Giustizia: carceri addio, il delitto punito con l’abolizionismo… di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 luglio 2011 “L’amnistia? È lo Stato che nega se stesso. Meglio trattare il crimine e la pena con sedute di risoluzione dei conflitti. Oppure, come in Danimarca, con le prigioni a numero chiuso” L’amnistia per svuotare le carceri e far tornare il sistema penale italiano alla legalità, come chiedono i Radicali Italiani? Se la domanda la poniamo a in sociologo del calibro di Vincenzi Ruggiero, docente presso la Middlesk University di Londra che ha appena pubblicato per le edizioni del Gruppo Abele un saggio sulla contro idea abolizionista: “Il delitto, la legge, la pena”, pp. 271, euro 16), lui risponde con un’altra proposta: “L’amnistia è lo Stato che nega se stesso: dopo aver negato la sua possibilità di ristabilire i principi per i quali detiene le persone, abdica a governare il carcere e quindi lo svuota. Allora tanto vale essere onesti e fare come in Olanda, Svezia o Norvegia, dove fino a qualche anno fa c’era il numero chiuso per il carcere, in modo da assicurare legalità della detenzione, nel rispetti degli standard minimi stabiliti. E i detenuti in eccedenza si inscrivevano a una lista d’attesa. Se poi nel frattempo, cambiavano vita, il carcere diventava inutile”. Ecco, fa questo esempio e capiamo subito meglio cosa si intende per “abolizionismo”. Ma poi, quasi con humor inglese, fa notare che in Italia potrebbe ritrovarsi degli “alleati piuttosto imbarazzati”, visto che siamo il Paese dall’éte più abolizionista del mondo, quella che ha abolito il carcere ma sto per se stessa, che vuole abolire la Costituzione e la magistratura a proprio vantaggio, che vuole eliminare la prostituzione ma solo per gli altri, che è contro l’intervento assistenziale dello Stato ma solo per i più svantaggiati mentre si prende tutti vantaggi che può dallo Stato”. Perché ha sentito la necessità di tornare proprio adesso sulla tesi abolizionista? Perché gli indici, di carcerazione salgono in tutto il mondo, nonostante il numero dei reati sia stabile o in diminuzione. Vuol dire allora che la società è diventata più intollerante oppure che i problemi sociali si affrontano oggi solo col carcere. Addirittura direi che viene punita la povertà. Dunque, mi sono convinto a dimostrare che nonostante l’abolizionismo suoni come un’idea provocatoria, utopistica, estrema, in realtà è radicata nella tradizione filosofica, religiosa e sociologica occidentale. Un pioniere dell’abolizionismo, come Louk Hulsman, si ispira alle sacre scritture cristiane, mentre un altro come Thomas Mathiesen si ispirerà pure al marxismo, corrente di pensiero egemone nell’800 e anche dopo, ma con forme critiche e libertarie. Infine Nils Christie, l’altro grande autore dall’approccio abolizionista, si ispira a idee anarchiche libertarie dell’800 completamente compatibili col pensiero critico contemporaneo. In poche parole, cos’è l’abolizionismo? Non è un programma immediato di abolizione del carcere. È un modo di vedere, una prospettiva con cui affrontare il crimine, le leggi e la pena, tentando di trovare, ove possibile, forme indipendenti di risoluzione dei conflitti. Non è una follia, si tratta di misure molto usate in Australia, in Francia, in Germania e anche a Milano, nel tribunale per minori. E perfino in Inghilterra, dove c’è un tasso di carcerazione maggiore che in Italia ma c’è anche una grande varietà di forme restrittive, diventate necessarie perché il sistema giudiziario ha allargato il raggio di comportamenti ritenuti sanzionabili. In sostanza, se si guarda al crimine in un’altra ottica si trovano forme di trattamento alternative al carcere, è così? Sì. Come avviene nelle sedute di arbitrato o riconciliazione. Occorre però che ci sia la disponibilità da parte del reo e delle vittime a cercare di capire cosa è successo nell’incidente che chiamiamo crimine. E ci vogliono persone ben formate che sappiano far interagire le due partì. Può succedere a volte che i due disputanti si rendano conto di avere problemi simili, stesso retroterra sociale, addirittura interessi comuni. In altri casi ciò non avviene e il conflitto tornerà nel contesto sociale da dove è emerso. In quale direzione va invece il nostro sistema di giustizia? Siamo alla negazione dell’idea illuminista della risocializzazione. Stiamo tornando alla deterrenza pura. O alla vendetta. Non c’è più l’idea di riabilitazione di Cesare Beccaria che Kant ridicolizzava sostenendo che lo Stato ha il diritto di punire. Hegel addirittura, radicalizzando questo discorso, sosteneva che è lo stesso reo ad avere diritto di essere punito, di essere riconosciuto nella sua individualità e non come mezzo sociale. Stiamo tornando a questa idea di pena come retribuzione. Durkeim dice che nella punizione c’è sempre un elemento di vendetta, e la pena non serve al detenuto ma a noi perché attraverso la punizione rafforziamo la nostra idea di legalità e di comunità coesa. Lei parla di deterrenza, ma l’attuale governo italiano rivendica esattamente questa funzione del carcere, come ha spiegato solo qualche giorno fa il sottosegretario Giovanardi riguardo alla legge sulle droghe. Non c’è alcuna prova che l’effetto deterrente funzioni. Nei paesi dove è applicata la pena di morte, per esempio, non diminuisce il numero dei reati. Il carcere invece mantiene una funzione educativa come durante la rivoluzione industriale, quando educava alla disciplina industriale. Oggi serve piuttosto ad abbassare le aspettative di chi vi è rinchiuso. Il messaggio è: “Non ti illudere, la ricchezza è lì, disponibile, ma non per te”. Così il detenuto entra in quella che viene chiamata la “porta girevole”. In questo senso è rieducativo, perché ti abitua ad accontentarti di poco e a sopravvivere nei ghetti e nelle periferie. Nel caso dei migranti, invece, è davvero è uno strumento di deterrenza. E di ricatto: “Se provi a venire qui, ecco cosa ti accade”. Nel nostro sistema giudiziario quanto conta quella che lei definisce “la tirannia dell’opinione pubblica”? Quella che noi chiamiamo opinione pubblica è in realtà una sommatoria di opinioni private che fanno la maggioranza. Ne parlava Tocqueville quando descrivendo il nostro modello di democrazia si preoccupava del conformismo, dell’adesione quasi totale a un pacchetto di valori e di stili di vita. Allora, a forgiare la supposta “opinione pubblica” è piuttosto una informazione deviata, una sommatoria di inganni, una congiura dell’ignoranza: c’è chi ignora la natura del crimine, chiT’effetto del carcere e chi la sofferenza della vittima. Non ha contribuito anche, a questa congiura dell’ignoranza, quella che lei chiama la criminologia pubblica”? Certamente. La criminologia pubblica è una nuova tendenza che fa la parte di chi si rivolge all’autorità chiedendole di essere benevolente verso i poveri disgraziati. È una criminologia dall’approccio paternalistico, da esercito della salvezza. Perché ha rinunciato a capire i mutamenti sociali e invece di interloquire con gli attori sociali coinvolti si rivolge elitariamente agli esperti e ai rappresentanti politici e istituzionali. Quali sono secondo lei le scelte legislative che hanno contribuito alla costruzione di quella che lei chiama “zona sociale carceraria”, cioè quella zona sociale soggetta alla “porta girevole”? È una questione di scelte legislative ma anche di sottrazione di risorse. Con le norme che aumentano la flessibilità e il precariato si è allargata l’area di economia irregolare, la quale a sua volta è adiacente all’area dell’economia totalmente illecita. Ecco allora il formarsi di una sorta di pendolarismo degli esclusi tra comportamenti leciti, semi leciti e totalmente criminali. Quanto alla sottrazione di risorse, la filosofia che viene espressa è che se sei escluso è colpa tua, perché sei uno sconfitto. Certe leggi, poi, hanno fatto del carcere l’unica risposta ai problemi sociali, una sorta di deposito umano, come è successo con i consumatori di droghe per i quali si è scelto un atteggiamento poco tollerante e contemporaneamente si sono tagliati i servizi. Paradossalmente si può anche dire che chi va in carcere oggi può accedere a servizi che gli sono preclusi fuori. E allora quale logica sottende - se non, certo, quella economica - a questo trasferimento di fondi dai servizi pubblici al carcere? Un giudice britannico qualche tempo fa ha detto che il carcere è il modo più costoso di rendere le persone peggiori di quello che sono. Credo però che parlare dei costi della carcerazione non sia un’arma vincente, in un sistema economico e sociale come il nostro basato sul consumismo, sugli investimenti alla cieca, su incredibili sprechi. Io credo invece che il carcere sia usato come strumento educativo, nel senso che ho detto prima, che educa le persone cioè ad accontentarsi di nulla. Perché nulla è riservato loro. Giustizia: salvare la costruttività della pena, altrimenti la “medicina” si fa veleno di Giuseppe Anzani Avvenire, 7 luglio 2011 Le carceri italiane sono incivili, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ci ha già condannati (luglio 2009) e da allora le cose sono andate sempre peggio. E allora? Che cosa c’è di nuovo perché all’inizio dell’estate si torni a intonare la litania della tortura cento volte sentita, cento volte perduta? O che cosa dovrebbe ancora accadere, in un Paese dove i problemi non si discutono giudiziosamente sul tavolo, ma scoppiano per violenze e tragedie annunciate, da un capo all’altro della Penisola? Quanti suicidi ancora nelle “discariche” carcerarie? E invece qualcosa è accaduto. È accaduto che i direttori delle carceri non ci stanno più e vanno