Giustizia: il problema principe in Italia… e la sua appendice carceraria di Gennaro Santoro Carta, 5 luglio 2011 Il ministro Alfano ha fatto visita a Marco Pannella, ricoverato a seguito del durissimo sciopero della fame e della sete sui problemi del carcere, per ricordare che il problema principe in Italia è la giustizia e la sua appendice carceraria. Ha ragione Adriano Prosperi su Repubblica a rispondere al ministro ricordando che il “tema principe” del Paese, cioè il problema dei processi di Berlusconi, non ha niente a che spartire con la questione carceraria. No, il carcere non è un’appendice del problema della giustizia, è “il” problema. Perché le patrie galere scoppiano (67.000 presenze contro una capienza di circa 43.000 unità, un tasso di suicidi di 20 volte superiore a quello riscontrato all’esterno), perché al gabbio ci vanno i poveri cristi che non possono pagare fior di avvocati o, addirittura, fior di parlamentari e ministri che scrivono leggi in nome (e nell’esclusivo interesse) del loro sovrano. Perché il carcere, oltre a essere disumano, è la scuola superiore del crimine, tanto che circa 3 detenuti su 5 ricadono nel reato una volta liberi, mentre le misure alternative al carcere reintegrano le persone nella società, tanto che 4 su 5 non ricadono nel reato una volta liberi. Allora ben venga che l’appello a sostegno dell’iniziativa nonviolenta di Marco Pannella sia stato firmato trasversalmente, da Veltroni a Pecorella, e, addirittura, da Vittorio Feltri ed Alessandra Mussolini. Ma perché l’emergenza carceraria non diventi, anche quest’anno, solo una parata ferragostana, vi è bisogno di un salto di qualità nei media e nella classe politica. Per una nuova cultura giuridica che si interroghi sui limiti della repressione penale, chiedendosi anche se, necessariamente, il carcere debba rimanere la pena “principe”, per parafrasare il buon ministro. Per una pubblica opinione che si convinca che anche in carcere vale l’insegnamento di Bobbio: la dignità della persona è una pre-regola del gioco che non va mai calpestata. Dunque, attualmente lo Stato è fuorilegge e va varato un provvedimento che ripristini la legalità democratica. L’ultima amnistia fu approvata nel 1990, l’ultimo indulto nel 2006. Quelle occasioni furono parzialmente sprecate perché nessuna riforma è stata varata per accompagnare i provvedimenti di clemenza. Così, dopo l’indulto del 2006, i detenuti sono cresciuti a dismisura vivendo in uno spazio inferiore ai tre metri quadri pro-capite (negli allevamenti di maiali lo spazio minimo previsto dalla legge è superiore ai 6 mq). L’amnistia e l’indulto sono rimedi tardivi, emergenziali e preferiremmo la riforma del codice penale (fascista) del 1930 e delle leggi (fasciste) sulle droghe e sulla immigrazione. Non potendo chiedere la luna, invochiamo un atto di clemenza che sia accompagnato, quanto meno, da una riflessione pubblica sulla depenalizzazione e la decarcerizzazione. Giustizia: l’amnistia non fa la riforma di Mauro Mellini L’Opinione, 5 luglio 2011 Lo sciopero della fame di Marco Pannella cosa porterà nell’infinita lotta per la riforma del sistema carcerario? La paura è che non si muova nulla, che come ogni volta che si è mesa in campo un’amnistia, il risultato sarà quello di lasciare in carcere chi già c’è e di non avviare la vera, grande riforma del sistema che servirebbe per ridurre tutto il carico di detenuti e per creare carceri che siano veramente degne di un paese democratico. Le amnistie periodiche della storia della (Prima) Repubblica hanno sempre escluso i reati più gravi, risolvendosi solo in una diversa graduazione del trattamento punitivo. Marco Pannella, mette ancora una volta in gioco la sua esistenza per dar voce ad una protesta. Quella sacrosanta, umanissima, carica di indignazione per le condizioni dei detenuti ammassati nelle carceri del nostro Paese. Per un sistema giudiziario che studia sempre nuove norme penali e procedurali, per aumentare il rifornimento di sempre nuova carne da galera ed il prolungamento dello stoccaggio, che proclama l’assoluta necessità di ogni invasiva e repellente forma di “prova” destinata a tale rifornimento, demonizzando le “fisime garantiste”, che imporrebbero di preferire che un reo resti impunito, piuttosto che un innocente sia condannato e mandato all’ammasso e che, soprattutto imporrebbero di ridurre al massimo la carcerazione preventiva, praticata su un “materiale umano” destinato, pur con lo scarso rispetto del principio “in dubio pro reo”, ad essere poi, in alta percentuale, dichiarato innocente senza manco una parola di scusa. Protesta ed indignazione non hanno necessariamente parte politica, né ubbidiscono a criteri di coerenza, né possono essere valutati a seconda degli sbocchi che ad esse possono seguire. Un’azione politica può raccoglierle, può trarne forza, può alimentarle. Ma, in sé, non sono “politica” (nel senso più elevato del termine) se non in quanto “tutto è politico”. Se la protesta ed il digiuno di Pannella hanno ottenuto attenzioni e consensi che altre volte sono mancati a simili iniziative, ciò non è dovuto soltanto al fatto che per, fattori molteplici e diversi, anche molti scettici si sono accorti che si tratta di una messa in giuoco, di un rischio estremo e che estrema appare la determinazione nel portare avanti una così rischiosa “operazione”. Pannella ha avuto consensi a destra e a sinistra da Feltri a Costanzo, dal Presidente Napolitano. E da Palamara (quello dell’Anm). Si direbbe che sia riuscito a coinvolgere soggetti disparati, ottenendo un successo, francamente, insperato. Se a ciò dovesse seguire veramente la nomina a Senatore a vita da parte del Capo dello Stato, allora, a parte il valore di riconoscimento per la persona di Marco, si dovrebbe dedurne che l’attenzione e la condivisione debbano necessariamente superare lo stadio emozionale per tradursi anche in qualche concreto provvedimento. Quale? Pannella, in verità, non si è limitato ad esprimere sdegno e protesta. Ha lanciato, con la testarda insistenza di cui è capace, la parola d’ordine: “amnistia”. È chiaro che con questa lo stadio della mera espressione emozionale è superato. Ed è altrettanto chiaro che il consenso o il dissenso all’iniziativa di Pannella non può limitarsi alla valutazione morale di una sua scelta esistenziale nell’affrontare drammi del nostro tempo. Chiedere l’amnistia è una determinazione politica (al pari di quella che dovrebbero compiere Parlamento e Presidente della Repubblica, per concluderla) e nessuno può permettersi il lusso di una risposta di consenso senza assumersi una responsabilità politica, la responsabilità, anzitutto di capire quello che vorrebbe dire “amnistia”, di conoscerne e valutarne l’eventuale portata. Dalla quale, in ultima analisi, dipenderebbe l’incidenza