Giustizia: carcere, una questione non più rinviabile di Paola Balducci (avvocato, già vicepresidente della Commissione Giustizia della Camera) Terra, 6 luglio 2011 Si parla da tempo di riforme più o meno epocali in materia di giustizia mentre altre questioni, senz’altro di preminente importanza, sembrano destinate all’oblio. Ci si preoccupa molto di più, infatti, di un malinteso senso della sicurezza, confusa come banale rassicurazione, che non di temi ben più importanti, quali quelli della detenzione sia preventiva che definitiva, considerati in questa legislatura molto scomodi. Si è arrivati a rinnegare da parte di quasi tutti la paternità dell’indulto come se quella legge non fosse stata votata da ben 2/3 del Parlamento. Se una critica deve essere fatta è piuttosto che il provvedimento di indulto non è stato accompagnato da un’amnistia, come normalmente avviene con i provvedimenti di clemenza. Di fatto oggi il panorama in Italia è desolante. In ogni caso si assiste alla prescrizione di reati anche gravi perché la giustizia non riesce a soddisfare la domanda sempre più intensa della collettività. I tempi sono lunghi e, come a tutti è noto, non ci sono risorse né economiche né umane idonee ad arginare il fenomeno. La battaglia di Pannella condivisa da tutti noi non deve essere un fenomeno isolato. Un dovere che avrà il nuovo Parlamento sarà quello di intervenire con riforme serie di sistema, che non siano, come siamo abituati, provvedimenti emergenziali dettati dall’emotività del momento. L’analisi complessiva del “pianeta carcere” è fortemente desolante: secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il numero dei detenuti nelle carceri italiane è il più elevato dal dopoguerra ad oggi. E non solo: la metà dei detenuti nelle carceri è in attesa di giudizio! Altrettanto conosciuta è poi la composizione della popolazione carceraria, caratterizzata in gran parte da situazioni di disagio e di emarginazione: circa il 27% appartiene all’area della tossicodipendenza, il 30% a quella dell’immigrazione oltre ad una percentuale del 10% rappresentata da altre situazioni di disagio (problemi psichici, alcolismo). A ben vedere, quindi, oltre due terzi della popolazione carceraria si collocano in una fascia di disagio socio-economico e psichico; si tratta in prevalenza di detenzione a “sfondo sociale” alla quale da tempo si risponde senza un progetto complessivo capace di ridurre sensibilmente coloro che ne fanno parte, specie per la mancanza di strumenti adeguati a prevenire e a riassorbire i fenomeni di devianza. Il sovraffollamento delle carceri è tale da determinare condizioni di vita intollerabili che si pongono in palese violazione dell’integrità psico-fisica della persona detenuta. Secondo il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria le strutture detentive italiane si sono ridotte a “meri depositi di vite umane”. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’agosto del 2009, ha condannato l’Italia a risarcire un detenuto bosniaco per i danni morali subiti a causa del sovraffollamento della cella in cui è stato recluso per alcuni mesi nel carcere di Rebibbia tra il novembre del 2002 e l’aprile del 2003. Secondo quanto accertato dalla Corte il detenuto ha condiviso una cella di 16 metri quadrati con altre 5 persone disponendo, dunque, di una superficie di 2,7 metri quadri entro i quali ha trascorso oltre 18 ore al giorno. La Corte europea ha affermato infatti che il sovraffollamento delle carceri rappresenta un “trattamento inumano e degradante”, incompatibile con lo stato di diritto. Il numero dei suicidi sulla popolazione detenuta continua a mantenersi su livelli elevatissimi: muore un detenuto ogni 2 giorni ed ogni anno il numero dei suicidi è più elevato rispetto all’anno precedente! È necessario quindi fermarsi a riflettere ed individuare con rapidità le modalità esecutive più idonee per far sì che il numero dei suicidi, ma anche degli episodi di autolesionismo decresca significativamente. Senz’altro il problema di fondo è che non si è ancora provveduto ad una riforma organica del sistema penale nel suo complesso: moltissime fattispecie si presentano infatti come inutilmente vessatorie e contribuiscono ad aumentare pericolosamente la popolazione carceraria con incrementi che si collocano tra le 500 e le 1.000 unità al mese. Bisognerebbe quindi riflettere seriamente sulla selezione dei fatti da sanzionare attraverso lo strumento della pena detentiva, aprendo finalmente la strada ad un serio processo di depenalizzazione che si impone come necessità improcrastinabile per lo sviluppo del sistema giudiziario del nostro Paese. In un simile contesto, risulta poi piuttosto grave che la quasi totalità degli istituti di pena italiani non abbia attivato strumenti di accoglienza e “supporto psicologico” per coloro che entrano in carcere ed in particolare per i giovani detenuti per reati non gravi che sono proprio quelli più a rischio di atti di autolesionismo e suicidio. Del resto, a cosa serve il carcere se chi vi entra, nel momento stesso in cui sta espiando la pena, è già convinto che fuori di lì tornerà a delinquere perché non ha alternativa, né culturale né materiale? Una conferma in questo senso è rappresentata dall’ultimo provvedimento di indulto, i cui effetti sembrano ormai già lontani nel tempo: dei detenuti beneficiari del provvedimento di clemenza almeno un terzo sono tornati a delinquere! Intanto aspettando il piano carceri - il Ministro Alfano ha promesso la creazione di 17.891 nuovi posti entro il dicembre 2012 attraverso 48 nuovi padiglioni in carceri già esistenti (per un totale di 9.904 posti), la ristrutturazione di due istituti penitenziari e la realizzazione di 24 nuove carceri. Il tutto per un costo di un miliardo e mezzo, mentre l’amministrazione penitenziaria continua a navigare nei debiti, con ripercussioni sulla vivibilità degli istituti di pena, sulla sicurezza e sulle possibilità di riabilitazione. Un’emergenza continua che ci allontana sempre di più dai valori espressi nella nostra Carta costituzionale che all’art. 27 precisa che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: quanto di più lontano dalla nostra attuale realtà! Quali le possibili soluzioni: limitare senz’altro l’impiego della custodia cautelare, da considerarsi come extrema ratio da qualora sussistano effettivamente i requisiti previsti dalla legge (quasi la metà dei detenuti è infatti in attesa di giudizio); potenziare il ricorso alle misure alternative alla detenzione - come stanno facendo anche gli Stati Uniti - sia nella fase terminale del trattamento, al fine di favorire il reinserimento del reo nella società, sia ab origine per i reati meno gravi, per evitare l’effetto de-socializzante del carcere: in molti casi, infatti, l’esperienza del carcere è più criminogena che rieducativa. Dobbiamo quindi pretendere che nell’agenda del prossimo ministro della Giustizia la situazioni delle carceri venga messa al primo posto: è una questione di civiltà! Giustizia: la vergogna delle carceri sovraffollate di Giovanni Sabbatucci Il Mattino, 6 luglio 2011 La chiamiamo “emergenza carceri”, ma la definizione non è corretta. Da anni, anzi da decenni, il sistema giudiziario italiano produce un numero di detenuti largamente superiore a quello che il sistema penitenziario sarebbe in grado di assorbire secondo gli standard di un paese civile. Si tratta dunque di uno squilibrio strutturale, già oggi abnorme (il rapporto fra presenze effettive e posti disponibili è attualmente di circa tre a due, ovvero c’è un terzo di detenuti in eccedenza rispetto agli spazi) e destinato ad aggravarsi in mancanza di interventi efficaci. Le conseguenze sono facilmente immaginabili: il sovraffollamento, soprattutto quando riguarda edifici vecchi e fatiscenti, non comporta solo deterioramento delle condizioni igieniche. Ma comporta anche promiscuità, degrado morale, violenza agita e subita, una sequenza impressionante di suicidi (l’incidenza fra la popolazione carceraria è venti volte superiore alla media nazionale) e non poche morti sospette. Inutile aggiungere che tutto ciò non ha nulla a che fare con la funzione che la moderna civiltà giuridica europea assegna all’istituto del carcere: anche a voler considerare utopico il dettato costituzionale che parla di “rieducazione del condannato”, non si dovrebbe mai dimenticare che la privazione della libertà è una pena grave in sé, e in quanto tale non va caricata di inasprimenti impropri, di accanimenti oggettivamente persecutori. È difficile trovare oggi in Italia un politico che non sia disposto a sottoscrivere concetti così ovvi sulla carta. Ma è ancora più difficile, purtroppo, trovarne qualcuno che sia disposto a battersi per inserire la questione carceraria in posizione di rilievo nella propria agenda. Marco Pannella (per la cronaca, ancora in sciopero della fame) e i radicali rappresentano ovviamente l’eccezione. E alla loro ostinata mobilitazione si devono i rari e momentanei sussulti di interesse nei confronti del problema da parte di un ceto politico complessivamente distratto, vuoi perché affaccendato in tutt’al-tre faccende, vuoi perché poco propenso a impegnarsi in battaglie che si presumono impopolari. Ma distratto è anche U grosso dell’opinione pubblica, che preferisce voltare la testa da un’altra parte, come se la questione toccasse solo una maggioranza di delinquenti e una esigua minoranza di malcapitati, vittime di carcerazioni inutili o di errori giudiziari. Dovremmo