in piazza, perché il sistema arranca in uno stato di sostanziale illegalità, e rischia di esplodere. A giugno sono anche finiti i fondi della legge Smuraglia, quella che prevede sgravi fiscali per le cooperative che danno lavoro ai detenuti. Non si assume più, non ci sono più soldi. Il taglio colpisce il lavoro, un fattore del reinserimento sociale, dentro il devastante e stupidamente disumano ozio carcerario. Non se ne può più. Parlano da professionisti, i direttori. Ci rammentano l’essenziale, la parola scritta nella Costituzione; che la pena non è fatta per torturare, ma per emendare. Con accento non più sull’aspetto torturante, che abbiamo in orecchio con orrenda assuefazione, ma sull’aspetto emendativo, come speranza che sta fallendo. Singolare inversione del profilo reattivo contro l’insensatezza del carcere: non più, o non più solo, il dolore dei corpi in negativo, il picco della pietà stagionale che ci percuote sulla disperazione dei torturati di casa nostra. No, stavolta viene in gioco la verità o la fallacia della nostra sfida positiva, della nostra promessa di qualche salvamento, di qualche vantaggio sociale, scritto nella legge del 1975. Forse stiamo fallendo. È il problema della medicina che diventa veleno. È il problema della legalità che si morde la coda, quando a punire chi ha violato la legge è un carcere fuorilegge (la parola fuorilegge è di Alfano, gennaio 2009). Fu dichiarata l’emergenza, ricordate? Oggi l’emergenza perdura, si aggrava di continuo, esplode. Però è stata dichiarata. E di queste ipocrisie siamo stanchi tutti, e stavolta con i dirigenti carcerari in testa. In nome della Giustizia va chiesto alla giustizia perché lo Stato delinque per primo. Qualche giudice penale minimamente coraggioso, prima di condannare alla “reclusione” potrebbe rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità della norma che dà quella pena edittale, paragonando la realtà storica dell’attuale tortura carceraria al modello dell’articolo 27 della Costituzione. È una provocazione, lo so. Ma scommetto che la Corte costituzionale avrebbe tanto da scrivere. A volte scatta l’idea dell’amnistia, come un corto circuito; tosto rimbeccato dal pensiero che dopo poco tempo i recidivi rientrano. Ma è proprio questo aspro e desolato buonsenso ad avvertirci che se non serve far uscire la gente senza che sia cambiata, ci si deve finalmente chiedere a che serve tenerla dentro senza che cambi, senza che si offra e assecondi il cambiamento. È questa la forte novità del sit-in di ieri dei direttori di carcere. Non è più la sola descrizione disperata, a campeggiare. È invece il rischio che corre la parte costruttiva, la tenace speranza che vede afflosciate le vele, i progetti fiaccati, i fondi tagliati, l’attenzione appassita. Noi crediamo che l’allarme debba essere ascoltato da tutte le parti politiche, e con qualche passione perché il cammino dell’uomo verso il ravvedimento e la giustizia chiede in certo modo il rispetto di un mistero, dentro il dolore. Sciupare il dolore è una sorta di sacrilegio. Forse è utopia il sogno di una redenzione sociale senza dolore. Ma è certo follia la realtà di un dolore che non produce redenzione. Giustizia: morti in cella a quota 100, si rischia di battere il “record” del 2010 Redattore Sociale, 7 luglio 2011 I dati dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere: in sei mesi 32 suicidi, 23 casi da accertare, i restanti malori. In 10 anni 1.847 detenuti morti È un anno nero, il 2011, per il carcere italiano, con una lista delle morti in cella che si allunga senza sosta. In 183 giorni hanno perso la vita 100 detenuti: 32 i suicidi, 23 i casi oggetto di inchiesta giudiziaria per accertare le cause, mentre per gli altri detenuti, la cui età media era di 35 anni, si è trattato di “malori improvvisi” legati a disfunzioni cardiache, respiratorie e altro. Dati alla mano, cresce la preoccupazione per il trend di decessi che, se rimanesse stabile fino alla fine dell’anno, porterebbe al sorpasso del dato “record” del 2010, quando le morti in carcere furono 186. L’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, che ha diffuso i numeri, ricorda che dal 2000 a oggi il totale dei detenuti morti è di 1.847 (di cui 658 i suicidi), mentre tra il personale penitenziario si sono suicidati 88 poliziotti, un direttore e un Provveditore regionale in Calabria. Guardando lo storico, i minimi del decennio risalgono al 2006 e al 2007: “Quando per effetto dell’indulto la popolazione detenuta era tornata nei limiti di capienza previsti per il sistema penitenziario, i detenuti morti furono rispettivamente 134 e 123” riferisce l’Osservatorio. Il centesimo detenuto che ha perso la vita si chiamava Giuseppe La Piana e si trovava a Palermo, nel carcere dei “Pagliarelli”, quando è stato stroncato da un malore. Il 10 agosto avrebbe compiuto 36 anni. Il medesimo destino è toccato quello stesso giorno a un internato nell’Opg di Aversa, appena 45enne. In questa struttura dall’inizio dell’anno sono morti in 7: tre si sono suicidati, uno, privo di denti, si è soffocato nel tentativo di inghiottire del pane, un altro è morto per problemi cardiaci e l’ultimo per una sospetta setticemia. Tra le ultime vittime del carcere ci sono anche Carmine Parmigiano, 32enne di Salerno detenuto a Rebibbia, ritrovato senza vita il 30 giugno dopo quindici giorni di isolamento: il referto parla di “strangolamento auto provocato”. Non è stato un malore a togliere la vita ad Abbedine Kemal, come inizialmente pensato: il 15 giugno qualcuno lo ha ucciso colpendolo alla testa con corpo contundente rigido, avvolto in un panno per non lasciare tracce. Aveva 24 anni. Giustizia: carceri al collasso, cento direttori in piazza per dire “basta” di Ilaria Sesana Avvenire, 7 luglio 2011 Siamo moderatamente soddisfatti, spiace solo che per essere ascoltati si debba scendere in piazza”, è il commento di Enrico Sbriglia, direttore del carcere di Trieste e segretario nazionale del Sidipe (Sindacato dei dirigenti penitenziari), al termine della manifestazione che si è svolta ieri mattina a Roma di fronte alla sede del ministero della Pubblica amministrazione. Per la prima volta nella storia della Repubblica, più di un centinaio di persone, tra direttori di carcere e degli uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) sono scesi in piazza per protestare. “È stata una manifestazione rumorosa ma ordinata. Sono arrivati colleghi anche da regioni lontane come Sicilia, Sardegna, Calabria, Trentino - aggiunge Sbriglia. Abbiamo ottenuto un primo risultato: l’assicurazione che tra il 18 e il 23 luglio verrà aperto un tavolo contrattuale”. Parlano di “prigionieri” e non di “detenuti” per sottolineare quanto siano drammatiche condizioni di sovraffollamento e invivibilità delle carceri. E aggiungono: “Noi garantiamo diritti senza avere diritti”. Già perché i direttori delle carceri non hanno un contratto che li tuteli, sono in numero decisamente inferiore rispetto al numero di strutture che devono gestire. Alcuni di loro devono mandare avanti due o più penitenziari. Ieri i manifestanti tenevano tra le mani un libretto listato a lutto, da titolo inequivocabile: “Ordinamento penitenziario. Ovvero leggi e norme violate e uccise”. Perché la prassi quotidiana all’interno dei penitenziari italiani va contro quello che stabilisce la legge. “Le carceri sono sature, invivibili. Non sono in grado di ospitare un numero così grande di detenuti”, spiega Rosalio Tortorella, direttore della casa circondariale di Catania “Piazza Lanza”, struttura pensata per ospitare poco più di 200 detenuti ma che ne accoglie circa 600. “Mancano gli agenti di polizia penitenziaria, ma anche educatori, personale pedagogico, psicologi”, aggiunge. E se sul fronte della polizia penitenziaria qualcosa si sta muovendo, grazie alle nuove assunzioni di agenti, tutto tace per quanto riguarda le figure dell’area trattamentale. “La pena ha una funzione rieducativa e abbiamo bisogno di persone che lavorino per questo - aggiunge Francesco D’Anselmo, direttore di Alghero. Come si può lavorare bene se ci si deve dividere fra due, tre carceri?”. “Noi crediamo nel mandato costituzionale. Purtroppo però non siamo nelle condizioni di poter esercitare il nostro mandato - aggiunge Rosalio Tortorella. L’ultimo concorso per dirigenti penitenziari risale a 15 anni fa”. E così si verificano situazioni paradossali, tali per cui per gestire i 12 istituti penitenziari della Sardegna ci sono solo cinque direttori. “Ciascuno di noi gestisce in media due istituti - spiega D’Anselmo che dirige anche la scuola di polizia di Monastir - . E il Nord dell’isola è completamente scoperto”. Ma la situazione è altrettanto complicata per i direttori degli Uffici esecuzione penale esterna: Antonina Tuscano dirige l’Uepe di Udine che ha competenza anche per le province di Gorizia e Pordenone. “Nel mio ufficio dovrei avere 24 assistenti sociali ma ne ho solo nove e non ci sono concorsi in vista. Solo a Udine seguiamo più di 500 persone in misura alternativa - spiega. Inoltre, dal 2008 seguo anche l’Uepe di Trento”. Giustizia: direttori dei penitenziari in piazza “anche noi siamo dietro le sbarre” di Riccardo Barenghi La Stampa, 7 luglio 2011 Detenuti in piazza, solo che si tratta dei direttori delle carceri che però un po’ detenuti si sentono anche loro: “Entriamo in carcere alle otto di mattina e usciamo alle nove di sera, praticamente più di metà della nostra vita trascorre dietro le sbarre”, racconta Carmelo Cantone che dirige il nuovo complesso di Rebibbia. Ma fosse solo questo il problema, si tratterebbe semplicemente di superlavoro. Il problema, anzi i problemi, sono molto più grossi e più gravi, non a caso hanno deciso di protestare ieri mattina davanti al ministero della Funzione pubblica (quello di Renato Brunetta). Erano un centinaio, arrivati da tutt’Italia, magliette alla spagnola con la scritta sono indigNato, vestiti di nero nel senso del lutto: “Diamo sicurezza ma non abbiamo sicurezza” sui cartelli. Vogliono un contratto per loro che finora non hanno mai avuto essendo equiparati ai funzionari di polizia. E per questo hanno ottenuto l’apertura di un tavolo a metà luglio. Ma si sa, un tavolo non si nega a nessuno, quindi lasciano la piazza non proprio soddisfatti. Prima però raccontano la loro vita, o meglio la vita dei loro detenuti. Costretti come si sa a vivere (vivere?) ammucchiati in celle costruite per contenere la metà di quelli che ci stanno. A Spoleto per esempio, spiega il direttore Leo Giacobbe, abbiamo 700 persone quando il massimo consentito sarebbe di 350: “Siamo stati costretti a riempire le sale giochi di detenuti, stipati in dodici, tredici con un solo bagno, finestre minuscole...”