Ma c’è qualcuno che si preoccupa delle nostre galere? Marco Pannella, e pochi altri Il Mattino di Padova, 4 luglio 2011 In galera pensano che solo Marco Pannella sia così pazzo, da rischiare la vita con uno sciopero della fame per denunciare le condizioni disumane delle carceri sovraffollate, e chiedere un’amnistia generale. Anche i detenuti della Casa di Reclusione di Padova hanno promosso un’iniziativa comune, assolutamente nello spirito della non violenza caro a Pannella: l’astensione dalla spesa per due settimane. Lo scopo è di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla situazione di degrado e di povertà in cui versano le carceri oggi, trasmettendo questo messaggio: se anche nella Casa di Reclusione di Padova, che è ritenuto un carcere fra i migliori in Italia, c’è una situazione pesantissima, nel resto del Paese le condizioni di vita dei detenuti sono al limite della disumanità. In carcere chi lavora, chi guadagna un po’ di soldi può acquistare prodotti alimentari e per l’igiene da un elenco di merci, spesso costose: astenersi dalla spesa è allora anche una dimostrazione di solidarietà tra detenuti. È stata poi un’occasione per quei detenuti che, potendo disporre di un pò di soldi, grazie alle famiglie che fanno di tutto per non abbandonare i loro cari, possono vivere il carcere in condizioni più accettabili, per fare un atto di sacrificio e dimostrare di essere capaci di trascorrere due settimane senza spesa, e vivere mangiando ciò che passa il carrello dell’amministrazione: insomma vivere male, come vive la maggioranza dei detenuti. Il carcere delle estreme povertà Le carceri sono sempre più povere. Il quadro è desolante: in seguito ai continui tagli effettuati negli ultimi anni, la fornitura di prodotti per l’igiene si è progressivamente ridotta. Ad esempio, attualmente vengono forniti: per ogni persona un rotolo di carta igienica a settimana; per ogni cella, due sacchetti di spazzatura, sempre a settimana, e detersivo in quantità insufficiente. Saponette, spazzolino da denti e dentifricio sono disponibili solo per chi dimostra di avere meno di 25 euro sul libretto. Ma se uno ha pochi soldi nel conto, deve farseli bastare anche per le telefonate e i francobolli per scrivere a casa: o compra i prodotti per l’igiene, e non telefona alla sua famiglia, o telefona a casa e rinuncia alla pulizia; le ore dei detenuti che lavorano per fare le pulizie delle sezioni, portare il vitto, fare riparazioni e manutenzione sono state ulteriormente ridotte, comportando sia un impoverimento generale, sia che i locali, le sezioni, i cortili sono sempre più sporchi e in stato di abbandono; i prezzi delle merci in vendita sono spesso inaccessibili per i detenuti. Non ci sono le offerte speciali disponibili per i consumatori fuori; i prodotti messi in vendita sono pochi e si tratta prevalentemente di prodotti di marca, molto costosi, mentre non vengono resi disponibili anche quei prodotti di marche poco conosciute, ma di buona qualità, che sono invece acquistati da gran parte dei consumatori nella società libera perché davvero convenienti; l’amministrazione penitenziaria paga meno di 4 euro al giorno per i tre pasti forniti ai detenuti. Da questo deriva che la cucina del carcere prepara una quantità di cibo insufficiente a soddisfare i bisogni dei detenuti, spesso giovani, e del tutto privi di risorse; se le persone che se lo possono permettere non provvedessero con i propri soldi ad acquistare prodotti alimentari, e chi fa colloquio non avesse quello che gli porta la famiglia, il vitto fornito dall’amministrazione non basterebbe per tutti, e allora risentimenti e proteste sarebbero davvero all’ordine del giorno. Nelle carceri femminili non si sta molto meglio I sensi di colpa nei confronti dei figli sono enormi per una donna che sta in carcere. L’averli forzatamente abbandonati per reati fatti, magari, quando loro non c’erano ancora - la celerità della giustizia in Italia la conosciamo tutti! - fa sì che nel momento dell’ingresso in carcere, spesso, i figli vengano lasciati a parenti o, per chi non ha nessuno che possa prendersene carico, finiscano in qualche casa famiglia o in qualche istituto. Qualcuno ha anche figli maggiorenni, per i quali la situazione spesso diviene ancora più difficile vista la percentuale di disoccupazione giovanile e il poco interesse della società nei confronti di queste situazioni. Ma anche nella migliore delle ipotesi, che cioè ci sia una famiglia alle spalle che si possa prendere cura dei ragazzi, i sensi di colpa rimangono. Un po’ consolatorio, per le donne in carcere, è il poter mandare a casa qualche euro per contribuire almeno al loro sostentamento, anche perché le detenute sanno di aver caricato sulla famiglia un peso che non meritava. Ma stare in carcere costa! E quanto costa. A parte il cibo (generalmente di qualità molto scadente: 3,5 euro è il costo complessivo dei tre pasti giornalieri) che i detenuti si devono pagare (chi lavora a fine mese si vede trattenuti dallo stipendio 53 euro, chi non lavora si trova il conto a fine pena), il carcere non passa null’altro. Si può stare senza spazzolino e dentifricio? Senza una saponetta per lavarsi? Senza i prodotti per la pulizia delle celle? Senza assorbenti igienici? Senza la carta igienica? Insomma c’è tutta una serie di prodotti, anche senza voler comprare il “superfluo” come il caffè o il tè o lo zucchero o un pacco di biscotti (questo sì un vero “lusso”!), che il detenuto deve acquistare in carcere. Ma come si fa a fare la spesa se non si lavora? E anche se si lavora, pagato il mantenimento carcere e fatta un pò di spesa per sé che costa molto cara, cosa rimane da mandare ai figli? Fino a qualche anno fa le detenute, che sono davvero poco spendaccione e capricciose, riuscivano ancora a spedire mensilmente a casa qualche denaro. Il lavoro dell’amministrazione, anche se pagato molto meno di quello che si percepirebbe con le stesse mansioni fuori, occupava, per 3 ore e venti al giorno, o per 6 ore e quaranta, donne che percepivano uno stipendio in base alle ore che facevano. Oggi, per lo stesso lavoro che richiedeva le 3 ore e venti, vengono pagate solo per un’ora o poco più. Se vuoi fare il lavoro ben fatto devi lavorare alcune ore gratis, altrimenti fai quello che riesci in quell’ora che ti viene retribuita (immagino lo sporco che si accumula se quelle che devono fare le pulizie negli spazi comuni come le docce lavorano un’ora invece di tre ore e venti!). Alla fine del mese, nel libretto, ci si ritrova a malapena i soldi per le saponette e il dentifricio! Più fortunate, le poche che lavorano per le cooperative, nel carcere femminile di Venezia, che pagano il giusto, ma sono anch’esse in crisi perché vengono a loro volta pagate in ritardo dalle aziende per cui lavorano (Enti pubblici, grandi alberghi, ristoranti di lusso!), per cui è capitato che abbiano dovuto far attendere parecchio lo stipendio alle detenute - lavoratrici. La situazione, anche in un carcere “fortunato” come quello della Giudecca, è grave. Doppiamente lo è per le detenute madri, molto spesso abbandonate dal compagno, e che sentono che è loro dovere contribuire al mantenimento dei figli. Se non sono in grado di farlo si legge facilmente nei loro volti sofferenti quanto si sentano infelici e private della loro dignità. Paola M. A chi serve un carcere in queste condizioni? Le domande che tutti dovrebbero allora porsi sono semplici: a chi conviene che le persone detenute vivano in queste condizioni? Qualcuno può in qualche nodo illudersi che dalle galere così ridotte escano persone migliori? Ci rende davvero più sicuri far “marcire” in galera le persone che hanno commesso un reato, lasciandole in uno stato di completo, inutile, desolante ozio? Giustizia: carceri, la catastrofe umanitaria di Luca Ricolfi La Stampa, 4 luglio 2011 Credo che ben pochi italiani abbiano avuto notizia dello sciopero della fame di Marco Pannella, iniziato il 20 aprile scorso, dunque 75 giorni fa. Pannella e i Radicali protestano contro la situazione inumana delle carceri italiane, un problema che si protrae ormai da anni, e ogni estate assume tratti drammatici. Nelle carceri italiane sono rinchiusi quasi 70 mila detenuti, a fronte di una capienza che non raggiunge i 45 mila posti. Molte strutture sono fatiscenti, i detenuti sono costretti a convivere in spazi angusti e sovraffollati, largamente al di sotto degli standard minimi europei (7 metri quadri a detenuto in cella singola, 4 in cella multipla), con servizi igienici e condizioni di accesso ai medesimi spesso umilianti. Il tasso di suicidio è circa 20 volte quello del resto della popolazione. Da anni e anni innumerevoli rapporti, ricerche, studi, resoconti di visitatori testimoniano quale inferno siano diventate tante carceri italiane (non tutte, per fortuna). E la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già richiamato più volte l’Italia per le condizioni dei detenuti nelle carceri. Nonostante tutto ciò il tema non è mai, non dico al centro, ma neppure alla periferia del dibattito politico. Semplicemente non se ne parla, salvo nei rarissimi momenti in cui il governo annuncia misure di svuotamento delle carceri o fantomatici piani di edilizia carceraria (i nuovi posti promessi sono sempre tantissimi, quelli effettivamente realizzati negli ultimi anni sono poche migliaia, circa un decimo del fabbisogno). L’inerzia dei media, per una volta, accomuna tutti indistintamente: destra, centro e sinistra; televisione, giornali, Internet. Se tacessero anche i Radicali e alcune rare, isolatissime voci di singole personalità, il silenzio sarebbe totale. Come è possibile ? Una spiegazione è che all’opinione pubblica italiana delle condizioni di vita dei detenuti semplicemente non importi un fico secco. O, se vogliamo essere più benevoli, che il problema delle carceri - pur essendo noto a molti - sia entrato nel novero dei fatti cui la gente si è abituata al punto da considerarli ormai alla stregua di eventi naturali. I politici rubano, i fiumi esondano, le scuole sono a rischio sismico, i napoletani non fanno la raccolta differenziata. E, naturalmente, le carceri scoppiano: del resto siamo in Italia, il Paese più bello del mondo. Non so se le cose stiano così (sospetto che sì). Ma quale che sia l’atteggiamento prevalente nell’opinione pubblica, a me pare che una classe dirigente che ignori il problema dell’inferno carcerario non sia all’altezza del proprio ruolo. Ci permettiamo di criticare la violazione dei diritti umani in Cina, in Russia, in Libia, in Siria. Ci scandalizziamo ogni volta che un leader occidentale visita un Paese totalitario (con cui tuttavia ci