invece sapere tutti che non è così. Le condizioni delle carceri non sono solo - secondo la celeberrima definizione di Cesare Beccaria - la misura del livello di civiltà di un paese. Sono anche lo specchio di un sistema giudiziario che funziona male e il cui malfunzionamento riguarda tutti noi, comprese le fedine penali immacolate. Basti un dato, forse il più inquietante fra i molti che si possono citare: dei quasi 70.000 ospiti delle carceri italiane, circa 30.000 (oltre il 40%) sono detenuti in attesa di giudizio, dunque presunti innocenti, quasi la metà dei quali destinati a essere assolti in primo grado. Questo semplice dato dovrebbe suggerire che per risolvere la impropriamente detta “emergenza carceraria”, non c’è solo l’alternativa secca fra una rapida amnistia (misura impopolare ma probabilmente ineludibile a scadenza non lontana) e la costruzione di nuove carceri (provvedimento anch’esso comunque necessario, ma non praticabile nei tempi brevi, anche a causa delle ristrettezze finanziarie). Un serio contributo al decongestionamento potrebbe venire da un uso più umano e più selettivo della carcerazione preventiva, troppo spesso impropriamente utilizzata come mezzo di pressione per ottenere la confessione dell’imputato. Altra strada da battere è, peri condannati in via definitiva, quella delle pene alternative, soprattutto per i reati minori di non particolare allarme sociale. Questo significa processi brevi, sentenze rapide, sanzioni equilibrate e per quanto possibile certe, inversione dell’attuale andazzo che vede l’imputato scontare il grosso della pena prima della condanna e non a seguito di essa: in altri termini, riforma della giustizia in base ai modelli delle democrazie più avanzate. Difficile che ci si arrivi finché l’opposizione si lascerà condizionare dalle pulsioni giustizialiste di una parte del suo elettorato e finché la maggioranza sarà impegnata nel compito, evidentemente prioritario, di risolvere le grane giudiziarie del suo leader. Giustizia: sessantanove mila dannati nelle celle. Il Dap: “Situazione non più sostenibile” di Massimiliano Amato L’Unità, 6 luglio 2011 Sovraffollamento da record, in aumento i suicidi tra i reclusi e gli stessi agenti penitenziari. La protesta dei funzionari senza contratto: “Con voi anche lo Stato è diventato precario”. “Le carceri italiane hanno superato i limiti della sostenibilità”. Lo ammette lo stesso capo del Dap, Franco Ionta, mentre oggi scendono in piazza i funzionari degli istituti di pena, ancora senza contratto. Troppo impegnato a ricostruire quel che resta del Pdl, al cooptato Alfano, ormai Guardasigilli a part time, è completamente sfuggita di mano la situazione nelle carceri italiane. “Ormai abbiamo raggiunto il limite della capienza tollerabile”, lancia l’allarme Franco Ionta, capo dell’amministrazione penitenziaria: che vuol dire 69 mila detenuti distribuiti in 206 strutture. Carnai, più che istituti di rieducazione e pena: sei, anche sette, reclusi per cella delimitano uno scenario da Terzo Mondo, in cui vengono calpestati i più elementari diritti della persona. Il sistema carcerario italiano è irrimediabilmente finito in un vicolo cieco: “Con l’amnistia o con l’indulto molta gente potrebbe abbandonare le celle, però se non ci sono strumenti di accompagnamento e recupero effettivo queste persone in carcere ci tornano di nuovo”, è l’analisi di Ionta. Non tutti ce la fanno a reggere una situazione abbondantemente oltre i limiti della sostenibilità: 30 i suicidi di detenuti nei primi sei mesi del 2011, secondo i dati dei sindacati del personale del Dap, cui si aggiungono quelli di numerosi agenti (l’ultimo, un 35enne di Cirò Marina, si è tolto la vita il 2 luglio scorso), travolti dallo stress psicofisico. “Il carcere è diventata una realtà molto complessa e faticosa”, ammette Ionta in un’intervista alla Radio Vaticana, annunciando che verranno costruiti “venti nuovi padiglioni e undici istituti. Inoltre aggiunge abbiamo avviato politiche di assunzione per circa 3.400 unità di polizia penitenziaria”. I soldi ci sarebbero, secondo Ionta, il quale però confessa che quello della copertura finanziaria “continua ad essere un tasto dolente, anche se finora per la costruzione dei nuovi istituti penitenziari sono stati stanziati 500 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti altri 100 milioni provenienti dalla Cassa delle Ammende e altri fondi recuperabili dai capitoli di bilancio ordinario”. Tuttavia la realtà sarebbe parecchio diversa: l’Associazione Antigone, per esempio, denuncia tagli feroci alla legge Smuraglia, che stanzia i contributi statali alle cooperative e alle imprese che hanno assunto reclusi dentro e fuori dal carcere. “Col risultato viene sottolineato che migliaia di detenuti in misura alternativa torneranno dietro le sbarre”. Al responsabile dell’Amministrazione penitenziaria Giulio Tremonti avrebbe garantito anche la necessaria copertura finanziaria per l’assunzione dei nuovi agenti. Il responsabile dell’Economia, però, si è guardato bene finora dal mettere a disposizione i soldi che servono per il rinnovo del contratto nazionale dei funzionari carcerari, che proprio stamattina sfileranno in corteo per le strade della Capitale. Sotto le finestre del ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta srotoleranno uno striscione ironico e amaro al tempo stesso: “Con voi lo Stato è precario”. Nel corso della manifestazione saranno distribuite copie della legge penitenziaria listate a lutto. “Siamo senza contratto e senza regole”, afferma il segretario nazionale del Sidipe, Enrico Sbriglia. “La disattenzione verso i diritti degli operatori carcerari e dei detenuti è la prova di uno Stato che progressivamente sta diventando illiberale”. Giustizia: sovraffollamento carceri, la doppia pena dei detenuti di Enrico Severati Rinascita, 6 luglio 2011 Il problema del sovraffollamento delle carceri non riesce ancora a trovare una soluzione. Nonostante i vari digiuni di Pannella la situazione non cambia. Penitenziari dove si sconta una doppia pena: quella comminata dai tribunali e quella cui sono costretti da una condizione disumana. Il rispetto delle persone che sono incorse in dei reati deve esserci sempre, altrimenti si torna al boia. Quindi è giusto dare dignità alla vita dei carcerati, evitando queste situazioni di sovraffollamento che spesso sfociano nel suicidio e nell’autolesionismo. Oltretutto non deve mancare quel senso di recupero attraverso quella rete di assistenza, con offerte di lavoro, nei primi mesi difficili di rientro nella società. “Ormai abbiamo raggiunto il limite della capienza tollerabile. Certamente non possiamo andare avanti così”, questo l’appello di Franco Ionta, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E il problema è sempre quello della grave mancanza di spazi, dove la capienza delle strutture è largamente superata. “I detenuti ospitati nelle 206 strutture italiane toccano quota 67mila, un numero ai limiti della capienza fisica tollerabile. Per far fronte a questa emergenza -precisa Ionta - verranno costruiti venti nuovi padiglioni e undici nuovi istituti: entro tre anni dall’affidamento degli appalti dovrebbe essere tutto ultimato”. E anche sul piano del potenziamento degli attuali organi di polizia il capo Dap ha spiegato che presto saranno assunti altri 3.400 agenti. In merito ai problemi di copertura finanziaria ha poi precisato che la situazione non è poi così incoraggiante, anche se da parte del ministro dell’Economia c’è un chiaro impegno. Gli stanziamenti fatti sono circa 500 milioni di euro, cui andranno aggiunti altri 100 provenienti da altri fondi. Per alleggerire il problema delle carceri ci sono due vie: quella di far scontare al 40% della popolazione carceraria straniera il reato nei propri paesi d’origine e quella dell’amnistia. Ma questa è una scelta politica che serve ad alleggerire il problema ma che non lo risolve. “Il governo - prosegue - ha scelto una politica diversa: quella di evitare provvedimenti di amnistia o indulto che dopo un po’ ripropongono lo stesso problema”. E quindi secondo il capo del Dap occorre risolvere la situazione del sovraffollamento non in modo episodico ma strutturale. Perché se è vero che con l’amnistia o con l’indulto molta gente esce dalle carceri però è altrettanto vero che “se non ci sono strumenti di accompagnamento e recupero effettivo queste persone in carcere ci tornano di nuovo”. E purtroppo è vero. Giustizia: le vittime senza nome del carcere di Tiziano Tagliani (Sindaco di Ferrara) La Nuova Ferrara, 6 luglio 2011 Dobbiamo riconoscerlo: è grazie al leader dei Radicali Marco Pannella, non alla sinistra, né ai cattolici, se l’Italia scopre oggi di doversi vergognare, ancor di più che del clima romano da basso impero, per la situazione carceraria del nostro paese. L’assunto “lontano dagli occhi lontano dal cuore” si sta infrangendo contro un grido disperato che denuncia in Italia una situazione disumana, che riguarda uomini e donne, detenuti e guardie carcerarie. Un clima tanto più inaccettabile quanto più spesso al “senza nome”, magari straniero e stupratore, come tutti vorremmo fossero i detenuti, si sostituisce una persona, uomo o donna, con nome e cognome, figlio o genitore, magari in attesa di giudizio, ladro o ladra per fame o ambulante sudanese che ha strattonato l’agente che gli sequestrava (giustamente) la merce contraffatta. Centinaia, migliaia, di storie personali che i media stentano a far emergere dalle più