. La soluzione, l’unica secondo Giacobbe, sarebbe “un’amnistia che consenta al sistema di ripartire rendendo tutto più umano e razionale. È demagogico promettere nuove carceri che tanto non si possono fare perché mancano soldi e personale”. Per non parlare di quelli che gestiscono le pene alternative al carcere, come Rita Andreucci e Vincenzo Petrella: “Da dieci anni non riceviamo nulla, il personale è stato ridotto di quasi il 40 per cento, mancano assistenti sociali, psicologi, non abbiamo la benzina per controllare i detenuti. Eppure solo il 19 per cento torna a commettere reati, mentre in carcere siamo al 70 per cento di recidivi”. Basterebbe questa cifra per incentivare le pene alternative, invece non basta: attualmente sono solo 16 mila contro i 70 mila rinchiusi nelle celle. Se uno pensa al direttore di un carcere magari gli viene in mente un aguzzino, per esempio quello di “Quella sporca ultima meta” con Burt Reynolds oppure quello di “Fuga da Alcatraz” con Clint Eastwood. Invece a vederli lì sul marciapiede aguzzini proprio non sembrano, semmai brave persone. Non sono nemmeno in sciopero, tutt’altro: si sono presi un giorno di ferie per protestare. Perché non hanno la carta igienica, i dentifrici, i materassi per i loro detenuti: “Ci dobbiamo indebitare per ottenerli, firmiamo e non paghiamo, poi si vedrà...”, spiega Cantone. Si arrangiano come possono, associazioni, volontari, enti locali. Come a Brescia dove la direttrice Francesca Gioiemi racconta che il Comune governato da una giunta Pdl-Lega “ci compra materassi, frigoriferi, televisori. Un lavoro straordinario”. Parola di una persona che certo non vota centrodestra. Così suppliscono alla carenza di risorse che dovrebbero arrivare dall’amministrazione penitenziaria, ossia dal ministero della Giustizia, ma che non arrivano. “Hanno tagliato via via montagne di risorse - denuncia Gianni Rizza che dirige il penitenziario di Catania - in dieci anni siamo vicini al 50 per cento”. Nessuno ha più soldi per tentare di recuperare i detenuti, fargli imparare un lavoro, farli studiare, cercare di avviarli a una vita diversa una volta usciti, sempre che nel frattempo non si siano suicidati. Il carcere ormai è un deposito di uomini e donne buttati lì ad aspettare la fine della pena. E che di pena si tratti i direttori non hanno dubbi: “Il carcere è sempre più un contenitore - continua Rizza - e il direttore è costretto spesso e malvolentieri a fare il domatore. Ma il nostro sistema penitenziario era nato con un altro scopo, quello di fornire ai detenuti l’opportunità di entrare in contraddizione con la loro subcultura e magari di farli uscire un po’ diversi da come sono arrivati. Non voglio dire angioletti, ma insomma...”. Giustizia: meno soldi, più detenuti. Il fallimento delle carceri di Marco Neirotti La Stampa, 7 luglio 2011 Carenze igieniche, celle sovraffollate, scarso personale: ecco i numeri dello scandalo. Fuori dalle mura con le garitte disagio, immigrazione, droga, marginalità, devianza sociale o psichiatrica, violenza si spargono e si nascondono per spazi ampi. Dentro le mura con le garitte convivono compressi, senza via di sfogo (salvo, ogni tanto, uno sfiatatoio in forma di indulto o impuntino) e, nello stesso contenitore di pareti e inferriate, coinvolgono personale di ogni livello. Questo raccontano le cifre: numero di detenuti, divisi per momento processuale, provenienza, suicidi tentati o realizzati. E questo raccontano la manifestazione di ieri dei dirigenti di istituti e quella degli agenti penitenziari che si svolgerà oggi e che il segretario del sindacato Ugl, Giuseppe Moretti, sintetizza in una “campagna per la tutela della dignità e della sicurezza del Corpo”. Corpo che si riconosce nelle parole pronunciate ieri dal Segretario dei Radicali Italiani, Mario Staderini: “Lo Stato italiano, ad ogni livello, continua a trattare le carceri come discariche sociali, dove i direttori degli istituti e chi vi lavora sono abbandonati, al pari dei detenuti, in una voragine che inghiotte tutto, dalla legalità ai diritti umani”. Il cuore del fenomeno - via via illustrato nel dettaglio dai grafici di questa pagina - è il raffronto tra la capienza delle nostre carceri (48 mila detenuti) e la popolazione effettiva secondo il Dap al 30 giugno di quest’anno: 67.394 persone, quasi 20 mila in eccesso. Un po’ più della metà sono condannati definitivi, il resto è suddiviso tra chi attende il primo grado di giudizio (21%), chi attende l’Appello (11,5%), chi ancora spera nella Cassazione (7%) e un 5% fra chi ha situazioni variegate per più imputazioni a carico e chi è internato in strutture psichiatriche giudiziarie. Questa è la radiografia asettica del sovraffollamento, cui si contrappone un progressivo ridursi degli investimenti, fino al 30% in meno, mancanza di mezzi che va a colpire l’adeguamento numerico del personale (i sindacati parlano di 5.000 uomini indispensabili che mancano), ma anche la manutenzione, a partire dalle più elementari esigenze igieniche. Tabelle e elaborazioni della Fondazione Hume su dati ufficiali del Dap, svelano oscillazioni a volte flebili e a volte nette, rassicuranti sullo sfollamento dalle carceri oppure sullo sfollamento dei vicoli di città pericolosi, gioco di palliativi a una pentola a pressione o di contentini all’emotività popolare: l’”indultino” del 2003 portava un po’ di “saldi” (fino a due anni del rimanente) a chi aveva già scontato almeno metà pena. L’indulto tosto del 2006 (tre anni di carcere che passano in cavalleria) diede una boccata d’ossigeno consistente: da 60 mila le cifre Dap ci portano a 42 mila detenuti, sotto la soglia della massima capienza. Nel secondo semestre 2007 si faceva già sentire il graduale rientro attraverso la “porta girevole” delle carceri. Dal 2008 si correva verso i 60 mila detenuti: su spinte emotive dettate dalla percezione di paura sociale era nato, alla faccia dell’indulto, il “pacchetto sicurezza”. Nel 2010, altro “indultino”, legge “svuota carceri” che dovrebbe mandar fuori più o meno 8 mila persone, quelle il cui residuo non supera i dodici mesi: c’è chi rinuncia al beneficio perché non sa dove andare. In questa storia di degradante sovraffollamento e occasionali sfiatatoi è proseguita la trentennale evoluzione della società esterna che sforna gli ospiti di carceri: sono mutati e stanno mutando criminalità e disagi, reati e loro effettiva punizione. Tra le cifre che andrebbero analizzate c’è il numero vorticoso della porta girevole: il 30% esce in tre giorni e non per ghiribizzi di giudici, per convalide di fermi che una volta si sbrigavano in camera di sicurezza. In questo magma nuovo che è la popolazione detenuta, fino a pochi giorni fa, in linea con gli anni scorsi, gli stranieri sono oltre 24 mila, il 36,6%. Numeri che non si spengono in una sfilata di dati statistici ma sono realtà minima e pesante della convivenza dietro le sbarre, dove ci sono disagi psichici dalle matrici più varie. È maturato l’atteggiamento dei “guardiani”, dicono direttori e agenti, ma da solo: abbandonati, loro e i detenuti, sulla zattera di pietra - riempita e svuotata secondo il momento che invoca rispetto. Giustizia: Clemenza e Dignità; puntare solo sulla detenzione è stato un errore Img Press, 7 luglio 2011 La messa in prova, il lavoro di pubblica utilità, e tutto ciò che fosse stato diverso dalla carcerizzazione, sono stati giudicati, in tutti questi anni, inadeguati, anzi quasi pericolosi per la sicurezza dei cittadini. Lo afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità, che aggiunge: in linea di principio, le scelte strategiche, gli indirizzi, appartengono solo alla politica e sotto questo profilo non sono propriamente sindacabili. Tuttavia - prosegue - anche le scelte e le discrezionalità necessitano pur sempre di uno stretto raccordo con la realtà fattuale, e allora viene da chiedersi come si possa mai optare per un sistema basato solo sulla carcerazione, se al momento dell’esercizio dell’opzione non si posseggono assolutamente le strutture detentive sufficienti ed adeguate per sostenere anche in prospettiva tale scelta. Così come viene da chiedersi - rileva - come si possa mai optare per un sistema basato solo sulla carcerazione, se al momento dell’esercizio dell’opzione, non sia ragionevolmente prevedibile, anche alla luce delle esperienze passate, la dotazione in tempi brevi e certi di ulteriori e nuove strutture. Volendo anche ritenere, - osserva - la messa in prova, il lavoro di pubblica utilità ed altre proposte tese alla rieducazione e al reinserimento, come non in grado di garantire ai cittadini lo stesso grado di sicurezza