Giustizia: un altro internato muore in Opg; le associazioni chiedono chiusura immediata Ansa, 10 maggio 2011 “Nell’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa si è consumata l’ennesima tragedia. Un giovane quasi trentenne è morto per soffocamento. Si aggiorna così il triste bollettino del 2011, che registra ben 4 decessi in poco più di 4 mesi, tre dei quali per suicidio. Un dramma immerso in un silenzio disarmante”. Lo afferma “Stop Opg” che raccoglie le organizzazioni che aderiscono alla campagna per l’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari. “Fatti come questo, per il contesto in cui avvengono e per le gravi ombre che gettano sulle istituzioni - dice il cartello Stop Opg non possono essere letti come tragiche fatalità: gli Ospedali psichiatrici giudiziari sono luoghi di morte, di sofferenza e di privazioni, e non è più possibile rinviare interventi risolutivi”. Il comitato Stop Opg, nato da un folto cartello di associazioni e sindacati che operano nei settori della salute mentale e penitenziario, dunque: “chiede semplicemente di applicare la legge e provvedere all’immediata chiusura di tutti i 6 Opg italiani”. “Da quando con un apposito Dpcm - si sottolinea - è stata stabilita la chiusura delle strutture, il numero degli internati è inspiegabilmente lievitato, passando da meno di 1.300 internati del 2007 agli oltre 1.500 di oggi, 350 dei quali sono dimissibili da subito”. Stop Opg chiede quindi che “si assumano iniziative straordinarie, senza escludere la nomina di commissari ad acta che, a partire da Aversa, attraverso la definizione di una vera e propria road map, indichino tempi certi per la chiusura, dando solide garanzie sul reinserimento e il sostegno agli internati nel loro percorso di recupero”. Il decreto del Presidente del Consiglio, che prevede “il trasferimento delle competenze sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse e delle attrezzature dalla sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale” è del 2008. A questo si aggiungono due sentenze della Corte Costituzionale che prevedono la possibilità di “trattamenti alternativi all’Opg in ogni fase”. Il passaggio formale delle competenze, secondo Stop Opg è avvenuto in tutte le Regioni, tranne che in Sicilia. Antigone: nell’Opg di Aversa 20 decessi negli ultimi 5 anni Un uomo di circa trent’anni, di cui non sono note le generalità, è morto ieri sera nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa (Caserta). A diffondere la notizia Dario Stefano Dell’Aquila, portavoce dell’associazione Antigone in Campania. “Secondo una prima sommaria ricostruzione - riferisce la nota - l’uomo sarebbe morto nel tardo pomeriggio, per soffocamento”. La morte segue di appena tre giorni quella di un altro internato di 33 anni che si è suicidato lo scorso venerdì. “Questo 2011 - ha dichiarato Dell’Aquila - si è aperto con una sequenza drammatica e impressionante. In soli cinque mesi abbiamo registrato 3 morti per suicidio e uno per cui è necessario approfondire le cause. A quanto ci risulta, non è la prima volta che un internato muore per soffocamento. Poiché c’é una relazione tra le difficoltà di deglutizione e gli effetti di psicofarmaci riteniamo siano necessari, oltre tutti gli accertamenti del caso, opportune analisi anche sulle cartelle cliniche”. “Secondo i nostri dati - ha aggiunto il portavoce di Antigone Campania - che certo sono parziali, in questi ultimi cinque anni, ci sono stati almeno 20 decessi, per cause diverse, nell’Opg di Aversa. Questo significa che nessuna riforma sulla carta potrà migliorare una condizione manicomiale che si è progressivamente deteriorata in anni di cattiva gestione. Noi riteniamo che ancora oggi non siano garantiti i livelli essenziali di assistenza, la presa in carico da parte dei servizi sociosanitari, il rispetto della dignità e il diritto ad un adeguato trattamento terapeutico”. “C’é una questione generale - ha concluso Dell’Aquila - che riguarda gli ospedali psichiatrici giudiziari nel loro complesso. Oggi abbiamo quasi lo stesso numero di presenti di 30 anni fa (nel 1981 erano 1.502 i presenti, contro i circa 1.550 attuali). Un problema che va affrontato anche attraverso una radicale modifica del meccanismo delle misure di sicurezza e della loro proroga. Ma c’é anche uno specifico di quello di Aversa che va indagato. Perché sarà sempre tardi quando arriveremo a chiuderlo”. Marino (Pd): stillicidio raggelante, 4 internati morti da inizio anno “Stiamo assistendo a uno stillicidio raggelante. È il quarto internato morto in cinque mesi, in un luogo che dovrebbe essere un ospedale ma rimane purtroppo soltanto un carcere dove centinaia di esseri umani vengono stipati e dimenticati”. Così Ignazio Marino presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, sulla morte di un altro internato nell’Opg di Aversa. “Ad Aversa è successo di tutto - spiega Marino - abbiamo trovato un solo medico che poteva garantire appena un’ora di assistenza psichiatrica al mese. Il peggio del peggio: gli internati entrano in un luogo dove dovrebbero essere curati senza però avere accesso alle cure. A questo si sommano il degrado e le condizioni di vita incompatibili con il più elementare rispetto della dignità umana. Come chiamare altrimenti le bottiglie d’acqua infilate nel tubo del bagno alla turca per rinfrescarle, data l’assenza di frigoriferi? Oppure il fatto che gli operatori, fino ai primi sopralluoghi della Commissione, non avessero uno spogliatoio dove cambiarsi e fossero costretti a farlo in uno spazio improvvisato sotto una scala che non garantiva la loro privacy?”. Osapp: polizia penitenziaria fuori dagli Opg “L’ennesima morte di un internato di 47 anni ieri 9 maggio presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, anche se per cause accidentali e non per suicidio, pone nuovamente di drammatica attualità il problema di strutture che, per 4 istituti su 6 sul territorio nazionale, non sembrano garantire né ad adeguata assistenza sanitaria né idonee condizioni di tutela dei ristretti” con tali parole Leo Beneduci - segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) esprime il malcontento del personale di polizia penitenziaria tuttora impiegato in quelli che un tempo erano chiamati ‘ manicomi giudiziari’ . “Circa 450 unità di polizia penitenziaria, rispetto alle 600 unità previste, provvedono in questo momento alla sorveglianza di 1.350 internati nell’80% dei casi affetti da infermità psichiche gravi, negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari di Barcellona Pozzo di Gotto, di Reggio Emilia, di Montelupo Fiorentino, di Napoli e di Aversa, mentre per i 220 internati di Castiglione dello Stiviere la ‘sorveglianza’ è a carico delle strutture sanitarie - prosegue il sindacalista - ma il binomio ‘infermità mentale - polizia’ non riusciamo più né a comprenderlo né a giustificarlo”. “Inoltre, a parte le 150 unità pari al 30% dell’organico in meno nelle attività di tutela e di sorveglianza degli internati, che rilevano proprio ai fini dell’aumento dei suicidi e delle morti negli OPG - aggiunge ancora il leader dell’Osapp - non comprendiamo perché proprio la polizia penitenziaria debba sopperire, persino dal punto di vista delle terapie, alle carenze delle aziende sanitarie e del servizio sanitario nazionale”. “Per questo e perché chi sta negli ex manicomi giudiziari sia ricoverato in strutture adeguate e riceva cure ed assistenza, come sindacato - conclude Beneduci - chiediamo a gran voce al Ministro Alfano e al Capo del Dap Ionta che si provveda in fretta alla la completa sanitarizzazione degli OPG e per il progressivo disimpiego della polizia penitenziaria da tali servizi Moretti (Ugl): necessario riconvertire gli Opg "L'ennesima morte di un internato, nell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, è solo una delle conseguenze dell'emergenza carceri, figlia della inadeguata assistenza sanitaria e della tutela sempre più al limite". Lo dichiara il segretario nazionale dell'Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, commentando il quarto decesso in cinque mesi di un internato. Per il sindacalista "è evidente come l'attuale sistema, con cui si gestisce la detenzione degli internati, non sia adeguato e non rispecchi le reali esigenze dei reclusi. C'è bisogno infatti di un progetto che riconverta le strutture, affinchè all'assolvimento della funzione sanitaria pubblica venga assegnata la stessa importanza di quella detentiva". "L'assegnazione alla sanità pubblica - conclude Moretti - delle emergenze che si registrano negli Opg giudiziari va dunque perfezionata, anche per evitare che ogni responsabilità debba ricadere sempre e comunque sugli agenti di polizia penitenziaria che, spesso, debbono sostituire altre figure professionali più qualificate per affrontare le tematiche che riguardano gli internati". Giustizia: Cassazione; Vallanzasca paghi mantenimento carcere, niente remissione debito Agi, 10 maggio 2011 Dovrà pagare il proprio mantenimento in carcere Renato Vallanzasca. I giudici della prima sezione penale di Corte di Cassazione hanno infatti accolto il ricorso del Procuratore della Repubblica di Milano contro l’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza che il 10 giugno 2010 accolse la richiesta avanzata dai difensori di Vallanzasca per la remissione del debito per spese di giustizia e di mantenimento in carcere. La Suprema Corte ha accolto le motivazioni della Procura che aveva sottolineato come Renato Vallanzasca si fosse reso protagonista di condotta irregolare e “gravi durante la detenzione” negli ultimi dieci anni. Inoltre la Procura aveva anche sottolineato che non sono mai state dimostrate da Vallanzasca le “disagiate condizioni economiche”, tanto più che proprio il Bel Renè ha manifestato l’intenzione di devolvere il ricavato dei diritti di autore in beneficenza, senza però precisare l’importo delle somme e senza dare garanzie sulla “concretezza dell’impegno”. Giustizia: proposta Pdl; due anni di carcere per organizzatori “rave party” non autorizzati Ansa, 10 maggio 2011 Chi organizza un “rave party” senza l’autorizzazione del Questore o in violazione di sue disposizioni rischia il carcere fino a due anni. È questa la proposta di legge appena presentata da vari deputati del Pdl, tra cui Riccardo Mazzoni. Il provvedimento, depositato anche per rispondere all’appello lanciato da alcuni amministratori locali, come il presidente della regione Toscana Enrico Rossi, per evitare che si ripetano episodi come quello avvenuto pochi giorni fa in provincia di Grosseto di quattro giovanissimi che, di ritorno da un rave party in Maremma, hanno massacrato a calci e pugni due carabinieri, prevede, tra l’altro, un’ammenda per i partecipanti che potrà arrivare fino a 100mila euro. Lettere: a che servono gli psicologi in carcere? Ristretti Orizzonti, 10 maggio 2011 Ho seguito con attenzione la discussione relativa alle mozioni parlamentari sul carcere. Sono la coordinatrice dei 39 psicologi vincitori di concorso al Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria. Vorrei sottolineare che l’assistenza psicologica non è del tutto stata trasferita alle Regioni come è stato detto, ma sono state trasferite alle regioni solo le competenze sanitarie, ovvero in cifre esattamente 17 psicologi come si può dedurre chiaramente dal Dpcm 1.04.2008, anzi - per la precisione - 15 psicologi, 2 psicologi, infatti, sono tuttora dipendenti dal Dap in attesa di trasferimento, considerato che il trasferimento non è stato attuato ancora in tutte le regioni, di conseguenza le funzioni sanitarie in queste regioni rimangono ad oggi in capo al Dap. La maggior parte degli psicologi in carcere si occupa delle funzioni di osservazione e trattamento, ovvero di funzioni istituzionali in conformità con l’articolo 27 della Costituzione. Del resto è evidente che 15 psicologi poco potrebbero fare per circa 68.000 detenuti, per altro le funzioni psicologiche in base al contratto integrativo del 2000 erano inserite nell’area trattamentale, da che se ne deduce che i 15 psicologi trasferiti siano stati assorbiti dalle regioni in virtù delle loro specifiche funzioni. Noi 39 psicologi vincitori di concorso attendiamo dal 2006 l’assunzione nell’area trattamentale, dato che per svolgere tali funzioni il Dap oggi si avvale di oltre 400 consulenti esterni, quindi non riusciamo a capire come mai non possano essere assunti anche noi, quali vincitori del concorso pubblico nazionale, avendo superato concorso relativo all’area trattamentale e non a quella sanitaria come si vuol far credere (cfr contratto integrativo del 2000). Il Dpcm, per altro, è stato anche sospeso dal Consiglio di Stato nella parte in cui non prevede l’assunzione dei vincitori di concorso e due giudici di primo grado hanno ordinato l’assunzione dei vincitori di concorso nell’area trattamentale, così come era previsto dal contratto. Il Dap ha risposto a queste sentenze impugnandole in secondo grado. Questo significa che il Dap, dapprima ha bandito un concorso e in seguito si è battuto per non assumere i vincitori di cui c’è un evidente bisogno, con il rischio, tra l’altro di arrecare un grave danno all’erario pubblico. Mi sembra una imprecisione grave non tener conto della estrema complessità relativa alla situazione degli psicologi che si occupano di detenuti quando si discutono delle mozioni in Parlamento e si afferma in modo semplicistico che “l’assistenza psicologica è stata trasferita alle Regioni”. Le funzioni sanitarie (15 psicologi) sono state trasferite, quelle trattamentali, che svolgono circa 500 consulenti e dovrebbero svolgere i 39 vincitori di concorso (evidentemente le più cospicue dal punto di vista del personale che ci lavora) evidentemente no. I 39 psicologi non sono stati ancora assunti a oltre quattro anni dalla fine del concorso nonostante i gravi fatti di cui tutti siamo a conoscenza mostrino che ve ne sia non solo bisogno, ma la necessità. Siamo fermamente convinti che l’assunzione degli psicologi in carcere potesse e potrebbe (la graduatoria è tuttora valida) essere risolta con provvedimenti ad hoc, considerata la situazione di disagio estremo dei detenuti, perché in confronto ai grandi progetti relativi al sistema penitenziario, l’assunzione di 39 psicologi non è evidentemente un problema irrisolvibile come molti ci vogliono far credere, ma solo una questione di attenzione reale al disagio dei detenuti. Se il Dap non riesce a trovare il modo di assumere 39 psicologi vincitori di concorso indetto dalla stessa amministrazione come si può credere che si possa trovare la soluzione per problemi ben più complessi? Gradiremmo - visto che da anni ci battiamo perché crediamo nel nostro lavoro e riteniamo di averne diritto - che la posizione del Ministero della Giustizia quando si discute di carcere fosse più chiara e coerente. Il Ministero ritiene che nella attuale situazione di grave disagio vissuto dai