tranquillizzanti notti rosa e dalle copertine da spiaggia di queste settimane, ma che la battaglia promossa da Marco Pannella ci ha costretto ad ascoltare. Vince la vita che straripa dalle celle anche quando non profuma di jet set, il dramma si impone alla politica, ma ancor prima alla coscienza, altrimenti sarebbe oggi un inutile esercizio. E questo avviene tutt’altro che lontano, a pochi metri anzi dalle nostre finestre, nei carceri disseminati in tutto il paese, dove chi meglio chi peggio, ciascuno ha il suo bell’elenco di suicidi, di sopraffazioni, di sofferenze che, quando la vita non lo abbia già fatto, segneranno per sempre la vita anche di giovani immigrati e non quando per strada ritorneranno, prima o poi, tutt’altro che riabilitati. Occorre riflettere almeno un istante su un ministro della giustizia che afferma che è il premier vittima della giustizia (tutto volutamente minuscolo), mentre anche tanti paesi in via di sviluppo potrebbero darci lezioni di politica carceraria (e forse d’altro). Allora, pur invitando i partiti riformisti, quelli che ancora credono che la politica si debba occupare di chi ha meno e non di chi ha già troppo, in assenza di un dibattito culturale sul tema, in assenza di letteratura, di cinematografia che dia voce ai reclusi costretti a dormire per terra, tocca ancora una volta a noi, a ciascuno, fare quello che è giusto fare. Ci tocca e ci toccherà ancor di più se il carcere di Ferrara verrà effettivamente raddoppiato, ma nessuna città potrà ignorare il problema nei prossimi mesi, in assenza di provvedimenti di sostanziale riforma del sistema carcerario, di depenalizzazioni di reati che la magistratura neppure ha la forza di perseguire, di risorse per il personale, che vive lo stesso identico dramma dall’altra parte delle sbarre. Parlare di amnistia non è altro che ammettere una sconfitta di chi ci governa, ma la mancanza di realismo non possiamo farla pagare oltre il lecito, occorre disvelare il fariseismo di chi a tutti i costi non si vuole accorgere dell’amnistia di fatto che da anni attraversa la giustizia, costretta per mancanza di risorse e norme a selezionare a monte i reati da perseguire trasformando questo paese in una grande roulette dove a seconda dell’ufficio, della città, della sorte sei libero oppure sei morto. Giustizia: protestano i direttori delle carceri “le celle non sono discariche sociali” di Carlo Ciavoni Repubblica, 6 luglio 2011 I dirigenti degli istituti di pena sono scesi in piazza per protestare contro l’attuale sistema carcerario: sovraffollamento, la tensione, la mancanza cronica di personale e un contratto di lavoro che non c’è mai stato e che viene regolato “per analogia” a quello dei funzionari di polizia. A metà luglio il ministro Brunetta ha promesso che si “aprirà un tavolo” di contrattazione. Domani protestano gli agenti ROMA - “Ecco, guardi qua, sfogli pure l’Ordinamento Penitenziario. Sono 136 articoli, ne legga uno a caso e si accorgerà che neanche uno, dico, neanche uno, viene di fatto rispettato”. A parlare così è Enrico Sbriglia, direttore del carcere di Trieste, ma soprattutto segretario generale del SIDIPE, il sindacato che rappresenta la maggior parte dei dirigenti. Davanti a palazzo Vidoni, sede del Ministero della Funzione Pubblica, ci sono molti di loro, provenienti da tutta Italia a rappresentare i disagi nei 216 penitenziari. Protestano “vestiti a lutto” per denunciare la crisi drammatica del sistema carcerario. Un sistema che non li ha ancora neanche contrattualizzati, e li costringe a far riferimento alle norme che regolano i rapporti di lavoro dei funzionari della Polizia di Stato. “Come se facessimo lo stesso mestiere”, commentano. E aggiungono: “E comunque con una simpatica differenza: che il nostro stipendio non è soggetto alle stesse loro dinamiche, ma è fermo alle fasce minime. Da sempre”. La promessa di Brunetta. Una delegazione è stata ricevuta da un alto funzionario del Ministero, il dottor Gallozzi il quale, evidentemente su mandato del ministro, ha assicurato che entro la metà di questo mese si aprirà un tavolo di contrattazione su tutta la “partita”, che riguarda il contratto di lavoro, ma soprattutto le misure che il governo dice di voler adottare per risolvere la questione del sovraffollamento delle celle e dell’applicazione di tutte le norme dell’Ordinamento penitenziario, compresa - ad esempio - quella scritta al Capo II, paragrafo 5: “Gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati. Gli edifici devono essere dotati, oltre che di locali per le esigenze di vita individuale, anche di locali per lo svolgimento di attività in comune”. Il peso sugli agenti di custodia. Nel frattempo però, in carcere si continua a vivere in celle di pochi metri quadrati, in condizioni igieniche spesso inaccettabili e che diventano luoghi dove maturano stati di tensione e violenza capaci di mettere a durissima prova gli agenti di polizia penitenziaria, già appesantiti da una congenita carenza di personale. La manifestazione dei direttori delle carceri italiane è servita anche a ricordare, una volta di più, che a fronte di una capienza complessiva di poco più di 45 mila detenuti, gli istituti di pena ne ospitano attualmente circa 68 mila. “Tutta gente - dice un’alta funzionaria del Dap, il Dipartimento centrale dell’Amministrazione penitenziaria - che potrebbe benissimo scontare la sua pena con misure alternative. sono la maggior parte del mondo penitenziario, che hanno trasformato le nostre carceri in discariche sociali, dove è il disagio dei nostri tempi a prevalere e non il crimine a prevalere. Il problema - ha aggiunto - è che in questi ultimi anni ha prevalso una politica punitiva, alimentata da un bisogno di sicurezza più indotto che reale. Una politica che però viene smentita dalla realtà. Risulta infatti che la reiterazione del reato è molto più frequente fra chi ha un passato da rinchiuso in cella per 20 ore al giorno senza fare niente, piuttosto che fra quanti ha goduto di misure alternative”. Le solidarietà della politica. Sandro Savi, responsabile del settore carcerario per il Partito Democratico, ha partecipato alla manifestazione: “Il Pd è al fianco dei dirigenti degli Istituti penitenziari e degli uffici dell’esecuzione penale esterna, le strutture che si occupano delle misure alternative al carcere. Nelle attuali drammatiche condizioni del nostro sistema penitenziario - ha aggiunto Savi - non è accettabile che dopo cinque anni di vacanza contrattuale il governo non abbia attivato la negoziazione per questi operatori impegnati ogni giorno a garantire legalità, umanità e cura delle persone detenute. L’annunciato blocco per ulteriori quattro anni delle contrattazioni del pubblico impiego avrebbe per questo settore effetti devastanti di vuoto normativo e di precarizzazione di professionalità fondamentali dello stato”. La lotta di Pannella. “Lo Stato italiano - ha detto Mario Staderini, segretario di Radicali Italiani, presente assieme ad Emma Bonino al sit-in - ad ogni livello, continua a trattare le carceri come discariche sociali, dove i direttori degli istituti e chi vi lavora sono abbandonati, al pari dei detenuti, in una voragine che inghiotte tutto, dalla legalità ai diritti umani. Perfino i diritti sindacali, visto che molti direttori hanno dovuto prendere un giorno di ferie per manifestare”. “L’amnistia che chiediamo - ha sottolineato la vicepresidente del Senato, Enna Bonino, ricordando lo sciopero della fame di Marco Pannella iniziato a fine aprile - è innanzitutto per la Repubblica, per la condotta criminale contraria alla Costituzione e alle convenzioni internazionali di cui le istituzioni sono quotidianamente responsabili. Su questo aspettiamo che la Rai apra degli spazi di informazione e dibattito per gli italiani”. Erano presenti anche il segretario di Nessuno Tocchi Caino, Sergio D’Elia, il senatore radicale Marco Perduca e la segretaria dell’associazione Radicale, “Il detenuto ignoto”, Irene Testa. Domani la protesta degli agenti. Domani a protestare a Roma saranno invece gli agenti penitenziari. “L’ugl polizia penitenziaria - ha annunciato il segretario nazionale dell’Ugl polizia penitenziaria, Giuseppe Moretti - prosegue nella sua campagna per la tutela della dignità e della sicurezza del corpo e proclama una manifestazione nazionale per domattina alle 10, a Roma. Da tempo reclamiamo l’attuazione di un piano straordinario per le carceri - ha aggiunto - che preveda l’assunzione di almeno 5 mila agenti per far fronte al disastroso problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, ma finora le nostre richieste sono rimaste inevase. Inoltre rivendichiamo un riallineamento di funzionari, ispettori e sovrintendenti ai colleghi della polizia di stato, come da impegni presi dal ministro della giustizia”. Favi (Pd): a fianco dei direttori penitenziari “Il Pd è al fianco dei dirigenti degli istituti penitenziari e degli uffici dell’esecuzione penale esterna che oggi stanno manifestando a Roma per rivendicare, con il proprio contratto di lavoro, Il riconoscimento di dignità professionale, diritti e tutele per lo svolgimento della loro delicata funzione”. Lo dice Sandro Favi, responsabile Pd del settore carceri, che aggiunge: “Nelle attuali drammatiche condizioni del nostro sistema penitenziario, non è accettabile che dopo cinque anni di vacanza contrattuale il governo non abbia attivato la negoziazione per questi operatori impegnati ogni giorno a garantire legalità, umanità e cura delle persone