piace commerciare) e omette di fare il suo bravo discorsetto sui diritti umani. Abbiamo avuto il coraggio (o la faccia tosta?) di entrare in guerra con la Libia “per evitare una catastrofe umanitaria”, con il risultato di provocare e tenere in piedi una guerra civile che è già costata migliaia di morti. Però non vediamo la catastrofe umanitaria che noi stessi apparecchiamo e tolleriamo ogni giorno nelle nostre carceri, e che è lì, davanti ai nostri occhi, solo che ci degniamo di prestarvi attenzione. No, c’è qualcosa che non va. L’eventuale indifferenza dell’opinione pubblica non assolve la classe dirigente, e quando dico classe dirigente non parlo solo dei politici, ma della sensibilità di tutti coloro che hanno responsabilità nelle imprese, nelle banche, nei sindacati, nelle associazioni, nei media, nelle università, nelle professioni. Si possono avere i dubbi e le riserve più radicali sulle proposte di Pannella, e io stesso non condivido almeno la metà delle cose che dice e pensa, a partire dall’idea che la soluzione del problema del sovraffollamento carcerario sia una grande amnistia. Però non si può ignorare il problema che Pannella solleva, perché quella delle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane è una questione di civiltà. Una questione che si può affrontare lungo linee libertarie (depenalizzazioni, indulti, amnistie, misure alternative al carcere), oppure lungo linee sicuritarie (ammodernamento delle carceri esistenti, costruzione di nuove carceri), o ancora con una miscela dei due approcci. E che tuttavia un Paese occidentale non può permettersi di rimuovere, o di vivere come qualcosa che non tocca la sua identità, la sua morale, la sua coscienza collettiva. Si parla tanto di modernizzazione dell’Italia, della necessità di riforme che ci consentano di tornare a crescere. E tuttavia in questo gran parlare di riforme, cui io stesso non di rado prendo parte con i miei studi, forse si sta lasciando un po’ troppo in ombra un aspetto, e cioè che modernizzazione non significa solo modernizzazione economica, e che in Italia esiste anche un drammatico problema di modernizzazione civile. Un problema che ovviamente chiama in causa i comportamenti di ognuno, ma che è prima di tutto un problema di civiltà giuridica nei rapporti fra lo Stato e i singoli cittadini. Oggi in Italia, di fronte allo Stato e ai suoi apparati, troppe volte il singolo cittadino è inerme, sottoposto a ogni tipo di vessazione, arbitrio, ricatto, abuso, negligenza, sordità. Sotto questo profilo, a 150 anni dall’Unità d’Italia siamo ancora sudditi, e non cittadini. E lo siamo ovunque, sia quando siamo ancora liberi e ci troviamo di fronte ad apparati che violano le regole e abusano del loro potere, sia quando incappiamo nelle maglie della giustizia e, fin dalla condizione di detenuti in attesa di giudizio, sperimentiamo l’inferno delle carceri italiane. Perciò, non auto-inganniamoci. Lo sciopero della fame di Marco Pannella sembra parlare solo dei detenuti, ma parla anche di noi. Giustizia: ridurre termini custodia cautelare e aumentare giorni di liberazione anticipata di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 4 luglio 2011 Due proposte di legge: una per ridurre i termini della custodia cautelare ed un’altra per aumentare i giorni di liberazione anticipata. L’Italia è il peggior paese europeo per quanto riguarda il sovraffollamento carcerario, la durata massima delle pene detentive, il fenomeno della carcerazione preventiva, il modo di sanzionare le piccole trasgressioni e la recidiva, la mancanza di automaticità nelle concessioni delle misure alternative al carcere e, più in generale, è l’unico al mondo con un codice penale nato durante il fascismo. L’amnistia dei reati minori, per cui giustamente lottano svariate persone detenute e il radicale Marco Pannella, è una delle prime cose che si dovrebbero fare subito per contrastare il sovraffollamento carcerario. È una piccolissima forma giuridica anti oppressiva (di cui gioverebbe una esigua minoranza dei detenuti) ma dal 1992, grazie alla “bontà” del “divo” Giulio Andreotti, ogni amnistia necessita di una maggioranza dei due terzi del parlamento per poter essere approvata e quindi, obiettivamente parlando, ha poche possibilità di realizzazione. Considerando perciò che il dibattito sull’amnistia dei reati minori - anche da me stesso sollecitato negli ultimi mesi - potrebbe finire in un vicolo cieco, è necessario lanciare due distinte proposte di legge: una per ridurre i termini di custodia cautelare e un’altra per aumentare i giorni di liberazione anticipata. Le norme che regolano la carcerazione preventiva andrebbero modificate fissando dei termini massimi di un anno per i reati più gravi, dilatabili, in virtù di sospensioni di diversa natura, fino a due anni. I radicali presenti in parlamento potrebbero verificare subito se esistono le condizioni per far approvare tale proposta dal Parlamento ma senza perdere tempo prezioso. Per affrontare la drammatica situazione carceraria è indispensabile trovare almeno un obiettivo comune immediato da parte delle forze politiche parlamentari. Quale potrebbe essere? Nelle carceri italiane oggi sono recluse 22 mila persone in più di quante, in teoria, dovrebbero esserci. Per superare questa evidente illegalità risulta necessario aumentare il numero delle persone sottoposte a misure alternative al carcere da 16 mila - quante sono oggi - a 38 mila, quindi moltiplicarlo per 2,37, attraverso un proporzionato aumento dei giorni di liberazione anticipata. Dopo la riforma del 1975, mentre la popolazione detenuta era di 33.118 persone, la liberazione anticipata consisteva in 40 giorni di riduzione della pena per ogni anno espiato con buona condotta. Dopo la legge Gozzini del 1986, quando le persone detenute erano 42.293, quei giorni sono diventati più del doppio: 45 ogni semestre. A distanza di un quarto di secolo dalla legge Gozzini, con una popolazione detenuta di 67510 persone (al 30 aprile 2011) e una capienza regolamentare di 45543 posti, i giorni di liberazione anticipata dovrebbero essere aumentati moltiplicandoli per 2,37. In teoria, facendo un semplice calcolo matematico di valore orientativo, dovrebbero passare da 45 a 106 ogni semestre. Anche se la liberazione anticipata dipende sempre dalla buona condotta della persona condannata, l’aumento dei relativi giorni può essere considerato un primo ed utile mezzo per contrastare il fenomeno del sovraffollamento carcerario e favorire la risocializzazione delle persone condannate. Da qualche mese l’idea di aumentare i giorni di liberazione anticipata (sia pur a soli 60 giorni) è stata fatta propria anche dal Segretario Generale Sialpe-Asia della Polizia Penitenziaria Roberto Coppotelli. Bene. Se pure all’interno della polizia penitenziaria si comincia a ragionare sull’ipotesi di un aumento dei giorni di liberazione anticipata vuol dire che forse è proprio questo l’obiettivo specifico su cui, nell’immediato, va trovata la massima unità possibile delle forze politiche, sindacali e sociali rispetto al problema del sovraffollamento carcerario. Adesso non si tratta di dividersi fra chi propone 106 giorni e chi ne propone 60. Il grado di aumento dei giorni di liberazione anticipata per affrontare la drammatica realtà delle carceri italiane dovrebbe essere stabilito da esperti dei partiti e del Ministero della giustizia sulla base di ragionamenti logici e dati più che certi. Il problema fondamentale è di quello di aumentare più del doppio l’attuale numero di persone sottoposte a misure alternative al carcere. Secondo uno studio di Ristretti Orizzonti basato su dati forniti dal Ministero della Giustizia, al 28 febbraio 2011 “i condannati ammessi ad una misura alternativa alla detenzione in carcere sono 16.018, dei quali 8.604 sono in Affidamento ai Servizi Sociali, 858 in Semilibertà (tra loro gli stranieri sono soltanto 85), 6.556 in Detenzione Domiciliare”. Poiché i semiliberi sono molto pochi, in questo scritto li ho calcolati come esterni alla popolazione carceraria. Di fatto dormono in carcere ma, come ha proposto Antonio Salvato nella rivista elettronica “Amministrazione in cammino”, si potrebbe “allargare l’impiego della detenzione domiciliare, mandando a dormire a casa i detenuti semiliberi (sottoponendoli ai controlli dell’affidamento, e anche di più)”. Infine si dovrebbe ampliare il concetto di “detenzione domiciliare” affinché, oltre all’eventuale casa propria del detenuto, esso comprenda il possibile impiego di case - famiglia e/o case - alloggio delle strutture del volontariato e delle cooperative sociali. E ovviamente ci siano sgravi fiscali per tali strutture. Giustizia: tre anni di ingiustizia… quanto pesa l’eredità di Alfano di Dina Galano Terra, 4 luglio 2011 Nominato segretario del Pdl, il Guardasigilli per ora non abbandona. Dal suo mandato, il sistema giudiziario esce sfinito. Le carceri mai così affollate. E Pannella rafforza il suo digiuno Per il governo sarà difficile trovare un degno successore a Via Arenula. In campo ci sono ancora i progetti di separazione delle carriere giudicante e inquirente, la responsabilità civile del magistrato, il processo breve e la prescrizione brevissima, la legge sulle intercettazioni mai abbandonata. Alfano si è speso molto, con tutti i lodi costituzionali che hanno portato il suo nome in seguito cassati dalla Consulta, cosicché la recente acclamazione a segretario del Pdl vale molto più di una ricompensa. Ma l’erede Guardasigilli, se arriverà - come si crede - addirittura dopo l’estate (il ministro ha assicurato le proprie dimissioni “non appena il codice antimafia e la semplificazione dei riti saranno approvati”), dovrà fare i conti non solo con gli aut - aut di Berlusconi ma con una macchina della giustizia ingolfata e in pessimo stato di salute. Dopo tre anni di guida Alfano, il sistema si trova nelle medesime condizioni di partenza, aggravate come soltanto l’inerzia prolungata nel tempo sa fare. Soltanto nel 2008, primo anno in carica per il ministro, lo Stato italiano è diventato debitore per circa 81 milioni di euro nei confronti dell’Unione europea a causa della valanga di condanne per l’irragionevole durata dei processi. Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2011, il procuratore generale di Cassazione Vitaliano Esposito affermava che “il ritardo dei tempi processuali si sta trasformando in una reale insolvenza per lo Stato”. In questi tre anni, sono comparse nuove fattispecie di reato (ad esempio, quella che punisce l’ingresso e il soggiorno irregolare dello straniero) che hanno pesantemente inciso sulla normale attività dei tribunali mentre nessuna condotta minore è stata depenalizzata. Che, invece, è ciò che chiede il radicale Marco Pannella e gli oltre 15mila aderenti all’appello per l’amnistia. Chi per un giorno chi per molti, cittadini liberi e detenuti hanno scelto lo sciopero della fame come forma di protesta contro le condizioni delle carceri italiane, specchio sostanziale delle miopi politiche centrali. Pannella rafforza lo sciopero della fame, e nelle carceri tornano i numeri del pre-indulto del 2006. Inadeguato è stato il provvedimento di detenzione domiciliare per chi vanta meno di un anno di pena da scontare, il cosiddetto “svuota carceri”, rispetto al ritmo di crescita della popolazione detenuta oggi superiore alle 67mila persone. Fallimentare, poi, il Piano per l’edilizia penitenziaria varato a giugno 2010. A un anno e mezzo dalla proclamazione dello stato di emergenza nazionale, l’unico cantiere avviato è a Piacenza mentre si promettono 9.000 e più nuovi posti letto. Anche grazie alla “giustizia lumaca”, circa il 47 per cento di chi è in galera aspetta ancora una condanna definitiva. “Basterebbe razionalizzare il sistema con riforme a costo zero”, ripetono da tempo i “luminari” del diritto. Giustizia: esauriti i fondi per il lavoro nelle carceri, previsti dalla legge Smuraglia di Chiara Rizzo Tempi, 4 luglio 2011 Tra le mille emergenze che le carceri italiane si trovano ad affrontare - dal sovraffollamento alle condizioni di vita in cella al di sotto delle soglie igieniche e umane tollerabili, con stanze dove si vive anche per 20 ore al giorno, scendendo dalle brande a turni per mancanza di spazio -, uno degli aspetti positivi, che ha visto coinvolte molte persone detenute in percorsi di reale reinserimento sociale, è stato l’ingresso del lavoro in carcere. E ora è il primo che potrebbe essere colpito. Grazie alla legge Smuraglia, infatti, sono stati previsti ogni anno sgravi fiscali per le cooperative che assumono persone detenute. Nel solo 2010 ad esempio hanno trovato un regolare contratto di lavoro presso cooperative sociali 518 persone recluse, mentre 348 hanno lavorato presso aziende private, e considerando anche le persone semilibere o in articolo 21 (coloro che lavorano durante il giorno all’esterno, per rientrare nelle carceri solo alla sera) complessivamente 2 mila persone hanno lavorato per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria: a queste si aggiungono le 3.592 persone (solo nel secondo semestre del 2010) che hanno frequentato corsi di formazione professionale. Evidentemente si tratta di un importante percorso e stimolo per le persone che sono in carcere che, contrariamente all’immaginario comune, cercano continuamente di lavorare durante la detenzione (basti dire che i dati degli assunti da cooperative o aziende vanno sommati a quelli delle persone che lavorano per l’amministrazione penitenziaria, cioè 12.110 persone). Per incentivare le aziende e le cooperative sociali ad assumere detenuti, sono stati messi a disposizione fondi per garantire sgravi fiscali proprio grazie alla legge Smuraglia. Lo scorso 16 giugno il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha inviato una nota alle cooperative per comunicare che i fondi della legge Smuraglia sarebbero terminati due giorni dopo: di conseguenza alle cooperative è stato chiesto di scegliere se rimanere nelle carceri facendo lavorare le persone detenute, ma subendo inevitabili passivi economici, o andarsene. Spiega Luciano Pantarotto, responsabile della cooperativa “Men at work”, che si occupa di ristorazione nel carcere di Rebibbia a Roma (32 detenuti - cuochi impiegati con regolare contratto per le cooperative sociali): “È un fatto gravissimo, che dimostra l’assoluta incapacità del Dap di programmare le spese per gli interventi in carcere, quando proprio dal lavoro in carcere ho visto con i miei occhi un reale cambiamento. Chi lavora con noi si vede finalmente “proiettato” all’esterno, è stimolato”. Il risultato di una comunicazione così improvvisa non si fa attendere. Pantarotto: “Molte cooperative hanno scelto di andarsene. Abbiamo chiesto un incontro con il ministero della Giustizia, ma siamo ancora in attesa di riscontro”. Situazione molto grave anche per Nicola Boscoletto, presidente del Consorzio sociale Rebus che raccoglie alcune cooperative che danno lavoro alle persone recluse: “La cosa allucinante è che questo avviso sulla fine dei fondi, non solo ci arriva da un giorno all’altro, ma giunge a seguito di una lunga campagna del Governo per sensibilizzare le cooperative e le aziende a dare lavoro dentro le carceri”. Antigone: in migliaia rischiano di rimanere disoccupati La denuncia dell’associazione: sempre peggio negli istituti di detenzione, e sta arrivando l’estate Migliaia di detenuti all’interno o all’esterno del carcere rischiano di rimanere senza lavoro, peggiorando le già più che critiche condizioni di vita all’interno degli istituti di pena in un periodo drammatico come quello estivo. La denuncia arriva da Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che si batte per i diritti nelle carcere. “Una circolare dell’amministrazione penitenziale, a valere dal primo luglio - spiega Gonnella - ha cancellato qualsiasi contributi o sgravio fiscale per le imprese o cooperative che impiegano detenuti”. “Abbiamo già ricevuto - prosegue - molte telefonate di piccoli imprenditori che a fronte di questi tagli annunciano di non poter fare altro che licenziare i detenuti lavoratori”. Secondo Gonnella, dunque questa circolare rischia di trasformarsi in un boomerang per l’amministrazione penitenziale e riporterà in carcere i tanti ammessi al lavoro esterno e lascerà senza occupazione i detenuti che lavorano all’interno degli istituti di pena, moltissimi ad esempio quelli impegnati nella gestione delle mense. Tutto poi avviene nella stagione estiva in cui le condizioni di vita all’interno delle celle diventano tragiche. L’appello del presidente di Antigone è rivolto alle forze politiche e all’amministrazione penitenziale perché questa decisione, dannosa e pericolosa, sia rivista. Basterebbe - sottolinea - assegnare alle cooperative i soldi stanziati per la costruzione di metà di un nuovo padiglione penitenziale per garantire lavoro ai detenuti e più sicurezza. O, reinvestire i circa 5 milioni di euro della Cassa delle ammende destinati un anno fa alla realizzazione di un agenzia per il reinserimento lavorativo dei detenuti gestita dalla Fondazione per il rinnovamento dello spirito. Giustizia: Palamara (Anm); l’amnistia non è la soluzione al sovraffollamento delle carceri Agi, 4 luglio 2011 “Il sovraffollamento delle carceri italiane è un problema drammatico e reale ma l’amnistia non può essere la soluzione”. A ribadirlo è il Presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara. “Lo diciamo da tempo - spiega - quello di cui ci sarebbe davvero bisogno sono interventi strutturali ed organici: bisogna dare piena funzionalità al processo e snellire le procedure”. Per Palamara sarebbe anche arrivato il momento di “uscire dall’attuale visione carcerocentrica, attraverso un ricorso più razionale alle misure alternative alla detenzione. Oggi - sottolinea il Presidente dell’Anm - la popolazione detenuta è costituita in larga parte da extracomunitari, da responsabili di reati di piccolo spaccio, da soggetti che non stanno espiando una pena definitiva”. La colpa - conclude Palamara - è anche “di una legislazione schizofrenica che, negli anni, ha previsto sanzioni penali anche per fatti che potrebbero essere uniti con una sanzione amministrativa. Servirebbe una razionale depenalizzazione evitando che, ad esempio, ci siano tre gradi di giudizio, come accade oggi, per una guida senza patente”. Giustizia: mercoledì dirigenti penitenziari in protesta a Roma sotto Palazzo Vidoni Adnkronos, 4 luglio 2011 Mercoledì 6 luglio, a partire dalle ore 11, i dirigenti penitenziari aderenti a Fp-Cgil, Cisl-Fns, Uil-Pa, Sidipe e Dps, manifesteranno sotto Palazzo Vidoni, la sede del dicastero della Pubblica amministrazione guidato dal ministro Renato Brunetta. “Non è più rinviabile - sostengono - un intervento risolutivo sul tema carcerario, data la costante emergenza affrontata dal sistema penitenziario italiano, in sovraffollamento, sotto finanziato e a corto di personale”. In questa situazione, “si colloca la vertenza della dirigenza penitenziaria, il cui percorso di riforma, avviato nel 2005, è di fatto bloccato. Si tratta di direttori di istituti penitenziari e di uffici di esecuzione penale esterna privi di un loro ordinamento professionale, unici lavoratori del settore pubblico a non avere un contratto di categoria. Le loro retribuzioni sono equiparate ai livelli iniziali delle corrispondenti qualifiche della Polizia, ma prive di avanzamenti di carriera e di incrementi per anzianità”. I dirigenti chiedono al Governo “di prendere atto della situazione di illegalità che caratterizza il sistema penitenziario e di intervenire rapidamente per evitare che il clima, già appesantito da costanti episodi di violenza e da una tensione al limite dell’esplosività, degeneri irrimediabilmente”. Giustizia: Ugl; giovedì manifestazione a Roma per tutele Polizia penitenziaria Italpress, 4 luglio 2011 “L’Ugl Polizia Penitenziaria prosegue nella sua campagna per la tutela della dignità e della sicurezza del corpo e proclama una manifestazione nazionale per giovedì 7 luglio, alle ore 10, a Roma, a cui prenderà parte anche il segretario generale, Giovanni Centrella”. Lo rende noto il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, ricordando che “da tempo reclamiamo l’attuazione di un piano straordinario per le carceri che preveda l’assunzione di almeno 5 mila agenti per far fronte al disastroso problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, ma finora le nostre richieste sono rimaste inevase. Inoltre, - conclude il sindacalista - rivendichiamo un riallineamento di funzionari, ispettori e sovrintendenti ai colleghi della Polizia di Stato, come da impegni presi dal ministro della Giustizia”. Giustizia: storia di Marcello Lonzi, morto per “cause naturali” col corpo pieno di botte di Mario Neri La Repubblica Firenze, 4 luglio 2011 Sembra non esserci nulla che coincida con la verità nella ricostruzione fatta dagli inquirenti di quello che successe l’11 luglio 2003 nella cella 21, sezione sesta, padiglione D del carcere delle Sughere. Nulla che torni nella storia delle ultime ore di Marcello Lonzi, morto a 29 anni nel penitenziario livornese dove era stato rinchiuso tre mesi prima per tentato furto. L’ultimo verdetto, pronunciato in Cassazione a fine marzo, ha ripetuto il primo. Ufficialmente