detenuti, alla luce anche dei dati relativi ai suicidi, tentati suicidi e atti autolesionistici, la funzione degli psicologi sia utile? Oppure il Ministero ritiene che la funzione degli psicologi negli istituti penitenziari sia un optional? In questo secondo caso gli esponenti politici si prendano le loro responsabilità ed esplicitino le loro posizioni, anche se stridono con il buon senso e dicano chiaramente: “a parere di questo governo, gli psicologi in carcere non servono”. Viceversa, se il Ministro e il Ministero della Giustizia ritengono fondamentale il ruolo degli psicologi in carcere, per quale motivo reale non assumono i vincitori di concorso? È una situazione grave e paradossale. Lo stesso Ministro Alfano il 27.11.2008, quando già il Dpcm di trasferimento delle funzioni sanitarie alle Regioni era stato pubblicato da mesi, in Commissione Giustizia affermò, parlando degli psicologi, che i vincitori di concorso hanno diritto all’assunzione e sarebbero stati assunti, probabilmente aveva chiaro (conoscendo il contratto) che questi, come gli educatori, facevano capo all’area trattamentale. Ci auguriamo che dopo oltre quattro anni dalla pubblicazione della graduatoria le forze politiche si uniscano per trovare una soluzione a questa assurda e inconcepibile situazione in uno Stato di diritto, perché ancora oggi ci stupiamo di esserci dovuti rivolgere ad un giudice per ottenere l’assunzione, dopo aver vinto un concorso pubblico e soprattutto considerata la gravissima carenza di psicologi negli istituti penitenziari. Mariacristina Tomaselli Coordinatrice 39 psicologi vincitori di concorso al Dap Toscana: Radicali; direttori carceri in sciopero da due settimane… il Dap non dice nulla? Ristretti Orizzonti, 10 maggio 2011 Dichiarazione del senatore Radicale Marco Perduca: Siamo ormai giunti al decimo giorno dello sciopero dei direttori delle carceri Toscane in agitazione sia per la mancanza di rinnovo contrattuale che per la cronica assenza che ormai affligge gli di Livorno, Gorgona, Massa Marittima, Pistoia, San Gimignano, O.p.g di Montelupo, Massa, Gozzini la grave mancanza dappertutto di vice-direttore nonché di dodici posti di dirigente al Provveditorato regionale. Passi il silenzio alle interrogazioni presentate già a marzo colla senatrice Poretti, non sarebbe una novità, ma che almeno tra centro e periferia dell’Amministrazione penitenziaria ci fosse un minimo di comunicazione non guasterebbe. Le carceri italiane versano in un patente stato di illegalità, vere e proprie discariche sociali dove la costituzione viene calpestata quotidianamente, solo un’attenzione umanamente qualificata a tutto ciò che rappresenta questo desolato pianeta carcere può limitare i danni di questa protratta mala amministrazione, lasciare inascoltate le richieste dei direttori concorre ad aggravare ulteriormente tutto ciò. Molise: accordo Tribunale - Ordine dei giornalisti, per tutelare la dignità degli imputati www.odg.it, 10 maggio 2011 Tutelare la dignità della persona indagata o imputata. Questo il fine del protocollo d’intesa firmato dal Presidente del Tribunale di Campobasso, Enzo Di Giacomo, dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Campobasso, Armando D’Alterio, dal Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Molise, Antonio Lupo, dal Presidente di Assostampa Molise, Giuseppe Di Pietro, dal Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Campobasso, Demetrio Rivellino, dal Presidente della Camera distrettuale penale del Molise, Erminio Roberto, rappresentato dall’avv. Pietrunti. Il Protocollo, epilogo di un lavoro di confronto e concertazione tra le categorie interessate, mira a definire un sistema di regole codificate al quale dovranno attenersi gli operatori dell’informazione (giornalisti e cineoperatori) nelle aule del Tribunale, soprattutto nel corso delle udienze. Regole che, come specificato all’articolo 1 del protocollo prevedono che “la libertà di informazione e di critica costituisce diritto insopprimibile dei giornalisti, nel rispetto delle norme dettate a tutela della vita privata, familiare, del domicilio e della personalità altrui”; una personalità che, nel caso dell’indagato e dell’imputato, è resa ancor più fragile dagli eventi giudiziari. Quindi no alle immagini di detenuti in manette o “accompagnati” in aula dalle forze dell’ordine, no a tutto ciò che può intaccare la dignità di una persona che, è bene ricordarlo, deve ancora essere giudicata. I giornalisti si augurano ora che altri protocolli d’intesa possano essere siglati, in altre sedi giudiziarie, per gli stessi fini. I giornalisti del Molise ringraziano il Presidente del tribunale di Campobasso, Enzo Di Giacomo, perché è partita da lui l’idea del Protocollo d’intesa ma anche per la decisione di concedere in comodato d’uso agli operatori dell’informazione un’aula del Tribunale, per facilitare il nostro quotidiano lavoro. Il Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Molise, Antonio Lupo, ha lanciato l’idea di intitolare l’aula a Giancarlo Siani. Sicilia: l’ennesima vittima delle condizioni di lavoro… carceri invivibili anche per gli agenti www.centonove.it, 10 maggio 2011 Avrebbe compiuto 39 anni, il prossimo luglio. Era entrato nel corpo della polizia penitenziaria, con destinazione il carcere nisseno del Malaspina, nel 1993. Antonio Parisi, agente penitenziario con la funzione di assistente capo - negli ultimi 8 anni distaccato alla Casa circondariale di Caltagirone - lascia la moglie e due ragazzi, che non si danno ancora pace, per il suo tragico “gesto”. Così come, sgomenti, non riescono a farsene una ragione, neanche i due colleghi ed amici del cuore: Giuseppe Alesci e Luca Di Tommasi, coetanei ed anche loro niscemesi. La mattina del maledetto 12 aprile scorso, Antonio doveva passare dalla casa di Luca, per poi andare insieme, a montare di servizio al vicino carcere di Caltagirone, distante una dozzina di chilometri. Solo che durante la notte, Antonio ha deciso di farla finita: è andato incontro alla morte, con la sua Opel e portandosi dietro una scala. Dopo aver percorso la strada che faceva ogni mattina con i colleghi per andare a lavorare, ha svoltato sulla destra e si è impiccato… Aveva una marcia in più rispetto agli altri - gli riconoscono - era anche dotato di un forte intuito. E sapeva risolvere i problemi: sia dei colleghi che dei detenuti. Lottava per i diritti del personale, spesso ignorati, schierandosi sempre dalla parte dei più deboli”. Lo stress uccide. Antonio, Giuseppe e Luca, condividevano anche la tessera nel medesimo sindacato, la Cgil. Per loro, il tragico “gesto” del collega ed amico, ha una cornice precisa. “C’entra tanto il nostro lavoro, molto, molto usurante…” ne sono convinti. “Rispetto agli altri corpi di polizia, da noi, soprattutto in Sicilia, c’è un gran numero di suicidi… Un agente di polizia penitenziaria deve badare ad una media di 80 ed anche 90 detenuti”. Celle affollate. Quando invece il rapporto dovrebbe essere di 2,3 agenti per un numero di reclusi dimezzato. Già, perché il sovraffollamento delle carceri, provoca grande malessere tra i detenuti, che poi scaricano la tensione su di loro… Vita da reclusi. Per ricordare la memoria del loro collega ed amico Antonio, Giuseppe e Luca, accettano di raccontare il loro duro mestiere di agenti penitenziari. Di chi per uno stipendio di 1.200 euro al mese, deve convivere per 8 ore, a stretto contato con chi sta dietro le sbarre. Turni di lavoro spesso