del provvedimento stesso sulla situazione carceraria. E nel resto. A cominciare dalla specifica finalità che Pannella attribuisce a questa invocata amnistia: quella di costituire il mezzo, di creare le condizioni, per le necessarie riforme della giustizia. Pannella, mentre non si è prodigato in spiegazioni sulla portata del provvedimento invocato, ne afferma la strumentalità come chiave e condizione per “le riforme”, come un assioma. E qui, quale che sia il grado di coinvolgimento emozionale nella protesta e nelle sue umanissime finalità, non si può tacere il più totale dissenso. Le amnistie non sono mai servite per arrivare a riforme vere ed auspicabili per la giustizia. L’ultima amnistia, quella coeva al codice del 1989, è stata proclamata proprio come “l’amnistia della grande riforma”. Al pari di tutte quelle che l’avevano preceduta con puntuale periodicità, non è servita che ad una “scolmatura”, al solito, delle carceri sovraffollate. Il nuovo codice, che conteneva (e contiene) un potenziale eversivo non solo per la giustizia, oltre ad una serie di bestialità, non ha affatto limitato l’accatastamento di materiale umano nelle carceri né ha ridotto la percentuale dei detenuti in attesa del giudizio (presunti innocenti) rispetto ai condannati, tra gli ospiti degli istituti penitenziari. Ma, soprattutto, di quale amnistia si tratterebbe? Forse il successo fin qui ottenuto dall’iniziativa di Pannella è legato proprio all’aver rilasciato assolutamente nel vago questo punto. Ma, un risultato pratico non può non passare attraverso una difficilissima risposta a questo interrogativo. Le amnistie periodiche della storia della (Prima) Repubblica hanno sempre escluso i reati più gravi, risolvendosi in una diversa graduazione del trattamento punitivo dei reati con una estremizzazione (diminuzione ulteriore della effettiva punizione dei reati meno gravi senza proporzionale riduzione delle pene effettive per i più gravi). Tale fenomeno non sarebbe, poi una sciagura se già non avessimo un ricorso parossistico all’aumento delle pene per i reati “alla moda”, oggetto delle “campagne”. Le pene per i reati di mafia, ad esempio, sono stati portati a livelli inconcepibili. Ed è per tali reati che l’abuso di mezzi di prova incivili, come quello della gestione dei pentiti, è presumibile abbia prodotto errori giudiziari devastanti per la pesantezza delle pene ingiustamente inflitte e mandati in galera innocenti che quando poi si parlava di amnistia, sarebbero “mafiosi” da escludere. Nessuno, salvo, forse, Pannella, penserà, al dunque, di proporre l’amnistia, o l’indulto, per tali reati. E potremmo continuare. Così saremmo alla solita operazione di “scolmatura” di cui abbiamo fatto esperienze tristissime nei decenni precedenti. Ma il discorso diventa ancora più arduo quando si parla delle “riforme”, cui la “scolmatura” delle carceri dovrebbe servire. Qui è chiaro che tra i molti che pure sono accomunati dall’odierno plauso a Pannella, vige la confusione delle lingue. Di riforme parla pure Palamara, presidente dell’Anm. È chiaro che intende altro da quel che intende Feltri, anche se è probabile che un po’ tutti evitino accuratamente una valutazione politica d’assieme, organica ed a fondo del problema. Certo, Pannella, non ha mai voluto prendersi il ruolo di riformatore della giustizia. Ha sempre rifiutato ogni discorso di approfondimento ed ogni confronto autentico al riguardo. Ha avuto intuizioni acute, ha evocato valori essenziali, ha saputo toccare corde emozionali con grande abilità. Ha pure, in verità, nella sua lunga storia, oscillato tra giustizialismo e garantismo. Ma questo non è certo, oggi, un demerito. Né a lui, che mette in giuoco la sua vita per un gesto di protesta, si può chiedere di trarne conseguenze politicamente praticabili e coerenti. Ma il gruppo di quelli che gli sono attorno e condividono la sua iniziativa, promuovono manifestazioni e vogliono animare dibattiti, tanto più se insistono nel definirsi “partito”, non possono non farsi carico di un minimo di concretezza nelle proposte e nello sviluppo dell’azione intrapresa. Direi che è anche un dovere verso Marco Pannella. Ma, soprattutto, credo che il rispetto che si deve a chi soffre in carcere, comporta il dovere di non rovinare il valore di una solidarietà e di una comune protesta con l’agitazione di una “soluzione” che non sia politicamente formulata e sostenuta, così da rappresentare, piuttosto, un alibi per quanti di questa nostra povera giustizia hanno fatto strumento delle loro velleità politiche e dei privilegi corporativi. Parlare con disinvoltura di amnistia, necessario presupposto per le riforme, è, infatti, un alibi autorevole ed insospettabile fornito a chi le riforme è pronto ad inventarsene molte purché lascino le cose come sono (e chi sta in galera, dove sta). Giustizia: Ionta (Dap); sovraffollamento al limite del tollerabile, così non si va avanti Ansa, 5 luglio 2011 “Ormai abbiamo raggiunto il limite della capienza tollerabile. Certamente non possiamo andare avanti così”. A lanciare l’allarme, questa volta dall’interno della stessa amministrazione carceraria, è Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in un’intervista a One-o Five Live, il canale in diretta della Radio Vaticana, in merito al sovraffollamento carcerario. “La situazione è molto complessa e faticosa - ha ammesso Ionta. I detenuti ospitati nelle 206 strutture italiane toccano quota 67mila, un numero ai limiti della capienza fisica tollerabile. Per far fronte a questa emergenza - ha spiegato il capo del Dap - verranno costruiti venti nuovi padiglioni e undici nuovi istituti: entro tre anni dall’affidamento degli appalti dovrebbe essere tutto ultimato”. “Inoltre - ha aggiunto Ionta - abbiamo avviato politiche di assunzione per circa 3.400 unità di polizia penitenziaria per rafforzare l’organico esistente”. Sul capitolo della copertura finanziaria per realizzare questi provvedimenti, Ionta ha spiegato: “Sicuramente la copertura è un tasto dolente ma finora, per la costruzione dei nuovi istituti penitenziari, sono stati stanziati 500 milioni di euro ai quali vanno aggiunti altri 100 provenienti dalla Cassa delle Ammende ed altri fondi recuperabili dai capitoli di bilancio ordinario. Anche l’assunzione dei nuovi agenti di polizia penitenziaria è coperta: me lo ha garantito il Ministero dell’Economia”. Alla domanda se - come auspicano alcuni settori della politica e della società civile - sia necessaria una amnistia o un indulto, Ionta ha risposto senza esitazione: “L’amnistia è una scelta politica. Il governo - e io lo condivido - ha scelto una politica diversa: quella di evitare provvedimenti di amnistia o indulto che dopo un po’ ripropongono lo stesso problema. Bisogna - ha concluso Ionta - risolvere la situazione del