Marcello è morto di infarto, poco dopo essersi sniffato l’ultima dose di gas. Per la madre, Maria Ciuffi, i legali e i consulenti di parte, la versione fa acqua da tutte le parti, è piena di ombre e menzogne, e pensano sia morto di botte. Si muore così nelle prigioni italiane. Se ne vanno quelli con la fedina penale appena sbucciata. Se ne vanno quelli che fanno numero - troppo numero - e fuori alla fine non si sa mai bene perché, come e per colpa di chi. Dopo 8 anni un’idea la danno Luigi Manconi e Valentina Calderone, che hanno inserito il caso Lonzi in Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri libro inchiesta sui buchi neri delle galere d’Italia. “Per la procura di Livorno la dinamica è chiara fin da subito. Lonzi, vita da tossicodipendente, è morto per cause naturali. Ha avuto un attacco cardiaco e cadendo ha sbattuto la testa contro le sbarre”, racconta Calderone, giovane coautrice del libro. Niente di più. Tanto che il pm chiede l’archiviazione nel luglio 2004 e il gip chiude il fascicolo nel dicembre dello stesso anno. Anche se un mese prima sul sito anarcotico.it erano apparse le foto shock della cella 21. Lonzi è steso all’interno con la testa rivolta verso la porta. Il viso è pieno di ferite, il collo, la schiena tumefatti. Sul pavimento ci sono macchie di sangue, alcune da trascinamento, altre da sgocciolamento. “Una delle tante contraddizioni racconta Calderone - Per la procura erano state create dalle operazioni del medico legale. Il corpo era stato spostato fino in corridoio per facilitare i rilievi, dicono. Per alcune tracce la circostanza trova riscontro, ma altre sono gocce, come quelle che cadono dal naso o da un sopracciglio spaccato”. Un’incongruenza non da poco, visto che la procura ha sempre sostenuto una dinamica tutta interna alla cella. Nei mesi e negli anni si aprono altri tunnel senza uscita. E conducono tutti verso il pestaggio. “Si scopre che i secondini organizzavano squadrette punitive e portavano i detenuti nei sotterranei”; che l’agente che ha firmato il verbale sulla morte di Lonzi quel giorno non era in servizio. Poi il corpo viene riesumato: le costole rotte non sono due ma otto. Si riapre anche una seconda indagine, ma alla fine il risultato è lo stesso. “Morte per cause naturali”. Non l’accetta Maria Ciuffi, che ieri è tornata a manifestare a Pisa, dove risiede. Con lei 20 persone si sono riunite in presidio in piazza Guerrazzi. “Non mi arrendo - dice - continuerò a cercare la verità e a pretendere giustizia”. L’ultima speranza ora è la Corte dei diritti dell’uomo a Strasburgo. Giustizia: 51enne muore dopo l’arresto, indagati 4 agenti; per la questura non c’è stato pestaggio di Massimo Pisa La Repubblica Milano, 4 luglio 2011 Indagati. Tutti e quattro. I due poliziotti della volante del commissariato Mecenate, F.E. e M.L., intervenuti per primi giovedì sera in via Varsavia - il primo aggredito, secondo il loro racconto, e il secondo accorso con le manette in mano - e i due a bordo della “pantera” della questura - R.P., che avrebbe praticato il massaggio cardiaco a terra, e F.C. - arrivati dopo la chiamata via radio alla centrale dei loro col leghi. Omicidio preterintenzionale ai danni di Michele Ferrulli, il 51enne facchino barese morto dopo essere stato ammanettato fuori da un bar, è l’accusa del pm Gaetano Ruta. Atto dovuto, spiegano in procura: permetterà ai quattro agenti, difesi dall’avvocato Massimo Pellicciotta, la nomina di un consulente per l’autopsia, prevista per martedì alle 8 (per la famiglia Ferrulli, la legale Fiaba Lovati ha già nominato la dottoressa Lorenza Solito). “Dagli atti che ho potuto vedere - spiega Pellicciotta - i miei assistiti possono e devono stare tranquilli perché non c’è nessun reato”. La linea in questura non cambia. “Vogliamo essere trasparenti e sereni - ripete il vicario Nino Fabiano - stiamo dando massima collaborazione alla magistratura. Anche se ci fossero elementi penalmente rilevanti a carico dei colleghi non ci sottrarremo alle responsabilità. Per noi, gli agenti sono intervenuti nei confronti di una persona con atteggiamento aggressivo, in linea con le procedure”. Il pm ha acquisito la chiavetta col filmato e i referti delle ultime analisi mediche di Ferrulli: doloretti di mezza età di un uomo sovrappeso, pressione alta, niente aritmia. Della decina di testimoni ascoltati, compresi Emilian Nicolae e Mihai Nemtuc, i due romeni amici di bevuta e schiamazzi di Ferrulli, nessuno ha parlato di pestaggio. Il medico curante, Fabio Parazzini, è ancora in ferie: sentito al telefono dalla polizia, avrebbe parlato di “ipertensione” del paziente. E ieri sera, rinviato in un primo momento, c’è stato il primo contatto tra la questura e Caterina Mele e Domenica Ferrulli, moglie e figlia della vittima: incontro “civile” ma teso. Ricevute condoglianze e rassicurazioni sulle indagini da parte del capo della mobile Alessandro Giulia - no. Le due donne hanno poi rivisto il filmato insieme agli specialisti della Omicidi. In via del Turchino, sotto casa Ferrulli, c’è già chi ha emesso la sentenza. “Polizia assassini infami!! Dovete pagare”, recita un lenzuolo. “Prima: Aldrovandi. Dopo: Cucchi. Adesso: Michele Ferrulli”, è scritto in rosso su un muro. Altri drappi di inquilini chiedono “verità e giustizia”. E tra le 18 e le 18.30 una ventina di ragazzi hanno improvvisato un blocco stradale, gettando masserizie sui binari del tram. Lo hanno tolto da soli, sotto gli occhi dei vigili. Morto durante il fermo. Un altro caso Aldrovandi? (Liberazione, 4 luglio 2011) Un fermo di polizia è un fermo di polizia, non la via più veloce per finire all’obitorio, come è accaduto giovedì sera a Michele Ferulli in una strada di Milano. Ultimo di una lista ormai troppo lunga che elenca nomi come quelli di Federico Aldovrandi, Riccardo Rasman, Stefano Brunetti e Giuseppe Uva. Tutti questi casi, alcuni dei quali ormai accertati e sanzionati processualmente, altri archiviati o con indagini in corso, hanno in comune le medesime circostanze: il ricorso a modalità anomale e brutali nelle prime fasi d’intervento delle forze dell’ordine. E ‘ noto, come riferiscono tutti gli specialisti della materia, che uno dei maggiori momenti di criticità nell’azione delle forze di polizia riguardi proprio i momenti iniziali, quelli del fermo e/o dell’arresto prima dell’intervento della magistratura. L’uso improprio dei micidiali tonfa e la tecnica dell’immobilizzazione a terra che troppo facilmente crea situazioni di soffocamento. Nel caso di Ferulli esiste un video di bassa risoluzione che documenta una situazione concitata. Un secondo, molto più chiaro, sarebbe stato trasmesso alla magistratura dall’avvocato della famiglia. La testimonianza della figlia sembra un remake delle morti di Aldovrandi e Rasman: “Mio padre è morto a faccia in giù, per terra, come un cane. Poi lo hanno rigirato cercando di rianimarlo”. Ferulli dal marciapiede è finito direttamente in ospedale in stato di “anossia”, tradotto vuole dire senza più ossigeno nelle cellule. Un’aggravante è che l’intervento della volante era dovuto a un semplice disturbo della quiete pubblica. Vedremo cosa riuscirà ad accertare l’inchiesta della magistratura. Certo è che negli ultimi tempi si nota una preoccupante tendenza: questi “incidenti” non avvengono più solo nel chiuso di una caserma o di un carcere, ma nel mezzo della via pubblica quasi a voler sancire un illimitato senso di onnipotenza della forza statale. Giustizia: due testimoni processo Cucchi; lo hanno menato, si vedeva che stava veramente male Il Mattino, 4 luglio 2011 Quattro medici, un’infermiera, alcuni detenuti all’epoca dei fatti, un poliziotto penitenziario. Sono nove i testimoni che oggi hanno testimoniato nella settima udienza del processo che, davanti alla III Corte d’assise di Roma presieduta da Evelina Canale, si occupa della morte di Stefano Cucchi, il romano di 31 anni fermato il 15 ottobre 2009 mentre stava cedendo sostanza stupefacente e morto una settimana dopo nella struttura di medicina protetta dell’ospedale “Sandro Pertini”. Tra coloro che sono stati citati dai pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, oltre a tre persone che all’epoca dei fatti da detenuti erano presenti nelle celle del tribunale di Roma in attesa di essere sottoposti all’udienza di convalida del loro arresto, anche quattro medici (due del carcere di Regina Coeli e due dell’ospedale romano Fatebenefratelli) che in quei giorni ebbero a che fare con Cucchi. La cella delle botte. “Chiesi di andare nella cella con Cucchi perché ero solo, ma una guardia penitenziaria mi fece segno di no, facendo il gesto come se in quella cella si prendevano botte”. È la testimonianza di Marco Fabrizi, sentito oggi che era nelle celle di sicurezza del tribunale di Roma, a pochi passi dalla cella dove Cucchi aspettava prima di essere portato per la convalida del suo arresto per droga avvenuto la notte precedente. Un’ex detenuta: stava male, si vedeva. Annamaria Costanzo, conobbe anche lei Cucchi nelle celle del tribunale. “Fu lui a fermarmi mentre ero nel corridoio - ha detto - Mi chiese una sigaretta, mi disse che era in cella per un po’ di fumo e che stava male perché non gli volevano dare le medicine. Continuava a dire “sto male” e gli domandai “ma che ti hanno menato?”