detenute. L’annunciato blocco per ulteriori quattro anni delle contrattazioni del pubblico impiego avrebbe per questo settore effetti devastanti di vuoto normativo e di precarizzazione di professionalità fondamentali dello Stato”. I Radicali partecipano alla manifestazione dei direttori penitenziari I Radicali hanno partecipano questa mattina alla manifestazione organizzata a Roma dai dirigenti degli istituti penitenziari e degli uffici dell’esecuzione penale esterna per rivendicare il diritto a un contratto che manca da sei anni, cioè da quando nel 2005 è stata varata la riforma della dirigenza penitenziaria, e denunciare la drammatica crisi del sistema carcerario. “Lo Stato italiano, ad ogni livello, continua a trattare le carceri come discariche sociali, dove i direttori degli istituti e chi vi lavora sono abbandonati, al pari dei detenuti, in una voragine che inghiotte tutto, dalla legalità ai diritti umani. Perfino i diritti sindacali, visto che molti direttori hanno dovuto prendere un giorno di ferie per manifestare”, ha dichiarato il segretario di Radicali Italiani Mario Staderini, presente alla manifestazione insieme alla vicepresidente del Senato Emma Bonino, accolta con entusiasmo dai manifestanti che hanno lungamente applaudito il suo intervento. “L’amnistia che chiediamo - ha aggiunto - è innanzitutto per la Repubblica, per la condotta criminale contraria alla Costituzione e alle Convenzioni internazionali di cui le istituzioni sono quotidianamente responsabili. Su questo aspettiamo che la Rai apra degli spazi di informazione e dibattito per gli italiani”, ha concluso Staderini. Alla manifestazione erano inoltre presenti il segretario di Nessuno Tocchi Caino Sergio D’Elia, il senatore radicale Marco Perduca e la segretaria dell’associazione radicale Il Detenuto Ignoto Irene Testa. Giustizia: i direttori delle carceri scendono in piazza “Guantanamo è qui, non a Cuba” da Milano Nello Scavo e Ilaria Sesana Avvenire, 6 luglio 2011 Parlano di “prigionieri” e non di detenuti. Poi scandiscono: “Guantanamo è qui, non a Cuba”. Non sono gli slogan di qualche scalmanato extraparlamentare, ma la denuncia dei direttori delle carceri italiane che oggi, per la prima volta nella storia repubblicana, sciopereranno in massa. I dirigenti delle oltre 200 case di detenzione e quelli degli uffici dell’esecuzione penale esterna scenderanno in piazza a Roma per protestare “sullo stato penoso del sistema carcerario italiano”, spiega Enrico Sbriglia, segretario nazionale del Sidipe, il sindacato maggioritario che ha convocato la manifestazione con Cisl, Dps, Cgil e Uil. L’appuntamento è per questa mattina a Roma, presso il ministero della Funzione pubblica (a Palazzo Vidoni), da qui il corteo si sposterà poi verso la sede della Camera: lungo il percorso, i direttori distribuiranno ai cittadini copie del regolamento carcerario listate a lutto. Attualmente, nelle carceri italiane vivono oltre 67mila persone, stipate in spazi pensati per accoglierne 45mila o poco più. Ma il sovraffollamento non è solo un problema di numeri. “In una giornata tipo - ha spiegato Sbriglia il 25 maggio alla Commissione Diritti umani del Senato - nel contesto in cui opero vengo a contatto con 30, 40 o 50 nazionalità, con un numero elevato di professioni e di sensibilità religiose, con innumerevoli diversità che vanno da quelle comportamentali in senso stretto a quelle alimentari”. Si ha la sensazione, conclude Sbriglia, che un fenomeno così importante e globale quale è l’immigrazione “sia stato affrontato senza considerare effettivamente la sua complessità, ma facendo leva sugli umori, le impressioni e le paure della collettività”. In questa condizione, spesso, l’articolo 27 della Costituzione resta lettera morta. I progetti di recupero, poi, sono un lusso per pochi. “Non nascondo il fatto che noi operatori penitenziari, che assistiamo dall’interno a tali situazioni - ha confessato Sbriglia, che da solo deve occuparsi delle carceri di Trieste, Udine e Gorizia, viviamo un forte disagio anche perché sappiamo di dover applicare comunque le regole. Ed è difficile immaginare un’applicazione strenua di una norma quando si ha la sensazione che essa sia contro e non a favore della persona”. E quando si parla di recupero e reinserimento sociale non si può non fare riferimento al ruolo (fondamentale) giocato dal lavoro in carcere. Elemento essenziale del trattamento, ma che deve fare i conti con importanti problemi di bilancio. Negli ultimi anni, infatti, è notevolmente aumentato il numero di detenuti assunti da imprese e cooperative che usufruiscono dei benefici previsti dalla “Legge Smuraglia” (sgravi fiscali e contributivi) e il budget annualmente a disposizione, circa 4,5 milioni di euro, “è diventato ampiamente insufficiente per ripianare tutte le richieste, costringendo in alcuni casi a interrompere le convenzioni in essere” spiegano dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La situazione, quindi, è come congelata: aziende e cooperative cha hanno voglia di “crescere” non solo non potranno farlo ma è prevista anche una riduzione del numero di detenuti fruitori di tali misure. “Io ho appena assunto tre detenuti, ma non ci sono i fondi e quindi non potrò usufruire degli sgravi della legge - dice Lillo Di Mauro, presidente della cooperativa romana “Altri percorsi economici” - nel mio bilancio avevo messo in conto questi incentivi. Devo scegliere se licenziare alcuni dipendenti o andare sotto”. “Il rischio - commenta Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone - è che migliaia di detenuti in misura alternativa vengano licenziati dai loro datori di lavoro e siano costretti a rientrare in carcere. Andando a peggiorare una situazione di sovraffollamento già insopportabile”. Per questo motivo Antigone chiede al Dap di utilizzare i soldi della Cassa delle ammende per dare copertura finanziaria alla Smuraglia almeno sino alla fine dell’anno. “Non ci aspettavamo un così grande successo della Smuraglia -spiega Luigi Pagano, provveditore regionale della Lombardia. Per questo bisognerebbe incrementare i fondi destinati agli sgravi fiscali per chi assume in carcere. Ma non basta: occorre interrogarsi a 360 gradi, creare una cultura d’impresa solida che sappia reggersi sulle proprie gambe, a prescindere dalle agevolazioni”. Giustizia: lavoro in carcere a fine corsa; finiti i soldi, saltano gli sgravi alle cooperative di Riccardo Bagnato Vita, 6 luglio 2011 Il Lazio la prima regione a ufficializzarlo. Sono finiti i soldi: saltano gli sgravi alle cooperative. Ecco l’appello. Sono finiti i soldi. Per chi ha assunto detenuti dentro e fuori del carcere non è più possibile godere degli sgravi fiscali previsti dalla Legge 193/2000 (Smuraglia). Lo hanno comunicato i direttori degli istituti penitenziari del Lazio con una comunicazione (che Vita è riuscita ad ottenere ed è scaricabile in allegato) diretta alle cooperative sociali e alle imprese coinvolte, scatendando in alcuni il caso il panico, in altri forte preoccupazione. La situazione era ben nota sin dall’inizio dell’anno. Già nella circolare di febbraio, infatti, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) avvisava: “si ritiene indispensabile procedere ad una consistente riduzione del budget” (scarica in allegato le circolari del Dap del 2011). Ed ecco fatto. La prima regione a sforare il budget e quindi a non poter più accedere alla agevolazioni è il Lazio. Ma ovviamente il problema è a livello nazionale. La parola ora passa alle cooperative che si sono viste recapitare la missiva in cui c’era scritto sostanzialmente “prendere o lasciare”. In cui l’Istituto penitenziario lascia scegliere all’impresa: o continuare il rapporto di lavoro ma senza più sgravi fiscali o altrimenti risolvere il contratto e lasciare a casa o in carcere il lavoratore. Da cui la protesta e l’appello dell’Associazione Antigone: “Si tratta di un tipico taglio non ragionato. Se ciò dovesse essere confermato - si legge in una nota dell’associazione – così come pare, migliaia di detenuti in misura alternativa rientreranno in carcere in quanto licenziati dai loro datori di lavoro andando a peggiorare una situazione di affollamento penitenziario già insopportabile. Per ora non arrivano segnali dal ministero della Giustizia diretti a risolvere il problema. Cooperative sociali, consorzi, associazioni, imprese non sarebbero nelle condizioni di proseguire nei loro lavori. Da qui l’appello di Antigone: “Noi chiediamo al Dap di usare tutti i soldi della Cassa delle ammende, compresi i milioni già promessi per progetti non ancora avviati oppure le decine di milioni messe da parte per l’edilizia penitenziaria, allo scopo di dare copertura finanziaria alla legge Smuraglia quanto meno sino alla fine dell’anno. Non fare questo ora sarebbe un errore tragico”. Tanto più che proprio oggi lo stesso Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha dichiarato parlando del sovraffollamento carcerario: “Ormai abbiamo raggiunto il limite della capienza tollerabile. Certamente non possiamo andare avanti così. La situazione è molto complessa e faticosa”. Per sottoscrivere l’appello si può mandare una mail a: segreteria@associazioneantigone.it. Tiziano Treu (Pd): puntare sulla professionalità (da “Avvenire”) Il lavoro in carcere è uno degli strumenti fondamentali per dare un senso al tempo della detenzione, per fare in modo che le persone recluse possano riappropriarsi della propria dignità. Inoltre, chi lavora in carcere ha un tasso