della detenzione, le stesse proposte, tuttavia, avrebbero comunque evitato agli stessi cittadini, il futuro prodursi della insicurezza massima. Una insicurezza massima - conclude - conseguente ad un nuovo provvedimento di clemenza, verso il quale, stante la tragedia umanitaria in corso, ci stiamo ormai inesorabilmente avviando. Giustizia: intervista a Guido Brambilla, un magistrato che crede nel cambiamento delle persone Tempi, 7 luglio 2011 Non solo sbarre. “Abbiamo anche la responsabilità di rieducare”. Un magistrato contro “il giustizialismo che non crede nel cambiamento delle persone”. Lm esecuzione penale ha un principio cardine: la funzione della pena non è solo retributiva ma anche, come afferma la Costituzione, rieducativa. Chi ha commesso un reato viene consegnato non solo a un luogo (ad esempio il carcere), ma anche a tutta una serie di rapporti interpersonali: con il direttore dell’istituto di custodia, la polizia penitenziaria, gli educatori, gli assistenti sociali e il magistrato di sorveglianza, tutti preposti alla fase esecutiva. Il magistrato di sorveglianza è una figura di giudice introdotta in tempi relativamente recenti con la legge sull’ordinamento penitenziario del 1975. Guido Brambilla svolge questo compito presso il Tribunale di Milano. Attraverso l’uso di strumenti giuridici tipizzati (permessi, misure alternative alla carcerazione quali la semilibertà, la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali, eccetera), nell’ambito di un delicato percorso di “progressione tratta - mentale”, calibrata sulla specificità dell’individuo, al fine di favorire il suo graduale rientro nell’ambito sociale di appartenenza. Il tutto “senza disattendere l’altrettanto importante principio dell’effettività della pena che viene resa solo flessibile in concomitanza del cambiamento, nel tempo, della personalità del condannato”. Di quanti detenuti è responsabile un magistrato di sorveglianza? C’è un grosso problema in Italia e non solo, che è quello del sovraffollamento carcerario. Per questo il numero dei magistrati di sorveglianza, specie nelle grandi città, è assolutamente inadeguato a fronteggiare le richieste dei detenuti. Inoltre, il magistrato di sorveglianza segue anche tutti coloro che, sin dall’origine o successivamente, siano stati ammessi a una misura alternativa, vale a dire coloro che si trovano nella cosiddetta “esecuzione penale esterna”. Il compito non è semplice, proprio perché il giudice deve interagire con figure istituzionali che non attengono all’ordine giudiziario, come i direttori delle carceri, per esempio, o gli assistenti sociali, e non sempre i diversi approcci alla finalità rieducativa collimano fra di loro. A Milano i detenuti vengono affidati al magistrato in base alla lettera iniziale del cognome: io, per esempio, mi occupo di tutti i detenuti delle carceri di Opera, Bollate, Monza, San Vittore e Lodi il cui cognome inizia con la lettera S e parte della lettera L. Sono tanti. Circa 400. Considerando che, in media, ognuno di loro presenta annualmente una decina di istanze, il carico del mio lavoro complessivo (tra funzioni monocratiche e collegiali) ammonta a circa quattromila procedimenti l’anno. Può capitare che due detenuti abbiano commesso lo stesso reato, ma il loro percorso abbia due risvolti differenti, a seconda del magistrato che li segue? Premesso che la discrezionalità è una delle caratteristiche dell’attività giurisdizionale, può capitare che un giudice, legittimamente, privilegi l’aspetto retributivo della pena, con un approccio più cautelativo rispetto alla funzione rieducativa, diversamente da un altro più disponibile a giocarsi immediatamente in un rischio rieducativo. A mio parere, poiché il magistrato è preposto a disporre e seguire un percorso rieducativo col singolo detenuto, chi si limita solo a sorvegliare l’esecuzione della pena non tiene in debito conto tutti i fattori che ineriscono all’intima natura della medesima. Detto questo, va però aggiunto che a fronte del medesimo reato le risposte dei due autori sul piano rieducativo possono essere diverse, proprio perché non ci si muove più sul piano della sanzione, ma su quello, almeno altrettanto delicato, del percorso trattamentale, che è sempre individualizzato e che, quindi, ben può essere distinto. Nell’ambito di uno stesso tribunale di sorveglianza il presidente dovrebbe, in ogni caso, garantire una uniformità di criteri orientativi al fine di evitare che si verifichino disparità vistose di trattamento. Erika De Nardo uccise a Novi Ligure, insieme al fidanzato Omar, la madre e il fratello. Nel 2006 il suo sorriso mentre gioca a pallavolo durante un permesso, è diventato il simbolo della seconda possibilità che il carcere prevede ma che, spesso, è percepita come immeritata. Esiste una tendenza giustizialista dell’intera società, spesso alimentata anche dal clamore mediatico delle vicende giudiziarie. È frutto di una visione della vita per cui l’uomo non può cambiare, è irrevocabilmente congelato ai suoi gesti e non può essere perdonato: quindi bisogna chiudere la porta e buttare via la chiave. L’obiettivo, seppur faticoso, è invece quello del reinserimento sociale. Per questo la legge prevede (ed è un’attuazione del principio di sussidiarietà) che possano intervenire, nel percorso trattamentale del condannato, anche soggetti che sono espressioni del privato sociale. Il volontariato è una di queste espressioni. Ad esso si affiancano altre realtà: imprese, associazioni, fondazioni e iniziative, anche di tipo culturale, che sono molto positive perché più vicine alla persona rispetto agli enti istituzionali e portatrici di più concrete istanze educative. Solo alcuni esempi: le “sartine” della Cooperativa “Alice” che confezionano vestiario anche di lusso e che, una volta, preparavano i costumi per il Teatro alla Scala di Milano; la Casa di reclusione di Bollate è sempre stata una fucina di iniziative, tra vivai, serre, laboratori artigianali e anche un maneggio per l’ippoterapia; presso il carcere di Busto Arsizio è operativa “Dolci Libertà” una “cioccolateria” che produce dolci di alta qualità come quelli della cooperativa “Giotto” di Padova e molte altre. Tutte queste iniziative incidono, in modo reale ed efficace, sulla rieducazione, perché il lavoro passivo, fatto solo per evitare l’ozio della cella, è ben diverso da un’attività improntata a creare futuri lavoratori. È anche attraverso un semplice panettone prodotto in carcere e servito nei migliori ristoranti e pasticcerie d’Italia, che si abbattono le barriere. Si è tornati a parlare di amnistia. Da cosa passa una possibilità di cambiamento per un sistema carcerario in ginocchio? Non si vede, in effetti, un’alternativa: o si costruiscono più carceri (ma dubito che ci siano le risorse necessarie) o bisogna affrontare il problema in altro modo. Da poco è stata introdotta un’ulteriore forma di detenzione domiciliare, la cosiddetta “svuota carceri” (legge 199 del 2010) che però ha inciso in minima parte sul problema rilevato. Il livello di sovraffollamento si mantiene, infatti, sempre oltre lo standard della capienza nazionale. Il carcere, invece, dovrebbe essere, a mio parere, un luogo detentivo (mi riferisco principalmente, per il mio mestiere, ai detenuti definitivi) per certi tipi di reati, connotati soprattutto da violenza verso la persona. Bisognerebbe forse operare anche una modifica dello stesso codice penale, intervenendo sul sistema sanzionatorio, oggi basato solo sulla reclusione e sulla pena pecuniaria. Esiste invece tutto un sistema di misure alternative, come quelle già menzionate (i lavori socialmente utili, l’affidamento ordinario, l’affidamento terapeutico, la detenzione domiciliare), che potrebbe essere inquadrato, sin dall’inizio, nel novero delle sanzioni applicabili con la sentenza. Infatti, le misure esterne sono alternative al carcere, ma sono vere e proprie sanzioni penali (le cosiddette “pene comunitarie”), che dovrebbero essere potenziate e valorizzate anche per evitare che siano percepite dalla società come meri strumenti assistenziali. Andrebbero poi sviluppati gli interventi della mediazione penale (uno strumento di soluzione del conflitto generato dal reato, già sperimentato positivamente nella giustizia minorile), che potrebbero deflazionare ulteriormente la fase esecutiva. L’attuale sistema, invece, determina ancora, a mio parere, una eccessiva burocratizzazione delle procedure e inutili “passaggi” per il carcere. Certo, una sottovalutazione del problema e la mancanza di una significativa rivisitazione del sistema, così come oggi concepito, renderebbero prima o poi improcrastinabile un provvedimento di clemenza. Giustizia: diritto alla salute e compatibilità con il regime carcerario di Simona Carandente (Avvocato) www.ilmediano.it, 7 luglio 2011 Nelle carceri vengono istituiti presidi sanitari per i detenuti che hanno bisogno di cure; tuttavia, è possibile che in caso di grave infermità fisica, la pena venga differita. Una nuova calda, caldissima estate è alle porte, tra l’insofferenza della popolazione penitenziaria, giunta a toccare picchi di densità inverosimili, e la tristemente nota mancanza di provvedimenti risolutivi, capaci di porre fine drasticamente ad un fenomeno increscioso che pone il nostro paese al centro di forti polemiche in sede europea. Se già l’espiazione della pena in regime carcerario presenta innumerevoli, ed inevitabili, connotati di afflizione, diversa è la situazione del detenuto gravato da problemi di salute, specie fisici, tali da aggravare le già complesse, e sovente ingestibili, dinamiche della detenzione. Di norma, difatti, l’Ordinamento Penitenziario prevede