sovraffollamento non in modo episodico ma strutturale. È vero, con l’amnistia o con l’indulto molta gente esce dalle carceri però se non ci sono strumenti di accompagnamento e recupero effettivo queste persone in carcere ci tornano di nuovo”. Giustizia: appello di Antigone contro tagli a cooperative sociali che danno lavoro ai detenuti Adnkronos, 5 luglio 2011 No ai tagli nei confronti di quelle cooperative e imprese che hanno assunto detenuti in misura alternativa. È quanto chiede l’Associazione Antigone al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). L’appello dell’organizzazione mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione carceraria italiana: “non vi sarebbero più soldi per pagare i contributi a favore di quelle cooperative e imprese che hanno assunto detenuti dentro il carcere o detenuti fuori dal carcere. Si tratta - sostiene l’associazione - di un tipico taglio non ragionato. Se ciò dovesse essere confermato, così come pare, migliaia di detenuti in misura alternativa rientreranno in carcere in quanto licenziati dai loro datori di lavoro andando a peggiorare una situazione di affollamento penitenziario già insostenibile”. L’Associazione Antigone chiede dunque al Dap “di usare tutti i soldi della Cassa delle ammende, compresi i milioni già promessi per progetti non ancora avviati oppure le decine di milioni messe da parte per l’edilizia penitenziaria, allo scopo di dare copertura finanziaria alla legge Smuraglia quanto meno sino alla fine dell’anno”. Giustizia: interrogazione di Tidei (Pd); carceri al collasso, cosa intende fare il Governo? Ristretti Orizzonti, 5 luglio 2011 Interrogazione a risposta immediata in Assemblea presenta dal deputato del Partito Democratico, Pietro Tidei, al ministro della Giustizia, Angelino Alfano. “Per sapere - premesso che: sono già 29 i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno: l’ultimo in ordine di tempo (ma potremmo essere già superati dalla cronaca...) è un giovane detenuto (28 anni) che il 27 giugno - dopo un colloquio con i familiari - si è impiccato nel bagno della sua cella nel sovraffollatissimo carcere di Bari. Un carcere vecchissimo, del 1926, che con una capienza di 250 detenuti, ne ospita 530, più del doppio. Un sovraffollamento mortale (alla tragica conta 2011 bisogna aggiungere, finora, tre agenti penitenziari) che dopo il 2010 - l’anno più “nero” per le carceri italiane, con un record storico di 191 suicidi e 1.134 tentati suicidi - pretende il suo costante tributo di vite umane. Secondo i dati di “Ristretti Orizzonti”, dal 2000 ad oggi nelle carceri italiane sono morti 1.800 detenuti, di cui 650 per suicidio cui vanno aggiunti 87 agenti di polizia penitenziaria. Pare indubbio che, nel silenzio assordante delle istituzioni, nelle carceri italiane stia avvenendo una “strage silenziosa” nemmeno scalfita dalla circolare del Dap dell’agosto 2010 sull’Emergenza suicidi e che prevedeva speciali corsi di formazione per il personale di custodia finalizzate all’istituzione di unità di ascolto e alla prevenzione di suicidi ed atti di autolesionismo; - le disumane condizioni di vita nelle carceri italiane viene quasi sistematicamente passato sotto silenzio dai media e dall’opinione pubblica; come sotto silenzio continuano a passare le giornaliere sofferenze di tante persone, di frequente diverse in tutto: razza, nazionalità, religione, rinchiuse 18 - 20 ore al giorno in spazi angusti, in celle fatiscenti, spesso sotto psicofarmaci per poter reggere ad una simile condizione di sofferenza; - la realtà carceraria è una realtà di disperazione e crudeltà, una pentola in ebollizione dove il disagio del personale di custodia e trattamento, demotivato, sottopagato e sotto organico, si aggiunge a quella dei reclusi ammassati nelle celle e a cui si disconoscono le necessità più elementari; - se a tale drammatica situazione il Governo continua a non dare risposte e si sono perse le tracce del famoso Piano carceri, ridimensionato dalle manovre finanziarie di Tremonti, appare preoccupante la mancanza di una lungimirante e sistematica politica penale che nel segno delle depenalizzazioni, della limitazione della custodia cautelare e del massiccio ricordo alle misure alternative possa, nel medio periodo, invertire la tendenza ad un sovraffollamento carcerario che, con il trend attuale, potrebbe a fine anno raggiungere le 70.000 presenze; - non meno preoccupante e drammatica è la situazione di abbandono e di incertezza normativa in cui versano i 6 ospedali psichiatrici giudiziari italiani, una situazione “scomoda” quella dei vecchi manicomi criminali, di chi non ha voce o ne ha meno degli altri. Il numero degli internati in Opg cresce costantemente: dai 1.200 del novembre 2007 si è passati nel maggio dello scorso anno a 1.460; gli ultimi dati, del maggio 2011, riferiscono di ben 1.550 reclusi. Dopo il passaggio sancito col Dpcm del 2008 della sanità penitenziaria al Ssn e quindi alle regioni la mancata attivazione di queste ultime e la carenza di risorse hanno provocato una situazione di estremo degrado e in alcuni casi di vera e propria malagiustizia. Se infatti il promesso programma di dismissione non è mai partito, dalla nota relazione della Commissione d’inchiesta parlamentare sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale presieduta dall’on Marino è emerso un quadro di ordinaria disumanità: abbandono igienico - sanitario delle strutture, abusi e vessazioni sugli internati nonché un uso improprio delle cd. proroghe dell’internamento. Basti pensare - cito dei dati prodotti proprio dalla Commissione Marino - che all’11 aprile di quest’anno su 376 internati dichiarati “dimissibili” solo 65 sono stati effettivamente dimessi, mentre per altri 115 è stata prevista una proroga della pena. Di questi ultimi, i socialmente pericolosi sono solo 5 mentre tutti gli altri non sono usciti dall’Opg perché non hanno ricevuto un progetto terapeutico, non hanno una comunità che li accolga o una Asl che li assista. E si va spesso avanti così, con la magistratura di sorveglianza che va di proroga in proroga per mancanza di un programma di reinserimento territoriale. Parliamo di soggetti che se in passato hanno manifestato un qualche disagio mentale o disturbi della personalità (e magari sono guariti da un pezzo...) sono spesso internati per reati minori, come oltraggio, resistenza a pubblico ufficiale, etc. e che ora, da sani, si ritrovano in Opg a tempo indeterminato solo perché nessuno si può prender cura di loro. Storie, insomma, di denegata giustizia ed “ergastoli bianchi”. - se il Governo intenda assumere con urgenza le necessarie iniziative per garantire un immediato miglioramento della drammatica situazione degli istituti penitenziari nonché avviare un’approfondita indagine conoscitiva nazionale sulle