di recidiva inferiore di 3-4 volte rispetto agli altri detenuti che non hanno questa possibilità. Investire sul lavoro in carcere porta benefici, anche economici, a tutta la società”. Parte da questa riflessione Tiziano Treu, senatore Pd, primo firmatario di un disegno di legge in cui vengono proposte modifiche alle norme che attualmente disciplinano i benefici per l’inserimento lavorativo dei detenuti. Mettendo l’accento del discorso soprattutto sulla parola dignità: “Senza lavoro, un detenuto esce dal carcere peggio di prima e commette un nuovo reato”. Oggi solo un detenuto su quattro può lavorare. Ma di che tipo di lavoro si tratta? Questo dato tiene conto anche di chi svolge mansioni interne alle carceri: penso agli scopini, ai portavitto, agli addetti alle cucine. E spesso si tratta di mansioni che non sono formative e che non offrono una qualifica professionale. Anche questi semplici lavori dovrebbero essere un’occasione di lavoro vero, qualificante. Con la nostra proposta di legge vogliamo raggiungere proprio questo obiettivo. In che modo è possibile farlo? Penso all’esperienza delle mense del carcere di Padova dove il gruppo di cuochi è organizzato in maniera professionale. Lo stesso vale per la manutenzione e la milizia di strutture grandi come le carceri, anche qui si può lavorare in modo professionale. Quali passi compiere per realizzare questo obiettivo? Nelle carceri servono spazi attrezzati. Ma soprattutto occorre la collaborazione dei dirigenti e la presenza di una piccola impresa o di un ente pubblico che guidi questa esperienza. La sfida è quella di riuscire a replicare all’interno delle carceri un modello di lavoro imprenditoriale più qualificato. Produzioni anche piccole, ma di qualità. Certo, servirà del tempo: se anche la legge passasse domani ci vorrebbero mesi per attivare un processo di questo tipo. Dove trovare i fondi per questi investimenti? Prelevando le risorse necessarie dalla Cassa ammende. Non si tratta di aggiungere nuovi fondi, ma semplicemente di utilizzare meglio quello che già c’è. Gabriele Toccafondi (Pdl): le imprese non sanno degli sgravi (da “Avvenire”) Elevare il credito mensile d’imposta per ogni detenuto assunto da 516 a mille euro. Offrire alle aziende che assumono persone in esecuzione penale sgravi contributivi del 100% (contro l’80% previsto oggi dalla “Legge Smuraglia”) sia per il lavoro interno, sia per il lavoro esterno al carcere. Sono due punti della proposta di legge presentata al Parlamento, tra gli altri, da Gabriele Toccafondi (Pdl), membro della commissione Bilancio alla Camera. “Il punto fondamentale - spiega Toccafondi - è far comprendere al Ministro dell’economia che un investimento sul lavoro in carcere permette di abbattere la recidiva e quindi di ridurre in maniera importante i costi di gestione del carcere”. In che misura? Basti pensare che, mediamente, un detenuto costa circa 300 euro al giorno. Ma in certi casi si arriva anche a 500. Investire sulla formazione professionale e sul lavoro aumenta le possibilità, fino all’80-90%, che la persona ristretta non torni a delinquere una volta giunta a fine pena. Investire sul lavoro in carcere dunque, porta benefici dal punto di vista economico. Certo, ma non solo. L’altro aspetto su cui stiamo puntando è il rispetto del dettato costituzionale: lo Stato deve offrire alle persone che hanno terminato di scontare la propria la possibilità di migliorare la propria condizione di vita. Che ruolo gioca lo Stato, dunque? Lo Stato non deve andare a sovrapporsi a quello che già fanno cooperative, enti di volontariato e realtà del terzo settore. Deve invece andare a valorizzare tutte le belle e positive esperienze che vengono già messe in atto. Tornando alla questione degli sgravi fiscali previsti dalla Smuraglia: quanto incidono sulla decisione di un imprenditore di assumere persone in esecuzione penale? Il problema, in questo campo, è innanzitutto culturale: le imprese non sanno che c’è questa possibilità. Per questo è necessario fare informazione e sensibilizzare. Nel nostro Paese poi manca la cultura di dare una possibilità di dare una seconda possibilità a chi ha sbagliato. Giustizia: Ugl Polizia Penitenziaria; manifestazione per maggiori tutele Italpress, 6 luglio 2011 “L’Ugl Polizia Penitenziaria prosegue nella sua campagna per la tutela della dignità e della sicurezza del corpo e domani si dà appuntamento a piazza Montecitorio, ore 10:00, per rivendicare maggiori tutele per la categoria. Prenderà parte alla manifestazione anche il segretario generale, Giovanni Centrella”. Lo rende noto il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, spiegando che “con questa manifestazione vogliamo richiamare l’attenzione sulla drammatica situazione in cui versa il sistema penitenziario e rivendicare una serie di misure, tra cui l’adeguamento strutturale delle risorse in dotazione agli agenti, per ottimizzare l’espletamento dei servizi di vigilanza degli istituti e del servizio traduzione dei detenuti”. “I dati parlano chiaro - precisa il sindacalista - nell’arco di tre anni abbiamo assistito ad una riduzione di oltre il 50% dei fondi assegnati per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle carceri. Per non parlare - continua - dei tagli per gli acquisti, la manutenzione e il noleggio dei mezzi di trasporto. Infine - conclude Moretti - chiediamo l’utilizzo del fondo comune dei beni confiscati alle mafie per il pagamento degli arretrati dei servizi di missione del personale, perchè ad oggi gli agenti si trovano a fronteggiare l’emergenza sovraffollamento senza avere l’adeguato stanziamento per la copertura dei costi dei servizi operativi e con mezzi non idonei a garantire la loro stessa sicurezza ed incolumità”. Giustizia: Chiese Evangeliche; In Italia non c’è la pena di morte, ma di prigione si muore Adnkronos, 6 luglio 2011 In Italia “non c’è la pena di morte, ma si muore di carcere”. La denuncia è di Anna Maffei, già presidente dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (Ucebi), che con un editoriale in uscita oggi sul bollettino settimanale delle chiese evangeliche dal titolo “Fui prigioniero e veniste a trovarmi” si inserisce nel dibattito sul sovraffollamento dei penitenziari. “A volte - si afferma nell’editoriale - si muore per le percosse subite, altre volte si muore per cure mediche non ricevute, altre volte, sempre più spesso, si muore di suicidio”. La pastora Maffei ricorda poi la stretta relazione fra l’alto tasso di suicidi in carcere e le condizioni disumane in cui sono costretti i detenuti. E, facendo cenno ad una sua visita nelle carceri l’estate scorsa, racconta di aver visto rinchiuse “7-8 persone in pochi metri quadri, in anguste celle esposte al sole d’agosto, con accanto un piccolo water senza finestra, con l’acqua razionata e dunque con lo scarico non funzionante per molte ore al giorno ... una tortura che a migliaia i detenuti vivono ogni giorno nel nostro bel paese”. “La civiltà di un paese si misura soprattutto dalla sua capacità di rispettare la dignità e i diritti basilari delle persone”, si legge ancora. Quindi viene espressa profonda preoccupazione per il pericoloso grado di assuefazione raggiunto in Italia quando si tratta di migranti, rom o detenuti. “Cosa hanno da dire i cristiani? - si chiede. Bisogna uscire dal torpore e far risuonare dai tetti la parola di Gesù. Inequivocabile. “Fui prigioniero e veniste a trovarmi. Quando l’avrete fatto a uno di questi minimi, l’avrete fatto a me. Nel bene e nel male”. Umbria: Regione; carceri sovraffollate e con poco personale, puntare sul reinserimento Agi, 6 luglio 2011 “Sovraffollate e carenti, ormai in forma cronica, di personale”. Riassume così la vicepresidente della Regione Umbria, Carla Casciari, la situazione dei quattro istituti penitenziari umbri, illustrando alla giunta regionale un’informativa che ne fotografa la delicata condizione. Al 31 dicembre del 2010 i detenuti reclusi nei quattro istituti di pena umbri erano 1.672. Tra le prime criticità segnalate dalla vicepresidente c’è il numero dei detenuti, “in particolare - ha detto Casciari - di quelli presenti nelle sezioni del circuito di media sicurezza, decisamente superiore alla capienza tollerabile. Significativo negli ultimi quattro anni inoltre, l’aumento della popolazione penitenziaria, che ha fatto registrare la quasi triplicazione della presenza di detenuti con un notevole aumento di spesa sociale e sanitaria per gli enti locali e le Asl. Tutto ciò - ha aggiunto - sommato alla carenza di personale sia dell’area educativa sia di polizia penitenziaria, rende particolarmente difficoltosa, se non impossibile, la differenziazione del trattamento e la rieducazione all’interno degli istituti”. Negli istituti umbri, ha precisato la vicepresidente, “è stato registrato un tasso di sovraffollamento del 75 per cento rapportato alla capienza regolamentare degli istituti di pena, e del 6 per cento rapportato alla capienza tollerabile (capienza regolamentare 954 posti, capienza tollerabile 1564 posti). Le donne costituiscono approssimativamente il 3,5-5 per cento della popolazione detenuta umbra”. La presenza dei detenuti stranieri è sempre stata significativa nel corso degli anni, sia in termini assoluti sia percentuali(765 al 31 dicembre 2010), particolarmente critica da questo punto di vista è la situazione degli istituti di Perugia Capanne e di Terni. Palermo: detenuto 36enne muore in circostanze misteriose nel carcere dei “Pagliarelli” La Sicilia, 6 luglio 