuana non sia inevitabilmente pericoloso. E, comunque, pensare che si possa arrivare a eliminarle completamente è decisamente velleitario. Giustizia: Giuristi Democratici; “prescrizione breve” e diseguaglianze nel processo penale www.giuristidemocratici.it, 11 maggio 2011 La prescrizione breve (o processo breve) non si limita a cancellare i processi di Berlusconi, ma aggiunge per tutti i cittadini disfunzioni e diseguaglianze nel processo penale. I Giuristi Democratici esprimono il proprio dissenso contro l’ennesima legge ad personam in via di approvazione al Senato. Il tredici aprile scorso la Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge intitolato “Disposizioni in materia di spese di giustizia, danno erariale, prescrizione e durata del processo” (Atto Camera n. 3137-A, trasmesso al Senato ai fini dell’approvazione definitiva). In realtà, il testo approvato non contiene alcuna disposizione significativa volta ad incidere sull’effettiva durata del processo penale, mentre l’unica disciplina, dirompente sul sistema giustizia italiano, è prevista in materia di prescrizione del reato. Il testo propone infatti di abbassare da un quarto a un sesto l’aumento massimo della prescrizione dovuto agli atti interruttivi a beneficio dei soggetti mai condannati, modificando l’art. 161 del codice di procedura penale. Il meccanismo sopra descritto incide sul testo introdotto dalla legge c.d. ex Cirielli (L. n. 251/2005, un prodotto normativo talmente scadente da essere rinnegato anche dal suo stesso primo proponente) che distingue i casi dei non condannati, dei recidivi aggravati e reiterati, e dei delinquenti abituali e professionali, stabilendo un aumento del tempo necessario a prescrivere diversamente modulato fra quelle categorie. Il disegno di legge sulla c.d. prescrizione breve ha l’obiettivo, neppure celato, di evitare anche la pronuncia di una sentenza di condanna in primo grado per gli “incensurati”, impedendo così - ad personam - il marchio di una condanna, pur non definitiva, che suonerebbe però conferma, ancorché provvisoria, di un’accusa sgradevole. Va, tuttavia, segnalato che l’ancoraggio della prescrizione “alla qualità personale dell’imputato e non più all’oggettività del reato” è stata fortemente criticata dagli studiosi di diritto penale, che hanno denunciato l’illegittimità costituzionale di una disciplina che mescola irrazionalmente gli atti interruttivi della prescrizione, espressione del persistente interesse punitivo dello Stato, con la qualità personale dell’agente, incensurato o recidivo. Difatti, far dipendere i differenti termini massimi di prescrizione non dalla gravità oggettiva del fatto, bensì dallo status soggettivo dell’imputato, determina, nei fatti, un odioso ritorno al “diritto penale d’autore”. L’eventuale approvazione di quest’ennesima legge ad personam sarebbe perciò un ulteriore sfregio ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza di fronte alla legge, che, come in passato, oltre settanta docenti di diritto penale, senza distinzioni politiche, hanno di recente denunciato con forza. D’altronde, tutti sanno che la prescrizione abbreviata risponde all’interesse precipuo del premier nel processo Mills. Si può dire, anzi, che i suoi dettagli sono stati studiati per favorire il Presidente: l’abbreviazione vale per gli incensurati, e Berlusconi è incensurato, l’accorciamento non è elevato, ma quanto basta per evitargli una condanna, le nuove regole si applicano quando non è stata pronunciata sentenza di primo grado. E in nessuno dei suoi processi tale sentenza è stata, appunto, pronunciata. Ma ciò che maggiormente preoccupa relativamente alla effettiva tutela dei diritti dei cittadini, a partire dalle persone offese dal reato, è l’effetto dannoso d’estinguere un numero elevato di reati. La prescrizione, come già detto, era già stata accorciata nel 2005, senza che fossero state, già allora, previste le riforme indispensabili per consentire un’accelerazione dei processi. Ciò ha causato una situazione pesante, con oltre 150 mila reati estinti all’anno. Se si tiene conto della durata media di un processo di merito, si può ragionevolmente concludere che quasi tutti i processi per reati puniti con la pena della reclusione compresa nel massimo tra i cinque e i sei anni e la grande maggioranza di quelli per reati puniti con la pena della reclusione massima di otto anni sono destinati a sicura prescrizione. Non solo, ma una ricognizione effettuata recentemente dalla Corte di Cassazione ha permesso di accertare che si situa attorno ai nove anni il tempo medio di durata dei processi per reati puniti con pena compresa fra cinque e otto anni che giungono al vaglio della stessa Corte: per la massima parte dei processi, dunque, il termine prescrizionale maturerebbe prima della sentenza definitiva, ma dopo la decisione di appello, e cioè in un contesto che comporta per il sistema giustizia il massimo spreco di energie. È evidente, dunque, che l’applicazione del nuovo regime ai processi in corso comporterà la vanificazione di gran parte del lavoro svolto dall’intero sistema giudiziario nel corso di alcuni anni. È dunque agevole pronosticare che l’impatto della modifica normativa da ultimo proposta sui processi in corso sarà rilevante, atteggiandosi quale una sostanziale amnistia, come di recente affermato in un parere reso dal Csm. Infatti, se si considera che la maggior parte dei processi che si concludono con una decisione di merito riesce, già oggi, ad evitare per un soffio la mannaia, è facile immaginare che la nuova legge determinerà, in ogni caso, un ulteriore, doloroso e non certo auspicabile, incremento del fenomeno. Le conseguenze appaiono d’altronde ancora più gravi, se si considerano i reati che saranno i più toccati, perché commessi da incensurati: un incremento rilevante di reati prescritti si verificherà fra i reati dei colletti bianchi. Si pensi ai processi per truffa, per aggiotaggio, per bancarotta, per incidenti sul lavoro, molti dei quali già oggi riescono a sfuggire per poco, quando vi riescono, all’estinzione. Ad esempio, il primo processo Parmalat per aggiotaggio (che si prescriverà a giugno) si è concluso con sentenza definitiva ai primi di maggio; ed il secondo, contro le banche, a giungere a sua volta alla sentenza di primo grado entro aprile, salvando così quantomeno i risarcimenti. Si tratta di processi che, dopo l’ulteriore riforma, sarebbero stati sicuramente prescritti. Ma vi è di più. In taluni casi la normativa contraddice linee di politica criminale assolutamente prioritarie. Si consideri la corruzione. Le statistiche parlano di un suo incremento del 30%. Giuristi ed economisti chiedono, da anni, un’apposita legge anticorruzione (fra l’altro imposta dalla normativa europea). Ebbene, poiché i pubblici ufficiali corrotti sono, di regola, incensurati, con la nuova legge l’Italia, incrementando i reati prescritti, favorirà, anziché contrastare, la