massacranti, ed una vita di inferno. “Si attacca alle 6 del mattino e per 7 volte al mese, capita anche di rimontare a mezzanotte, fino alle 6 della mattina dopo… Il pressing dei detenuti. “Appena monto di servizio, ogni mattina, faccio la conta: controllo se tutti i detenuti sono vivi e presenti. Ed è il momento in cui i reclusi - prosegue Giuseppe - si rivolgono all’agente penitenziario per tutti i loro mille problemi… Zuffe in cella. Le risse e le scazzottate in cella, le aggressioni e le vendette, sono del resto, molto frequenti: con pugni, calci, colpi di sgabello, insulti che non risparmiano anche il personale. E spesso ci vanno di mezzo anche loro: ad un agente penitenziario, intervenuto durante una rissa nel carcere di Augusta, gli hanno spaccato con una spranga, il timpano dell’orecchio… Capri espiatori. Soprattutto di notte. Quando si verificano i suicidi tra i reclusi, afflitti per lo più da depressione. Ed i casi di autolesionismo tra gli immigrati”. Non mancano, spesso, anche le minacce, i ricatti da parte dei detenuti mafiosi. Ed i rischi per l’incolumità personale. “A qualche collega hanno bruciato la macchina, il portone di casa. A volte, sono stati anche uccisi: come a Catania, a Palermo. Voglia di scappare. Il nostro lavoro è molto logorante per cui non vediamo l’ora di andare in pensione. Abbiamo colleghi, che a 49 anni, già non si reggono più in piedi. Un poliziotto o il carabiniere, lavorando fuori, magari due minuti per andare al bar con l’amico li trova. Ma uno di noi, con chi parla? Con il suo collega che è già pieno di problemi? Siamo reclusi anche noi…A volte ci guardiamo in faccia con i colleghi, e tra di noi ci facciamo coraggio…” Gela Il carcere di Gela, è quasi pronto. Con soli 50 anni di ritardo… Il progetto della Casa circondariale gelese, porta la data del 1959. Ma la sua definitiva approvazione, avvenne circa 20 anni dopo: nel 1978. I lavori, iniziati nel 1982, tra interruzioni e rallentamenti vari, sono durati ben 25 anni, un quarto di secolo. Già inaugurato una prima volta nel 2007, dall’allora Guardasigilli Clemente Mastella, il carcere che si trova a un tiro di schioppo da Niscemi, non è mai stato aperto. Nell’ottobre del 2008, il Ministro di Grazia e Giustizia Angelino Alfano, annunciava alla Camera che entro quell’anno -, dopo gli ultimi ritocchi al sistema di sicurezza (con una spesa di 1 milione di euro) - la nuova struttura sarebbe stata pronta ad ospitare i detenuti. “Ma ad oggi, ancora si attende l’apertura” denuncia il capogruppo del Pd alla Provincia di Caltanissetta, Alfonso Cirrone Cipolla. Il “caso” del carcere “fantasma” di Gela - costato alla collettività la somma di 5 milioni di euro, consegnato ufficialmente nel 2009 all’amministrazione penitenziaria e rimasto un’opera incompiuta, con attualmente 2 guardiani che sono gli unici custodi della struttura vuota, mai entrata in funzione”. Catania “In questo periodo, sono morti nella sola provincia di Catania, tra infarti, suicidi ed omicidi, 12 agenti penitenziari. Come mai il Ministro non cerca di capire cosa sta succedendo tra il personale, dove lo stress è al massimo livello? Non è che 12 morti sono un fatto normale…Il Capo del Dipartimento ed il Ministro, devono passarsi la mano sulla coscienza e capire che la situazione nel Sud è peggiore di quella del Nord. Anche perché la tipologia di detenuti che c’è da noi, non è la stessa di quella che c’è al nord”. Armando Algozzino, catanese, segretario nazionale della Uil Penitenziari, davanti ai troppi “silenzi” ed alla “indifferenza” dell’amministrazione penitenziaria nazionale, ha invitato gli agenti a partecipare al sit-in di protesta (svoltosi il 5 maggio scorso) davanti la Prefettura di Catania. “Nel carcere di Catania, il personale ha passato l’inverno al freddo e senza riscaldamenti. E se non ci sarà l’intervento ministeriale, sarà costretto a morire di caldo: le garitte, essendo dotate di vetro antiproiettile, fanno salire la temperatura, nei mesi più caldi, a circa 50 gradi”. Gazzi Scarafaggi, formiche, escrementi di topo, umidità, intonaci cadenti. Nella cella di sei metri per 5 sono rinchiuse dodici persone: nella sezione in tutto ce ne sono 60. Sono stati condotti nel carcere di Messina dagli altri 25 penitenziari siciliani per adulti per essere curati. A Gazzi, infatti, c’è l’unico centro clinico in cui garantire ai detenuti della Sicilia l’assistenza sanitaria, di cui peraltro in base ad una legge nazionale del 2008 si dovrebbe fare carico il sistema sanitario regionale, come accade in tutte le altre regioni italiane. “Di clinico questo centro non ha nulla. Le condizioni sono disastrose. I detenuti ammalati non ricevono alcuna cura”, tuonò il deputato radicale, Rita Bernardini, al termine della visita ispettiva della scorsa estate conclusa con una denuncia in Procura per il “sovraffollamento, le carenze di personale e le vergognose condizioni in cui sono tenuti i detenuti non solo nel centro clinico ma in tutte le sezioni del carcere di Messina”. “Da allora nulla è cambiato a Gazzi”, rincara Francesco Barresi, segretario provinciale della Uil Penitenziari. “Ma la stessa situazione di Gazzi si vive in quasi tutte la carceri della regione, a cominciare dall’Ucciardone di Palermo per arrivare a Piazza Lanza a Catania, passando per Mistretta, solo per fare degli esempi”, sottolinea Armando Algozzino, segretario nazionale della Uil che ha organizzato per il 5 maggio una manifestazione di protesta per la situazione che si vive nella carceri della provincia di Catania. Latina: nel carcere il doppio dei detenuti; dovrebbe ospitare 86 reclusi, oggi ne ha 166 Il Tempo, 13 maggio 2011 I detenuti presenti attualmente nelle 14 carceri della Regione sono 6.550, oltre 2.200 in più rispetto alla capienza regolamentare. A lanciare l’ennesimo grido di allarme è il Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. Le situazioni più critiche sono a Latina, dove i detenuti dovrebbero essere 86 e sono invece 166; a Viterbo la capienza regolamentare è di 444 detenuti, ne sono presenti 720; a Roma nel carcere di Rebibbia N.C. troviamo oltre 450 detenuti in più, rispetto la capienza regolamentare ed a Regina Coeli 400 in più. A Rebibbia Femminile le donne dovrebbero essere 274, sono invece oltre cento in più, con tutti i problemi pratici che ciò comporta, anche nella gestione delle recluse madri con i figli da 0 a 3 anni al seguito. Stessa drammatica sorte per il carcere di Civitavecchia con oltre 220 detenuti in più e per il carcere di Cassino con 110 detenuti in più rispetto la capienza regolamentare. Situazione drammatica anche per il carcere di Frosinone, dove la struttura nata per ospitare 325 detenuti, vede la presenza di 516. Infine, ancora senza soluzione il caso, da tempo segnalato dal Garante, della struttura di Rieti, dove il carcere che potrebbe ospitare oltre 300 detenuti, resta inesorabilmente chiusa o sottoutilizzata per la mancanza degli agenti di polizia penitenziaria necessari a farla funzionare. Il nuovo carcere di Rieti da 306 posti è attualmente utilizzato a 1/3 delle sue possibilità, con 120 reclusi ospitati nelle sole due sezioni aperte da 78 posti disponibili e dunque sovraffollate. La Casa circondariale di Rieti, che si estende su 60.000 metri quadrati, ha le carte in regola per essere un istituto all’avanguardia visti gli spazi destinati ad accogliere detenuti comuni e di alta sicurezza, e attività formative e trattamentali. Oggi sono in funzione due sezioni nel