2011 “Chiediamo verità e giustizia”. La moglie, la madre ed i fratelli di Giuseppe La Piana, 36 anni il prossimo 10 agosto, lanciano un appello affinché venga fuori la verità sulle circostanze che hanno portato al decesso del loro congiunto, stroncato alle 12,30 di domenica scorsa mentre pranzava nel carcere dei “Pagliarelli”. “Stava mangiando - ha detto la vedova, signora Claudia - quando, così ci è stato riferito, ha accusato un malore ed è morto. A noi ci hanno chiamato alle 15”. Piangono in continuazione i familiari di Giuseppe La Piana. La modesta abitazione di corso dei Mille, 868, è un via vai di amici, parenti e gente del quartiere. “Voleva bene ai suoi figli Samuele di 4 e Sofia di 3 anni come nessun’altra cosa al mondo - continua la vedova, invalida civile semi-cieca e costretta a prendere medicine a causa dei suoi gravi malanni - vogliamo sapere cosa lo ha portato alla tomba. Aveva voglia di vivere e sperava di riabbracciare i bambini al più presto”. Giuseppe La Piana stava scontando una condanna per una rapina in banca che avrebbe commesso nell’agosto del 2005. Nella primavera del 2006 i carabinieri lo hanno fermato a Bagheria e poi sono cominciati i trasferimenti in vari penitenziari. Lunedì scorso è stata effettuata l’autopsia all’istituto di Medicina legale del Policlinico. I familiari di La Piana sono assistiti dall’avvocato Giovanni Restivo. L’uomo soffriva di cuore e costantemente aveva bisogno di alcuni farmaci come il Plavix o la Cardiospirina, ma anche dello speciale cerotto che si applica ai soggetti che soffrono di problematiche cardiache. Tra le cause del decesso, quella più praticabile sembra quella dell’attacco cardio circolatorio ma i familiari chiedono se è stato fatto tutto il possibile per strapparlo alla morte. Tra 60 giorni il responso dell’autopsia. Aversa (Ce): all’Opg internato muore per edema polmonare, è il settimo decesso del 2011 Il Mattino, 6 luglio 2011 Avrebbe avuto appena il tempo di chiedere soccorso, che poi accasciatosi a terra è morto: si è spento così V.G. 45 anni, umbro, il settimo internato a morire dall’inizio dell’anno dietro le sbarre del manicomio giudiziario aversano. Secondo la direzione dell’Opg “Filippo Saporito” a causare la morte dell’internato sarebbe stato un edema polmonare, ma sul corpo del detenuto la magistratura ha disposto l’autopsia. Si è spento senza che ci fosse nemmeno il tempo di chiamare il 118. “Un malore improvviso - spiega la direttrice penitenziaria della struttura, Carlotta Giaquinto - non pare che ci fossero stati sintomi di una malattia pregressa”. La settima morte del 2001 al Saporito, scuote le coscienze. Per Dario Stefano Dell’Aquila, portavoce dell’associazione Antigone e componente dell’osservatorio nazionale sulla detenzione, che ha denunciato l’ennesima morte in carcere, si tratta di “una sequenza che non trova riscontro in nessun altro penitenziario in Italia e che si verifica in un luogo, dove paradossalmente maggiore dovrebbe l’attenzione alla cura”. Al Saporito oltre agli psichiatri prestano servizio cinque medici che hanno il compito di monitorare la salute dei 250 internati in quello che prima di essere un carcere dovrebbe essere un ospedale. Le condizioni di detenzione degli internati lasciano perplesse le associazioni che si occupano della realtà del manicomio giudiziario. “L’incidenza di morti nel Saporito - afferma Annagioia Trasacco del Tribunale dei diritti del malato - è troppo alta per non far alzare il livello di attenzione sulla struttura. Noi continueremo a monitorare per sapere anche in questo caso cosa è successo”. L’internato morto il 4 luglio era da un anno al Saporito. Da Montelupo fiorentino, ospedale psichiatrico giudiziario da cui proveniva era stato trasferito ad Aversa per “incompatibilità ambientale”. Provvedimenti che scattano in caso di difficile convivenza con altri internati. Ma ad Aversa non aveva destato preoccupazioni, anzi si era inserito nella particolarissima comunità del carcere ospedale dove lavorava come barbiere. Ora sarà la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, che da tempo sta monitorando la struttura aversana, soprattutto dopo le denunce della commissione parlamentare di inchiesta guidata dal senatore Ignazio Marino a far luce sulla vicenda. Al Saporito tre internati sono morti per suicidio, un altro uomo, privo di denti, controllato da quello che in gergo chiamano piantone cioè un altro internato, per soffocamento, dopo aver tentato di addentare il panino del compagno. Due internati si sono spenti dopo essere stati trasferiti presso l’ospedale San Giuseppe Moscati, uno cardiopatico, l’altro ricoverato d’urgenza per sospetta sepsi. Solo due settimane fa due internati reclusi nella sezione “staccata” avevano tentato di evadere dal “Saporito” dopo aver aggredito due agenti di polizia penitenziaria. Ritrovati la stessa notte nascosti dietro una siepe nel cortile della struttura aversana, per loro era stato disposto un consiglio di disciplina e richiesto il trasferimento presso altro istituto che non è stato ancora eseguito. Modena: Sappe; protesta dei detenuti nella Casa di lavoro di Saliceta San Giuliano Dire, 6 luglio 2011 Continuano le proteste dei detenuti in Emilia Romagna. Questa volta, dopo Bologna, Reggio Emilia e Piacenza, è la volta della casa di lavoro di Saliceta San Giuliano, alle porte di Modena, dove gli internati, da ieri, hanno iniziato a sbattere le pentole contro le porte blindate e le inferriate, “provocando un rumore assordante che ha addirittura richiamato l’attenzione delle persone che abitano nei palazzi che sorgono accanto alla struttura detentiva, le quali sembra si siano lamentate con le autorità di pubblica sicurezza”. Lo rende noto in un comunicato il segretario generale aggiunto del sindacato degli agenti penitenziari (Sappe) Giovanni Battista Durante, che precisa come alla casa di Lavoro di Saliceta “struttura che ospita circa sessanta internati, ne sono assegnati circa il doppio; parte di essi, infatti, sono in licenza. Gli agenti sono poco più di trenta, in numero assolutamente insufficiente rispetto alle esigenze”. Trento: a sei mesi dall’apertura il nuovo carcere è già in crisi, ispezione del ministero Il Trentino, 6 luglio 2011 A sei mesi dall’apertura, è un mezzo fallimento. Organico insufficiente, assistenza sanitaria carente, poche prospettive di riabilitazione per i detenuti. Sulla gestione del nuovo carcere di Spini piovono le dure accuse dei sindacati, che ieri hanno incontrato l’amministrazione penitenziaria. E ieri si è svolta un’ispezione ministeriale dopo le note di protesta dall’infermeria. Mentre i sindacati trattavano con la direttrice Antonella Forgione e il provveditore regionale Felice Bocchino sull’organizzazione del lavoro, gli ispettori ministeriali entravano in carcere. Una visita sollecitata dalla stessa amministrazione per fare chiarezza dopo due episodi (sfociati in una denuncia alla direttrice) di mancate autorizzazioni per visite sanitarie esterne. A sei mesi dall’apertura di Spini, la situazione è molto tesa. Le aspettative sul nuovo carcere erano molte e oggi sono in tanti a parlare di ritardi e preoccupazione, sia tra il personale penitenziario, sia tra chi si aspettava un salto di qualità nelle opportunità di formazione e lavoro per i detenuti. La Uil in un duro documento ha chiesto al ministero della giustizia un’indagine per responsabilità amministrativa a danno della pubblica amministrazione, denunciando “condizioni di incompatibilità ambientale” per la direttrice. Lunga la lista delle contestazioni: una “gestione privatistica della struttura”, con “ingerenze nell’attività di infermeria del carcere che ha provocato ritardi e disservizi patiti soprattutto dai detenuti”, rapporti conflittuali con il personale e incapacità di gestione delle risorse umane interne. La Uil chiede di “valutare se esistono ancora le condizioni per il mantenimento della dottoressa Forgione come direttore”. Critico sulla situazione a Spini anche il segretario della Cgil Funzione pubblica Giampaolo Mastrogiuseppe: “Le responsabilità non sono tutte della direttrice, ma anche del dipartimento”. C’è alla base un problema di organico: “A fronte di una capienza del nuovo carcere quasi raggiunta, oggi il personale è del tutto insufficiente, 160-180 unità a fronte delle 240 annunciate. La chiusura di Rovereto non ha portato grandi miglioramenti, 43 agenti operativi in più non bastano se questo carcere vuole essere gestito per come è stato pensato, un luogo che punta a reinserire i detenuti nella società”. Forti i timori anche sul fronte sanitario: “Apprendiamo dalla stampa del protocollo tra Provincia e provveditore regionale, ma qui non possiamo aspettare un giorno di più. L’Azienda sanitaria deve fornire assistenza subito. Alle 19 a Spini va via l’ultimo infermiere e dopo? Qui sono a rischio i detenuti ma anche il personale, per il quale non sono state previste misure di protezione”. Preoccupazione espressa anche in un’interrogazione del consigliere Mattia Civico (Pd), che chiede il rispetto degli accordi stipulati dall’amministrazione penitenziaria con la Provincia: “Paradossalmente il sovraffollamento del vecchio carcere consentiva più relazioni, sebbene obbligate. Oggi abbiamo molti detenuti che restano in cella 20 ore al giorno, poche opportunità di formazione e lavoro che erano il vero obiettivo. È questo che contrasta la recidiva, occorre investire molto di più”. Concetto ribadito da Silvano Deavi, presidente del Consolida che da una decina d’anni è presente con attività in carcere: “Capiamo la fatica di chi dirige con organici insufficienti, ma il salto di qualità che ci si aspettava e che la struttura permetterebbe non è avvenuto e questo genera delusione. Si fa fatica ad accedere a certe aree perché manca personale e se è aumentato il numero dei detenuti che lavora nei laboratori, questo vale per turni di 2 mesi. E gli altri 10?”