che, all’interno delle Case Circondariali e dei Penitenziari in genere vengano istituiti dei presidi sanitari, idonei a fornire ai soggetti ivi ristretti le cure delle quali abbiano bisogno, somministrate sotto stretto controllo medico. Eppure, è facile intuire come talune, complesse patologie necessitino di cure specifiche, tali da non apparire fronteggiabili con il ricorso ai presidi ospedalieri interni, rendendo nei casi più delicati incompatibile lo status detentivo con il regime carcerario. La quantità di soggetti detenuti, gravati da problemi di salute, è oltremodo vasta, ma per la stragrande maggioranza di essi, a prescindere dalla durata della pena da espiare, il carcere viene ritenuto comunque luogo idoneo a fronteggiare le patologie delle quali risultano affetti, con notevoli conseguenze sulla famigerata rieducazione del condannato e partecipazione alle attività formative e socio - culturali. L’art.147 del codice penale prevede la possibilità che l’esecuzione della pena venga differita, laddove ricorrano determinate condizioni, solo per i detenuti affetti da “grave infermità fisica”, intendendo di fatto tale solo lo stato di salute realmente grave, che determini un pericolo di morte non fronteggiabile attraverso il ricorso alla cure nosocomiali. Ai fini del differimento dell’esecuzione della pena inflitta, un importante ruolo viene riconosciuto all’attività di rieducazione del condannato, alla quale dovrebbe essere improntato l’intero trattamento penitenziario: la grave infermità fisica, difatti, inciderebbe negativamente sull’esito di quest’ultimo, limitando non solo la partecipazione del condannato alle attività inframurarie, ma lo stesso buon esito di esse, attraverso una pena vissuta dal reo in termini di maggiore afflittività e costrizione rispetto alle condizioni normali. Difatti, anche se per talune pronunce della Suprema Corte non assumerebbe rilevanza, ai fini del differimento dell’esecuzione della pena, il carattere cronico ovvero inguaribile della malattia, nella realtà dei fatti si pone l’accento sulle reali possibilità di miglioramento dello stato di salute del detenuto stesso, laddove sottoposto a cure diverse e più efficaci di quelle fornite all’interno dei penitenziari. Lettere: altre 70mila buone ragioni… Il Manifesto, 7 luglio 2011 Livio Pepino ha intitolato “70.000 buone ragioni” il suo editoriale de16 luglio, concernente i disordini in Val di Susa avvenuti domenica scorsa; sono nato a mezz’ora da lì, anche se vivo e lavoro a Firenze, ma oggi vorrei parlare di altre 70.000 buone ragioni”, quelle dei detenuti italiani. Con qualche rara eccezione (tra queste, Il Manifesto), la questione carceraria sembra non destare alcun interesse nei media, né suscita particolare scandalo il fatto che i detenuti siano più di 67.000, a fronte di una capienza regolamentare di circa 45.000 unità. In questi giorni estivi si è scritto, senza entrar nel merito delle questioni, dello sciopero della fame di Marco Pannella; moltissime persone, detenute e libere, hanno aderito all’iniziativa che sta proseguendo, ma la politica (una parte) non è andata oltre la manifestazione di solidarietà a Pannella. Si sa, non conviene. Nella Circolare Dap, Direzione Generale dei detenuti e del trattamento, per le linee di indirizzo per l’anno 2011 sui progetti pedagogici di Istituto è scritto che occorre ricollocare... “l’attività rieducativa al centro delle attività di Istituto, nella consapevolezza che non può esserci sicurezza se non viene garantito il trattamento e che - alla luce dell’esperienza - la mera custodia non costituisce garanzia di sicurezza”. Le condizioni detentive che limitano i diritti dei detenuti non possono essere giustificate dalla mancanza di risorse; un carcere improntato a privazione e sofferenza, umiliazione e deresponsabilizzazione, conferendo legittimazione alla violenza, non può che dar luogo ad altra violenza. Chi vuole una società più giusta e solidale, ed anche più sicura, deve liberare il carcere dall’illegalità. Avv. Michele Passione Osservatorio Carcere Ucpi Lettere: il mio calvario da compagna di un recluso La Stampa, 7 luglio 2011 Da alcune settimane qualche voce sta denunciando il disastro del sistema carcerario italiano. Vorrei portare a conoscenza la mia esperienza personale di libera cittadina italiana incensurata. Il mio compagno è in carcere da 6 settimane (per un reato minore), e sono assolutamente convinta che debba pagare il suo debito espiando la sua pena. Da allora non l’ho più visto. Ore e giornate perse. Per ottenere un permesso di visita al detenuto, da cui ho un figlio piccolo che però non porta il suo cognome, non basta dichiarare che egli è il mio convivente, né che è domiciliato presso di me, come risulta anche dalla detenzione domiciliare che ha espiato in casa mia durante la custodia cautelare. Dovrei produrre un certificato di residenza comune. Ovviamente all’anagrafe se non si presenta il diretto interessato non si può ottenere nulla (tranne interminabili code ai più svariati sportelli). Bisogna ottenere il permesso dalla direzione del carcere come terza persona (?), a seguito di una domanda interna che deve presentare il detenuto stesso. Bene, a tutt’oggi due domande presentate senza risposta. Più volte nei giorni di apertura non rispondono nemmeno al telefono. La domenica è sempre chiuso. Il sabato è aperto due volte al mese. Ai due sabati di chiusura seguono anche (oltre le domeniche) i lunedì di chiusura. Non basta. Nei giorni di apertura - dai 9 agli 11 giorni mensili - i colloqui coi detenuti si svolgono a seconda dei padiglioni di appartenenza. Quindi hai due giorni infrasettimanali disponibili e una volta al mese il sabato. Orario: 8 - 12,45. Una volta a settimana sino alle 15,30. Dimenticavo, dal momento della registrazione all’ingresso può capitare che trascorrano anche diverse ore di attesa all’interno, perché stanno “cercando” il detenuto. Totale tempo minimo impiegato per un’ora di colloquio: ore 3. Senza il permesso non si possono consegnare pacchi alimentari. Da quando è entrato non hanno consegnato le lenzuola. L’erogazione dell’acqua è stata sospesa già due volte per periodi di 4 giorni. Niente docce. Ti lavi i denti e le mutande con l’acqua minerale (se te lo puoi permettere). 1.650 detenuti contro una capacità di 857. Ho sempre creduto che la nostra Repubblica fosse un Paese civile. Porse dovremmo far pagare il biglietto d’ingresso per una visita guidata di questi “zoo umani”. Saremmo compiaciuti di constatare che la specie umana ha un istinto di sopravvivenza di gran lunga superiore alle bestie. La protezione degli animali ottiene risultati importanti, e non permetterebbe mai di vivere a quaranta gradi in una gabbia di 2 metri per 2. Il mio compagno sta scontando la sua pena nel carcere torinese Lorusso Cutugno ex Le Vallette. Io la sto scontando fuori, insieme ai famigliari di 1.650 ominidi. Lettera firmata Puglia: Introna (Regione); nelle carceri c’è un’emergenza sociale e umanitaria Agenparl, 7 luglio 2011 Dopo l’esplosione di una bomboletta di gas in cella, che ha causato il ferimento di due detenuti nel carcere di Taranto, il presidente del Consiglio regionale della Puglia Onofrio Introna ricorda il punto all’ordine del giorno della prossima riunione dell’Assemblea. “Il garante dei detenuti è un argomento non più rinviabile, la priorità della seduta consiliare convocata per martedì 12 luglio. L’intero Consiglio è pronto a dare una risposta ai problemi della popolazione carceraria, resi di stringente attualità da gravi fatti di cronaca”. Per restare al solo carcere tarantino dove si è verificato l’ultimo incidente, 670 detenuti sono ristretti negli spazi riservati di norma a meno della metà di reclusi, non più di 315. E la situazione si ripete negli altri istituti di pena pugliesi. La nomina del “Garante regionale delle persone sottoposte a limitazione della libertà personale” e la creazione del suo Ufficio in forza alle strutture consiliari, è prevista dall’art. 31 della legge 19/2006 che disciplina il sistema integrato dei servizi sociali in Puglia ed è stata disciplinata nel 2009 dal regolamento n. 21. Opererà in piena libertà e indipendenza, non sarà sottoposto a controllo gerarchico o funzionale ed avrà pieno accesso ad “atti, informazioni e documenti inerenti il suo mandato”. Gli sarà affidata la protezione e la tutela non giurisdizionale dei diritti dei detenuti sul territorio regionale, dei diritti costituzionali di recupero e reinserimento sociale, della cura e salvaguardia della salute, istruzione, formazione professionale e lavoro, libertà di culto, di espressione e di opinione. “Offriremo uno strumento di civiltà alla Regione Puglia, al sistema detentivo ed agli stessi carcerati, rispondendo ad una nobile recente sollecitazione del Capo dello Stato”, ribadisce il presidente del Consiglio regionale, che ricorda gli impegni assunti in materia dal presidente Vendola, le dichiarazioni del presidente della commissione sanità Dino Marino ed altri consiglieri di maggioranza e minoranza. “Accolgo con particolare compiacimento - conclude Introna - l’iniziativa annunciata dai gruppi consiliari Sel e Puglia per Vendola”, che effettueranno un sopralluogo in sei carceri pugliesi per una verifica proprio in vista della seduta consiliare di martedì 12. Basilicata: i casi Sacco e Naw sono l’emblema dello stato di illegalità delle carceri di Maurizio Bolognetti Agenzia Radicale, 7 luglio 2011 Quante volte con Marco Pannella abbiamo ripetuto che da decenni in Italia si stanno realizzando “forme di detenzione che non sono previste e tollerate dalla legge italiana e internazionale”. Mentre lo sciopero della fame del