solo dei due padiglioni detentivi aperti. I reclusi sono così stipati in celle singole o doppie, comprese le sei di isolamento. “Sovraffollamento, carenze di organico e cronica penuria di risorse - ha sottolineato il Garante dei Diritti dei Detenuti, Angiolo Marroni - stanno pian piano portando l’intero sistema al collasso”. Como: Sappe; due feriti gravi dopo rissa tra detenuti nel cortile passeggi Adnkronos, 10 maggio 2011 Nel pomeriggio di oggi è scoppiata una violenta rissa nel cortile passeggi del carcere di Como, dove in quel momento si trovavano 70 detenuti. Due detenuti sono finiti in ospedale per ferite che sarebbero gravi, e solo il pronto intervento del personale di Polizia penitenziaria, addetto alla sorveglianza ha evitato conseguenze più gravi. A denunciarlo è il Sappe, sindacato della Polizia penitenziaria, che esprime ''preoccupazione e allarmè' per ''una situazione è ben oltre il limite della tolleranzà'. ''Lo dimostra chiaramente l'inquietante regolarità con cui avvengono episodi di tensione ed eventi critici nel penitenziario di Como, istituto nel quale manca una vera organizzazione dei servizi che tenga nel debito conto i livelli minimi e massimi di sicurezza a tutto discapito dell'operatività e della sicurezza dei 'baschi azzurrì – commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe -. Sono da encomiare gli agenti intervenuti, che nonostante la tensione e la presenza di una sproporzione numerica rispetto ai detenuti, hanno impedito che la situazione potesse ulteriormente degenerarè'. Il Sappe chiede alle istituzioni di ''arrivare a definire, come sosteniamo da tempo, circuiti penitenziari differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi, con particolare riferimento al bisogno di destinare, a soggetti di scarsa pericolosità o che necessitano di un percorso carcerario differenziato (come i detenuti con problemi sanitari e psichiatrici), specifici circuiti di custodia attenuata anche potenziando il ricorso alle misure alternative alla detenzione per la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale". "Agli oltre 600 detenuti presenti a Como rispetto ai 460 posti letto - continua Capece - fanno da contraltare le carenze di unità di polizia penitenziaria che dovrebbero essere 308 ed invece ve ne sono in forza 233. è significativo ricordare che nel solo 2010 nel carcere di Como abbiamo avuto il suicidio di un detenuto, altri 21 tentativi sventati in tempo e 32 episodi di autolesionismo che solo per la professionalità, il senso del dovere e l'abnegazione dei nostri poliziotti penitenziari non hanno avuto conseguenze più gravi e pericolose". "Rispetto a tutte queste criticità - conclude Capece - a Como serve una risposta in termini di aumento di organico della Polizia Penitenziaria e di sfollamento del penitenziario dall'alto numero di detenuti, oltre ad una ferma presa di posizione dell'Amministrazione regionale e centrale per riportare corrette relazioni sindacali nel penitenziario comasco''. Venezia: lavoro "socialmente utile"? solo per pochi, la pena è ancora e soprattutto carcere La Nuova Venezia, 10 maggio 2011 Nonostante siano potenzialmente in tanti a poter scontare una condanna con il lavoro socialmente utile anziché con il carcere o con il pagamento di una multa salata sono pochissimi coloro che lo richiedono e altrettanto pochi i giudici che lo decidono. Questo perché sono pochi gli enti pubblici ad essere disponibili. È il presidente del Tribunale, nel caso di Venezia il giudice Arturo Toppan, a firmare le convenzioni con gli enti pubblici e a predisporre l’elenco da distribuire ai giudici. A Venezia, però, l’elenco è decisamente striminzito: non si è fatta avanti la Regione, neppure la Provincia e solo 5 su ben 44 sono i Comuni che hanno aderito all’iniziativa del ministero della Giustizia, che ha introdotto questa possibilità ben dieci anni fa. Dalla lista mancano le amministrazioni più importanti e popolose come Venezia, Chioggia, San Donà di Piave, Mira, Mirano e Spinea. I cinque Comuni che invece hanno stipulato la convenzione con il Tribunale lagunare sono Portogruaro, San Stino di Livenza, San Michele al Tagliamento, Fossalta di Portogruaro e Teglio Veneto, curiosamente tutte amministrazioni del Veneto orientale. La norma prevede che al “lavoro di pubblica utilità” possa essere condannato, in sostituzione della pena detentiva o pecuniaria, chi è dichiarato responsabile di reati commessi in violazione del codice della strada e della legge sulla detenzione delle sostanze stupefacenti. Inoltre, chi commette reati che siano valutati dal giudice di pace, cioè con pene punibili con l’arresto e non con la reclusione, come le ingiurie o le lesioni lievi. Il decreto del ministro della Giustizia del 2001 spiega che il lavoro socialmente utile consiste nell’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e associazioni di assistenza sociale. In particolare a favore di chi opera “nei confronti di tossicodipendenti, malati di Hiv, portatori di handicap, anziani, malati in genere, minori, ex detenuti i extracomunitari”. E ancora prestazioni lavorative “per finalità di protezione civile, di tutela del patrimonio ambientale e culturale, di prevenzione incendi, di custodia di musei, gallerie o pinacoteche. Ma anche lavoro “per la manutenzione e il decoro di ospedali, case di cura, beni del demanio e del patrimonio pubblico ivi compresi giardini e parchi”. È compito del presidente del Tribunale stipulare le convenzioni e la copertura assicurativa del condannato spetta ovviamente al comune o all’ente che lo prende in carico. Terminata l’esecuzione della pena, deve essere stilata per il giudice una relazione del datore di lavoro che “documenti l’assolvimento degli obblighi inerenti il lavoro svolto del condannato”. Sulla carta coloro che potrebbero usufruirne in alternativa al carcere o alla multa sono molti, soprattutto dopo l’inasprimento delle pene per quanto riguarda le violazioni del codice della strada, basta pensare quanto numerose sono le condanne per chi guida in stato di ebrezza. Catanzaro: “LeAli al futuro”; la sociologia contro i fenomeni violenti minorili Ristretti Orizzonti, 10 maggio 2011 Tavola rotonda con docenti universitari e professionisti del diritto al "Vivaldi" di Catanzaro Lido. Un “braccio” della Università “Magna Graecia” all’interno di una scuola media. Una metafora forte ma suggestiva quella con cui il dirigente scolastico del comprensivo "V.Vivaldi" Vitaliano Rotundo ha salutato il dodicesimo incontro formativo del progetto interministeriale “LeAli al futuro”, capace di realizzare un incontro di alto spessore tra scienze sociologiche, giuridiche civili, giuridiche penali, penitenziarie e l’agenzia scolastica. Nell’auditorium dell’Istituto di Catanzaro Lido - unica scuola calabrese accreditata dal Miur e dal ministero della Giustizia per questo progetto - si sono ritrovati Mario Ruffo, docente di Diritto penale e amministrativo all’università catanzarese; Bruno Bilotta, docente di Sociologia nello stesso ateneo; l’avvocato Gisella Gigliotti ed il dirigente del Centro di Giustizia Minorile Angelo Meli. Il professor Bilotta, sociologo del diritto, della devianza e del mutamento sociale, piacevolmente sorpreso dal numero e dalla qualifica eterogenea dei partecipanti, ha posto l’accento sulla differenza tra il crimine dell’adulto e quello del minore. “Il giovane - ha detto - delinque per imitazione: più la sua cerchia di frequentazione è limitata, più