carceri e sulla situazione degli ospedali psichiatrici giudiziari (con particolare riferimento all’abuso delle “proroghe” degli internamenti)”. Giustizia: Sidipe; direttori penitenziari in piazza, protestano contro stato penoso sistema Ansa, 5 luglio 2011 I direttori delle carceri e degli uffici dell’esecuzione penale esterna scendono per la prima volta in piazza, domani, a Roma, per protestare contro lo “stato penoso del sistema” penitenziario italiano e contro il mancato contratto dei funzionari carcerari, a sei anni da quando fu varata, col precedente governo Berlusconi, la riforma della dirigenza penitenziaria. Le sigle sindacali che alle 11 di domattina si raduneranno per arrivare sotto Palazzo Vidoni, sede del ministero della Pubblica Amministrazione, sono Sidipe, Cisl, Dps, Cgil e Uil. Il Sidipe (Sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari) preannuncia che davanti il “fortino” del ministro Brunetta saranno esposti numerosi manifesti, tra cui uno con sopra scritto “con voi lo Stato è precario”. Senza contratto, i funzionari penitenziari sono “senza regole, così come sta drammaticamente avvenendo anche per le carceri” ed infatti le norme “vengono sistematicamente violate a causa del sovraffollamento della popolazione detenuta (oltre 67 mila prigionieri) ed il mancato conferimento di personale e fondi economici”. Nel corso della manifestazione, saranno distribuite alcune copie della legge penitenziaria listate a lutto per denunciare la distanza c’è tra ciò che la legge impone e quello che realmente si fa in carcere, sul fronte salute, prevenzione, sicurezza. Il Sidipe ricorda che sono 30 i detenuti che nel 2011 si sono suicidati nelle “pericolose carceri italiane”, e numerosi sono anche i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita. Il segretario nazionale del Sidipe, Enrico Sbriglia, dichiarandosi non contrario ad un intervento di amnistia in grado di restituire una cornice di reale legalità al sistema penitenziario, denuncia: “la disattenzione verso i diritti di tutti gli operatori penitenziari ripete stessa disattenzione verso i cittadini detenuti” ed è la prova di uno Stato che progressivamente e velocemente sta diventando illiberale. Giustizia: medico scambiato per un narcos; il furto del passaporto, poi l’arresto e 8 mesi di cella du Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 luglio 2011 Svegliarsi un giorno, nella propria casa di professionista e marito e padre spagnolo, e trovare la polizia che viene a prenderti per farti scontare in Italia 15 anni di carcere per traffico di droga, in forza della sentenza definitiva di un processo al quale nemmeno avevi mai saputo d’essere stato sottoposto in tre gradi di giudizio. Tu che urli “ma ci deve essere un errore, sarà uno scambio di persona”; e loro che, con in mano il mandato di cattura europeo e lo sguardo da “dicono tutti così”, ti estradano dalla Spagna in Italia. Nel carcere di Opera. Condannato definitivo. Ad impazzire in cella con la prospettiva di doverci restare 15 anni come narcotrafficante colombiano (anche se tu sei spagnolo), operante in Italia (anche se non ci sei mai stato), soprannominato nelle intercettazioni “el Gordo” (cioè “il Ciccione” e di carnagione olivastra, anche se tu sei magro e di pelle più chiara), con una figlia (anche se hai un figlio). Otto mesi in cella così: prima che l’errore - colossale nella sua genesi e assurdo nell’inerzia burocratica del suo imparabile rotolare - venga a galla e convinca ora la giustizia italiana a risarcirlo, si fa per dire, con 85.000 euro a ristoro di 248 giorni di detenzione dal 17 aprile al 21 dicembre 2009. L’allora 42enne osteopata spagnolo non lo sa, ma in Italia il 6 aprile 2005 si parla anche di lui: il gip Maurizio Grigo, su richiesta del pm Mario Venditti, in un’indagine sul narcotraffico internazionale emette ordini d’arresto per 134 persone, tra le quali appunto José Vincent Piera Ripoll, alias “Gordo”, alias “Paulo George Da Silva Sousa”. Non lo saprà mai perché nessuno glielo dirà mai: le notifiche, cruciali per il corretto instaurarsi di un giudizio, falliscono tutte, e così è da “contumace” e “latitante” che a sua insaputa va incontro al treno processuale che lo condanna a 15 anni in Tribunale il 17 gennaio 2007, in Appello il 4 dicembre 2007 e in Cassazione il 29 aprile 2008. L’8 agosto partono il mandato di cattura europeo e l’estradizione dalla Spagna. Nel carcere di Opera è vicino ad ammattire. Studia il processo che non ha conosciuto e legge che decisivo, per identificarlo nel “Gordo”, fu l’incrocio tra le intercettazioni dei narcos e un controllo al casello di Carmagnola l’8 agosto 2000, quando i carabinieri di Monza identificarono, insieme a un italiano coinvolto nei traffici (M.B.), anche una persona che il passaporto indicava appunto “Piera Ripoll Vincent José, nato a Gandia (Spagna) il 31.10.1963”, poi riconosciuto al Motel Ritz di Varedo il 26 settembre in un altro momento topico dell’indagine antidroga. Solo che non è lui. Ed è proprio a Opera, per un caso che ha il sapore del miracolo, che lo spagnolo scopre la ragione. Proprio lì c’è anche M.B., in detenzione domiciliare essendo diventato collaboratore di giustizia. E quando lo incontra, avvisa subito i carabinieri che lo spagnolo è lì per sbaglio: era l’osteopata dal quale si era recata la moglie di M.B. e al quale costui aveva rubato il passaporto, per poi consegnarlo al narcotrafficante “el Gordo” col quale era in affari. Ma per gli avvocati Simone Briatore, Stefano Fratus e Antonino Gugliotta resta un’impresa perfino procurarsi quel passaporto per confrontare le foto: dal carcere non riescono ad averlo, e solo grazie a un carabiniere di Monza, S.M., finalmente diventa possibile il paragone che parla da solo, per quanto diversa è la faccia del magro spagnolo da quella del corpulento e olivastro “el Gordo” che girava col suo passaporto. Non basta ancora: il 17 dicembre 2009 la Corte di Appello gli nega la scarcerazione, ma per fortuna il Tribunale del Riesame il 21 dicembre 2009 accoglie il ricorso e Ubera lo spagnolo, che il 25 marzo 2010 vede la Cassazione finalmente annullare la condanna a 15 anni e aprire all’assoluzione in Appello il 27 ottobre “per non aver commesso il fatto”, definitiva in Cassazione l’u gennaio 2011. E ieri anche i giudici milanesi Carfagna - Maièllo - Nova, competenti sulla richiesta di ingiusta detenzione, appaiono basiti dalla storia, a giudicare da come decidono di alzare a 85.000 euro l’indennizzo che le tabelle di legge fermerebbero a 58.000. Neanche i soldi che lo spagnolo ha dovuto spendere in avvocati (47.000) e ha perso in reddito (16.000 nel 2008) nel 2009 e 2010. Aversa (Ce): all’Opg muore internato di 45 anni; settimo decesso da inizio anno nella struttura Ansa, 5 luglio 2011 Settima morte nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa (Caserta) dall’ inizio del 2011. Ne dà notizia Dario Stefano Dell’Aquila, portavoce dell’associazione Antigone e componente dell’Osservatorio nazionale sulla detenzione. “Ieri - riferisce Dell’Aquila - un internato V.G., 45 anni, è morto subito dopo aver accusato un malore. L’uomo, a quanto ci risulta, ha fatto appena in tempo a chiedere soccorso prima di accasciarsi. È la settima tragica morte che registriamo nel manicomio giudiziario dall’inizio dell’anno. Tre sono stati i suicidi, quattro le morti per malattia. Una sequenza che non trova riscontro in nessun altro penitenziario in Italia e che si verifica in un luogo dove, paradossalmente, maggiore dovrebbe essere l’attenzione alla cura”. Nell’istituto di Aversa - uno dei sei OPG in Italia - sono presenti circa 250 internati, persone con disagio psichico dichiarate inferme di mente e condannate ad una misura di sicurezza. Ignazio Marino (Pd): qualità cure assente “La morte di oggi sottolinea dolorosamente ancora una volta l’inadeguatezza dei cosiddetti Ospedali psichiatrici giudiziari. Una carenza che è ancora più grave considerando che in queste strutture vengono trattati e somministrati psicofarmaci”. A dirlo Ignazio Marino, presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, dopo la morte di un internato all’Opg di Aversa, la settima dall’inizio del 2011. “Nulla - evidenzia Marino in una nota - ricorda un ospedale. In un ospedale non si chiama il 118, si hanno i mezzi per intervenire subito se un paziente sta male. Sono strutture dove la qualità delle cure è assente, il degrado è aberrante. Dobbiamo arrivare davvero a una riforma del sistema che superi gli Opg, trasformandoli in luoghi di cura. C’è la determinazione trasversale di tutti i partiti presenti in Commissione, senza toccare la legge Basaglia. La psichiatria giudiziaria si è rivelata un territorio senza certezze e dignità di cure per questi malati, spesso vittime di contenzione e violenza”. Pavia: detenuto con la Tbc, è in isolamento per evitare contagio La Provincia Pavese, 5 luglio 2011 Un caso di tubercolosi in carcere a Torre del Gallo. Ma è stato intercettato in tempo. Il detenuto, di nazionalità romena, proveniva da un’altra struttura carceraria. Al suo ingresso a Torre del Gallo è stato sottoposto allo screening sanitario, che prevede una procedura più scrupolosa da quando è stata rilevata la presenza di parassiti, poi debellati. Il detenuto è stato sottoposto al test di Mantoux che permette di capire se il paziente è stato infettato dal batterio della tubercolosi. È stato messo in isolamento e la terapia affidata al servizio medico interno in stretta sinergia con la clinica di Malattie infettive del San Matteo. L’epidemia è stata evitata. Ma la soglia di attenzione è alta, considerando anche la situazione cronica di sovraffollamento: la norma sta diventando quella di tre detenuti in una cella da due. Ragusa: scoppia protesta dei detenuti contro il sovraffollamento La Sicilia, 5 luglio 2011 Il rumore, il mezzo di comunicazione più vecchio del mondo, è il segnale partito da un detenuto e che si è poi esteso agli altri 202 reclusi in contrada Pendente, dando il via alla protesta iniziata sabato notte al carcere di Ragusa. Con le gavette contro le inferriate, dal 2 luglio ad oggi, ogni giorno in orari prestabiliti, i carcerati manifestano il loro disagio per il sovraffollamento nel sito del capoluogo. “Protestiamo perché siamo troppi - dice un ex detenuto, uscito lunedì mattina dalla struttura di via Di Vittorio, dopo aver scontato un anno e mezzo di carcere - non si può vivere lì dentro. Io condividevo la cella con altri due compagni, la percorrevo in 5 passi, ed eravamo già stretti in due”. Ogni giorno dalle 15 alle 16 e la mattina dalle 6.00 alle 7.00, i detenuti sfregano le loro gavette contro le inferriate delle celle. “Vent’anni fa per alcuni anni, ho scontato un’altra pena nel carcere di Catania” racconta l’ex detenuto in libertà - e devo dire che quella casa circondariale è meglio di quella di Ragusa. Qui in estate diventa impossibile vivere, perché non ci sono le docce dentro le celle, si muore di caldo e si può fare la doccia solo tre volte la settimana, il lunedì, il mercoledì e il venerdì”. L’ex detenuto sostiene che gli altri suoi ex compagni di carcere continueranno la protesta per tutta la settimana, quindi fino a sabato prossimo. I residenti di via Ducezio, sabato notte, sono stati risvegliati dalle urla e dalle gavette sbattute sul ferro, a ritmo costante e sempre più imponente. Qualcuno, non capendo che cosa fosse successo, ha allertato le forze dell’ordine. “Non c’è il frigo e, quindi, l’acqua che si beve in cella è un brodo - racconta l’ex carcerato - il mangiare è così così: ma è il caldo quello che ti fa impazzire”. Nel carcere di Ragusa la capienza regolamentare prevista è di 139 detenuti, quella tollerata di 180. “In questo carcere mancano le comodità - dice l’ex detenuto - vabbè che siamo galeotti, ma siamo sempre esseri umani. Io non ce la facevo più lì dentro, dopo un anno e mezzo stavo impazzendo. Ci sono alcune celle poco più grandi di quella dove stavo io, dove convivevano in cinque”. Un altro problema cogente che peggiora la situazione della struttura è la carenza di personale della Polizia penitenziaria: sulle 117 guardie carcerarie previste, ve ne sono attualmente 77, circa il 35 per cento in meno rispetto al regolamento imposto da un vecchio decreto. Parecchi agenti chiedono il prepensionamento, sintomo del disagio lavorativo vissuto dagli operatori. E via via che le guardie vanno in pensione, non vengono effettuati dei rimpiazzamenti delle unità perse: così la situazione del personale diventa sempre più difficile, soprattutto nel garantire le emergenze (come il semplice ricovero in ospedale di un detenuto). Altro indicatore del disagio sofferto da chi vive e chi lavora nel carcere sono i tentati suicidi. Nell’ultimo anno, tre detenuti e una guardia carceraria hanno tentato di farla finita. Sulmona (Aq): nuova sezione di “prima accoglienza”, contrari i sindacati di polizia penitenziaria Il Centro, 5 luglio 2011 Al supercarcere sulmonese sarà attivata una sezione di prima accoglienza. La struttura ospiterà anche i detenuti con pena breve. La decisione del Provveditorato, secondo la Uil penitenziari, è destinata ad aggravare il sovraffollamento. Nella struttura che ospita sezioni di massima sicurezza e boss mafiosi dovranno trovare posto, stipati nelle celle, anche i detenuti con pena breve, vista l’apertura della sezione di prima accoglienza. Solo qualche mese fa, il supercarcere sulmonese era stato alleggerito di circa 100 detenuti, arrivati al numero limite di quasi 500, per una capienza massima di 350. Ora, l’istituzione della sezione di prima