corruttela. Una vergogna, tanto più che il Parlamento, nel frattempo, si guarda bene dall’approvare il disegno di legge anticorruzione. Il Ministro Alfano ha sostenuto che l’aumento delle prescrizioni sarà minimo (0,2%). Il dato è contestabile (il Csm ha parlato del 10% in più); ma anche se fosse corretto, dato l’alto numero di prescrizioni già presenti, sarebbe comunque un male. Il ministro si è, d’altronde, ben guardato dallo spiegare “quali” saranno i reati più colpiti. Se lo avesse fatto, la gente avrebbe tanto più motivo d’indignarsi. La materia della giustizia è oggi ostaggio di questo momento politico e dell’attacco quotidiano del premier ai magistrati, recentemente definiti - nuovamente - eversivi. Lo stillicidio quasi quotidiano di contumelie contro la magistratura appare non più tollerabile. Minare l’autorevolezza e lo stesso principio di autonomia del potere giudiziario, la terza gamba indispensabile per reggere un tavolo che su due soltanto, governo e parlamento, non si reggerebbe, significa danneggiare tutti, anche se in un caso particolare potrebbe salvare qualcuno. L’Associazione Giuristi democratici è convinta, come di recente affermato da Nicola Gratteri, che ha così intitolato un recente volume, che la giustizia sia una cosa seria. In questo quadro, appare imprescindibile occuparsi della funzionalità del sistema giustizia nella prospettiva della tutela dei diritti dei cittadini e non già procedere ad una irragionevole - e non avvertita come necessaria - riduzione dei termini di prescrizione dei reati. Per questo i Giuristi Democratici lanciano un appello per l’apertura di un dialogo, peraltro già presente in molti Distretti italiani, tra Magistrati, Avvocati e personale dei Palazzi di Giustizia per trovare insieme soluzioni che consentano di porre un argine alla apparentemente inarrestabile crisi del sistema. Ridurre la lunghezza dei processi (ma non farli morire irrazionalmente), sanare le carenze di organico nei tribunali e nelle procure, rivedere le circoscrizioni giudiziarie, ridurre il numero dei tribunali, utilizzare la posta elettronica per effettuare le notifiche, depenalizzare i reati minori, affrontare l’emergenza carceri sarebbero questioni che meriterebbero l’attenzione e la discussione in sede parlamentare. Per queste considerazioni i Giuristi democratici ritengono imprescindibile contrapporsi all’approvazione del disegno di legge in materia di “prescrizione breve”. Giustizia: Osapp; diminuiscono i detenuti, ma mai così pochi poliziotti penitenziari Il Velino, 11 maggio 2011 “66.993 detenuti registrati ieri 10 maggio 2011 rappresentano il dato di presenze più basso nelle carceri italiane da circa un anno, tenuto conto che i detenuti erano 66.945 il 3 maggio 2010, ma ciò non appare rassicurante, vista la diminuzione, di molto maggiore e sempre nell’ultimo anno del personale di polizia penitenziaria in servizio”. È quanto si legge da una missiva odierna indirizzata al Ministro della Giustizia Angelino Alfano da Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria). Secondo l’Osapp, infatti: “il minore numero di detenuti presenti e la notevole diminuzione negli ultimi 15 giorni (-600) sono l’effetto combinato, ma sicuramente non duraturo, della Legge 199/2010 c.d. svuota carceri sulla detenzione domiciliare, per coloro che devono scontare un residuo di pena di 12 mesi e della sentenza della Corte europea di giustizia sulla decadenza del reato di clandestinità”. “Ma nessuno sembra tenere conto - prosegue il leader sindacale - che nell’ultimo anno , il 2010, di poliziotti penitenziari in meno ce ne sono stati oltre 1.500 con solo 56 assunzioni e nel corrente 2011 andranno via ulteriori 2.500 e solo 760 saranno gli agenti immessi in servizio, mentre per il 2012, con solo 1.250 assunzioni previste per turn-over ci saranno ulteriori 3.000 poliziotti penitenziari in meno”. “Quindi, nelle carceri italiane oggi ci sono meno poliziotti penitenziari dei primi anni 90 quando i detenuti non superavano le 40.000 presenze e assai meno poliziotti penitenziari di quando, nel 2006 a seguito dell’indulto, la popolazione detenuta è diminuita di 27.000 presenze”. “Visto che la legge 199 del 2010 ha solo consentito di far uscire dal carcere qualche detenuto e non anche, per una maggiore sicurezza interna del traballante sistema penitenziario, come previsto in via del tutto straordinaria e come più volte promesso dal Ministro Alfano, per assumere nella polizia penitenziaria ulteriori 1.600 unità aggiuntive - conclude Beneduci - è urgente che il Guardasigilli faccia chiarezza sulle proprie reali intenzioni riguardo alla polizia penitenziaria e su quale ruolo e dignità futuri vuole dare ai 39.000 donne e uomini in uniforme nelle carceri italiane. Giustizia: il Sappe boicotta la festa nazionale della Polizia penitenziaria Agi, 11 maggio 2011 Monta la protesta nella Polizia Penitenziaria a pochi giorni dalla celebrazione, venerdì 13 maggio 2011 a Roma, del 194° Annuale del Corpo. Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria, ha deciso infatti di non partecipare alle celebrazioni per protestare contro i disagi e le criticità con cui quotidianamente hanno a che fare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Nel corso dell’Annuale, i sindacalisti del Sappe distribuiranno agli ospiti ed alle Autorità che interverranno alla festa un volantino nel quale indicheranno le ragioni della protesta, che nelle prossime settimane si estenderà in tutte le città d’Italia in cui verranno svolte le delle Feste regionali, provinciali e locali del Corpo!” Spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Il nostro primo pensiero è per il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che è sempre molto attento alle criticità penitenziarie: non è ovviamente contro di lui che manifesteremo ma contro quella vecchia nomenclatura e quella dirigenza dell’Amministrazione penitenziaria - sopravvissuta persino al crollo del Muro di Berlino - che da vent’anni ostacola ogni evoluzione ed accrescimento professionale della Polizia penitenziaria, condizionando via via l’operato di tutti i Capi Dipartimento che fino ad oggi si sono avvicendati alla guida del Dap, e che non fa alcuna iniziativa concreta in materia di aggiornamento e formazione professionale per i poliziotti. Parliamo dei burocrati che si preoccupano solo della propria poltrona, sempre gli stessi, che hanno boicottato e boicottano subdolamente e costantemente una non più rinviabile, adeguata e funzionale organizzazione del Corpo di Polizia penitenziaria e l’istituzione della Direzione generale del Corpo, in seno al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, indispensabile e necessaria per raggruppare tutte le attività ed i servizi demandati alla quarta Forza di Polizia del Paese. Contesteremo quelli che hanno pensato di sistemare impiegati civili anziché poliziotti penitenziari nei ruoli Tecnici del Corpo e nel