. Mi rispose di sì e che erano state le guardie che l’avevano arrestato. Io quella sigaretta gliela diedi dicendogli “speriamo che non è l’ultima che ti fumi”, perché vidi che stava veramente male”. Dichiarazioni, queste, che la donna non ha mai reso in precedenza; circostanza oggi motivata con il fatto che pensava “che andava tutto in cavalleria”. Ho visto picchiarlo. In aula, a testimoniare è stata anche chiamata una terza donna all’epoca detenuta. Silvana Cappuccio ha detto che, mentre si trovava in cella, sdraiata perché stava poco bene, sentì “un fracasso”. Ecco che allora si alzò e guardò dallo spioncino della cella cosa stessa accadendo. “Ricordo di un ragazzo in cella accanto alla mia - ha detto - Chiedeva una sigaretta; a un tratto lo tirarono fuori e lo schiaffeggiarono. Cadde a terra, lo trascinavano e continuavano a picchiarlo. Diceva di star male e che non riusciva ad alzarsi, ma gli rispondevano “adesso chiamiamo un dottore”“. Incalzata dalle domande e dalla richiesta di precisazioni ha però risposto con tanti “non ricordo”. Un medico: rifiutò il ricovero al Fatebenefratelli ma aveva due vertebre fratturate. Il 16 ottobre 2009, poche ore dopo il suo arresto per droga, Stefano Cucchi fu portato all’ospedale romano Fatebenefratelli perché lamentava dolori alla schiena, ma rifiutò il ricovero. La conferma processuale è arrivata, nel corso dell’udienza di oggi da Cesare Calderini, il medico che prese in cura il giovane nella struttura ospedaliera. “Visitai Cucchi alla presenza delle guardie penitenziarie - ha detto - Gli chiesi cos’era successo e mi rispose che era caduto dalle scale la sera prima. Era arrivato in reparto camminando normalmente, era leggermente segnato sotto entrambe le palpebre. Segni che non destarono la mia preoccupazione. Esclusi fossero dettati da causa traumatica, non aveva un occhio pestato”. Ragione questa per la quale il medico si concentrò “sul forte dolore alla schiena che Cucchi lamentava. Al livello del tratto lombo - sacrale aveva i segni di un trauma recente, e richiesi esami radiografici. Contattai poi il radiologo che vide due fratture, l’ortopedico e il neurologo. Decidemmo insieme come necessario tenere il paziente in osservazione per fare ulteriori accertamenti ma Cucchi rifiutò il ricovero, e io rimasi stupito, mi sembrò una cosa strana. Era stato sempre tranquillo, si era fatto fare tutti gli esami tranquillamente”. Le circostanze per le quali fu consigliato il ricovero del giovane sono state confermate in aula anche da Francesco Tibuzzi, il neurologo che quel giorno visitò Cucchi al Fatebenefratelli. Sul banco degli imputati ci sono dodici persone: i sei medici che ebbero in cura il giovane (Aldo Fierro, Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Stefania Corbi, Luigi De Marchis Preite, Rosita Caponetti), tre infermieri (Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe) e tre agenti della polizia penitenziaria (Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici). I reati contestati, a vario titolo e a seconda delle posizioni, vanno dalle lesioni, all’abuso di autorità, al favoreggiamento, all’abbandono di incapace, all’abuso d’ufficio e alla falsità ideologica. Secondo l’accusa, rappresentata dai pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, Stefano Cucchi è stato picchiato nelle camere di sicurezza del Tribunale in attesa dell’udienza di convalida. A nulla valsero le sue richieste di farmaci, mentre in ospedale fu reso incapace di provvedere a se stesso e lasciato senza assistenza, tanto da portarlo alla morte. La prossima udienza si terrà l’11 luglio. Giustizia: Premio Harward a Mons. Giorgio Caniato, ispettore generale dei Cappellani italiani Agi, 4 luglio 2011 Monsignor Giorgio Caniato, ispettore generale dei cappellani italiani del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della giustizia minorile, è stato insignito oggi a Toronto del prestigioso “Premio Harward”, per la sua vita dedicata ai detenuti. Il riconoscimento arriva da “Prison Fellowship International”, il grande network cristiano impegnato nel mondo carcerario, che opera in 135 Paesi. Il premio, si legge nella motivazione diffusa dalla Radio Vaticana, è stato assegnato “come riconoscimento dei 60 anni di servizio a favore dei detenuti in Italia e per la fedele leadership come ispettore generale dei cappellani all’interno del sistema penitenziario italiano”. “Questo ambito premio - rileva in un comunicato Marcella Reni, presidente della Prison Fellowship Italia Onlus (Pfit), “è un riconoscimento alla preziosa, silenziosa e instancabile opera al servizio dei detenuti e dei giovani svolta da tutti i cappellani italiani che hanno trovato in monsignor Caniato un maestro e una guida sia spirituale che professionale”. Tra gli 800 partecipanti, giunti in Canada da oltre 130 paesi, era presente anche monsignor Giovanni D’Ercole, già cappellano del carcere minorile romano di Casal del Marmo e oggi vescovo ausiliare dell’Aquila nonché consigliere spirituale nazionale di Pfit. Lettere: lo spirito della giustizia… di Antonio Cappelli Terra, 4 luglio 2011 Per quanto possa sembrare impossibile, la differenziazione della popolazione carceraria secondo il censo e la classe sociale è probabilmente più grave e pesante di quanto non avvenga per chi vive in libertà. È infatti da osservare che lo stesso fondamentale diritto alla difesa si coniuga in maniera diversa per chi dispone di mezzi finanziari adeguati e per chi invece appartiene alla derelitta categoria dei non abbienti. I primi possono scegliersi un difensore di fiducia e approfittare poi di tutte le garanzie della legge sino a giungere talvolta alla prescrizione dei reati contestati; i secondi invece si trovano affidati alla tutela spesso frettolosa dei difensori di ufficio restando così talvolta privi anche di elementari forme di difesa giudiziaria. L’identica situazione si manifesta per il diritto alla salute. Il detenuto che dispone di mezzi finanziari può chiedere di essere assistito da un medico di fiducia, può ottenere visite specialistiche a pagamento ed è in grado acquistare farmaci ritenuti necessari; ai non abbienti non resta che affidarsi, senza possibilità di scelta, al medico di reparto e soffrire le lungaggini delle liste di attesa per gli accertamenti clinici e per gli stessi ricoveri. Gli esempi di differenziazione classista della vita carceraria potrebbero continuare per quanto riguarda il vitto, il vestiario, le relazioni familiari e le stesse attività lavorative. Il carcere è dunque un luogo atroce per tutti ma per chi è povero diventa il segno di massima contraddizione della nostra società, lo spazio nel quale il vertice della legalità, sancito dalle sentenze, si incontra e si salda con il culmine dell’ingiustizia, codificato in una prassi che discrimina per censo perfino i gradi di sofferenza. Si tratta evidentemente di un bruciante sfregio allo spirito della giustizia che dovrebbe essere cancellato con un’opera paziente e lungimirante di riforma. Non sembra purtroppo che si vada in questa direzione. Gli schemi di riforma della giustizia che vengono periodicamente sottoposti all’attenzione degli italiani sono infatti molto attenti agli interessi corporativi delle categorie professionali implicate ma pressoché incuranti dei bisogni dei detenuti in generale. Il volto severo della legge si fa poi arcigno con i più poveri. Per loro una sola prospettiva: rassegnarsi non solo alla già crudele privazione della libertà ma anche alla quotidiana sofferenza e alla mancanza di fondamentali tutele che dovrebbero essere garantite a tutti i cittadini. Lettere: ingiusta detenzione senza risarcimento, ora mi rivolgerò anche al Tpi dell’Aja di Giulio Petrilli (responsabile giustizia Pd L’Aquila) Ristretti Orizzonti, 4 luglio 2011 Da anni mi batto per avere giustizia sulla mia vicenda giudiziaria. Una vicenda che mi vide arrestato nel 1980 con l’accusa di partecipazione a banda armata (Prima Linea) e rilasciato nel 1986, dopo l’assoluzione in giudizio d’appello presso il tribunale di Milano. Uscii innocente dopo cinque anni e otto mesi di carcere, da un’accusa banda armata, che prevedeva anche la detenzione nei carceri speciali e sotto regime articolo 90, più duro dell’attuale 41 bis. Anni di isolamento totale, blindati dentro celle casseforti insonorizzate, senza più poter scrivere lettere, leggere libri, qualche ora di tv ma solo primo e secondo canale. Sempre, sempre soli, con un’ora d’aria al giorno, in passeggi piccoli e con le grate. Un’ora di colloquio al mese, con i parenti, ma con i vetri divisori. Dodici carceri ho attraversato in questi sei lunghi anni. Ebbi la sentenza definitiva di assoluzione dalla cassazione nel luglio 1989. Nell’ottobre 1989, entra in vigore il nuovo codice penale con l’introduzione di articoli di legge che prevedevano la riparazione per ingiusta detenzione. Di conseguenza inoltrai domanda in tal senso, presso la corte di appello del tribunale di Milano. Mi risposero che avevo ragione, ma non essendo una norma retroattiva, la mia domanda di riparazione era inammissibile. Sollecitai negli anni successivi l’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma tutto finiva dentro le maglie della burocrazia e di tempi tecnici oltrepassati per fare l’istanza. L’unica soluzione era ed è quella di fare in modo che la legge sulla riparazione per ingiusta detenzione diventi retroattiva; quindi anche per i casi di assoluzione antecedenti l’ottobre 1989. Contattai diversi parlamentari che poi presentarono disegni di legge per introdurre l’applicazione retroattiva per la suddetta legge, sia alla Camera che al Senato, ma non si riesce neanche a farli calendarizzare in commissione giustizia. Per spingere questa cosa ci sono stati appelli sottoscritti da giuristi, parlamentari, giornalisti e tante cittadine e cittadini, ma tutto è difficile. Ora, nei prossimi giorni invierò una lettera al Tribunale Penale Internazionale, nella quale sosterrò che il Pubblico Ministero che emise il mandato di cattura (l’attuale Procuratore aggiunto del tribunale di Milano Armando Spataro) e la Corte di primo grado che mi condannò, alla luce della mia successiva assoluzione, sono colpevoli di aver trasgredito l’art. 7 dello statuto della corte penale nei commi f) sulla tortura , K) atti diretti a favorire intenzionalmente grandi sofferenze e gravi danni all’integrità fisica e alla salute fisica e mentale, E) imprigionamento o altre gravi forme di privazione della libertà personale. Lettere: ammazzarsi in carcere, legittima difesa contro l’emarginazione Redattore Sociale, 4 luglio 2011 Lettera-denuncia di Carmelo Musumeci, ergastolano. “Per rimanere in vita bisogna amare la vita, ma come si può amarla chiusi in cella, giorno dopo giorno, notte dopo notte, un anno appresso all’altro a vegetare? Si muore perché dimenticati dalla società”. “Uccidersi non è facile, ma vivere nelle patrie galere italiane è ancora più difficile. Per questo nelle carceri italiani si continua a morire. E nessuno fa nulla”. Inizia così la lettera di Carmelo Musumeci, ergastolano detenuto da più di 20 anni e attualmente nel carcere di Spoleto. Una sorta di grido di dolore che aiuta forse a spiegare il mistero delle tante morti che settimanalmente avvengono nelle carceri italiane. E proprio riportando gli ultimi due suicidi (avvenuti a Bari, il 27 giugno, e a Teramo, il 30 giugno) attacca la lettera. “Nelle carceri italiani - scrive Musumeci - c’è una vera e propria guerra fra la vita e la morte, ma i mass media preferiscono occuparsi delle guerre degli altri paesi. Ai nostri governanti i suicidi in carcere fanno paura per questo cercano di nasconderli. L’Assassino dei Sogni (come chiamo io il carcere) non vuole che fuori si sappia che suoi prigionieri hanno più paura di vivere che di morire. Più nessuno parla e scrive del perché in carcere sono così in tanti a togliersi la vita. L’Italia spreca lacrime di coccodrillo per la pena di morte negli altri paesi, invece i suoi prigionieri li mura vivi senza la compassione di ammazzarli prima, perché vuole che i detenuti abbiano il coraggio di ammazzarsi da soli”. Si legge ancora nella lettera: “I nostri governanti dovrebbero sapere che per rimanere in vita bisogna amare la vita, ma come si può amarla chiusi in una cella di cemento e ferro, giorno dopo giorno, notte dopo notte, un anno appresso all’altro a vegetare? I nostri politici dovrebbero sapere che in carcere in Italia si muore in tanti modi: di malattia, di solitudine, di sofferenza, di malinconia, di ottusa burocrazia e d’illegale legalità. E poi si muore perché per alcuni detenuti vivere nelle galere italiane è diventato un lusso che molti non si possono più permettere. Per questo ammazzarsi diventa una vera e propria necessità. E questa non è una libera scelta, come alcuni cinici di turno potrebbero pensare, ma è una legittima difesa contro la sofferenza e l’emarginazione. La verità è che ormai in carcere in Italia t’impediscono di vivere, per questo alcuni detenuti decidono di non vivere più. Come dargli torto?”