accoglienza è destinata a riaprire la piaga del sovraffollamento. La casa di reclusione sulmonese, infatti, resta quella più satura della regione, coi suoi 141 detenuti in più rispetto alla normale capienza. Numerosi sono stati i problemi in questi ultimi anni, dove non sono mancati suicidi, episodi di autolesionismo o aggressioni agli agenti penitenziari. Per questo, Mauro Nardella, vice segretario regionale della Uil penitenziari e agente al supercarcere sulmonese, condanna duramente l’avvio della nuova sezione. “Sulmona dopo i movimenti deflattivi di qualche mese fa, che hanno visto lo sfollamento di un centinaio di detenuti”, denuncia Nardella, “va frantumandosi il sogno di vedere rispettata la capienza per la quale era stata contemplata dopo che una circolare del Prap ha pensato bene di attribuire un ulteriore circuito al penitenziario peligno derivante dalla predisposizione di una nuova sezione detentiva di prima accoglienza, che ospita arrestati e detenuti con un fine pena breve”. Ma oltre a ciò, gli agenti lamentano le carenze di personale e i mancati pagamenti degli straordinari e delle indennità di trasferta. “Chi è preposto alle traduzioni dei detenuti deve anticipare di tasca propria”, continua Nardella, “e gli straordinari non vengono pagati da tempo”. Bollate (Mi): il carcere modello che resta un’isola solitaria nel caos della detenzione di Susanna Ripamonti L’Unità, 5 luglio 2011 Le donne appenderanno stracci bianchi sulle inferriate per esprimere solidarietà agli altri detenuti. “Perché qui si rispettano le norme di legge, ma altrove è l’inferno”. La storia del fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria mai diventato esperienza pilota Nel carcere di Bollate le donne hanno messo stracci bianchi sulle inferriate delle loro stanze (ben visibili dalla strada) e stanno pensando a come unirsi alla protesta di Marco Pannella, in sciopero della fame dallo scorso 20 aprile: “Noi viviamo in una gabbia dorata - dice Carla - e non abbiamo motivo di lamentarci, ma la solidarietà quella si, per i nostri compagni che passeranno l’ennesima estate in carceri sovraffollate e per unirci alla richiesta di amnistia...”. Nei prossimi giorni, questa è la proposta, resteranno per un’ora chiuse in cella, in silenzio, in un carcere dove la regola è essere liberi di circolare nel reparto, dalle 8 del mattino alle 8 di sera. Bollate è una delle poche carceri italiane a norma di legge, che rispetta ciò che prevedono la Costituzione, l’ordinamento penitenziario e la legge Gozzini. È la casa di reclusione in cui la percentuale di recidiva è del 12%, contro il 70% della media nazionale. E in cui, come dice il provveditore Luigi Pagano, “la sicurezza non deriva da sbarre e catenacci, ma dalla condivisione con i detenuti delle responsabilità”. Per nove anni è stata diretta da Lucia Castellano, che quelle leggi le ha applicate con coraggio, assumendosi la responsabilità del cambiamento ed esponendosi al rischio di possibili fallimenti e che ha fatto la rivoluzione senza neppure accorgersene: un carcere che produce libertà, ovvero persone che una volta uscite riescono a reinserirsi nel tessuto sociale e nell’88% dei casi non tornano a delinquere. Ora Lucia Castellano ha deciso di andarsene, accettando l’incarico di assessore nella giunta Pisapia, ma Bollate resta e il provveditore Pagano ha affidato al nuovo direttore, Massimo Parisi il compito di passare dalla sperimentazione al sistema, insomma, Bollate come modello da esportare e non solo da difendere. Del resto la domanda è proprio questa: se da quasi 10 anni Bollate dimostra di aver adottato la strategia vincente, perché continua ad essere il fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria e non un’esperienza pilota? Nelle carceri italiane i detenuti sono a quota 70 mila contro una capienza di 42 mila posti. Dall’inizio dell’anno si sono suicidati in 30. Il decretino svuota - carceri ha prodotto effetti residuali e il piano per la costruzione di nuovi penitenziari, che il capo del Dap Franco Ionta anche di recente ha riproposto, è fallito prima ancora di essere varato, per mancanza di copertura finanziaria. Quel piano aveva comprensibilmente sollecitato gli appetiti dei costruttori edili: il sito che ha sempre seguito in ogni dettaglio il dibattito politico, gli aspetti legislativi e soprattutto i decreti in deroga è www.edilpor - tale.com , il motore di ricerca dell’edilizia. Qui i costruttori hanno potuto documentarsi sul via libera alla procedura straordinaria che, in nome dell’emergenza, consentiva di assegnare i lavori senza gare d’appalto e le dichiarazioni del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, che annunciava che per le nuove cittadelle carcerale italiane si sarebbe adottato il “Modello Aquila” per costruire in tempi record, fuori dal centro abitato, in un regime di deregulation. Sempre l’aggiornatissimo portale dell’edilizia spiega qual è la contropartita per i costruttori: la parola d’ordine è “projet financing” ovvero, operatori privati autorizzati a costruire i nuovi penitenziari in aree periferiche, ricevendo in cambio l’uso delle vecchie carceri, spesso situate nel centro urbano, per utilizzarle a scopi commerciali. Insomma, un affare colossale per la speculazione edilizia, un pò meno per i detenuti. Il fatto che si tratti di un favore ai costruttori è confermato dall’esistenza di almeno quaranta carceri che sono state completate, addirittura inaugurate più volte dai guardasigilli che si sono succeduti e che sono chiuse e inutilizzate. Alcune, come quella di Oristano, sono ormai irrecuperabili e possono solo essere demolite senza avere mai aperto i cancelli. Ci dicono che restano chiuse per mancanza di infrastrutture o di personale. I dati ministeriali, quelli pubblicati regolarmente nella sezione statistiche del ministero della giustizia, confermano che la strada maestra da percorrere per risolvere il problema delle carceri è l’applicazione delle misure alternative: il tasso di recidiva tra chi accede a lavoro esterno, semi - libertà o affidamento ai servizi scende dal 70 al 27% e queste misure sono state revocate per la commissione di nuovi reati durante la loro applicazione solo nello 0,27%. dei casi. Dunque, consentire a un detenuto di riappropriarsi progressivamente della libertà e di reinserirsi gradualmente nella società non vuol dire mettere in discussione la certezza delle pena, ma produrre maggiore sicurezza sociale. Eppure le misure alternative sono il bersaglio preferito dei media, soprattutto quando vengono applicate a carcerati che hanno la sfortuna di essere noti alle cronache. Titoli del tipo: “X Y è già fuori dopo solo 16 anni” sono assolutamente comuni e fa notizia quello 0,27% di detenuti che commette reati mentre è momentaneamente libero e non il 99,73% che