piano nazionale interforze antimafia, mortificando le competenze, la professionalità e le specificità proprie dei Baschi Azzurri. Quelli che ancora l’altro giorno ad Alessandria hanno disertato le cerimonie commemorative in ricordo dei nostri Caduti. Contesteremo con forza la vecchia nomenclatura del Dap che nonostante gli oltre 600 dirigenti penitenziari in organico continua a lasciare molte delle 200 superaffollate strutture penitenziarie del Paese, diversi provveditorati regionali italiani e persino direzioni generali del Dipartimento senza un direttore titolare. Tutto questo a discapito della Polizia Penitenziaria, che gestisce ogni giorno le emergenze, le tensioni ed i pericoli del carcere in prima linea mentre i burocrati e i notabili della vecchia nomenclatura del Dap se ne stanno a casa o nella tranquillità del loro ufficio. Questa indifferenza verso la Polizia Penitenziaria, che si ritrova pure con straordinari e servizi di missione fuori sede non pagati, non la tolleriamo più e per questo venerdì, in occasione della Festa (?) della Polizia Penitenziaria manifesteremo consegnando un volantino esplicativo della nostra protesta, che si estenderà in tutte le città d’Italia in cui verranno svolte le Feste regionali, provinciali e locali del Corpo”. Giustizia: “Pena troppo severa, che ci faccio qui?”; lo sguardo nel vuoto del detenuto Tanzi di Paolo Berizzi La Repubblica, 11 maggio 2011 L’ex patron di Parmalat in cella: i politici mi hanno abbandonato. Ha ricevuto la visita del deputato radicale Maurizio Turco. “Sono in attesa, spero che la richiesta di scarcerazione venga accolta”. Una panchina di ferro posta fuori dall’ingresso dell’infermeria. Il rumore metallico di una porta che si schiude e l’agente di custodia che fa strada. “Di qua di qua, prego”. Calisto Tanzi avanza lento, incerto. Chi dal fondo del corridoio lo mette a fuoco mentre si avvicina all’ambulatorio - tra pochi minuti i medici verificheranno per la quinta volta in cinque giorni il funzionamento del battito cardiaco - non è tanto colpito dai movimenti imbolsiti, dal passo titubante, dalle braccia rigide che aderiscono ai fianchi. Nemmeno dal naso aquilino che sembra staccarsi dalla faccia smunta e sgarrupata anche per via dei capelli grigi che da una parte gli cadono sugli occhi. No, è lo sguardo che fa impressione. Vuoto, perso, liquido. Per essere un ex Cavaliere del lavoro (declassato per indegnità), un ex tycoon lievitato con il suo latte e la sua provincia grassa fino a salire sulla vetta del mondo e ritorno - con fragorosa caduta - Tanzi sembra l’ombra di se stesso e del potente che fu. “Non sto bene, sono malato davvero...”, dice adesso, a 73 anni e di nuovo dietro le sbarre (deve scontare quattro anni e quattro mesi di reclusione per aggiotaggio, altri 18 glieli hanno appioppati in primo grado per bancarotta fraudolenta e associazione a delinquere). Come se la fama che lo ha precipitato nel suo destino di anziano detenuto, quella insieme a tutto il secondo tempo del film della sua vita, i debiti, il crac, i bond tarocchi, i 32 mila risparmiatori truffati, le condanne, lo sputtanamento planetario, come se tutto adesso necessitasse di una scusa non richiesta. Una autocertificazione oltre a quella, inequivocabile, dei medici. Si stringe nelle spalle. “Sono in attesa, spero che la richiesta di scarcerazione dei miei avvocati venga accolta” (il tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia a breve dovrebbe concedere gli arresti domiciliari, ndr). Trenta minuti dopo mezzogiorno di ieri. L’ex re del latte, rinchiuso nel carcere parmigiano della Burla da venerdì mattina, riceve la visita del deputato radicale Maurizio Turco. È la prima e finora unica persona - a parte i legali Fabio Belloni e Giampiero Biancolella e i familiari - che è andata a trovare Tanzi. “Sediamoci lì”, indica Calisto, sulla panchina. Barba rasata, pullover celeste a zip, pantaloni e ciabatte. “No, non è venuto nessuno. I politici? Macché... quelli... L’unico che è venuto in carcere da me è stato Cossiga, poveretto, me lo ricordo bene”. Già, era il 2004, prima detenzione dopo il crac. Stesso carcere della Burla. “Non si rinnegano i vecchi amici” disse il “picconatore”, e del resto, aggiunse caustico riferendosi ad altri uomini della ex Democrazia cristiana che si erano tenuti alla larga, in primis Ciriaco De Mita, “se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare”. Sostenne Cossiga quando venne qui che visitare i carcerati è una delle sette opere di misericordia corporali che un buon cattolico deve osservare. E dunque? Se Calisto Tanzi - i due si erano conosciuti quando il lattaio di Collecchio frequentava i giovani della Dc - si sente oggi “solo e abbandonato”, se nessuno dei politici della prima e della seconda Repubblica ai quali l’ex patron della Parmalat offriva passaggi in aereo e molti altri capricci si è più fatto vivo, almeno pubblicamente, l’elenco dei non-misericordiosi dev’essere lungo assai. Tanzi è affaticato, il suo eloquio zoppicante. “Non pensavo più di dover tornare in carcere, proprio non me lo aspettavo. Che ci faccio qua, alla mia età...? E poi credo che la pena sia stata troppo severa”. Lo disse anche l’anno scorso quando arrivò la condanna a 10 anni per aggiotaggio, poi ridotta a 8 dalla Cassazione (ma Tanzi diventa comunque il primo condannato per questo reato finanziario a dover affrontare una pena così alta, ndr). Maurizio Turco riferisce di essersi trovato di fronte un uomo “provato, rassegnato, confuso”. Confuso? “Sì, balbettava. È davvero malconcio. Credo che i problemi di cuore (gli è stato impiantato un by pass in seguito a un’ischemia, ndr) uniti alla botta della detenzione in età avanzata lo abbiano steso”. Durante il breve colloquio con il parlamentare, Tanzi ha dato anche qualche segnale di mancamento. “E poi era come impietrito” - racconta Turco, impegnato da molti anni sulle problematiche che riguardano i carcerati e le condizioni degli istituti di pena. Impossibile strappargli una parola sul processo, sul crac da 17 miliardi, sul risarcimento agli investitori truffati. “Quando gliel’ho chiesto è rimasto in silenzio. Mi ha dato la sensazione di una specie di oblio, ma dettato dalla piena consapevolezza di quanto è accaduto e relative responsabilità”. Alla sua quinta notte di detenzione, l’ex re di Collecchio dorme in una cella singola all’interno del Centro clinico (reparto 3 B). È un settore del carcere riservato ai “minorati fisici”, e cioè quei detenuti bisognosi di un monitoraggio costante nell’arco delle 24 ore. Come trascorre le ore in cella l’uomo che molti, anche alcuni ospiti del carcere, definiscono il “Madoff italiano” (Calisto in privato ha sempre respinto l’accostamento con l’imprenditore americano protagonista di una delle più grandi frodi finanziarie di tutti i tempi)? L’unica lettura alla quale si dedica Tanzi è il Vangelo. Poi un po’ di televisione. Ieri ha partecipato alla