. “Io spero sempre che in carcere nessuno si tolga la vita - continua - , ma non mi sento di condannare chi non ha il coraggio di vivere come un animale in gabbia. Ricordo che chi in carcere si ammazza non desidera proprio farlo, piuttosto vuole solo protestare per attirare l’attenzione su di se. E che ci si uccide soprattutto per le restrizioni sociali e affettive. Proporzionalmente al fuori, in carcere si muore di più non solo perché ci si toglie la vita da soli, si muore più spesso semplicemente perché si è dimenticati dalla società, o non si viene curati bene. La figlia di un uomo ombra, di un ergastolano che è morto qualche giorno fa, ha scritto a un nostro compagno: “Mio padre è mancato con l’unica consolazione di morire accanto ai suoi figli. Nei pochissimi giorni trascorsi insieme mio padre raccontava sempre di voi tutti. Gli ho promesso che vi avrei scritto per avvisarvi, eravate per lui la seconda famiglia. Lui era molto malato, solo nel carcere di Parma dopo un’ infinità di istanze hanno scoperto che era affetto dì carcinoma polmonare in metastasi con la complicazione di diverse infezioni, una di quelle era l’enfisema polmonare, non ha fatto una lunga agonia è crollato di colpo, in due giorni se ne andato per sempre”. Così finisce la lettera: “Quando qualcuno muore di carcere, in carcere o fuori, il caso non esiste. L’Assassino dei Sogni è una fabbrica di morti. Intanto fuori i buoni continuano a fare i buoni, lasciando che le carceri italiane si trasformino in lager. Buona morte ai cattivi che decidono di togliersi la vita perché dimenticati dalla società. E buona vita ai buoni e agli ignavi che non fanno nulla per evitarlo”. Roma: detenuto di 32 anni si impicca nel carcere di Rebibbia, era cella di isolamento di Alfonso T. Guerritore La Città di Salerno, 4 luglio 2011 È morto in carcere nel corso di quindici giorni di isolamento il trentaduenne paganese Carmine Parmigiano, pregiudicato, detenuto per una vicenda di estorsioni nel carcere di Rebibbia. L’uomo, protagonista in passato di numerosi episodi di furto e scippo per le strade dell’Agro nocerino, non avrebbe retto al periodo di punizione seguito ad una violenta rissa scoppiata nel cortile della struttura detentiva. Le botte avevano coinvolto uno straniero e un altro paganese, Luigi De Prisco. Anche quest’ultimo era stato punito con Parmigiano per lo stesso episodio, anche lui finito in cella di isolamento su disposizione dell’autorità penitenziaria. La notizia si è diffusa nella giornata di ieri, con una successione di illazioni e dettagli capace di confondere il reale svolgimento dei fatti: qualcuno parlava di un omicidio, altri di un doppio suicidio, e alla fine la conferma è arrivata da ambienti vicini alle famiglie dei due giovani. Oggi, secondo fonti bene informate, la madre di De Prisco dovrebbe recarsi a Rebibbia per sincerarsi delle condizioni del figlio, mentre per il povero Parmigiano la procura potrebbe disporre l’esame autoptico. Le notizie diffuse nel corso delle ultime ore parlano di uno “strangolamento auto provocato”: il giovane si sarebbe impiccato. L’ultimo arresto nei suoi confronti era arrivato nell’agosto 2010, con l’accusa di stupri, pestaggi e sequestri di persona con rapina ai danni di prostitute e transessuali, in un giro di spedizioni romane chiuse dagli arresti dello stesso Parmigiano, di Luigi De Prisco, 29 anni, l’altro finito in isolamento, con una terza persona, il paganese Sabato Savastano, 21enne già in carcere precedentemente alla misura. L’ordinanza di custodia cautelare venne emessa dalla Procura della Repubblica di Roma, con un ulteriore fermo di pg per un quarto paganese, Giovanni Ferrante, 27 anni, tutti accusati di aver commesso due rapine a Roma e una a Salerno, in zona Mercatello. Il modo di agire del gruppo partiva da appuntamenti telefonici con le prostitute o transessuali, spesso sudamericane o stranieri, con passaggio in appartamento, prestazioni sessuali e poi aggressioni, pestaggi e rapine. Il lavoro investigativo allora svolto anche dalla squadra mobile di Salerno aveva individuato un filmato, estratto dal sistema di videosorveglianza in funzione nei pressi dell’appartamento delle vittime. L’inchiesta salernitana si era legata a una analoga inchiesta romana, sempre con gli stessi rituali. Il gruppo si fingeva interessato al sesso a pagamento, e poi entrava in azione, con lavori serali, occhiali scuri e cappellini. L’arancia meccanica arrivava subito dopo la conquista dello spazio privato delle prostitute. Parmigiano, dopo la punizione in isolamento, avrebbe deciso di uccidersi in preda allo sconforto. Opera: detenuto 24enne ammazzato di botte, una lettera anonima indica il colpevole Varese News, 4 luglio 2011 Una lettera anonima indica il colpevole ma sul movente è buio pesto. L’autopsia conferma l’omicidio. È stato quasi certamente assassinato Abbedine Kemal, il marocchino di 24 anni arrestato nell’ambito dell’operazione antidroga della mobile di Varese (e guidata dal pm Tiziano Masini) ribattezzata “Dagadree”, trovato agonizzante nel carcere di Opera due settimane fa. L’uomo è morto il 23 giugno in ospedale a Milano, ma gli inquirenti non avevano capito subito che era stato vittima di un’aggressione, pensando inizialmente a un malore. La verità è emersa anche dopo l’intervento dell’avvocato della famiglia Paolo Bossi e del medico legale Domenico Castaldo. Ieri è stata effettuata l’autopsia che conferma i sospetti emersi in prima battuta e cioè che Abbedine sia stato colpito con una mazza o un corpo contundente rigido, avvolta in un panno per non lasciare tracce. Un colpo che gli ha devastato la scatola cranico e ne ha determinato la morte. Ci sono già anche i primi sospetti: una lettera anonima giunta alla direzione del carcere di opera indica in un altro detenuto, un sudamericano, l’autore materiale del delitto. L’abboccamento sembra serio e l’uomo potrebbe già essere sospettato di essere coinvolto ma non sono chiari i motivi dell’assassinio. Kemal aveva collaborato con la giustizia e la sua pena era stata ridotta in appello a 3 anni mezzo: stava anche per uscire di prigione, e pare avesse esternato la sua gioia agli altri detenuti. Ma si era anche diffusa la voce che aveva collaborato; i suoi famigliari temono che sia stato bollato come un “infame” da altri detenuti e che questo possa essergli costato la vita. Ma che relazione ha l’agguato con l’inchiesta Dagadree? Al momento non è per nulla chiaro perché nessun sudamericano era coinvolto in quella vicenda. Teramo: detenuto 31enne suicida in cella, i genitori presentano un esposto in Procura Il Centro, 4 luglio 2011 Si è tolto la vita, impiccandosi alle sbarre della cella. Cosimo Intrepido, 31enne originario di Trepuzzi (Le), era rinchiuso nel carcere di Castrogno per scontare un residuo di pena per rapina. Era in attesa di entrare in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Aveva già tentato di togliersi la vita e mercoledì notte è riuscito nell’intento. Intanto i familiari vogliono vederci chiaro e hanno presentato un esposto alla procura per chiedere di chiarire le cause della morte. Intanto, sull’ennesimo suicidio nel sovraffollato carcere di Teramo, interviene il segretario del Sappe Giuseppe Pallini. “L’istituto teramano potrebbe ospitare 240 detenuti invece ne ospita 410: di questi, oltre la metà soffre di problemi psichici con difficile gestione, scaricati a Teramo per il solo fatto che c’è il servizio di guardia medica su 24 ore e una psichiatra per alcune ore la settimana. I mancati interventi strutturali sull’esecuzione della pena e sul sistema penitenziario nazionale hanno nuovamente portato gli istituti di pena del Paese in piena emergenza, lasciando soli a loro stessi gli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria”. Parma: assistente capo di Polizia penitenziaria muore suicida. Sappe: “si lavora sotto stress” Ansa, 4 luglio 2011 Ancora un suicidio nel mondo delle carceri. A togliersi la vita, questa volta, non è stato un detenuto, vittima di sovraffollamento e scarsa igiene, ma un agente di polizia penitenziaria. Si tratta di Giuseppe P., assistente capo in servizio presso il carcere di Parma. Aveva soli 35 anni. L’uomo si è tolto la vita la notte scorsa, dopo aver fatto rientro suo paese di origine, in provincia di Crotone. Donato Capece, alla notizia della tragica scomparsa del collega, ha commentato: “Al di là dei problemi personali del collega, che da poco aveva perso la madre - ha dichiarato il segretario generale del Sappe - ciò che purtroppo constatiamo per l’ennesima volta è la sottovalutazione dello stress psico-fisico del lavoro quotidiano degli agenti nelle sovraffollate carceri italiane. Controllare 69mila detenuti è diventato anche pericoloso”. “Ciascun poliziotto penitenziario si trova a dover sorvegliare anche più di cento detenuti per volta”, ha aggiunto Capece. Il sindacato di polizia penitenziaria denuncia, infine, la mancata “istituzione dei punti di ascolto psicologico che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva preannunciato nel 2008, quando a capo del Dap c’era Ettore Ferrara, predecessore di Franco Ionta. Non se ne è fatto nulla per mancanza di risorse - conclude Capece - I 50 psicologi che hanno vinto il concorso devono infatti essere ancora assunti, ma i tagli previsti dalle ultime manovre non lo consentono. Sollecitiamo l’Amministrazione - conclude Capece - a destinare al lavoro in carcere educatori e psicologi ora impiegati in altri compiti”. Cgil: troppo stress, cambiare condizioni di lavoro interne Venerdì scorso un assistente di Polizia Penitenziaria di Parma si è suicidato. Aveva 35 