rispetta le regole. E qui il problema è anche quello di informare non solo l’opinione pubblica, ma anche gli operatori dell’informazione. Su questo sta lavorando da più di un anno la redazione di carte Bollate, il periodico fatto dai detenuti del carcere di Bollate (e che dirigo da quattro anni). Nei prossimi giorni presenteremo la “Carta del carcere e delle pene” un codice deontologico nato nella nostra redazione, già approvato dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia e dell’Emilia Romagna e che a settembre verrà discusso dal Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti. Si tratta di una serie di indicazioni che consentono di informare correttamente sul carcere, da un lato garantendo il diritto all’oblio a chi, dopo aver scontato la sua pena, torna a vivere fuori e non può essere eternamente ricordato per il reato che ha commesso. Dall’altro ricorda che le pene alternative non sono la libertà, ma sono una diversa forma di espiazione, che prevede continui controlli e rigide regolamentazioni e suggerisce come parlarne. La rappresentazione mediatica del carcere è un tema a cui è particolarmente affezionata la redazione di Carte Bollate che a questo dedica buona parte del suo lavoro. Lo scorso anno ha organizzato seminari presso i master di giornalismo dello lumi e dell’Università Statale e con i giornalisti professionisti che di carcere si occupano. Un attività che verrà riproposta anche quest’anno. Ferrara: intervento del Sindaco… la vergogna carceri secondo Tiziano Tagliani www.ferrara24ore.it, 5 luglio 2011 Riceviamo e pubblichiamo l’intervento del primo cittadino Tiziano Tagliani. Dobbiamo riconoscerlo: è grazie a Marco Pannella, non alla sinistra, né ai cattolici, se l’Italia scopre oggi di doversi vergognare, ancor di più che del clima romano da basso impero, per la situazione carceraria del nostro paese. L’assunto “lontano dagli occhi lontano dal cuore” si sta infrangendo contro un grido disperato che denuncia in Italia una situazione disumana, che riguarda uomini e donne, detenuti e guardie carcerarie. Un clima tanto più inaccettabile quanto più spesso al “senza nome”, magari straniero e stupratore, come tutti vorremmo fossero i detenuti, si sostituisce una persona, uomo o donna, con nome e cognome, figlio o genitore, magari in attesa di giudizio, ladro o ladra per fame o ambulante sudanese che ha strattonato l’agente che gli sequestrava ( giustamente) la merce contraffatta. Centinaia, migliaia, di storie personali che i media stentano a far emergere dalle più tranquillizzanti notti rosa e dalle copertine da spiaggia di queste settimane, ma che Marco Pannella ci ha costretto ad ascoltare. Vince la vita che straripa dalle celle anche quando non profuma di jet set, il dramma si impone alla politica, ma ancor prima alla coscienza, altrimenti sarebbe oggi un inutile esercizio. E questo avviene tutt’ altro che lontano, a pochi metri anzi dalle nostre finestre, nei carceri disseminati in tutto il paese, dove chi meglio chi peggio, ciascuno ha il suo bell’elenco di suicidi, di sopraffazioni, di sofferenze che, quando la vita non lo abbia già fatto, segneranno per sempre la vita anche di giovani immigrati e non. quando per strada ritorneranno, prima o poi, tutt’altro che riabilitati. Occorre oggi riflettere almeno un istante su un ministro della giustizia che afferma che è il premier “vittima della giustizia” (tutto volutamente minuscolo), mentre anche tanti paesi in via di sviluppo potrebbero darci lezioni di politica carceraria (e forse d’altro) e allora, pur invitando i partiti riformisti, quelli che ancora credono che la politica si debba occupare di chi ha meno e non di chi ha già troppo, in assenza di un dibattito culturale sul tema, in assenza di letteratura, di poesia, di cinematografia che dia voce ai reclusi costretti a dormire per terra, tocca ancora una volta a noi, a ciascuno, dare e fare quello che è giusto fare. Ci tocca, anzi ci toccherà ancor di più se il carcere di Ferrara verrà effettivamente raddoppiato, ma nessuna città potrà ignorare il problema nei prossimi mesi, in assenza di provvedimenti di sostanziale riforma del sistema carcerario, di depenalizzazioni di reati che la magistratura neppure ha la forza di perseguire, di risorse per il personale, che vive lo stesso identico dramma, ma dall’altra parte delle sbarre. Parlare di amnistia non è altro che ammettere una sconfitta di chi ci governa, ma la mancanza di realismo non possiamo farla pagare oltre il lecito, occorre infatti disvelare il fariseismo di chi a tutti i costi non si vuole accorgere della “amnistia di fatto” che ormai da anni attraversa la giustizia penale, costretta per mancanza di risorse e di norme a selezionare a monte i reati da perseguire trasformando questo paese in una grande roulette dove a seconda dell’ufficio, della città, della sorte sei libero oppure sei morto. Busto Arsizio: detenuto tenta suicidio in cella, salvato dagli agenti Agi, 5 luglio 2011 Ha tentato di togliersi la vita impiccandosi alle sbarre della sua cella. Il drammatico episodio nel pomeriggio di oggi nel carcere di Busto Arsizio dove, fra l’altro, da alcuni giorni è in atto lo sciopero della fame, sull’onda dell’iniziativa di Marco Pannella, per denunciare le condizioni di scarsa vivibilità nella struttura carceraria dove sono recluse oltre 400 persone a fronte di una capienza di 160. Ad attuare il gesto un detenuto di 44 anni finito dietro le sbarre con l’accusa di aver fatto parte di una “batteria” di rapinatori. L’uomo attorno alle 16.00 di oggi, rimasto solo in cella, ha preso un lenzuolo legandolo alle sbarre per poi mettersi l’altro capo attorno al collo. Ad evitare il peggio alcuni agenti della Penitenziaria. Il detenuto è stato trasferito con un’ambulanza all’ospedale di Busto per una serie di accertamenti. Sassari: il Consiglio comunale nomina un nuovo Garante dei detenuti La Nuova Sardegna, 5 luglio 2011 Con molta probabilità questo pomeriggio il Consiglio comunale nominerà il nuovo Garante dei detenuti. Dopo la precedente e fallimentare esperienza di suor Maddalena, evanescente nel suo ruolo di intermediaria tra il carcere, le istituzioni e la città, i partiti e le associazioni vogliono puntare su una figura di spessore. Oggi, finalmente, dovrebbe venir fuori il nome. Nel frattempo Acli, Arci, Associazione Turritana 52 Auser, Caritas Diocesana, Comunità “Papa Giovanni XXIII”, Comunità “Primavera”, Consorzio “Andales de Amistade”, LibertAria Sassari Viva, Mondo X Sardegna, insomma tutte le associazioni che operano intorno ai problemi della struttura di detenzione, chiedono un impegno al prossimo garante. Innanzitutto un censimento preciso delle associazioni che si occupano di carcere, poi istituire subito con queste un tavolo di consultazione; organizzare