messa: la prima celebrata nel suo reparto da quando è arrivato. I vicini di cella di Calisto? I boss Bernardo Provenzano, Francesco Bidognetti e Filippo Graviano. È l’ultima parabola del protagonista di un film intitolato “Il Gioiellino”. Lazio: Radicali; sanità penitenziaria, la Regione “dimentica” i soldi per i detenuti negli Opg Ansa, 11 maggio 2011 Nel Lazio 41 pazienti ricoverati in Ospedali Psichiatrici Giudiziari potrebbero essere dimessi e presi in cura presso i dipartimenti di salute mentale, ma ciò non è possibile perché la Regione si è “dimenticata” di accedere all’apposito fondo nazionale istituito dalla Finanziaria 2008. Per avere chiarimenti su questa grave inadempienza i Consiglieri della Lista Bonino Pannella Federalisti Europei alla Regione Lazio Rocco Berardo e Giuseppe Rossodivita hanno presentato oggi un’interrogazione urgente alla Presidente Polverini e all’Assessore alle Politiche Sociali e Famiglia Forte. La presa in carico dei soggetti con disturbi mentali, compresi i dimessi e dimissibili degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, costituisce competenza dei dipartimenti di salute mentale del territorio di residenza (o ultimo domicilio, in caso di soggetti senza fissa dimora). La Legge Finanziaria 2008 ha previsto che una delle aree su cui ripartire il fondo per il cofinanziamento di progetti attuativi del Piano sanitario nazionale, da destinare alle Regioni, fosse la promozione di attività di integrazione tra dipartimenti di salute mentale e gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, con uno stanziamento pari a 5 milioni di euro. “Con questa interrogazione vogliamo sapere se la Polverini e l’Assessore Forte erano a conoscenza della linea di finanziamento e come si intenda supplire al grave ritardo nella presentazione dei progetti” dichiarano i Consiglieri Berardo e Rossodivita “Se alla disastrata situazione finanziaria della sanità laziale si aggiunge la drammatica situazione delle carceri nel Lazio - in cui sono reclusi oltre 2.200 detenuti in più dei posti disponibili come documentato dalla recente relazione del Garante Marroni” sottolineano i Consiglieri Radicali “appare assolutamente paradossale che vi siano appositi fondi disponibili per alleviare le condizioni dei detenuti psichiatrici e che la Regione non ne faccia alcuna richiesta”. “Basti pensare che la Lombardia ha fatto richiesta di oltre un milione di euro per la dimissione di 85 pazienti” precisano Berardo e Rossodivita “per avere l’ennesima riprova dell’incapacità e dell’inerzia dell’amministrazione Polverini prontissima a muoversi in modo partitocratico quando c’è da distribuire poltrone e prebende e assente sui problemi che riguardano i più deboli ed emarginati”. Toscana: Camera penale Firenze; da un anno e mezzo doveva esserci Garante regionale detenuti di Franca Selvatici La Repubblica, 11 maggio 2011 Il 19 novembre 2009 il Consiglio regionale toscano ha approvato la legge istitutiva del Garante regionale per i detenuti. A distanza di un anno e mezzo il Consiglio non lo ha ancora nominato. Perciò ieri il direttivo della Camera penale fiorentina ha depositato un esposto nel quale si chiede alla procura di verificare urgentemente se questo incomprensibile ritardo non integri gli estremi del reato di omissione o rifiuto di atti di ufficio. Gli avvocati penalisti ricordano in particolare che la figura del Garante è essenziale per assicurare ai detenuti le prestazioni inerenti al diritto alla salute. Il 14 dicembre scorso il presidente della Camera penale fiorentina, professor Giovanni Flora, e l’avvocato Michele Passione, membro del direttivo e dell’Osservatorio nazionale sulle carceri delle Camere penali, hanno scritto al Consiglio regionale segnalando la condizione gravissima in cui versano i detenuti nelle carceri toscane e sollecitando la nomina del Garante. Non avendo ricevuto risposta, si sono messi in contatto telefonico con il presidente del Consiglio regionale Alberto Monaci, attraverso il capo di gabinetto dottor Burresi, e lo hanno incontrato due volte, ricevendo l’assicurazione che il Garante sarebbe stato nominato entro il primo aprile. Ciò non è avvenuto. Nel frattempo la situazione nelle carceri è sempre più allarmante. Il Garante dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone, ha recentemente denunciato che nel solo carcere di Sollicciano nel 2010 sono stati registrati oltre 900 casi di autolesionismo e 200 tentativi di suicidio. A Sollicciano la popolazione carceraria è di quasi 1000 detenuti contro una capienza di 500. Como: Sappe; al carcere del Bassone “situazione estrema” Agi, 11 maggio 2011 Quella che si sta vivendo al carcere del Bassone di Como “è una situazione estrema, ad alta tensione”. Torna oggi sulle condizioni di vivibilità e sovraffollamento della struttura carceraria comasca il Segretario provinciale del Sappe, il sindacato degli agenti di Polizia Penitenziaria Donato Capece, che già ieri ha denunciato l’ennesimo episodio di violenza, una rissa tra numerosi detenuti conclusasi con due finiti in ospedale in condizioni definite “serie” e trattenuti in osservazione. Il tumultuoso episodio durante l’ora d’aria nel cortile ‘passeggiò dove si trovavano una settantina di detenuti. “Nonostante gli agenti fossero in forza numerica nettamente inferiore sono riusciti comunque a evitare il peggio, ma non si può andare avanti di questo passo”, dice. Il Sappe esprime “preoccupazione e allarme” sottolineando come “siamo ormai da troppo tempo ben oltre ogni limite di tolleranza. Lo dimostra chiaramente l’inquietante regolarità con cui avvengono episodi di tensione ed eventi critici nel penitenziario di Como, istituto nel quale manca una vera organizzazione dei servizi che tenga nel debito conto i livelli minimi e massimi di sicurezza”. La casa circondariale che ospita oltre 600 detenuti a fronte dei 460 posti e “fanno da contraltare le carenze di unità di Polizia penitenziaria che dovrebbero essere 308 ed invece ve ne sono in forza 233”. È significativo, secondo Capece, ricordare che nel 2010 “abbiamo avuto il suicidio di un detenuto, altri 21 tentativi sventati in tempo e 32 episodi di autolesionismo”. Sempre l’anno scorso “c’è stato anche il decesso di un detenuto per cause naturali, 32 soggetti ristretti hanno posto in essere ferimenti, 11 hanno rifiutato il vitto e le terapie mediche somministrate dall’Amministrazione penitenziaria, ben 47 scioperi della fame”. Roma: domani alla Camera conferenza su retroattività risarcimenti per l’ingiusta detenzione Il Velino, 11 maggio 2011 Domani alle 16 a Roma, nella Sala delle Colonne della Camera, si terrà un’assemblea e una conferenza stampa dei firmatari dell’appello per l’introduzione della retroattività nella legge sulla riparazione per ingiusta detenzione. Interverranno Rita Bernardini, deputata radicale - Pd e componente Commissione giustizia, Giovanni Russo Spena, dipartimento giustizia Prc, Andrea