anni. È una notizia che ci addolora profondamente come ha addolorato i suoi colleghi ai quali mancheranno molto la sua amicizia e la sua professionalità. Non sappiamo le motivazioni di un gesto così estremo, ma il mondo carcerario, purtroppo, anche in Emilia - Romagna non raramente si misura con simili tragici eventi; i fenomeni di suicidio riguardano i detenuti e riguardano i poliziotti penitenziari e in entrambi i casi sono statisticamente superiori a quanto avviene fuori dal carcere. Che siamo in presenza di un’emergenza carceraria non è un mistero per nessuno, quotidiane sono le denunce di uno stato di cose sempre più critico, in cui il sovraffollamento ha raggiunto livelli già al di sopra della tollerabilità e della civiltà. In una condizione di questo genere, chi quotidianamente lavora dovrebbe essere supportato al meglio nella propria attività, essere messo nelle condizioni di fare fronte al disagio e allo stress derivanti dal proprio lavoro; bisogna evitare che coloro che tutti i giorni sono in prima linea a contatto con i detenuti siano i soli a farsi carico di una situazione sempre più difficile della quale, al di là delle parole, pare importare poco alle stesse istituzioni. Bisogna organizzare il lavoro in modo da ridurre lo stress, superare la condizione di perenne sotto organico che obbliga a turni massacranti, fornire supporti anche di tipo psicologico. Affrontare il problema dell’emergenza carceraria in modo serio e non per annunci tra l’altro puntualmente disattesi sarebbe l’unico modo per dare risposte concrete alle richieste provenienti dal mondo carcerario e dai poliziotti penitenziari in primis; per questo crediamo vada fatto ogni sforzo possibile perché vengano garantite condizioni di vivibilità e sicurezza per chi nelle carceri italiane vive e lavora. Fp Cgil Emilia - Romagna Busto Arsizio: carcere sovraffollato, 200 detenuti rifiutano il cibo in segno di protesta Varese News, 4 luglio 2011 La protesta iniziata da Pannella su scala nazionale ha trovato seguaci nella struttura bustocca che ospita più del doppio dei detenuti previsti. Nessun incidente. Oltre 400 carcerati di fronte ad una capienza di 167 posti e nella casa circondariale di via per Cassano scoppia la protesta con 200 detenuti in sciopero della fame. La battaglia lanciata da Marco Pannella contro il sovraffollamento carcerario è iniziata anche qui, dopo Varese. La protesta prevede il rifiuto del cibo agli orari prestabiliti e il rumore fragoroso delle scodelle contro le sbarre accompagna queste giornate di protesta. La Polizia penitenziaria sta cercando di mantenere la situazione sotto controllo ma il timore di aggressioni aumenta anche se fino ad ora la protesta si è svolta nei limiti dell’educazione della civiltà. Non si segnalano, infatti, incidenti anche se l’esasperazione monta. Busto, promettono dal governo, dovrebbe rientrare in un piano che prevede l’allargamento della struttura carceraria ma i tempi biblici della burocrazia italiana non coincidono con le esigenze di chi è costretto a condividere spazi strettissimi con altre persone in un regime di costrizione carceraria. Pisa: carcere senza fondi, scarseggiano perfino la carta igienica e gli stracci per pulire Il Tirreno, 4 luglio 2011 Nel carcere Don Bosco scarseggiano carta igienica e stracci per pulire, ma anche oggetti per rendere più dignitose le condizioni di detenzione, come palloni da calcio o quotidiani da leggere. Questo il quadro che è emerso da un incontro che i componenti della seconda commissione consiliare hanno avuto all’interno del carcere con il direttore Vittorio Cerri. Attualmente i detenuti presenti nel carcere di Don Bosco sono 376 (erano 415 qualche mese fa) a fronte comunque di una capienza di 250 persone. Situazione resa ancor più difficile, come detto, da necessità urgenti come ad esempio la carta igienica o la carenza idrica nell’estate. Alla luce della visita della commissione, il Pdl ieri ha convocato una conferenza stampa davanti al carcere per consegnare alcuni palloni da calcio e volley per i detenuti. L’occasione per denunciare il voto contrario della seconda commissione ad un loro ordine del giorno che prevedeva uno stanziamento dal bilancio comunale, per rispondere alle richieste del direttore. “Incomprensibilmente il nostro atto di indirizzo è stato respinto - spiegano i consiglieri comunali Filippo Bedini e Riccardo Buscemi a nome dei colleghi del gruppo - . Chiedevamo solo una cifra simbolica da inserire nel bilancio comunale. A questo punto abbiamo deciso di inoltrare il documento in consiglio comunale. Parallelamente abbiamo fatto una piccola colletta per acquistare una dozzina di palloni. Facciamo inoltre un appello - concludono i consiglieri del Pdl - a privati o aziende che volessero donare al carcere alcune cose di cui c’è necessità: carta igienica, ma anche cyclette o un tapis - roulant”. E sul voto contrario in commissione, interviene il presidente Michele Di Lupo: “Ovviamente la competenza di quelle spese spetta all’amministrazione penitenziaria. Noi abbiamo deciso di proporre un ordine del giorno per metà luglio, in cui si cercherà di rendere concreti gli eventuali progetti già in cantiere con la società della salute e le associazioni che operano sul territorio. Come ad esempio la cooperativa di recupero degli ex detenuti che sta attraversando una fase molto difficile”. Bologna: la Uil-Pa denuncia; alla Dozza la Polizia penitenziaria è “appiedata” Comunicato stampa, 4 luglio 2011 “Da sempre il carcere di Bologna è, nell’immaginario collettivo, una delle icone del sistema penitenziario italiano, con il suo carico di sofferenza e palese degrado. Oggi , purtroppo, è anche l’esempio concreto di una situazione logistica caratterizzata dall’assoluta mancanza di mezzi adibiti al trasporto dei detenuti. Questo significa che diversi processi sono a rischio perché potrebbe essere impossibile garantire la presenza dei detenuti nelle aule di giustizia. È un allarme rosso quello lanciato dal Coordinatore Provinciale Uil Pa Penitenziari, Domenico Maldarizzi nel denunciare lo stato del parco automezzi in dotazione al carcere bolognese della Dozza “ Già di per se la disponibilità degli automezzi in dotazione non era sufficiente a garantire le reali necessità per il trasporto detenuti. Da qualche giorno questa disponibilità è ridotta a soli due furgoni, perché gli altri mezzi sono ricoverati in officina in attesa di riparazioni che non possono essere effettuate causa l’ esaurimento dei fondi assegnati. Per le traduzioni ogni giorno occorrono, solo per Bologna, una decina di automezzi per i detenuti che mediamente ogni giorno sono nelle aule di giustizia. È chiaro che in questa situazione si va verso la paralisi e potrebbero saltare molti processi. Non è eresia, quindi, affermare che più di un parco macchine bisogna riferirsi ad un cimitero dei mezzi.” Vorrà dire - sottolinea con ironia Maldarizzi - che la Polizia Penitenziaria dovrà industriarsi in maniera diversa ricorrendo al “girotondo a moto perpetuo” degli automezzi e semmai anche con traduzioni a piedi “ Ciò testimonia, come più volte denunciato dalla Uil, l’inadeguatezza e l’obsolescenza del parco automezzi in dotazione alla polizia penitenziaria. La Uil Pa Penitenziari torna a criticare la politica economica del Governo in tema di sicurezza. “Ogni giorno i politici si attribuiscono meriti che, invece, sono di esclusiva pertinenza delle forze dell’ordine e della magistratura. La verità è che lasciare a piedi i poliziotti penitenziari, rendendo concreta la possibilità che saltino processi, non ci pare si possa definire una politica che aiuta la Giustizia e rafforza la sicurezza. In ogni caso - chiude Maldarizzi - nel derby tra Maroni e Alfano vince con grande scarto il primo. Chissà perché il Ministro degli Interni riesce sempre ad approvvigionarsi di uomini e mezzi, mentre il secondo sguarnisce le frontiere penitenziarie e lascia a piedi i suoi uomini a cui non pagano gli straordinari, le missioni, bloccano i contratti e che spesso sono costretti, tra l’ altro, ad anticipare le spese per il carburante “ Cagliari: detenuto alto 2,10 metri, per lui non si trova un letto e dei vestiti adeguati Ansa, 4 luglio 2011 Non ha un letto adeguato, né vestiario e scarpe adatte alla sua stazza: due metri e dieci centimetri di statura ed una mole imponente. La sua condizione di vita è insostenibile in un ambiente reso ancora più difficile dal sovraffollamento e dal caldo. È la denuncia della presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, Maria Grazia Caligaris, sulla detenzione di un extracomunitario, originario della Mauritania, nel carcere Buoncammino di Cagliari. L’uomo, prima ricoverato nel Centro Terapeutico in seguito a una crisi nervosa durante la reclusione nella colonia penale di Mamone (Nuoro), è stato successivamente alloggiato in una cella con altri cinque detenuti. ‘L’handicap dell’altezza - spiega Caligaris - rende di fatto la permanenza incompatibile con una struttura come quella di Buoncammino. Oltre all’impossibilità di disporre di un letto adeguato alle sue dimensioni, che lo costringe a dormire rannicchiato o addirittura a terra, vi sono problemi legati sia all’uso degli spazi della cella sia a quelli comuni, al vestiario, alle scarpe, e per l’alimentazione che dovrebbe essere adeguata alle necessita”. Il detenuto, fa sapere l’esponente socialista, chiede di essere trasferito in un istituto del Piemonte, regione dove risiedono alcuni parenti. Trento: protocollo d’intesa tra Prap e Provincia, sulla salute in carcere Il Trentino, 4 luglio 2011 Firmato questo pomeriggio dal presidente Lorenzo Dellai con il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Veneto, Friuli e Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, Felice Bocchino, il direttore dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari Luciano Flor e la direttrice del carcere di Trento Antonella Forgione, alla presenza anche dell’assessore alla salute e politiche sociali Ugo Rossi, il Protocollo che definisce le forme di collaborazione tra l’ordinamento sanitario provinciale e l’ordinamento penitenziario. Il Protocollo, sancendo “il principio della leale collaborazione interistituzionale, quale strumento essenziale per l’attuazione dei dettati normativi in tema di sanità penitenziaria”, formalizza l’assunzione delle competenze in materia di salute fra le mura del carcere, da parte della Provincia e all’Apss. Questo conformemente alla norma di attuazione dello Statuto di Autonomia che ha trasferito la materia alla Provincia autonoma. Ci saranno anche celle per non fumatori Il nuovo carcere di Trento, a Spini di Gardolo, dovrà