. La direttrice: lavoriamo sotto organico, serve un nuovo approccio “Con la chiusura del carcere di Rovereto abbiamo guadagnato un po’ di personale che ci consente di respirare, ma il nuovo carcere di Spini necessita di un’organizzazione del lavoro che va fuori dagli schemi a cui eravamo abituati”. Antonella Forgione, direttrice della casa circondariale di Trento, incassa le critiche e guarda oltre. Ieri mattina un nuovo incontro con le organizzazioni sindacali, al tavolo anche il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Felice Bocchino. La situazione non è facile, il clima è teso da mesi: i sindacati denunciano organici insufficienti, il mese scorso - alla festa della polizia penitenziaria - un sit-in di protesta aveva accolto il sottosegretario Elisabetta Alberti Casellati. “Se ci aspettiamo gli organici che erano stati annunciati all’inizio per il nuovo carcere, non ci siamo - ammette Forgione - è chiaro che quei numeri (si era parlato di 350 agenti, poi scesi a 240, ndr) non li otterremo. Abbiamo cercato di sopperire alla carenza numerica con la tecnologia, ora il personale che è arrivato da Rovereto ci offre una boccata di ossigeno”. Alle critiche sulla gestione sanitaria, la direttrice replica che “sì, alcune disfunzioni ci sono state, non lo nego, ma si tratta di problemi superabili”. “La Provincia è subentrata da aprile, si tratta di un’attività nuova, proprio oggi (ieri per chi legge, ndr) abbiamo avuto un incontro in Azienda sanitaria per i dettagli operativi del protocollo che abbiamo firmato”. Quanto alle attività di formazione e lavoro per i detenuti, Forgione è netta: “Sono fedele a questo obiettivo, per oggi e per il futuro. Chi dice che i detenuti stanno in cella 20 ore al giorno non conosce questo carcere. Sto cercando di ampliare il più possibile le attività, abbiamo avviato tre corsi di formazione anche in estate e quasi il 100% dei detenuti è occupato tra corsi e attività lavorative”. Pianosa (Li): il carcere non riaprirà, l’isola “proibita” oggi punta sul turismo Adnkronos, 6 luglio 2011 Il carcere di Pianosa non riaprirà. A fronte delle polemiche che ciclicamente si ripropongono per le ipotesi di riapertura della struttura a causa della situazione di sovraffollamento carcerario, l’ex colonia agricola penale istituita nel 1858 dal Granducato di Toscana, volta pagina e punta sul turismo per riqualificarsi. E così il super-penitenziario dov’erano detenuti i boss mafiosi in regime di 41bis, chiuso nell’agosto del 1998, diventa un’attrazione per i visitatori dell’isola proibita dell’Arcipelago Toscano. Non vale ancora per i turisti, ma con l’autorizzazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si possono visitare le celle del 41bis e gli altri ex reparti detentivi ancora agibili. “Sull’isola operano tre agenti di polizia penitenziaria in attesa della dismissione completa delle strutture”, spiega all’Adnkronos il commissario Vincenzo Pennetti, comandante della Polizia penitenziaria di Porto Azzurro, da cui dipende il presidio di Pianosa. “Nel frattempo - sottolinea Pennetti - la cooperativa San Giacomo fa lavorare 6 degli 8 detenuti in articolo 21, presenti sull’isola. Gli altri due lavorano per la manutenzione delle strutture. La cooperativa ha avuto in concessione l’ex sala mensa della polizia penitenziaria e l’ha trasformata in bar ristorante per accogliere i turisti”. Anche il nome è suggestivo, “Cucina galeotta”. Raggiungibile via nave da Marina di Campo, all’Isola d’Elba, Pianosa offre infatti al visitatore non solo La Specola, Forte Teglia, le Catacombe o i Bagni d’Agrippa ma anche la visione della fortezza che ha visto tra le sue sbarre personaggi come Francis Turatello. Nel 1931 vi fu imprigionato per motivi politici anche il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini. L’isola ha un solo residente effettivo, il responsabile delle catacombe di epoca romana di Pianosa, oltre a due agenti di polizia penitenziaria presenti tutto l’anno sull’isola. L’offerta turistica va dal trekking alle escursioni, senza dimenticare il giro dell’isola con una carrozza trainata da cavalli e il bagno con snorkeling a Cala Giovanna. Pianosa può ospitare 250 persone al giorno, ma durante la stagione estiva si può arrivare al doppio. “Nel progetto della cooperativa San Giacomo - conclude il commissario Pennetti - c’è anche l’apertura di un piccolo albergo sull’isola, nella zona del paese che prima era divisa dal muro di circa due chilometri, che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fece costruire, per separare simbolicamente l’isola-carcere dall’isola civile. Pianosa è una perla, e deve rinascere”. Puntando sul mistero e la bellezza dei luoghi. Taranto: esplode bombola gas in cella, due detenuti feriti e ricoverati in ospedale Adnkronos, 6 luglio 2011 Due detenuti rinchiusi nel penitenziario di Taranto sono rimasti feriti questo pomeriggio a causa dell’esplosione di una bomboletta di gas avvenuta in una cella. Uno di loro sarebbe più grave ed è stato trasportato al centro grandi ustionati dell’ospedale “Perrino” di Brindisi mentre l’altro, più lieve, si trova all’spedale “Santissima Annunziata” di Taranto. Gli agenti di custodia sono intervenuti rapidamente per spegnere le fiamme. “Abbiamo sempre segnalato all’amministrazione - dice Federico Pilagatti, segretario nazionale e regionale del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria - la pericolosità di queste bombolette che i detenuti usano per riscaldare le vivande e che in qualche caso sono state utilizzate per togliersi la vita. Si dovrebbe ripensare il loro utilizzo”. Firenze: internato all’Opg di Montelupo picchia due agenti di Polizia penitenziaria Il Tirreno, 6 luglio 2011 Ennesimo episodio di violenza all’interno dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo denunciato dal Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Due agenti sono stati costretti a ricorrere alle cure dei sanitari del pronto soccorso di Empoli, entrambi con prognosi di 7 giorni, a seguito di un’aggressione da parte di un internato. Il detenuto, mentre si recava ai cortili passeggi per fruire dell’ora d’aria, all’improvviso e senza alcun motivo, ha aggredito i due agenti: ha colpito il primo con un pugno al volto, e successivamente con calci; a quel punto è intervenuto il secondo agente in aiuto al collega, e l’energumeno gli ha sferrato un calcio. A quel punto, è suonato l’allarme ed è intervenuto il responsabile del reparto con un altro agente, che con non poca fatica, sono riusciti a bloccare l’internato. “A distanza di tre anni dall’entrata in vigore del decreto che ha definito il passaggio delle funzioni di assistenza sanitaria in carcere al ministero della Salute nulla è stato fatto di concreto da parte delle istituzioni. Gli internati dell’Opg - scrive il Sappe - sono circa 150, mentre gli agenti di polizia penitenziaria dovrebbe essere di 105, ma sono 83: di questi svolgono servizio effettivo nei reparti detentivi circa 40-45 unità in tre turni di 8/9 ore giornaliere, a contatto con persone con svariate patologie fisiche/mentali”. Roma: il Cappellano di Regina Coeli; non va mai lesa la dignità umana dei detenuti Adnkronos, 6 luglio 2011 Sulla giustizia e il carcere non bisogna fare discorsi emotivi, per cui un giorno si chiedono soluzioni e un altro si vuole buttare via la chiave. Il punto di partenza è che non bisogna mai compiere qualche passo lesivo della dignità della persona umana anche quando questa si trova in carcere”. È quanto sottolinea all’Adnkronos il parroco di Regina Coeli, don Vittorio Trani. “È necessario sempre mantenere un livello di vita dignitoso sul piano igienico, sanitario, degli spazi, delle pene alternative e via dicendo. In carcere - aggiunge il religioso - devono finire le persone che hanno commesso reati gravi, chi ha responsabilità serie, per i tossicodipendenti bisognerebbe trovare soluzioni alternative concrete e immediate, e anche per i piccoli reati la detenzione non può essere la soluzione. Non si può insomma invocare il carcere per ogni problema sociale”. “Verso gli immigrati poi - prosegue don Trani - c’è una particolare durezza, non è così solo in Italia in tutto il mondo le autorità ci vanno con la mano più pesante verso gli stranieri. Secondo le statistiche per uno stesso reato commesso su 100 italiani va in galera il 13%, mentre su 100 stranieri finiscono dentro il 70, 75%”. Quanto al sovraffollamento, “in Italia la capienza delle strutture carcerarie è di circa 42mila persone, siamo oltre 67mila detenuti, è chiaro che in diversi penitenziari questo genera sofferenza”. Non tanto, però, a Regina Coeli “dove è stato stabilito un tetto oltre il quale non si può andare”. I problemi del carcere romano sono altri: “si tratta - spiega - di una struttura antica che ha circa 120 anni, e risente dei limiti del caso; spazi ristretti, con l’estate si sente il caldo e poi c’è una generale riduzione delle risorse economiche che pure ha il suo pesò. Firenze: quei detenuti che sognano la maratona La Repubblica, 6 luglio 2011 Due ore d’aria. Kamal ci prova