Orlando, responsabile giustizia Pd, Luigi De Magistris, responsabile giustizia Idv, Patrizio Gonnella, presidente Associazione Antigone, Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto, Elettra Deiana, responsabile giustizia Sel, Sandro Favi, responsabile nazionale carceri Pd, Carlo Leoni, responsabile giustizia Sel, Elisabetta Laganà, Conferenza nazionale Volontariato Giustizia Ristretti Orizzonti, Marcello Pesarini, Osservatorio permanente sulle carceri e Giulio Petrilli, responsabile giustizia Pd L’Aquila. “La norma relativa alla riparazione per ingiusta detenzione - segnala una nota dei Radicali - è stata introdotta in Italia nell’ottobre del 1989 con il nuovo codice di procedura penale, ma è applicabile solo per i procedimenti in corso all’entrata in vigore del codice e non per quelli già conclusi. Ciò significa che numerose vittime dell’errore giudiziario, contemplato dall’art. 314 del codice di procedura penale, sono rimaste prive della giusta riparazione, in aperta violazione degli articoli 2 e 24 della Costituzione, nonché delle norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Per sanare questa inaccettabile discriminazione, sono state presentate due proposte di legge alla Camera, a prima firma Rita Bernardini (Radicali-Pd) e Pier Luigi Mantini (Udc), e una al Senato a firma dei Radicali Donatella Poretti e Marco Perduca, che introducono la retroattività nella riparazione per ingiusta detenzione. Nessuno dei testi è stato però calendarizzato. Parlamentari ed esperti di giustizia discuteranno e illustreranno i motivi per i quali è necessario intervenire legislativamente per rendere retroattiva una legge che al momento non vale per tutti”. Camerino (Mc): il sottosegretario Caliendo; appalto del nuovo carcere entro l’anno Corriere Adriatico, 11 maggio 2011 Nuovo carcere e tribunale sotto i riflettori, ieri mattina, per la visita in città del sottosegretario alla giustizia senatore Giacomo Caliendo che ha incontrato nella sala dell’Hotel I Duchi le istituzioni giudiziarie della città ducale. Per un breve saluto è intervenuto anche l’arcivescovo Francesco Giovanni Brugnaro. In prima fila il presidente del Tribunale Sergio Fusaro, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Camerino Corrado Zucconi Galli Fonseca, la direttrice del carcere di Camerino Lucia Di Feliciantonio, il comandante della polizia penitenziaria Nicola Quadraroli, che si sono intrattenuti a presentare la situazione giustizia, per le rispettive competenze. Presenti anche il rettore Fulvio Esposito e gli assessori comunali Roberto Lucarelli e Gianluca Faustini, oltre ad alcuni consiglieri comunali. Il sottosegretario è stato introdotto dal vicesindaco Gianluca Pasqui, che ha detto di aver voluto organizzare un momento interlocutorio importante tra tutti gli operatori giudiziari e l’on. Caliendo, accompagnato dal senatore Salvatore Piscitelli e dall’ex presidente della provincia Franco Capponi. Per il nuovo carcere il Comune di Camerino si è dato molto da fare, noi ci siamo impegnati un anno fa per risolvere questo annoso problema - ha esordito Caliendo - è stata firmata la prima intesa in Italia, nell’ambito del piano carceri che dà avvio alla fase operativa, per individuare l’area, è ormai partita l’attuazione dei risvolti giuridici per realizzare la gara d’appalto ed il relativo bando, che sarà attuato entro la fine dell’anno. Tutto è avvenuto con tempi ridotti, rispetto a quelli normali di gestione. Dopo aver affrontato il problema del carcere - ha proseguito - mi è stata fatta presente la necessità di rafforzare il reparto femminile della polizia penitenziaria per garantire l’attività trattamentale delle detenute. Caliendo si è poi soffermato sulla situazione del giudice di pace, il cui ufficio camerte è fermo dallo scorso 6 aprile, per la mancata nomina di un magistrato. Dopo aver spiegato che a livello nazionale si sta affrontando il tema della riforma della magistratura onoraria, il sottosegretario ha spiegato che nel caso di Camerino il Consiglio superiore della magistratura non ha provveduto a nuove nomine in attesa della riforma, in questo caso il presidente della Corte d’appello potrebbe provvedere con l’applicazione di altri magistrati al di fuori del circondario, si potrebbe intervenire su una norma che autorizzi in via preventiva, la situazione antecedente alla riforma. Torneremo a sollecitare una soluzione nel più breve tempo possibile. È intervenuto anche il senatore Domenico Benedetti Valentini, componente della commissione Giustizia: Una moderna e civile istituzione penitenziaria è una risorsa per il territorio, come avviene con il carcere di Spoleto, per il centro dell’Umbria. I piccoli tribunali vanno valorizzati e non soppressi, ampliandone le circoscrizioni, attuando un riequilibrio territoriale. Camerino, attraverso il sindaco Grifantini ha fondato il coordinamento dei tribunali minori, dove deve tornare a giocare il ruolo da protagonista che gli compete. Porto Azzurro (Li). tenta il suicidio in carcere, salvato da due agenti Ansa, 11 maggio 2011 Ha tentato di togliersi la vita, impiccandosi in una cella nel carcere di Porto Azzurro, all’Isola d’Elba. Solo l’intervento tempestivo di due agenti della penitenziaria ha salvato un detenuto straniero di 30 anni. Gli agenti sono entrati nella cella e hanno tagliato la fune che gli aveva stretto il collo per diversi secondi. Secondo quanto si apprende il detenuto, ricoverato nell’ospedale di Portoferraio, non sarebbe in pericolo di vita. L’episodio è accaduto stamani. A renderlo noto è il sindacato Sappe che, più volte, ha denunciato le precarie condizioni detentive nel carcere elbano. “Solo la tempestività degli agenti ha evitato una tragedia - spiega Aldo Di Giacomo del ‘Sappè - purtroppo siamo di fronte a un nuovo fatto che evidenzia un malessere, a condizioni di vita detentiva preoccupanti”. “È opportuno - aggiunge Di Giacomo - porre in essere quanto prima modifiche serie al sistema detentivo di porto Azzurro e del resto dei carceri nazionali”. Milano: il 13-14 maggio convegno “I costi della paura, i costi della sicurezza” Apcom, 11 maggio 2011 Uno sguardo agli avvenimenti contemporanei mostra una società in crisi dove sono venute meno ideologie forti e sistemi valoriali aggreganti e stanno emergendo, sulla crisi dello stato-nazione, forme di denazionalizzazione che destabilizzano le forme e i contenuti, che erano sino ad ieri familiari, delle società, delle economie e dei governi. È una situazione caotica dove le diversità aumentano e si fanno più complesse e dove, quindi, per orientarsi, diventa cruciale una sorta di mediazione tra vecchi e nuovi ordini sociali come anche tra le rispettive culture di riferimento che, a loro volta, rimandano alla questione delle scelte etiche. Ci si trova di fronte ad un mondo, con particolare riferimento alle società occidentali, nel quale è dominante una visione dualistica degli opposti e che, per