leader Radicale va avanti da 77 giorni, nella mozione generale approvata dall’ultimo Comitato nazionale di Radicali Italiani abbiamo nuovamente sottolineato lo stato di illegalità antidemocratica in cui versa l’intera Repubblica Italiana, con il pianeta giustizia e il pianeta carceri che di questa illegalità assurgono ad emblema. L’azione nonviolenta dei Radicali, di Pannella, di Rita Bernardini, di Irene Testa, “ha visto impegnati e coinvolti insieme ai militanti radicali e associazioni come Antigone e Ristretti Orizzonti, oltre 15 mila detenuti, 4 mila loro familiari e decine di agenti, psicologi penitenziari, educatori, direttori di carcere, avvocati dell’Unione camere penali, esponenti di sindacati di polizia e volontari”. Ieri mattina, per la prima volta nella loro storia, i direttori delle carceri e quelli degli uffici dell’esecuzione penale esterna sono scesi in piazza per “protestare” - hanno scritto - “sullo stato penoso del sistema carcerario italiano”. Il segretario nazionale del Si.Di.PE, Enrico Sbriglia, ha tra l’altro dichiarato di non essere contrario ad una proposta di amnistia, “soprattutto se servirà a riportare dentro una cornice di legalità il sistema penitenziario”. E proprio ad ulteriore testimonianza di quanto drammatica sia la situazione che da tempo andiamo denunciando, emerge in queste ore in Basilicata il caso di due detenuti: Rosa Amato e Camara Naw. Entrambi i casi sono emblematici di una detenzione che rischia di tramutarsi in tortura. Rosa Sacco, da 7 mesi ospite della sezione femminile del carcere di Potenza, fa parte di quel 40 per cento di detenuti in attesa di giudizio. Rosa, 11 anni fa ha subito un trapianto di rene. Ed è proprio a Potenza che inizia la sua via crucis. In base a quanto appreso, i sanitari del carcere di Potenza, incomprensibilmente, non avrebbero somministrato alla ventinovenne calabrese un indispensabile farmaco antirigetto. Inoltre, sembrerebbe che quando la Sacco ha protestato, anziché rendersi conto che stavano mettendo a repentaglio la sua vita e la sua salute, i sanitari potentini avrebbero somministrato alla detenuta, anziché il farmaco salvavita di cui ha bisogno, degli ansiolitici. Risultato finale di questa situazione - che se dovesse trovare conferma sarebbe un incredibile caso di malasanità - Rosa Sacco è attualmente ricoverata in gravi condizioni presso l’ospedale di Matera. E veniamo al secondo caso, che ha per protagonista un detenuto extracomunitario: Camara Naw. Il 27 giugno 2011, Naw che, particolare non irrilevante, tra 19 giorni dovrà uscire per fine pena, si ustiona gravemente nel carcere di Matera. Dopo il ricovero in ospedale, il detenuto viene nuovamente tradotto in carcere il 2 luglio. Ad accompagnarlo le prescrizioni dei sanitari che prevedono una medicazione da farsi in carcere il 4 luglio e una seconda medicazione da effettuarsi in ospedale il 6 luglio. In base a quanto apprendiamo, sembrerebbe che in un primo momento i sanitari del carcere di Matera avrebbero disposto che il detenuto venisse medicato direttamente nella cella, in un ambiente tutt’altro che sterile. Sembrerebbe anche che solo a seguito del rifiuto opposto dall’infermiere incaricato, lo stesso sia stato medicato nell’infermeria del carcere, ambiente anche questo tutt’altro che idoneo. Perché a una detenuta trapiantata non è stata fornita un’adeguata assistenza sanitaria? Perché i sanitari del carcere di Potenza non sapevano che la Sacco aveva bisogno di assumere quotidianamente un farmaco antirigetto? E soprattutto vorremmo chiedere a chi di dovere, a chi ha facoltà di decidere: le condizioni di Rosa, detenuta in attesa di giudizio, sono compatibili con la detenzione? E ancora, in riferimento al caso di Camara Naw ci chiediamo: È stato opportuno disporre nuovamente la traduzione in carcere di un detenuto gravemente ustionato? Chi ha disposto che le medicazioni prescritte venissero effettuate in cella e non in infermeria? Non sarebbe stato opportuno, considerando le condizioni del detenuto, trattenerlo in ospedale? Le condizioni di salute di Camara Naw sono compatibili con la detenzione? L’infermeria della struttura carceraria materana è in grado di garantire un’adeguata assistenza? Di tutta evidenza, in questi due casi, troviamo una conferma a quanto andiamo da tempo denunciando sulle condizioni di detenzione e su carceri che sono diventate autentici luoghi di tortura per detenuti e agenti di Polizia penitenziaria. Vicenza: Garante, lavoro, cultura; il Comune vara il piano triennale per i detenuti Redattore Sociale, 7 luglio 2011 Tra le iniziative previste anche la creazione di gruppi con i famigliari dei detenuti e il potenziamento dello sportello informativo. L’assessore Giuliari: “Importante fare rete tra enti e organizzazioni del territorio”. Garante dei detenuti, sportello informativo, attenzione ai famigliari: sono questi i principali contenuti del “Piano della città per le persone in esecuzione penale 2011/2013” elaborato dalla consulta per le problematiche carcerarie del comune di Vicenza, che potrà contare su un finanziamento iniziale di circa 13 mila euro. “Un progetto di ampio respiro con valenza triennale che rispetta la vision dell’amministrazione” è il commento dell’assessore alla famiglia e alla pace Giovanni Giuliari, che annuncia: “Le delibere saranno sottoposte al consiglio comunale con l’intenzione che anche questo organo istituzionale dedichi la sua attenzione al carcere”. Il primo passo previsto è quello dell’istituzione del garante, la cui ricerca è già iniziata e che sarà scelto in una rosa già definita di quattro nominativi. Nel frattempo, si inizierà a lavorare anche per potenziare lo sportello informativo su problematiche sociali e abitative, con l’obiettivo di creare un servizio di consulenza completo che aiuti concretamente il detenuto. Sarà, inoltre, data attenzione ai familiari, con i quali verrà creato un gruppo “perché il carcere possa essere visto non solo come luogo di pena ma anche di riscatto” sottolinea Giuliari. All’interno dell’istituto vicentino saranno incrementate le iniziative culturali, con lo sviluppo dei prestiti librari, già possibili grazie alla Biblioteca Bertoliana, e con la presenza di scrittori, poeti, musicisti, cantanti. In primo piano ci sarà anche il progetto di inserimento lavorativo, grazie al coinvolgimento di aziende e cooperative. A questo proposito il Comune lancia un appello: “Sarà indispensabile per riuscire a sviluppare tutti gli intenti, la costituzione di una rete tra enti e organizzazioni del territorio”. Bologna: torna il Garante dei detenuti dopo un anno di assenza, aperte le candidature Redattore Sociale, 7 luglio 2011 Dopo un anno di assenza, causa commissariamento del comune, Palazzo d’Accursio accetta le candidature per nominare il nuovo garante. C’è tempo fino al 29 luglio. Cercasi garante dei detenuti. Dopo un anno in cui il ruolo è stato ricoperto dal difensore civico, il Comune di Bologna ha riaperto le candidature per la figura incaricata di tutelare chi viene privato dalla libertà personale. Sul sito web di Palazzo d’Accursio (www.comune.bologna.it) è infatti disponibile l’avviso pubblico per sottoporre le candidature al Consiglio comunale, che dovrà poi eleggere il garante. La figura manca da quasi un anno a Bologna, dopo che il mandato dell’ultimo garante, l’avvocato Desi Bruno, era scaduto nell’agosto del 2010: il commissario Anna Maria Cancellieri non poteva infatti nominare un successore. Una mancanza particolarmente grave, se si considera che il carcere di Bologna rimane il più sovraffollato d’Italia, con 1.100 detenuti su una capienza massima di 500 persone. E proprio nelle ultime settimane si sono moltiplicate le proteste dietro le sbarre, da parte degli agenti di polizia penitenziaria come dei carcerati. Almeno dal punto di vista della rappresentanza i detenuti dovrebbero presto avere un aiuto in più: il garante è scelto tra i cittadini italiani, come recita il bando, “con comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche e dei diritti umani”. Per presentare le candidature c’è tempo fino al 29 luglio. Il nuovo garante rimarrà in carica per 5 anni e riceverà un’indennità di 22.500 euro lordi l’anno. Venezia: Sappe; per il nuovo carcere servirebbero troppi soldi… e comunque manca personale Il Gazzettino, 7 luglio 2011 “Carcere nuovo? Servono troppi soldi”. Il Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria torna nuovamente in campo per prendere posizione sull’interminabile dibattito sulla nuova struttura detentiva. E lancia anche alcune proposte molto concrete. “I progetti presentati negli ultimi tempi - attacca Filomeno Porcelluzzi, rappresentante delle guardie di Santa Maria Maggiore - sono tutti troppo costosi e anche difficili da realizzare, soprattutto per problemi legati alla logistica”. Da qui la proposta che viene lanciata per arrivare ad un risultato sicuro, risparmiando al contempo enormi risorse. “Sarebbe utile ristrutturare la casa lavoro della Giudecca, collegata al carcere femminile e al contempo ultimare gli interventi a Santa Maria Maggiore - dice Porcelluzzi - In questo modo si potrebbero così ospitare 300 detenuti (120 dei quali alla Giudecca) senza spendere troppo”. Attualmente, infatti, a Santa Maria Maggiore ci sono 350 persone contro una capienza ufficiale di 160 e la situazione sta logicamente peggiorando con l’arrivo delle alte temperature estive. “Ma d’estate - spiega Porcelluzzi - c’è anche un incremento di arresti collegati soprattutto allo spaccio di droga nel litorale per cui la situazione è davvero destinata a peggiorare”. Altro tema non proprio marginale è quello relativo ai costi del personale. Le