è alto il tasso di emulazione”. Nel campo criminologico e della devianza la minore età è una fascia molto ampia e comprende situazioni psico-fisiche profondamente diverse. Per questo la famiglia ha una grossa incidenza nell’elemento penale. “L’elemento imitazione - ha aggiunto Bilotta - nasce dunque all’interno del gruppo - sia famiglia, sia amici - come testimoniano le bande di giovanissimi sudamericani che ripropongono in una micro-realtà di micro-periferie le tensioni sociali importate dal loro paese d’origine, dove pure non sono mai stati essendo nati e di nazionalità ormai italiana. Basta parlare di micro-criminalità - ha detto ancora Bilotta - in quanto per chi la subisce si tratta di violenza a tutti gli effetti. Il fenomeno delle bande giovanili è molto frequente in letteratura, proprio perché laboratorio di tensioni sociali maggiori. Per molti studiosi - ha ribadito - si tratta di “sub-cultura”, come già ne “Il contadino polacco” di Florian Znaniecki o nei trattati di Sunderland. Del resto il concetto di imitazione non è semplice e non basta asserire che se un padre ruba anche il figlio delinque. La subcultura dei fatti criminali sta nel contesto sociale in cui si verifica. Emile Durkheim distingue tra comunità (dove si attua la solidarietà meccanica) e la società (dove la solidarietà è organica). Nella comunità alligna dove il valore etico-culturale è più forte, e quindi l’elemento giuridico è anche etico. Ecco quindi che - ha concluso Bilotta- gli aspetti sub-culturali incidono fortemente nella fenomenologia della devianza, che in quanto tali vanno adeguatamente considerati nella prevenzione”. Dalla lezione di Bilotta che ha coinvolto pilastri della sociologia alle provocazioni dell’avvocato Gisella Gigliotti. Secondo il legale “alla base di tante manifestazioni di criminalità minorile c’è la mancanza di subalternità, ad esempio dello studente rispetto al professore e nelle classi non esiste più quella forma di disciplina e severità che era garanzia di affidabilità. Neppure le famiglie - secondo Gigliotti - aiutano e spesso, come nel caso dei rom, istigano e sono esse stesse beneficiarie delle malefatte dei minori. In un contesto tanto difficile i professori sono gli unici veri eroi a prendersi cura di loro”. Un intervento senza mezzi termini che ha suscitato interesse e reazioni tra i corsisti, autori di uno stimolante dibattito sul tema dell’integrazione nelle istituzioni formative. Angelo Meli, direttore del centro di giustizia minorile di Calabria e Basilicata, ha rassicurato che “il sistema penale minorile italiano è tra i più avanziati al mondo, elogiato dall’Onu e studiato da professionisti di ogni latitudine. E’ fondamentale chiedersi perché un giovane decide di porsi in conflitto con il sistema - ha detto - Su questo fronte gli adulti, dalla scuola agli organi di informazione, non sono esenti da responsabilità”. Il professore Ruffo, chiudendo le relazioni, ha affrontato la tematica della famiglia all’interno della separazione, come cioè i ragazzi vivono le crisi, ricordando come il nuovo 612 bis sia un reato a tutela della donna che in realtà finisce per tutelare l'uomo" e sottolineando come "anche la Cassazione ha acclarato il sacrosanto diritto allo studio per il minore vittima di uno sfascio familiare". Oristano: il pm chiude l’inchiesta su “Il Samaritano”, le accuse a don Usai rimangono L’Unione Sarda, 10 maggio 2011 Il fondatore della comunità è agli arresti domiciliari dal 28 dicembre scorso. Le accuse: violenza sessuale e sfruttamento della prostituzione. Indagati anche due nigeriani: uno si trova in carcere, l’altro è invece irreperibile. Ora i difensori hanno venti giorni di tempo per depositare eventuali memorie. L’inchiesta su don Giovanni Usai è chiusa. La Procura oristanese ha notificato agli avvocati il decreto di fine indagine sulle pesanti accuse che alla fine dello scorso dicembre hanno portato agli arresti domiciliari il fondatore della comunità “Il Samaritano”. Don Usai era finito nella bufera con le imputazioni di violenza sessuale e sfruttamento della prostituzione, tanto più clamorose in quanto si tratta di un sacerdote. Le ultime battute degli accertamenti risalgono a qualche settimana fa, quando il sostituto procuratore della Repubblica Diana Lecca (titolare dell’inchiesta) si è recato a Gallipoli per sentire ancora un testimone. È stato uno degli ultimi accertamenti ritenuti necessari per definire meglio il quadro accusatorio, sfociato poi nella chiusura del fascicolo su don Usai (difeso dagli avvocati Franco Luigi Satta e Anna Maria Uras). Nell’inchiesta, e con le stesse accuse, è finito anche Alphonsus Eze, 35 anni (difeso dall’avvocato Carlo Figus): il nigeriano è attualmente in carcere; mentre un altro nigeriano, sempre sotto inchiesta, è ricercato dai carabinieri per favoreggiamento. Ora gli avvocati hanno venti giorni di tempo per depositare eventuali memorie difensive. Gli arresti domiciliari per don Usai erano scattati il 28 dicembre nel corso di un’inchiesta avviata dai carabinieri della Compagnia di Oristano. Sotto accusa il fondatore della comunità, che si estende su quaranta ettari nel territorio di Arborea e che dal 2003 accoglie i detenuti in regime alternativo. Secondo quanto sostenuto dal pm, e poi anche dal Gip Mauro Pusceddu che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare, più che una casa di accoglienza per detenuti in regime alternativo, la comunità potrebbe sembrare una casa di tolleranza. Porte aperte a qualsiasi ora del giorno e della notte, via vai continuo in entrambe le direzioni, e tanta attività sessuale, a pagamento o in cambio i favori. Attività alla quale, stando alle accuse e al contenuto dell’ordinanza, non sarebbe stato estraneo lo stesso fondatore della comunità. Secondo gli elementi raccolti dagli inquirenti, attraverso dichiarazioni, appostamenti e intercettazioni, le accuse sembrano circostanziate. Anche se non si può fare a meno di sottolineare quanto appaiono in stridente contraddizione con l’immagine che nella sua decennale attività, la comunità del Samaritano ha sempre proiettato all’esterno, e cioè quella di un luogo seriamente impegnato nel recupero di persone, uomini e donne, che avevano avuto problemi con la giustizia. Il 20 gennaio scorso la decisione dei giudici del Tribunale del riesame: hanno accolto la richiesta del pm che sollecitava la conferma della misura cautelare; rigettata, invece, l’istanza della difesa che chiedeva la revoca degli arresti domiciliari. Trapani: indumenti donati dalla Provincia ai detenuti indigenti La Sicilia, 13 maggio 2011 Iniziativa della Provincia. Sono stati consegnati ieri indumenti per i detenuti indigenti della Casa Circondariale. La consegna è avvenuta a Palazzo Riccio di Morana, alla presenza del direttore del carcere Renato Persico, del commissario Giorgio Romeo, di mons. Gaspare Gruppuso e dell’ispettore Maurizio Santo. “Abbiamo iniziato - ha dichiarato il presidente Turano - un giro di visite insieme all’avvocato Lillo Fiorello, garante dei diritti dei detenuti, nelle carceri della Provincia, per verificare le condizioni dei detenuti e delle strutture che li ospitano. In alcuni casi, purtroppo, abbiamo riscontrato casi di estremo disagio in cui i detenuti sono sprovvisti persino di un paio di calze”. A breve, le donazioni proseguiranno per altri istituti del territorio”. Cinema: i fratelli Taviani; in carcere a Rebibbia c’è l’energia giusta per un nuovo film La Repubblica, 10 