sempre. Un cubicolo di 35 metri quadri. Correre non sembra possibile. O forse sì. In fondo rispetto alla cella con quattro letti a castello questa è aria. Basta non pensarci. Sette metri e curvare. Altri quattro passi e un’altra curva stretta. Il cielo è minuscolo. Il corpo suda. Ma questo è ciò che puoi prenderti adesso: lasciar andare le gambe per immaginarti altrove. E poi aspettare il tuo turno, quelle due ore settimanali sul campo di pallone, rettangolo benedetto da dividere con gli altri abitanti di questa città bollente e perfida. Un carcere fuori dal tempo. Incubo di cemento disegnato trent’anni fa sul confine di Scandicci. Triangoli rovesciati imbottiti di gente in un eterno overbooking. Ideato per 700 detenuti, l’hotel Sollicciano ne tiene nello stomaco mille e più. Nell’ottava sezione ne vivono una sessantina. Ex tossicodipendenti. Con loro si danno da fare gli operatori del Sert, gli educatori del carcere e i volontari di associazioni come C.I.A.O, che lavorano sull’inserimento sociale e organizzano incontri, occasioni di confronto su temi spesso richiesti dagli stessi ospiti del carcere, che se sono in questa sezione scontano di solito pene relativamente lievi: da uno a 3 anni, quasi sempre per piccoli furti o spaccio. Dal cancello di ingresso alle due stanze destinate all’attività ricreativa si contano altri 3 passaggi di controllo. Le guardie sono gentili. Le finestre che danno sul mondo dei liberi sono fessure strette come occhi socchiusi. La maggior parte degli inquilini sono giovani. Tanti nordafricani. Qualche biondo dell’est. Tatuaggi addosso nemmeno tanti, rispetto a una qualsiasi spiaggia modaiola. Siamo stati invitati per parlare di sport. Di movimento. Di sfide. Un discorso senza pretese. Qui nessuno è maestro. Molta voglia di ascoltare cosa pensano loro, più che altro. E loro sono una trentina. E dicono che avrebbero voglia di correre, di sfogarsi, di avere un traguardo oltre quelle sbarre. Per motivarsi. Tanto per cominciare. Parliamo della maratona, allora. Del sacrificio. Dell’idea che quei 42 km e 195 metri sono una distanza difficile per tutti: fenomeni keniani da due ore e poco più, amatori della domenica da quattro ore e passa. Non cambia nulla. A un certo punto si soffre sempre, per forza. Come quando vuoi smettere di farti del male con la droga. Come quando decidi di diventare una persona migliore, o solo smettere di fumare. C’è un passaggio del tuo viaggio dove pensi che non ce la farai mai. Ma invece non è così. Stringi i denti, magari urli al cielo rabbia e paura, ma poi sarai libero. Lo fa il keniano. Lo fai pure tu, se ti sei allenato nel modo corretto. Le domande sono tante, ma tra le risposte una promessa: la prossima volta portiamo un allenatore che possa dare consigli tecnici appropriati. Ora si parla in generale. L’idea è quella della sfida. Per migliorarci. Lo sport è sempre il modo più facile e immediato per valutare il rapporto sforzo-risultato. Il training allena muscoli e cervello, scatena endorfine, rigenera. In fondo anche cambiare la nostra vita interiore implica un allenamento. Qualcuno annuisce convinto. Corpo e spirito vanno curati insieme. Tra i detenuti ci sono molti musulmani e anche chi si è convertito al buddismo qui in carcere, dove si è formato anche un piccolo gruppo di preghiera. Kamal chiede: “Possiamo allenarci alla maratona?”. Altri annuiscono. Alla fine viene fuori un’idea più concreta: la costruzione di un piccolo gruppo sportivo. Obiettivo: 25 settembre, “Corri la vita”. Dodici chilometri, per cominciare. E, soprattutto, per valutare la serietà delle intenzioni. Un ragazzone coi dreadlocks e la panciotta chiede se correndo si dimagrisce, un altro dice che non ce la farà mai. Ma la domanda è secca: chi ci sta? In dieci alzano la mano. Burocraticamente la cosa forse si può fare, anche se niente è facile. Sta agli educatori studiare la fattibilità del progetto. Il passo immediato sarà quello di iniziare ad allenarsi con dedizione. Una cosa che sembra una follia, dentro questo labirinto di cemento. Resistenza, intensità, velocità. Magari la prima quando arriva il giorno del campo di pallone. Un’ora di corsa intorno al rettangolo di gioco, poi due calci per sfogarsi. Kamal dice: “Ce la faremo”. Adrian, che è rumeno, storce un pò il naso ma soffia che forse ci proverà. È chiaro a tutti che servono costanza e attenzione. E se non riusciamo a portare in tempi rapidi un tecnico a parlare coi ragazzi, gli faremo comunque avere delle tabelle di allenamento che tengano conto della loro condizione di atleti un po’speciali. Il fatto è che se c’è un posto dove non ti immagini a correre è questo qui. Una ragione in più per sfidarsi, allora. Sognando la maratona, quarantadue chilometri e 195 metri di fatica e libertà. Usa: terrorista somalo catturato e detenuto in segreto per 2 mesi Adnkronos, 6 luglio 2011 Barack Obama va a scuola da George Bush e ordina la detenzione segreta di uno sospetto terrorista somalo catturato lo scorso aprile nel Golfo di Aden. Ma nel tentativo di segnare la differenza con la pratica delle “prigioni segrete” dove i sospetti terroristi sparivano a tempo indeterminato nell’era Bush, l’amministrazione democratica, dopo oltre due mesi di interrogatori del prigioniero a bordo di una nave militare, ha trasferito Ahmed Abdulkadir Warsame a New York dove è stato incriminato come appartenente ad al Shabab. E se alla base liberal democratica sicuramente non piacerà scoprire che l’amministrazione Obama ora appare intenzionata a catturare e interrogare sospetti terroristi fuori dalle zone di guerra, i repubblicani non saranno felici del trasferimento del sospetto sul territorio americano. Per impedire la chiusura di Guantanamo, infatti, il Congresso, anche con i voti di alcuni democratici quindi, ha votato una misura che vieta il trasferimento dei detenuti del campo di prigionia nella base americana a Cuba negli Stati Uniti. Warsame è il primo sospetto terrorista straniero di cui è stata annunciata la cattura da parte dell’amministrazione Obama, che nei mesi scorsi era stata criticata da parte repubblicana, per il fatto di essersi impegnata maggiormente in raid anti-terrorismo che hanno portato all’uccisione di un numero record di terroristi - tra i quali spicca ovviamente quello che ha portato alla morte di Osama bin Laden - rinunciando alla cattura di sospetti che, se interrogati, avrebbero potuto fornire importanti informazioni. Il sospetto terrorista somalo è stato incriminato, sempre in gran segreto, la scorsa settimana da un grand jury di New York per aver complottato e sostenuto sia al Shabab, il gruppo islamista somalo, che al Qaeda nella Penisola Arabica nello Yemen. È accusato di aver partecipato ai campi di addestramento di queste organizzazioni, ma non di aver partecipato ad attacchi o complotti contro obiettivi americani. Per Washington al Qaeda nella Penisola Arabica è ormai diventata la cellula “più attiva operativamente” del network terroristico, responsabile - tra l’altro - del tentato attentato a bordo di un aereo diretto a Detroit nel dicembre 2009 e del complotto per bombardare un aereo cargo lo scorso anno. Negli ultimi mesi l’amministrazione Usa ha parlato di rapporti sempre più intensi tra la cellula yemenita e il gruppo islamista somalo che si oppone al debolissimo governo transitorio somalo. E Warsame sarebbe stato “un importante punto di contatto tra le due organizzazioni” che sono “direttamente impegnate a complottare contro gli Stati Uniti e i nostri interessi”. A provarlo il fatto che il giovane somalo “lo scorso anno e quest’anno si è recato nello Yemen” per favorire questi contatti, ha spiegato un funzionario dell’amministrazione. E la sua cattura da parte di una nave del Joint Operations Command è avvenuta il 19 aprile scorso proprio mentre stava viaggiando a bordo di una barca insieme ad un altro dallo Yemen alla Somalia. Dopo una breve detenzione l’altra persona è stata rilasciata, mentre i militari hanno determinato che per Warsame “erano necessari ulteriori interrogatori”, che sono continuati quasi ogni giorno da parte sia di ufficiali militari che funzionari civili. Il trasferimento a New York alla fine è stata preferita ai tribunali militari istituiti per i prigionieri di Guantanamo perché la magistratura federale è stata considerata più efficace per questo tipo di caso. Ma questo non ha soddisfatto le organizzazioni per i diritti umani che accusano l’amministrazione Obama di essere contraddittoria: “da una parte detiene a tempo indeterminato una persona, usando le controverse interpretazioni dell’era Bush della legge di guerra, dall’altra adottano un sistema più sofisticato sapendo che il dipartimento di Giustizia è più adatto”, ha detto John Sifton, avvocato che ha difeso in passato diversi detenuti di Guantanamo. Oman: condannati a 3 anni di carcere 12 manifestanti antigovernativi Adnkronos, 6 luglio 2011 Il tribunale di Mosqat ha condannato a 3 anni di carcere 12 attivisti che lo scorso febbraio avevano manifestato contro il governo del paese arabo. Secondo quanto riferisce la tv satellitare al-Arabiya, sale così a 80 il numero dei manifestanti condannati per le proteste nella città costiera di Sahhar nei giorni seguenti alla rivoluzione in Tunisia contro Ben Ali. In quei giorni infatti erano scese in piazza diverse centinaia di persone per chiedere un aumento dei salari e nuovi posti di lavoro. La protesta, che si è protratta per circa due mesi, era stata più volte repressa dalle forze dell’ordine.