attuali 163 unità fanno fatica ad assicurare il servizio e nel caso in cui si puntasse sulla casa lavoro della Giudecca servirebbero almeno 200 agenti. Un problema davvero serio, se si pensa che tutto il settore è in costante attesa di finanziamenti e che molti padiglioni carcerari italiani non sono mai stati aperti proprio per carenze di personale. Gli agenti, ad esempio, aspettano ancora i soldi delle missioni fatte nei mesi scorsi e a questo punto si augurano che Comune o Provincia offrano un aiuto efficace, magari contribuendo al pagamento delle spese per aggiustare la fotocopiatrice dell’ufficio Scorte e traduzioni che da troppo tempo si è guastata. Sulla vicenda è intervenuto anche il coordinamento comunale di Futuro e libertà che, in un documento, appoggia le proposte del Sappe sostenendo quindi l’utilizzo della casa lavoro della Giudecca anche per favorire il reinserimento lavorativo dei detenuti. Firenze: Sappe; manca benzina, a Sollicciano la Polizia penitenziaria resta a piedi Ansa, 7 luglio 2011 La Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Firenze - Sollicciano è rimasta senza carburante per le traduzioni. Sono a rischio nei prossimi giorni le udienze nei Tribunali ed i trasferimenti dei detenuti anche per le visite ospedaliere programmate ed urgenti in caso di imminente pericolo di vita. “È trapelato che sin dalla data di ieri 6 luglio le carte di credito in dotazione al personale di Sollicciano (che serve anche per l’Istituto limitrofo “Gozzini”) utili ai rifornimenti di carburante, siano state bloccate per insufficienza di fondi”. È quanto dichiara Pasquale Salemme - Segretario Nazionale del Sappe (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria). “Parrebbe addirittura che la Società convenzionata con l’Amministrazione Penitenziaria per i servizi di rifornimento, sia creditrice per importi relativi agli anni 2010 e 2011. L’insolvenza dell’Amministrazione avrebbe ingenerato il gravissimo disagio che si ripercuoterà certamente sull’intero sistema giudiziario cittadino, e non solo, con tempi e modalità ancora non definiti ma di notevole rilevanza. Va segnalato ancora che l’intero autoparco della regione Toscana patisce il grave handicap di mezzi obsoleti addirittura in moltissimi casi, non corrispondenti alle normative europee sui limiti di emissione dei gas di scarico, nonostante in Firenze si transiti quotidianamente nel cuore dell’affollatissima città. Da tempo la manutenzione ordinaria viene stillata col contagocce ed i sistemi di condizionamento dell’aria per gli abitacoli e le celle dei detenuti sono praticamente inutilizzabili! Tutto ciò conferma e svela la reale portata del dramma e l’entità dei rischi che i Direttori penitenziari ed il Personale di Polizia Penitenziaria vivono quotidianamente. Una situazione gravissima e paradossale che correlata all’aumento esponenziale dei detenuti presenti nelle carceri Toscana rischia di mettere in serio pericolo il traballante “pianeta carcere”. Bari: Osapp; grave un detenuto, l’incidente provocato da bomboletta a gas in dotazione celle Ansa, 7 luglio 2011 Sono gravi le condizioni di uno dei due detenuti rimasti feriti ieri sera nel carcere di Taranto in seguito alla esplosione di una bomboletta a gas che stavano maneggiando. Lo rende noto il vicesegretario generale nazionale dell’Osapp, Mimmo Mastrulli, il quale riferisce che per uno dei due detenuti, entrambi ricoverati ieri sera nell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto, si è reso necessario il trasporto con un elicottero militare nel Centro Grandi ustioni di Roma. A Taranto - ricorda l’Osapp - la capienza detentiva regolamentare è di 315 persone mentre attualmente le persone rinchiuse sono 670. “Le tragedie nelle carceri non hanno fine, le disfunzioni dei servizi penitenziari per carenza d’attenzione del Governo sono tante, una tragedia sull’altra, tra suicidi, tentativi di suicidi, esplosioni di bombolette a gas e inalazioni di gas da bombolette devono attirare urgentemente - sottolinea l’Osapp - l’attenzione della Comunità Internazionale Europea sui diritti dell’Uomo”. Oggi, inoltre, riferisce sempre l’Osapp, un mezzo della polizia penitenziaria che trasportava detenuti del carcere di Trani è rimasto coinvolto in un grave incidente stradale provocato - secondo l’Osapp - dalla inadeguatezza dei mezzi utilizzati, poiché l’automezzo è uscito di strada a causa delle ruote lisce. Detenuti e poliziotti non hanno riportato gravi ferite. Taranto: tentato suicidio in carcere, giovane detenuto salvato in extremis Adnkronos, 7 luglio 2011 Un tentato suicidio si è verificato questo pomeriggio alle 13.30 nel carcere di Taranto. Un giovane detenuto di 20 anni, tarantino, recluso per reati connessi alla droga, ha cercato di togliersi la vita con una corda rudimentale legata a una finestra ed è stato salvato all'ultimo momento grazie all'intervento degli agenti di Polizia Penitenziaria e di alcuni sanitari. Il giovane, poco fa, stava per essere trasportato in ospedale. Ieri nello stesso penitenziario due detenuti sono rimasti ustionati, uno è in gravi condizioni ricoverato a Roma, per lo scoppio della bombola di un fornellino a gas. Gli ultimi eventi tragici ''stanno a dimostrare che la pentola ha raggiunto una pressione massima ed è pronta a esplodere. è incredibile che con tutti questi episodi tragici, nessuno prenda provvedimenti contro una situazione che degenera sempre di piu''', continua. ''Non è accettabile che tutto il peso di quanto avviene nelle carceri vada solo sulle spalle dei poliziotti penitenziari che, da soli, in forte carenza di organico, tengono a galla una barca che fa acqua da tutte le parti mentre la politica sta alla finestra, fregandosene di quello che avviene. Ora piu' che mai - conclude Pilagatti - è necessario mettere in campo tutta una serie di iniziative tese a deflazionare le carceri depenalizzando alcuni reati, facendo scontare la pena agli stranieri nei loro paesi di origine, dando piu' attenzione alle misure alternative alla detenzionè', altrimenti a breve ci si potrebbe ritrovare ''in una situazione degna di un inferno dantesco''. Roma: oggi gli agenti della Polizia Penitenziaria in piazza con l’Ugl Ansa, 7 luglio 2011 “Più dignità e più sicurezza”. È quanto chiedono gli uomini e dalle donne della Polizia Penitenziaria che questa mattina, a Roma, sono scesi in piazza perché “costretti a lavorare in condizioni intollerabili”. La manifestazione, organizzata a Montecitorio dall’Ugl Polizia penitenziaria, ha visto protestare gli agenti insieme a comandanti di reparto, esasperati dal mancato ascolto e recepimento di istanze e problemi. “Le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria sono scesi in piazza oggi perché costretti a lavorare in condizioni intollerabili e a fare comunque più del proprio dovere, nonostante non vengano loro riconosciuti né la specificità di ruolo né lo stesso trattamento giuridico - economico delle altre Forze di polizia”. Lo ha dichiarato, in una nota, Giovanni Centrella, segretario generale dell’Ugl, che oggi ha voluto essere presente alla manifestazione. Nel corso della protesta una delegazione dell’Ugl, composta dal segretario generale e dal segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, è stata ricevuta dal capo della segreteria istituzionale della presidenza della Camera, Alberto Solia, al quale è stata illustrata la grave situazione in cui versano i lavoratori e le carceri italiane, insieme alla necessità che venga al più presto realizzato un piano straordinario per evitare il collasso del sistema. Per Moretti “è stato un incontro importante che ci ha dato la speranza di poter vedere un giorno recepite le nostre richieste. Nel frattempo noi andremo avanti per la nostra strada con una petizione, raccogliendo firme tra i nostri colleghi, e l’applicazione rigida delle disposizioni regolamentari, con cui dimostreremo come senza la buona volontà delle agenti e degli agenti può andare in blocco l’intero sistema”. Quello che occorre, secondo l’Ugl, “è un piano straordinario che preveda l’assunzione di almeno 5.000 persone per far fronte ai carichi di lavoro; incrementare e non depauperare come è stato fatto negli ultimi 3 anni i fondi per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle carceri ridotti attualmente ad un 50 per cento in meno; adeguamento strutturale e strumentale di risorse e di materiali tecnologici per ottimizzare la vigilanza dei penitenziari e del servizio traduzioni dei detenuti, per almeno 15 milioni di euro per il 2011, utilizzo del fondo comune beni confiscati mafie (circa 15 miliardi nel 2010) per pagamento degli arretrati dei servizi di missione del personale; superamento dei vincoli di bilancio per l’utilizzo delle risorse; sanare, come promesso pubblicamente dal ministro Angelino Alfano, la posizione di svantaggio di commissari, ispettori e sovrintendenti della Polizia Penitenziaria rispetto ai loro omologhi della Polizia di Stato e del Cfs; revisione del regolamento del Corpo di Polizia Penitenziaria e delle norme ordinamentali che regolano disciplina e mobilità nazionale; defiscalizzazione al 10% delle voci stipendiali accessorie, in particolare dello straordinario; introduzione di un sistema di decontribuzione stipendiale in ragione del quoziente familiare e del costo della vita”. Asti: presidio di protesta degli agenti e delle loro famiglie davanti al carcere Adnkronos, 7 luglio 2011 Continua lo stato di agitazione del personale della polizia penitenziaria del carcere di Asti. Questa mattina gli agenti e le loro famiglie si stanno riunendo davanti alle porte del penitenziario per un presidio di protesta. Lo riferiscono tutte le