maggio 2011 Un nuovo film per Paolo e Vittorio Taviani dopo 4 anni di silenzio. Proprio oggi i due maestri “veterani” del cinema italiano, 80 anni Paolo, 82 Vittorio, cominciano con spirito gagliardo le riprese di Dalle sbarre al palcoscenico. Ambientato nel reparto G12 di alta sicurezza del carcere Rebibbia con un cast di soli detenuti. Prodotto dalla Kaos di Grazia Volpi con la collaborazione dei ministeri dei Beni culturali e della Giustizia e di Rai Cinema, sarà un film particolare, che affrontano con un entusiasmo e una curiosità da ragazzi ottantenni. “È un’opera cinematografica in cui useremo tutti i linguaggi, la finzione, la verità, la vita quotidiana, l’improvvisazione. Per noi è un’avventura inaspettata che ci riporta allo stato d’animo degli anni Cinquanta quando abbiamo cominciato”, dicono, rispondono uno per volta, in armonica alternanza. Dopo quattro anni, c’è voluto il carcere per riportarvi su un set. “Quello che funziona oggi nel cinema italiano è la commedia, che non è nelle nostre corde. Il nostro cinema, anche se spesso guarda al passato, parla del presente. Purtroppo viviamo una realtà che non ci piace, sfilacciata, farsesca, siamo diventati un paese da barzelletta e noi non le sappiamo raccontare”. Ma come siete “finiti” in carcere? “Una nostra amica, Daniela Bendoni, che collabora con Rebibbia, ci ha convinto ad assistere agli spettacoli curati in carcere dal regista Fabio Cavalli. Abbiamo visto La tempesta, Amleto, i canti di Dante letti dai detenuti e ci siamo emozionati, soprattutto con La tempesta recitata nella versione di Eduardo. Alla fine di ogni spettacolo ci ha colpito profondamente l’immagine degli spettatori che escono e tornano alla vita, mentre i carcerati salgono nelle loro celle. Per noi è stata un’esperienza che ci ha sopraffatto, abbiamo messo da parte ogni altro progetto. Questo film ci dà una carica che mai avremmo pensato di ritrovare”. E la storia? “È la preparazione di uno spettacolo, abbiamo scelto Giulio Cesare che tocca temi forti, la tirannia, la libertà, l’inganno, la tragedia del rapporto padre e figlio. Cominciamo dai provini ai carcerati, poi la scelta del cast, l’assegnazione dei ruoli, le prove fino alla messinscena con la morte di Cesare nel finale, sarà ucciso nel corridoio all’aperto, quello dedicato all’ora d’aria. Le prove sono particolarmente suggestive, perché le battute rimbalzeranno nei cubicoli, da cella a cella, intrecciate da commenti personali. E tutto sottovoce, è una delle regole del carcere”. Come è stato l’incontro con i detenuti? “Il primo impatto non è stato facile, noi avevamo una certa apprensione. Nel reparto di massima sicurezza ci sono ergastolani, lunghe detenzioni, è naturale che costretti alla convivenza per anni, si siano dati delle regole interne, come quella di riunirsi e discutere quando c’è qualche problema. Dobbiamo molto a Fabio Cavalli che li conosce bene e sa come ristabilire gli equilibri se c’è qualche scoglio da superare, e a Carmelo Cantone, il direttore del carcere, che ci ha dato molto spazio e segue il progetto con profondo interesse”. A loro è piaciuta l’idea di lavorare su Shakespeare? “Lo abbiamo riscritto nei vari dialetti. Gireremo con tre macchine, perché siamo molto ansiosi di cogliere la verità che ci verrà incontro, perché loro improvvisano, si identificano con la storia e i personaggi. Ne abbiamo avuto vari esempi. C’è stato un extracomunitario che ha chiesto cos’è successo a Roma, dopo la morte di Cesare e gli hanno risposto che c’è stato un massacro. “Proprio come nel mio paese”, ha detto quasi a se stesso. Lo scambio tra Cesaree Decio che cerca di convincerlo ad andare al Foro: “Sei bravo a fare l’ipocrita”, dice Cesare. E Decio: “Non c’è nel copione”. “Se Shakespeare ti avesse conosciuto l’avrebbe scritto” è stata la risposta”. Quindi vedremo anche le storie personali dei detenuti-attori? “Vogliamo accennare alle ombre oscure del loro passato. Ci saranno le uniche sequenza fuori dal carcere per incontrare i parenti e capire da dove vengono, le loro radici. Una cosa interessante quando parliamo liberamente è che tutti ci tengonoa dire la stessa cosa: sono cambiato. Ed è vero, molti hanno studiato, leggono molto”. E voi che emozione ne riportate? “Intanto c’è quasi una schizofrenia, quando recitano non sono più assassini o criminali, “diventano” davvero i personaggi. È la forza dell’arte che li coinvolge. Loro capiscono i sentimenti e l’umanità di Shakespeare perfettamente. Chi meglio di loro, lontani dalle loro donne, può “sentire” la voglia d’amore di Romeo? O il tradimento di Jago, l’oppressione della vita in carcere, la tirannia delle regole? La forza dell’arte che entra nella vita dovrebbe essere la forza del film. La parola “libertà!” gridata dai detenuti raramente potrebbe contenere tanta verità”. Libri: “Reietti e Fuorilegge”, ovvero il lato oscuro del sogno americano Redattore Sociale, 10 maggio 2011 Un viaggio durato 10 anni dagli accampamenti urbani al carcere, passando per i reparti di terapia intensiva e i centri di disintossicazione. Lo hanno compiuto gli antropologi Bourgois e Schonberg nel libro “Reietti e Fuorilegge” Gli Stati Uniti a livello globale hanno promosso una “celebrazione ideologica della disuguaglianza” e negli anni novanta e duemila le disparità sociali si sono di molto aggravate, erano la nazione più ricca e militarmente potente del mondo eppure “una percentuale di popolazione più elevata che in qualunque altro paese industrializzato viveva in condizioni di assoluta povertà”. Il paese ha rivelato livelli di differenza economica più alti di qualsiasi altra nazione industrializzata del mondo. I servizi rivolti alle persone vulnerabili sono stati smantellati a favore di un modello di governo che ha esteso gli investimenti alle prigioni alle forze di polizia e agli eserciti alle multinazionali. Della condizione di tanti emarginati, delle disuguaglianze economiche negli Stati Uniti, di emarginazione e violenza e in particolare di una comunità di alcune dozzine di eroinomani homeless di Edgewater a San Francisco tratta il testo “Reietti e Fuorilegge. Antropologia della violenza nella metropoli americana” di Philippe Bourgois e Jeff Schonberg, pubblicato a fine aprile 2011 da Derive Approdi. Un importante lavoro scientifico, una straordinaria documentazione etnografica che attraverso un taglio narrativo, svela un aspetto nascosto del “sogno americano”, quello appunto, relativo alle politiche sociali e alle condizioni di vita degli homeless e delle persone affette da dipendenza. Dai matrimoni ai funerali, dagli accampamenti urbani al carcere, passando per i reparti di terapia intensiva e i centri di disintossicazione è il quadro che emerge dalla ricerca durata oltre 10 anni (tra novembre del 1994 e dicembre del 2006), durante i quali gli autori - due antropologi - hanno seguito i protagonisti del racconto, nelle loro attività quotidiane e documentato le loro strategie di sopravvivenza, dai furti, all’elemosina, dal lavoro a giornata, alla raccolta dei rifiuti. Gli autori sono entrati a far parte della loro vita quotidiana, ogente accampata nei vicoli ciechi, nei depositi, nelle fabbriche abbandonate, tra le carcasse di auto e lungo gli argini delle autostrade. “La gentilezza semplice di Sonny e Max, la generosità ingenua di Hank, l’intelligenza bisbetica di Frank, la violenza rabbiosa di Little Vic, le tattiche da bullo e la brutalità di Sal, la melliflua slealtà di Stretch, il carisma