ciò stesso, rende gli individui, i gruppi e le comunità unilaterali, parziali e inconsapevoli del lato negativo che viene vissuto come qualcosa di estraneo, da eliminare con ogni mezzo perché minaccia la sicurezza delle coscienze. Bisogna quindi sbarazzarsene attraverso la proiezione del negativo sugli estranei da noi, ancora meglio se questi estranei hanno una pelle di colore diverso o sono diversi per etnia, razza, religione, nazione, genere, handicap fisico o psichico, classe sociale o qualsiasi altra differenza in quanto comunque manifestazione di una scissione. La diversità ha in sé qualcosa che ci inquieta, che forse ci infastidisce e che spesso ci appare pericoloso così da portarci ad assumere atteggiamenti di intolleranza che ci spingono a discriminare chi non appartiene al nostro ambito familiare e che qualifichiamo come diverso da noi: migranti, neri, omosessuali, handicappati, mendicanti, zingari, pazienti psichiatrici, clandestini, senza fissa dimora, tossicodipendenti, omosessuali, donne abbandonate, minori soli, detenuti, disoccupati e così via. Tutte figure concrete di altri da noi che abbiamo interiorizzato come dei doppi malevoli in cui mettiamo la nostra parte distruttiva che, quando prende il sopravvento, scatena fantasmi non più controllabili che ci troviamo a perseguitare fuori di noi, nella vita quotidiana. La paura della diversità sembra manifestarsi con maggiore forza soprattutto nei contesti urbani contemporanei proprio là dove le politiche locali assumono sempre più la forma di politiche della sicurezza che, intendendo rispondere a quelli che sembrano essere i bisogni più impellenti della collettività, istillano in realtà nei cittadini disorientamenti e angosce che producono la sensazione di non essere più in grado di affrontare i conflitti quotidiani. Si instaura così un circolo vizioso tra paura e ricerca di sicurezza dove la soluzione risulta essere l’umiliazione degli altri, considerati estranei e non cittadini. Occorre allora mettere in atto valide strategie attraverso le quali riconoscere le diversità di modo che queste possano diventare valore aggiunto e non ostacolo alle dinamiche trasformative delle comunità e delle organizzazioni. Accettare la diversità è un percorso che spesso contrasta con il senso comune delle persone che sono portate a riconoscere i propri simili e non gli estranei, ma gestire la diversità sta anche diventando la sfida cruciale attraverso la quale organizzazioni, servizi e istituzioni potranno crescere e svilupparsi creativamente, se saranno in grado di non rinchiudersi nei propri confini. Il convegno intende affrontare la questione dei costi sociali della paura e della sicurezza, proprio a partire dai casi concreti che tutti i giorni servizi e istituzioni si trovano davanti, per riflettere insieme sulle possibili strategie di intervento, ma soprattutto per riuscire a declinare una nuova cittadinanza che si debba fondare su diritti effettivamente agiti e non solo formalmente dichiarati. Dai casi, che i gruppi di lavoro (casa e territorio; minori; persone migranti; salute mentale e contenzione; lavoro e fasce deboli; carcere e Cie; salute e servizi, ai quali si aggiunge il gruppo di lavoro riguardante linguaggi e comunicazione) esamineranno, si dovrà passare alla valutazione dell’efficacia di quei diritti di cittadinanza che sottostanno alle prassi considerate, di modo che la promozione di una cittadinanza attiva possa concretizzarsi in una società decente e civile, nella consapevolezza che le trasformazioni significative, se non adeguatamente accompagnate nel tempo e condivise, possono dare effetti indesiderati o addirittura controproducenti. Bologna: domani il reading-concerto “Dialoghi sul silenzio” coi ragazzi del Pratello La Repubblica, 11 maggio 2011 Sospesi i progetti teatrali al carcere della Dozza, in attesa che la direzione si pronunci sulle attività dopo la fuga di uno dei detenuti coinvolti nel programma, il regista Paolo Billi prosegue le sue attività all’ Istituto Penale Minorile del Pratello. E dà appuntamento domani con il reading concerto “Dialoghi sul silenzio”. Ultima fase di un progetto sulla scrittura, intrecciata ad altri linguaggi come il teatro e il video, che ha coinvolto sia gli adolescenti del Pratello sia alunni delle scuole superiori. Sul palco i ragazzi che hanno elaborato gli scritti, poi tradotti in forma scenica, con i testi a cura di Filippo Milani, le musiche di Carlo Maver e i video di Agnese Mattanò e Alessia Porto, e con la partecipazione straordinaria di don Giovanni Nicolini (foto sopra). Nel parterre, ad ascoltare, gli alunni dei licei Galvani, Fermi e dei corsi di formazione Enaip, parenti ed operatori. “Ai ragazzi ho chiesto di riflettere sul silenzio e le prime reazioni sono state negative - ha spiegato Billi. Ma alla fine hanno scoperto come il silenzio permetta l’ ascolto, l’ osservare, e diventa un’ assenza piena”. Per rafforzare l’esperienza i ragazzi hanno vissuto alcune “permanenze” particolari, come lo stare in silenzio nella chiesa di Santo Stefano, in un teatro o in uno stadio vuoti, sotto i portici di San Luca o alla Certosa. Sono stati girati poi due video, sul silenzio nelle sale d’ aspetto del polo per disabili Casa Roncati o al cambio di turno della polizia penitenziaria, all’ alba al Pratello. Immigrazione: petizione per chiudere centri-lager per immigrati di Campania, Basilicata e Sicilia L’Unità, 11 maggio 2011 Dall’inizio delle rivolte in Nord Africa e, in particolare, dall’inizio dell’arrivo di numerosi nordafricani nel nostro paese, una serie di acronimi compaiono sempre più spesso nelle cronache quotidiane. Si tratta di Cie (centro di identificazione ed espulsione), Cara (centro di accoglienza per richiedenti asilo), Cda (centro di accoglienza) e Cai (centro di accoglienza e identificazione). Sono luoghi a cui si ricorre per gestire quello che il Governo ha definito come “stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale”. Un’ordinanza, la numero 3.935 del 21 aprile, ha autorizzato la creazione di tre nuovi centri indicati con una sigla diversa da quelle prima citate: i Ciet (Centri di identificazione ed espulsione temporanei) ubicati a Santa Maria Capua Vetere in Campania, a Palazzo San Gervasio in Basilicata e a Kinisia in Sicilia. Lo scorso 2 maggio i senatori Annamaria Carloni (Pd) e Marco Perduca (Radicali), hanno visitato il centro campano. Le condizioni igienico-sanitarie dei 102 “ospiti” tunisini sono risultate molto gravi. Maurizio Braucci, Goffredo Fofi, Alessandro Leogrande e Roberto Saviano, in base al resoconto di quella visita, hanno deciso di promuovere una petizione rivolta al Ministero dell’Interno affinché la struttura venga chiusa. Secondo i promotori questa iniziativa è necessaria “al fine di riservare un trattamento democratico delle persone li senza motivo detenute e cessare l’umiliante situazione che, lungi dall’affrontare l’emergenza attuale, sta