organizzazioni sindacali del comparto sicurezza che spiegano “da oggi stazioneremo lì davanti notte e giorno e lo stato di agitazione sarà sospeso solo quando ci saranno risultati concreti come l’assegnazione da subito di almeno 20 agenti”. Ad oggi, dicono i sindacati, nell’istituto lavorano 126 agenti a fronte dei 267 previsti e i detenuti sono 420. Il personale sarà in autoconsegna con astensione dalla mensa di servizio. “Gli agenti svolgono turni massacranti - sottolineano i sindacati - anche di 20 ore e sono a rischio i diritti soggettivi come le ferie e il riposo”. Le organizzazioni sindacali contestano “il grave immobilismo dell’amministrazione penitenziaria centrale” e fanno sapere che “siamo pronti a salire sul tetto del carcere se non interverranno subito il capo del dipartimento di amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, e il ministro, Angelino Alfano”. I sindacati si appellano poi a tutte le istituzioni e chiedono sostegno ai politici “vengano ad ascoltarci” è il loro invito. Catanzaro: Sappe; mezzi Polizia senza carburante, trasporto dei detenuti a rischio Agi, 7 luglio 2011 “Continuano i problemi di gestione delle carceri, dovuti alle carenze di risorse economiche. Abbiamo appreso questa mattina che anche nel carcere di Catanzaro sono finiti i soldi per la benzina e, quindi, i mezzi di trasporto per le traduzioni rischiano di non poter partire regolarmente, per portare i detenuti nelle altre carceri e nelle aule dei tribunali per le udienze. L’Amministrazione penitenziaria non ha più le risorse economiche per pagare e, quindi, le società che gestiscono le carte di credito per l’acquisto del carburante bloccano l’utilizzo delle stesse carte. Ci è stato altresì riferito che ci sono mezzi su strada che rischiano di rimanere fermi, proprio per mancanza di carburante”. Lo riferiscono, in un comunicato, Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato di categoria Sappe, e Damiano Bellucci, segretario nazionale. “I continui tagli alla spesa pubblica - scrivono in una nota - hanno fortemente penalizzato anche settori nevralgici dello Stato, come quello della sicurezza e del mondo penitenziario, dove non è più possibile gestire le attività quotidiane, come il trasporto dei detenuti. Così rischiano di saltare anche le udienze nei tribunali. Mancano anche i soldi per pagare le missioni al personale di polizia penitenziaria, il quale è spesso costretto ad anticiparli dal proprio stipendio, nonché il lavoro straordinario espletato quotidianamente per sopperire alle carenze di personale. In media un agente è costretto a svolgere circa 40 ore mensili di lavoro straordinario, del quale gliene vengono retribuite meno della metà. A Catanzaro, per esempio, - aggiungono - c’è un centro clinico molto attrezzato che non può essere utilizzato perché manca il personale per gestirlo; ciò costringe l’Amministrazione a continui viaggi verso le strutture ospedaliere esterne, con grave spreco di risorse economiche e utilizzo di personale che potrebbe essere impiegato in altri servizi. Inoltre, in molti istituti mancano il toner per le fotocopiatrici e la carta per stampare i documenti che arrivano. Se non ci saranno stanziamenti adeguati per i prossimi mesi - concludono - c’è il rischio concreto che molte attività istituzionali dovranno essere bloccate”. Immigrazione: Cie vietati ai giornalisti, che con parlamentari lanciano manifestazione nazionale Redattore Sociale, 7 luglio 2011 Il ministro Maroni, con una circolare del primo aprile ha vietato l’ingresso e poi ha negato ai giornalisti un incontro per discutere il provvedimento che “limita il dovere di informare”. Conferenza stampa domani presso la Stampa Estera Il governo vieta i Cie ai giornalisti e loro rispondono con una mobilitazione nazionale, con manifestazioni davanti ai principali Cie italiani. Cronisti e parlamentari insieme tenteranno nell’occasione di entrare nei centri per migranti. I contenuti saranno illustrati nel corso di una conferenza stampa convocata per venerdì 8 luglio alle 10.45 presso la Stampa Estera, Via dell’Umiltà 83,C. “Con una circolare interna, la 1305 del primo aprile 2011 - si legge in una nota - il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha vietato ai giornalisti l’ingresso nei centri per migranti, sia in quelli di accoglienza sia in quelli di detenzione. Questo divieto costituisce un bavaglio per tutta la stampa, italiana e internazionale, che non può verificare il rispetto dei diritti umani all’interno dei centri di identificazione e di espulsione e le condizioni dei richiedenti asilo nei centri per i rifugiati. Non si può esercitare il diritto di cronaca su un tema così rilevante in ambito nazionale ed europeo, quale quello dell’immigrazione. In alcuni Cie, le visita di parlamentari e le ispezioni di associazioni umanitarie hanno lanciato l’allarme per la situazione inaccettabile, destinata a peggiorare con l’estensione della reclusione da sei a 18 mesi. La Federazione nazionale della stampa italiana e l’Ordine nazionale dei giornalisti hanno scritto ed inviato il 14 giugno 2011 una lettera congiunta indirizzata al ministro Maroni in cui chiedevano un incontro sulla circolare che “limita il dovere di informare liberamente i cittadini, in ottemperanza all’articolo 21 della Costituzione”, in violazione del diritto di libertà di stampa. Non avendo avuto risposta, viene lanciata una giornata di mobilitazione I promotori dell’iniziativa sono Fnsi, Ordine dei Giornalisti, Asgi, Rete Primo marzo, Osf Open Society Foundations, European Alternatives, Articolo 21, e i parlamentari Rosa Vilecco Calipari, Giuseppe Giulietti e Jean Leonard Touadi. Finora hanno aderito David Sassoli (capogruppo del Pd al Parlamento europeo); Furio Colombo, presidente Comitato per i Diritti Umani - Camera dei Deputati; Fabio Granata (Fli); Leoluca Orlando (Idv); Vincenzo Di Stanislao (Idv); gruppo al Consiglio regionale del Lazio della Federazione della Sinistra. Interverranno inoltre giornalisti italiani che hanno fatto regolare richiesta di visita nei Cie e ai quali è stato negato l’accesso, ma che sono riusciti a documentare la situazione degli immigrati con interviste e video “non autorizzate”. Nel corso della conferenza stampa verranno esaminati la circolare 1305 del ministero dell’Interno e la mancata risposta di Maroni - Fnsi e Ordine dei Giornalisti; la situazione inaccettabile di alcuni Cie italiani e l’irregolarità della posizione del governo italiano rispetto all’adeguamento con la normativa europea in tema di allontanamenti. Ci saranno testimonianze di giornalisti e interventi di deputati; sarà discussa la situazione particolare illustrata da Hedwig Zeedijk attinente i cittadini immigrati e detenuti nei Cie nonostante siano legalmente coniugati con cittadini europei. Infine sarà lanciata la giornata di mobilitazione di stampa e parlamentari nei Cie italiani. Bielorussia: oltre 250 oppositori arrestati, anche cronisti Ansa, 7 luglio 2011 Almeno 250 oppositori, fra cui molti giornalisti, sono stati arrestati ieri in Bielorussia per aver partecipato nei giorni scorsi a manifestazioni convocate su internet: lo rende noto il gruppo di difesa dei diritti umani Vyasna. Le manifestazioni contro il regime del presidente, Aleksandr Lukashenko, sono state convocate da un network internet del dissenso, “Rivoluzione attraverso la rete sociale”, che invitava a riunirsi in nove punti della capitale bielorussa Minsk, “per fare la conoscenza”. Si trattava del sesto raduno di “protesta silenziosa” convocato dai gruppi d’opposizione nell’ultimo mese. Nei giorni scorsi l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) ha protestato con la Bielorussia per la repressione delle pacifiche manifestazioni di cittadini, chiedendo al governo di Lukashenko, definito dagli Stati Uniti “l’ultimo dittatore d’Europa”, di liberare gli oppositori detenuti. Svizzera: dopo l’evasione di un detenuto cancellate libere uscite a carcerati Associated Press, 7 luglio 2011 L’evasione del 64enne pericoloso ha già le prime conseguenze: le autorità del canton Berna hanno infatti deciso di cancellare tutti i permessi, le libere uscite e le “gite accompagnate” dei detenuti. Lo ha detto oggi alla stampa il consigliere di stato Hans-Jürg Käser, secondo cui bisognerà ora provvedere ad unificare le procedure a livello federale. Occorrerà in particolare eliminare tutte le pratiche disparate in materia di esecuzione delle pene esistenti nella Confederazione: Käser presenterà una richiesta in questo senso alla Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia. L’obiettivo è uniformare le direttive in vigore nei tre concordati attualmente esistenti in Svizzera: si tratta sicuramente di un passo più rapido piuttosto che elaborare una nuova legge federale sull’esecuzione delle pene, ha aggiunto. Riguardo al caso dell’evaso pericoloso fuggito lo scorso 27 giugno durante una “gita accompagnata”, Käser ha affermato che a Berna spetta formalmente la responsabilità dell’esecuzione della pena, avendo il detenuto subìto la sua prima condanna in questo cantone. L’uomo, in stato di internamento, era stato affidato al carcere di Gorgier su richiesta del Servizio cantonale per l’esecuzione delle pene. Il penitenziario ha comunicato alle autorità bernesi il programma previsto per il detenuto e ha ricevuto la necessaria approvazione. Per quanto riguarda le “gite accompagnate”, esse non costituiscono un alleggerimento della pena: non è quindi necessaria alcuna autorizzazione delle autorità bernesi, ha puntualizzato Käser. Si tratta infatti di uscite di carattere “umanitario” e quindi di competenza del penitenziario, che è tenuto a garantire la sicurezza.