strumentale ma affettuoso di Tina e la mascolina spavalderia sessualizzata di Carter giocano tutte una parte importante nello sviluppo degli eventi di Edgewater Boulevard”. Vite quotidiane che trascinano il lettore nei “devastanti e sconvolgenti meandri” di condizioni di vita precarie dove l’insicurezza è sempre in agguato. I capitoli sono suddivisi per temi, nel primo si documenta l’ambiguo processo del divenire dei senza dimora, nel secondo si esplorano le emozioni di genere della realtà di strada, amore romantico e lavoro sessuale, seguono i capitoli che parlano di corpo, socializzazione infantile, mercato del lavoro, maternità, paternità e omosessualità, gli ultimi tornano sulle storie d’amore in particolare della romantica coppia di fuorilegge Tina Carter. Non mancano parti di scrittura in forma di lunghe note e conversazioni per rendere con maggiore ricchezza l’imprevedibilità dell’esperienza quotidiana sulla strada e uno spazio dedicato alla disintossicazione, con la descrizione dei tentativi di uscire dall’eroina, le esperienze di trattamento e di recupero. Costituisce parte integrante della documentazione, un apparato fotografico, composto dalle oltre sessanta immagini di Jeff Schonberg, antropologo-fotografo. Di grande impatto, le foto costringono a confrontarsi con le conseguenze visibili della violenza quotidiana e con il problema della rappresentazione della sofferenza. Gli homeless di Edgewater “rappresentano solo la punta tutta americana di un iceberg che proietta la propria ombra su una fetta crescente della popolazione mondiale che a partire dagli inizi degli anni Ottanta è stata politicamente ed economicamente esclusa dall’imposizione di politiche neoliberiste di matrice americana”. Germania: Corte costituzionale; è illegale l’internamento degli ex detenuti “pericolosi” Italia Oggi, 10 maggio 2011 Anche Gerhard Schröder, allora cancelliere, si indignò: bisogna gettare la chiave. Non disse esattamente così, ma questa è la corretta traduzione del suo pensiero. Ancora una volta, un bambino era rimasto vittima di un maniaco, già condannato più volte per molestie. Schröder non ha mai avuto figli, ma si occupa paternamente di quelli delle sue quattro mogli. E ha adottato una bambina in Russia. Si preoccupava, e si preoccupa, come tutti i tedeschi. Ogni anno, in media, in Germania, una dozzina di bambini rimane vittima di “mostri”, che poi sono spesso parenti o vicini della porta accanto, considerati innocui, fino al giorno prima. E migliaia sono i casi di molestie. Che fare? Difficile conciliare l’ideale di giustizia e di democrazia con la preoccupazione di proteggere la società. Si è escogitata una procedura non del tutto legale, o niente affatto legale. Quando il colpevole ha finito di scontare la pena, una commissione medica esamina colui che sta per essere rimesso in libertà. È ancora pericoloso? La detenzione lo ha cambiato? Se il parere è negativo, rimane dentro. Non in una prigione, ma in un istituto che molto le assomiglia. Avrà una camera comoda, ma con le sbarre alla finestra. Finché gli specialisti non cambieranno il loro giudizio. Così, si obietta, una condanna a qualche anno si può trasformare in ergastolo. Come chiedeva Schröder, e milioni di genitori preoccupati. Ora, la Corte europea ha ingiunto alla Germania di smettere con questa pratica. I tedeschi protestano: c’è il rischio di rimettere in libertà circa cinquecento pericolosi elementi. È una richiesta irragionevole da parte della Corte europea. Ma la Corte costituzionale tedesca ha emesso lo stesso parere: questo sistema viola i diritti fondamentali. I giudici si rendono conto del problema, continua la sentenza: tocca al parlamento varare una nuova legge. Ma quale? La domanda spontanea è: perché non condannare questi soggetti direttamente all’ergastolo, che in Germania non è stato abolito? Il giudice, poi, nella sentenza può già aggiungere che il condannato non potrà usufruire di sconti per buona condotta o di amnistie. Semplicemente, in base al codice non è possibile. Come infliggere l’ergastolo a chi si è reso colpevole “solo” di abusi, sia pure gravi? Non lo si può trattare come un omicida. L’ultimo caso è emblematico: sta per essere rimesso in libertà un giovane che gli specialisti considerano molto pericoloso. Ha già ucciso un bambino e, quasi con assoluta sicurezza, non riuscirà a controllarsi. È stato condannato a dieci anni, interamente scontati, perché al momento del primo delitto non aveva ancora compiuto 25 anni, e gli fu inflitta la pena massima per i “delinquenti giovanili”. Per rispettare una giustizia ideale si mette a repentaglio la vita di un altro innocente, protestano i genitori sui giornali. Questi maniaci sono malati, non comuni delinquenti, spiegano gli psichiatri, e in carcere si comportano bene, perché ovviamente non hanno tentazioni. La terapia è difficile, se non impossibile. Che fare, dunque? Alla Charité, il grande ospedale di Berlino, è stato aperto un reparto specializzato dove ci si può far curare, spontaneamente. Al momento, è frequentato da circa 200 pazienti, e gli specialisti sono convinti di riuscire a elaborare una terapia che riesca a tenere a freno i loro istinti. Ma, sempre che si giunga al successo, occorreranno anni. Tocca ai legislatori trovare una via d’uscita, mentre il giovane “mostro” sta per ritornare in libertà. Seguirlo passo passo? Mettere in guardia i vicini, come si fa negli Usa? Anche queste precauzioni violerebbero i suoi diritti civili. Egitto: carcerazione preventiva di Mubarak e dei suoi figli prorogata di due settimane Il regime di carcerazione preventiva cui è sottoposto l’ex presidente egiziano Hosni Mubarak verrà prorogato di due settimane: lo ha annunciato la Procura del Cairo. La proroga della carcerazione preventiva avrà inizio dal 12 maggio: Mubarak è accusato di esser responsabile della repressione contro le proteste antigovernative che hanno portato alle sue dimissioni e di corruzione. L’82enne rais, che soffre di problemi cardiaci è ricoverato dal 12 aprile scorso nell’ospedale di Sharm-el-Sheikh e il Ministero degli Interni ne ha finora rifiutato il trasferimento in cella o in un’infermeria carceraria - come richiesto dalla Procura - per motivi di salute. Prorogata custodia cautelare anche per due figli di Mubarak La magistratura egiziana ha deciso di prorogare di quindici giorni la carcerazione preventiva di Gamal e Alaa Mubarak, i figli del deposto presidente Hosni, nel quadro di un’inchiesta per corruzione. È quanto si è appreso da fonti giudiziarie. La custodia cautelare per Alaa e Gamal Mubarak è stata predisposta il 13 aprile, come loro padre. Sono detenuti nel quadro di un’inchiesta per corruzione, come per un’altra sulla repressione delle manifestazioni anti-regime di gennaio e febbraio, che ha provocato 846 morti secondo un bilancio ufficiale. “Il procuratore dello Stato ha ordinato che la detenzione di Alaa e di Gamal sia prorogata di quindici giorni”, secondo questa fonte. Alaa e Gamal Mubarak sono reclusi nel carcere di Tora al Cairo. Prima della rivolta, Gamal era considerato come il successore designato di suo padre. Hosni Mubarak si trova da parte sua piantonato all’ospedale civile di Sharm el-Sheikh, nel Sinai, località turistica sul Mar Rosso dove era stato messo ai domiciliari dalle sue dimissioni, l’11 febbraio, dietro le pressioni della piazza. Era in cura in questo ospedale dal 12 aprile, dopo un problema cardiaco avvenuto durante un interrogatorio.