soltanto creando un assurdo meccanismo di uomini trasformati in bestie e in aguzzini”. Immigrazione: storia di Samir; la mia prigionia nelle tende blu del Cie di Ferruccio Sansa Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2011 Chiuso in un campetto circondato da una rete. Osservato giorno e notte dagli agenti. Costretto in una tenda con dieci persone. E alla fine, magari, rispedito in Tunisia. Per fare questa fine Samir ha dato tutti i risparmi agli scafisti e ha rischiato di morire su un relitto fino a Lampedusa. “Sarai ospitato in un centro di accoglienza”, gli hanno detto portandolo a Santa Maria Capua Vetere. E invece lo hanno rinchiuso in questo campo di calcio che con un decreto è stato trasformato in Cie (Centro di identificazione ed espulsione). Una specie di prigione. Difficile accertare come siano trattati gli “ospiti” del Cie di Santa Maria Capua Vetere. Entrare è impossibile. Devi salire all’ultimo piano di uno dei condomini che si affacciano sulla vecchia caserma che ospita il campo. Da lassù capisci: da una parte il carcere militare, dall’altra la caserma. Nel campo ecco una quarantina di tende blu. Intorno decine di poliziotti e carabinieri con le camionette. Gli immigrati sono costretti a passare le giornate dentro le tende. Lo chiamano Cie, ma ricorda un po’ le immagini del Sudamerica negli anni Settanta: “Il 26 aprile quei disperati si sono ribellati: hanno cercato di scavalcare il muro di cinta alto sei metri. C’erano ragazzi che cadevano, che si ferivano con i cocci di bottiglia in cima al muro. Urla, sangue. Decine sono scappati, gli altri sono rimasti al campo, racconta Luisa, una donna che dal suo appartamento si vede davanti la scena. Ma che cosa è successo davvero a Santa Maria Capua Vetere? Gli avvocati Cristian Valle e Antonio Coppola hanno raccolto i racconti di Samir e dei suoi compagni nei verbali della polizia: “Ci hanno portato qui il 18 aprile. Da quel giorno è come se fossimo in prigione. Addirittura il 21 aprile il governo ha trasformato il campo in un Cie, senza nemmeno che fossimo avvertiti. Dicono che abbiamo firmato un foglio che li autorizzava a trattenerci, ma non è vero”, raccontano gli immigrati nei verbali. Già, il primo punto e questo: “Le autorità dicono che i tunisini avrebbero autorizzato la polizia a trattenerli. Ma gli immigrati a noi raccontano di aver firmato per ottenere i vestiti. Alcuni giurano che le firme non sono le loro”, sostiene Mimma D’Amico del centro sociale Ex Canapificio di Caserta. Mimma è una ragazza con gli occhi azzurri che contrastano con questo ambiente duro. Con i suoi amici da anni segue gli immigrati, a cominciare dagli africani che a due passi da qui, a Casal di Principe, vivono - e vengono uccisi - come bestie. I ragazzi dell’Ex Canapificio, insieme con la Caritas, seguono i tunisini del campo: “Abbiamo presentato un esposto. Non si può trasformare l’assistenza in detenzione”. Ma in mezzo all’ondata di decine di migliaia di immigrati, i 102 ospiti di Santa Maria Capua etere sono stati dimenticati. E Abdul, il nome è di fantasia, a raccontare la loro storia: “Siamo 11 per ogni tenda, senza vestiti. Ci lasciano andare in bagno due volte al giorno... dobbiamo fare i nostri bisogni nelle bottiglie, E non possiamo nemmeno andare in infermeria... siamo trattati come animali. Di notte c’è freddo, ci hanno dato solo una coperta. Siamo costretti a dormire sempre perché non c’è la luce”. Abdul adesso potrebbe essere rispedito in Tunisia: “Sarebbe una tragedia. Ben Alì se n’è andato, ma ci sono i suoi amici. La gente come noi che ha partecipato alle manifestazioni rischia grosso”. Tutto vero? Questo raccontano Abdul e i suoi amici. Di sicuro i tunisini secondo la legge avrebbero il diritto di essere ascoltati uno per uno. Dovrebbero essere ospitati in condizioni dignitose, anche se negli ultimi giorni (da quando la Croce Rossa gestisce il campo) le tende sono meno affollate e i controlli più elastici. Il racconto di Abdul trova comunque conferme nelle parole di Marco Perduca, senatore radicale (gruppo Pd) che ha visitato il campo: “Questo centro è fuori della legge. Non può ospitare persone addirittura per sei mesi. Non si può stare così... nei giorni scorsi ha piovuto, ci sono materassi bagnati, gente che dorme praticamente per terra. E poi mancano controlli sanitari: se ci fossero persone con malattie infettive qui non si saprebbe. Per non dire dei feriti... ho visto persone ingessate, altre con tumefazioni che potrebbero essere provocate da scontri fisici”. Non basta: “Le persone che richiedono assistenza non dovrebbero stare nel Cie, invece noi abbiamo visto anche famiglie, perfino un minore... gente che vive ignorando che cosa li aspetta”. Dalla Prefettura di Caserta la raccontano diversamente: “Gli immigrati vivono in condizioni dignitose. Emergenze? C’è stata una fuga di massa. Qualcuno si è ferito scavalcando il muro”. Gli immigrati dicono che non vi hanno mai autorizzato a trattenerli... “Hanno firmato di loro spontanea volontà”. Gli agenti del campo, però, sussurrano: “Qui è un casino: da una parte ci sono questi poveracci, dall’altra ci arrivano ordini da Roma. E noi siamo in mezzo”. La signora Luisa dalla finestra della sua casa sorride amara: “Mi sembra impossibile che quei ragazzi abbiano firmato per essere trattati così Chissà... parlano arabo, non capiscono una parola di italiano, se un carabiniere gli dice di firmare un foglio che cosa volete che facciano?”. Poi Luisa guarda lontano, verso la campagna di Casal di Principe, verso l’orizzonte, dove si vede il bagliore del mare, Napoli: “Questa è una terra difficile. Abbiamo un sacco di guai per conto nostro, ma quei ragazzi fanno pena. Chissà cosa direbbero le loro madri se li vedessero ridotti così”. Droghe: Franco Corleone; marijuana, denunce più che raddoppiate nel 2010 Redattore Sociale, 11 maggio 2011 L’anno scorso sono state segnalate all’autorità giudiziaria 6.556 persone, nel 2009 erano 2.951. In leggero calo le persone arrestate per reati connessi alla droga, 29.076 nel 2010. Tra il 2009 e il 2010 sono raddoppiate le persone denunciate per uso di marijuana. È quanto emerge dai dati del ministero dell’Interno diffusi questa mattina da Franco Corleone, coordinatore dei garanti territoriali per i diritti dei detenuti, durante il convegno di Firenze “Il caso Italia: gli effetti della legge antidroga sulla giustizia e sul carcere”. Se nel 2009 le denunce all’autorità giudiziaria per uso di marijuana sono state 2.951, nel 2010 sono salite a 6.556, facendo registrare un incremento del 122%. Sono aumentate anche le denunce per uso di piante di cannabis, passate da 1.193 a 1.372 (+ 15%). In lieve decremento, invece, le denunce per hashish, passate da 9.261 a 8.102 (- 12,51%). In linea generale, le persone segnalate all’autorità giudiziaria per reati connessi alla droga, sono aumentate del 7,12%, passando dalle 36.458 del 2009 alle 39.053 del 2010. Di