un gruppo di lavoro, presentare alla città un monitoraggio periodico delle condizioni della struttura di San Sebastiano e delle persone ivi recluse (salute fisica e psichica, diritti, visite ecc.). Il garante inoltre, nei suoi sopralluoghi, dovrebbe essere supportato da esponenti delle associazioni. L’ultima richiesta riguarda invece un’attenzione particolare sulla nuova struttura di Caniga: sui tempi di realizzazione e sulle eventuali ripercussioni che un trasferimento della popolazione carceraria in periferia potrebbe avere. Radio: a “Radio3 Scienza” si parla degli impianti solari nelle carceri Adnkronos, 5 luglio 2011 Nella puntata di “Radio3 Scienza” in onda domani 6 luglio alle 11.00 si parlerà degli impianti di solare termico per gli istituti penitenziari italiani. La novità è che alla realizzazione dei quindici impianti che fanno parte del ‘Programma nazionale di solarizzazione degli istituti penitenziarì sono addetti gli stessi detenuti delle carceri, da Torino a Caltagirone. Silvia Bencivelli farà il punto con Andrea Micangeli, docente di Tecnologie energetiche sostenibili all’ università La Sapienza di Roma. Teatro: “Annibale non l’ha mai fatto”, nato dal progetto del Tam nel carcere Due Palazzi Ristretti Orizzonti, 5 luglio 2011 Lo spettacolo “Annibale non l’ha mai fatto”, nato dal progetto di Tam Teatromusica nel carcere Due Palazzi di Padova, andrà in scena a Codevigo (Pd) sabato 9 luglio alle ore 21 all’interno del festival “Scene di Paglia” 2011. Tratto dal libro di Paolo Rumiz “Annibale. Un viaggio” di Andrea Pennacchi e M. Cinzia Zanellato con Kessaci Farid e Andrea Pennacchi drammaturgia Andrea Pennacchi video Raffaella Rivi luci, suono Alessandro Martinello con il contributo dell’Assessorato Politiche Sociali della Regione Veneto, lo spettacolo “Annibale non l’ha mai fatto” racconta del viaggio che il leggendario cartaginese intraprese verso la nostra Penisola con al seguito ventimila uomini. Non percorse la via del mare, la più breve, ma passò per la Spagna, attraversò le Alpi e con trentasette elefanti entrò in Italia, dove i celti lo accolsero a braccia aperte. È una storia come tante, ma per noi è interessante chi questa storia la porta con sé. La narrazione del viaggio di Annibale è affidata a un attore detenuto migrante, Farid, che durante lo spettacolo sostiene il passo portando corrispondenze e verità tra la migrazione di uomini e animali dell’esercito di Annibale e la sua esperienza di migrante algerino/ cartaginese contemporaneo. Come i mahouts degli elefanti di Annibale, Farid è protagonista, suo malgrado, di un movimento storico. Nell’era del testimone oggettivo, freddo redattore a distanza, il narratore - detenuto è il testimone interno della materia umana su cui poggia la Storia. Lo spettacolo si svolge alle Casone delle sacche di Codevigo, alle ore 21. Informazioni e prenotazioni T. 049.9709319 - 049.9709337 Iran: pena morte; non si ferma boia, altre 32 impiccagioni Agi, 5 luglio 2011 Non si ferma la macchina della morte in Iran, con 32 impiccagioni nella sola giornata di domenica. Secondo Iran Human Rights, un’esecuzione ha riguardato 25 detenuti giustiziati nella prigione di Ghezel Hesar a Karaj, a ovest di Teheran. Secondo quelle che l’organizzazione a tutela dei diritti umani definisce “fonti affidabili”, tutti i detenuti giustiziati scontavano pene legate al traffico di droga. Un altro gruppo, l’Iranian activists for Human Rights and Democracy, ha riferito che sempre domenica sette persone sono state inoltre impiccate nel penitenziario di Evin, a Teheran. Le autorità iraniane non hanno dato alcuna notizia delle esecuzioni, ma secondo diverse associazioni a tutela dei diritti umani, le esecuzioni di massa segrete sono una consuetudine in Iran. Tunisia: 2 morti e 18 feriti durante tentativo di evasione dal carcere di Kasserine Agi, 5 luglio 2011 È di almeno due detenuti morti per asfissia e 19 feriti di cui 5 gravi, il bilancio del tentativo di evasione dalla prigione di Kasserine a 290 chilometri da Tunisi, nella Tunisia nord occidentale. Lo ha reso noto l’agenzia di stampa tunisina Tap. Il dramma è accaduto quando un gruppo di reclusi ha appiccato il fuoco ai materassi per tentare la fuga. Solo l’intervento della squadre della protezione civile appoggiate da polizia e esercito hanno evitato il peggio. Subito dopo l’accaduto, agenti di sicurezza e blindati dell’esercito, sono stati dispiegati intorno al penitenziario per contenere la folla dei parenti dei detenuti venuti a sincerarsi sulle loro condizioni. Dalla caduta il 14 gennaio scorso del regime di Ben Ali, e del conseguente vuoto di potere, fughe di massa dai centri di detenzione, si sono succedute con lo stesso stratagemma in molti regioni del paese, provocando una sessantina di morti, mentre un migliaio di detenuti, erano riusciti a dileguarsi. Molti di loro si sono poi arresi spontaneamente o sono stati rintracciati dalle forze di sicurezza. Tra i 19 feriti, cinque sono stati ricoverati presso l’ospedale locale e restano sotto osservazione. Testimoni hanno riferito che un gran numero di familiari dei detenuti staziona ancora davanti alla prigione per avere notizie sui loro congiunti, anche se in molti sono stati costretti ad allontanarsi dopo l’intervento dell’esercito. Alla fine di aprile, la prigione di Kasserine è già stata protagonista di un’evasione. In 552 detenuti sono riusciti a fuggire grazie a un incendio che non ha però provocato vittime. Libia: regime smentisce “esecuzioni” detenuti come vendetta Agi, 5 luglio 2011 Il governo libico ha smentito l’accusa di aver giustiziato detenuti come punizione per le loro famiglie che hanno rifiutato di unirsi a una manifestazione a sostegno di Muammar Gheddafi. “Questa notizia è priva di fondamento e nessun giornale o (altra) agenzia di stampa l’ha data”, si legge in una nota del governo. “Non c’è stata alcuna violenza sulla popolazione e un milione di persone ha preso parte alla manifestazione” che si è svolta venerdì nella Piazza Verde di Tripoli . Russia: Magnitsky è morto per colpa dei medici carcerari Ansa, 5 luglio 2011 La perizia medico-legale ha accertato la connessione tra le azioni di concreti pubblici ufficiali e la morte in un carcere di Mosca di Serghei Magnitsky. Lo ha comunicato il portavoce del Comitato d’investigazione della Federazione Russa Vladimir Markin. Il 37enne consigliere giuridico della Società “Hermitage Capital” Serghej Magnitsky, arrestato in base all’accusa di evasione fiscale, è morto nel novembre 2009 al Sizo (struttura di detenzione pre-processuale) “Matrosskaya Tishina”. Si ritiene che la morte di Magnitsky sia avvenuta per colpa dei medici carcerari che non hanno fornito medicinali necessari al detenuto gravemente malato. La morte di Magnitsky ha avuto una vasta risonanza pubblica.