queste 12.006 sono stranieri, mentre 1.139 sono minori. Pressoché immutati gli arresti (da 29.618 a 29.076, decremento dell’1,83%), mentre sono decisamente aumentate le persone in stato di libertà (da 6.467 a 9.577, pari a un + 48%). È evidente, ha commentato Grazia Zuffa, direttrice di fuoriluogo.it, che “l’irrigidimento del trattamento punitivo verso i comportamenti connessi al possesso di droghe voluto dalla legge Fini-Giovanardi non sembra aver portato ad una diminuzione o anche solo ad un contenimento delle condotte di rilevanza penale”. “Il peso della legge Fini-Giovanardi grava enormemente sul carcere e sulla giustizia” ha detto Corleone. Basti pensare che “in Italia metà dei detenuti si trova in carcere per fatti attinenti alla droga”. Pertanto, “il sovraffollamento che attanaglia le carceri è dovuto alla presenza di tossicodipendenti e di imputati di piccolo spaccio”. Ecco perché sarebbe necessario apportare “minime modifiche alla legge Fini-Giovanardi per consentire a molti detenuti di uscire dal carcere”. Attraverso tali modifiche, ha aggiunto, potrebbero uscire dalle carceri “quasi metà del totale dei detenuti”, una cifra che si aggira intorno alle 30 mila unità. Stati Uniti: pena morte; in Mississippi usato per la prima volta un anestetico Agi, 11 maggio 2011 Per la prima volta nello Stato del Mississippi, negli Usa, è stato usato un potente anestetico normalmente impiegato per abbattere animali per giustiziare un uomo. A Benny Joe Stevens, un 52enne condannato a morte per l’uccisione di quattro persone tra cui due bambini, è stata fatta un’iniezione di pentobarbital nel penitenziario di Parchman. L’iniezione agisce da sedativo prima che venga iniettato il cloruro di potassio che ferma il cuore. Il Mississippi è il quarto Stato a adottare la nuova sostanza, dopo che il Tiopental sodico che veniva impiegato in passato è uscito di produzione. Finora lo hanno usato Louisiana, Oklahoma e Texas e presto verrà adottato anche in Alabama. Siria: troppi arresti, gli stadi usati come carceri; denuncia dell’Osservatorio per i diritti umani Agi, 11 maggio 2011 Il governo siriano sta usando gli stadi di calcio come carceri improvvisate dopo che le forze di sicurezza hanno arrestato centinaia di persone prelevandole dalle loro case. In almeno due città, Banias e Daraa, le città sono state usate come prigioni, ha spiegato Rami Abdul-Rahman, direttore dell’Osservatorio siriano per i Diritti umani. Inoltre le forze di sicurezza sono entrate nella case del sobborgo di Modemiyah, a Damasco, e arrestato i residenti arbitrariamente come parte delle tattiche intimidatorie del governo per mettere a tacere i manifestanti che chiedono le riforme. “A Daraa ci sono stati così tanti arresti arbitrari negli ultimi giorni che l’esercito e le forze di sicurezza stanno usando le scuole e gli stadi di calcio della città come prigioni improvvisate”, ha detto Ammar Qurabi, capo dell’Osservatorio. Giordania: Human Rights Watch; basta a torture in carcere, o le riforme saranno vane Aki, 11 maggio 2011 La Giordania deve adottare misure severe per evitare l’uso di strumenti di torture, come emerso da numerose denunce in merito, o gli sforzi attuati per le riforme nel Paese saranno vane. Questo l’appello rivolto oggi da Human Rights Watch nel corso del vertice di Berlino tra le istituzioni per i diritti umani europee e arabe. In seguito all’arresto di un centinaio di islamici durante la manifestazione a Zarqa, in Giordania, il 15 aprile scorso, Human Rights Watch ha ricevuto diverse accuse ritenute attendibili di persone picchiate in carcere dalle forze si sicurezza. “Se la Giordania è seria nella sua volontà di prevenire le torture, deve indagare a fondo le denunce di abusi”, ha detto Christoph Wilcke, ricercatore per il Medioriente di Human Rights Watch. Uno degli islamici arrestati dopo gli incidenti di Zarqa ha dichiarato di essere stato preso in custodia insieme ad altri e di essere stato portato in un ufficio della sicurezza a Rusaifa. Qui è stato picchiato insieme ad altri sulla testa, sulla schiena e in altre parti del corpo per circa tre ore. Questa persona, che chiede di restare anonima, è stata rilasciata insieme a numerosi altri il 5 maggio. Ora soffre di mal di schiena e in seguito alle percosse subite in carcere non può lavorare. In un rapporto dell’ottobre del 2008 intitolato “Tortura e impunità nelle carceri della Giordania”, Human Rights Watch aveva denunciato che la tortura era un metodo usato di routine nei confronti dei detenuti e che chi la commetteva non veniva punito. Cisgiordania: accordo tra Fatah e Hamas, si lavora al rilascio detenuti politici www.nena-news.com, 11 maggio 2011 È uno degli aspetti più delicati della riconciliazione. Le due parti infatti affermavano di detenere solo criminali. Presto Abu Mazen e Khaled Mashaal andranno a Gaza. Fatah e Hamas stanno lavorando alla liberazione dei prigionieri politici che si trovano in carcere, rispettivamente in Cisgiordania e a Gaza. Si tratta di uno degli aspetti più delicati della riconciliazione che i due principali movimenti politici palestinesi hanno raggiunto con un accordo firmato lo scorso 4 maggio al Cairo. Le due parti infatti hanno sempre affermato di non aver mai incarcerato persone per motivi politici ma soltanto “criminali” che avevano violato la legge. Un numero imprecisato di attivisti e simpatizzanti di Hamas si troverebbero detenuti in Cisgiordania nella prigione di Juneid (Nablus), assieme ad alcuni militanti del Jihad islami. La loro probabile liberazione fa infuriare Israele che in questi ultimi anni ha goduto di un pieno “coordinamento di sicurezza”, in chiave anti-Hamas, con i servizi segreti dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) di Abu Mazen, composta in maggioranza da esponenti di Fatah. A Gaza city sono detenuti, secondo varie fonti, alcune decine di attivisti di Fatah. Uno di questi, il mese scorso, è morto in circostanze non ancora chiarite. Intanto il premier islamico Ismail Haniyeh ha annunciato che sono in corso preparativi per accogliere a Gaza city Abu Mazen e che è stata rafforzata la sicurezza intorno alla sua residenza rimasta disabitata dal 2007 ad oggi. Assieme ad Abu Mazen dovrebbe raggiungere Gaza anche il leader di Hamas Khaled Mashaal, in esilio da molti anni a Damasco assieme ad altri esponenti di primo piano dell’organizzazione. Haniyeh ha anche comunicato che grazie a finanziamenti promessi da istituti di credito islamici e ottenuti ufficialmente dal suo governo, a Gaza è cominciata la ricostruzione attesa per due anni dopo l’offensiva israeliana “Piombo fuso” (1.400 palestinesi uccisi, migliaia di abitazioni distrutte). Per presunti “motivi di sicurezza”, negli ultimi due anni Israele ha vietato l’ingresso nella Striscia di Gaza dei materiali necessari per la ricostruzione. Solo le Nazioni Unite hanno potuto eseguire limitati lavori di costruzione e riparazioni di edifici e scuole.