essere dotato di celle per non fumatori. Lo prevede uno dei punti di un protocollo d’intesa firmato oggi a Trento tra il presidente della Provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai, e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per Triveneto, Felice Bocchino, con cui si formalizza l’assunzione delle competenze in materia di salute fra le mura del carcere da parte della Provincia e dell’Azienda sanitaria. Ciò in base alla norma di attuazione dello Statuto di autonomia. Il documento parla di “mantenimento, per quanto possibile, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, dei livelli di capienza regolamentari dei detenuti con l’individuazione di celle per non fumatori”. Il testo riconosce, tra le altre cose, il principio della continuità dei percorsi terapeutici ai detenuti dal momento dell’ingresso nell’istituto penitenziario di Trento e nel caso di trasferimenti in altri istituti, e l’attivazione annuale di programmi di formazione ed aggiornamento congiunti tra il personale dell’amministrazione penitenziaria e del personale dell’Azienda sanitaria. Previsto anche il coinvolgimento, pur nel rispetto delle singole autonomie e competenze, delle realtà territoriali del volontariato e del terzo settore. Velletri (Rm): impianto energia solare alimenta il carcere, risparmi per 20mila € anno in bolletta Adnkronos, 4 luglio 2011 Fare risparmiare soldi ed emissioni allo Stato e contemporaneamente creare professionalità “verdi”. Si tratta di dotare di impianti di solare termico le carceri italiane e di farli realizzare agli stessi detenuti, dopo un’apposita formazione. È l’obiettivo del “Programma Nazionale di Solarizzazione degli istituti Penitenziari”, nato nel 2001, che oggi si è arricchito con l’ultimo impianto completato in ordine di tempo nel penitenziario di Velletri (Roma). Grazie ad un sistema da 200 metri quadri di collettori, il penitenziario risparmierà circa 20mila euro all’anno sulle bollette. A riferirlo è ‘Qualenergia.it’, il portale dell’energia sostenibile che analizza mercati e scenari, sottolineando che all’efficienza energetica si aggiunge così una formazione green per i detenuti da spendere sul mercato. Nella realizzazione dell’impianto sono infatti stati coinvolti 30 detenuti, che hanno così potuto ottenere qualifica professionale di “Installatore e Manutentore di Impianti Solari Termici”. A spiegare i dettagli del progetto è Roberto Salustri di Reseda, la onlus che assieme al Cirps (Centro Interuniversitario di Ricerca per lo Sviluppo Sostenibile) ha collaborato al progetto, promosso dai ministeri dell’Ambiente e della Giustizia. “Il campo solare realizzato - dice Salustri al portale dell’energia sostenibile - ha una grandezza di duecento metri quadri di superficie captante, per una potenza complessiva di 140 kWth ed è stato dotato di un sistema di monitoraggio per permettere di tenere costantemente sotto controllo il suo corretto funzionamento e i benefici prodotti in termini di risparmio energetico”. “In ragione delle grandi dimensioni dell’impianto - prosegue Salustri - si è scelto di utilizzare uno schema impiantistico a bassa portata. Sono stati installati 100 pannelli solari piani a superficie selettiva con un’inclinazione di 30° per massimizzare l’irraggiamento solare. Il suo dimensionamento è stato studiato per coprire il 50% del fabbisogno energetico complessivo annuale dell’istituto”. “L’impianto - continua - è completato da due serbatoi da 5000 litri. La parte restante del fabbisogno sarà invece garantita grazie all’integrazione del sistema solare con la caldaia preesistente”. “In questo modo, - aggiunge Salustri - è stato stimato un risparmio energetico di 180 MWhth, cioè 120 tonnellate di CO2 non immesse nell’atmosfera”. “Inoltre - spiega l’esperto - l’impianto è dotato di un sistema di produzione di elettricità da fotovoltaico per compensare i consumi dei circolatori idraulici, quindi si può dire che l’intero impianto è a emissioni zero”. E ad installare l’impianto sono stati proprio i detenuti. Trenta di loro hanno seguito corsi di formazione sui fondamenti dell’installazione e della manutenzione di impianti solari termici e fotovoltaici per poi essere coinvolti nella realizzazione. Modena: scuola media del carcere rischia la chiusura, intervengono due consiglieri regionali Pd Dire, 4 luglio 2011 No alla smobilitazione della scuola media al Sant’Anna. La richiesta arriva dai due consiglieri regionali modenesi del Pd Palma Costi e Luciano Vecchi. “La scuola - spiegano nell’interrogazione - rappresenta per ogni detenuto una delle poche opportunità di riflessione e di rieducazione, anche perché chi la frequenta consegue titoli di studio con valore legale, utili per espletare attività lavorative”. Per il prossimo anno, invece, tutto ciò è messo a rischio. Attualmente nella Casa circondariale Sant’Anna circa 60 detenuti frequentano ogni giorno le aule della scuola, fino alle 12 e dalle 13 alle 16.30. Il deterioramento della situazione ha iniziato a manifestarsi già quest’anno: le classi di alfabetizzazione sono passate, infatti, da tre a una, le medie da sei a quattro e le superiori da sei a tre. La domanda resta forte: se la legge impone - per motivi di sicurezza - un numero massimo di allievi per classe pari a 12, dagli ultimi controlli “la frequenza effettiva nella scuola media era di 12 - 13 corsisti per classe” mentre “tuttora alla Casa circondariale esiste un elevato numero di domande che gli insegnanti hanno raccolto ma che sono rimaste inevase per carenze d’organico”. Ivrea (To): Uil-Pa; detenuto aggredisce tre poliziotti Ansa, 4 luglio 2011 Un detenuto del carcere di Ivrea di origine marocchina questa mattina ha aggredito e ferito tre agenti penitenziari: ne da comunicazione il segretario generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno. “Il grave episodio di violenza si è consumato - informa il sindacalista - in prossimità dell’Ufficio del responsabile della sorveglianza interna dove il detenuto era stato convocato. Giunto sul posto, senza alcuna ragione apparente, si è scagliato contro il sottufficiale di turno colpendolo con calci e pugni. Anche due agenti accorsi, nell’intento di riportare alla calma, hanno riportato ferite e contusioni”. Ad Ivrea - aggiunge - a fronte di una disponibilità massima di circa 190 posti detentivi, sono ristretti ben 340 detenuti. Il personale di polizia penitenziaria assomma ad appena 145 unità con un organico previsto di 230. È evidente - continua Sarno - che queste violenze si alimentano anche attraverso le inumane, quanto incivili, condizioni di detenzione. Ma questo non può in alcun modo giustificare le aggressioni e i ferimenti dei nostri colleghi a cui esprimiamo sentimenti di vicinanza e solidarietà”. Volterra: da detenuti ad attori, dal 18 al 31 luglio, con il Festival del Teatro Asca, 4 luglio 2011 Compie 25 anni il festival “Volterra Teatro”, legato ad una esperienza di teatro in carcere interpretato da una parte dei reclusi. Dal 18 al 31 luglio prossimi la manifestazione sarà giocata su due piazze; quella storica del carcere, dove si svolgeranno gli spettacoli anch’essi in qualche modo reclusi nel carcere, e dove gli spettatori potranno entrare per vederli soltanto e rigorosamente dalle 14 alle 21. L’altra piazza sarà invece quella storica di Volterra, la Piazza dei Priori, che ospiterà un evento diviso nelle tre serate del 29 - 30 e 31 luglio con un’anteprima ospitata a Pomarance il 27: la Festa della Luce progettata da Denny Rose e realizzata da Sergio Carrubba. ‘La Regione Toscana ha prestato a Volterra Teatro la sua attenzione, artistica e finanziaria fin dalla sua prima edizione, riconoscendo l’importante contenuto di ricerca e sperimentazione che da sempre caratterizza il festival come tutto il lavoro dell’associazione Carte Blanche - ha sostenuto l’assessore regionale alla cultura Cristina Scaletti, presente in compagnia dell’assessore suo omologa della Provincia di Pisa, Silvia Pagnin e da amministratori dei Comuni di Pomarance e Volterra. Le proposte del Festival disegnano sempre con attenzione e passione percorsi significativi, di luoghi e di sguardi sui linguaggi dello spettacolo, con un’attenzione particolare alla differenza: sociale, artistica, culturale. Anche lì nasce la cultura, forse soprattutto lì. Cultura - ha concluso l’assessore - la cui importanza essenziale va riaffermata come prioritaria al di là di ogni valutazione di redditività, e invece legata alla crescita del corpo sociale. Televisione: su Italia 1 l’ex calciatore Ciro Ferrara intervista i detenuti di Secondigliano Italpress, 4 luglio 2011 Domani, in seconda serata su Italia 1, reportage in esclusiva a “Confessione Reporter”, il programma realizzato da Videonews in collaborazione con Mediafriends. Nella prima parte del programma, la giornalista e scrittrice Stella Pende si reca a Gaza e raccoglie l’incredibile testimonianza di due ragazze addestrate non soltanto a sparare o a lanciare bombe ma addirittura a farsi esplodere per la causa. Nella seconda parte della trasmissione, definita “Reportage d’autore”, l’ex calciatore Ciro Ferrara intervista in esclusiva alcuni detenuti dell’inaccessibile carcere di Secondigliano (penitenziario descritto anche da Roberto Saviano nel best - seller “Gomorra”). Ferrara incontra non soltanto pezzi grossi della Camorra, ma anche Antonio Gallea, tra i mandanti dell’uccisione nel 1990 del “Giudice Ragazzino” Rosario Livatino. Droghe: chi si droga fa danni e va curato… di Giovanni Serpelloni (capo Dipartimento politiche antidroga) Italia Oggi, 4 luglio 2011 La posizione ufficiale del governo italiano relativamente alle politiche antidroga, ben espressa nel Piano di azione nazionale approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso ottobre, riconosce prima di tutto che la tossicodipendenza è una malattia prevenibile, curabile e guaribile. Pertanto, tutte le politiche e le strategie sono impostate a riconoscere che tale condizione costituisce, oltre un problema sociale e di sicurezza, anche un serio problema di sanità pubblica che riguarda non solo la salute delle persone dipendenti dalle droghe, ma anche terze persone che possono venire danneggiate da comportamenti a rischio mediante, per esempio, la guida di autoveicoli o lo svolgimento di lavori che comportino rischi per terzi. Assumere sostanze stupefacenti non può essere considerato come facente parte dei diritti individuali della persona, proprio per le conseguenze che questo comportamento può avere anche sui diritti degli altri. Contemporaneamente, azioni illegali quali la produzione, il commercio e lo spaccio delle sostanze stupefacenti, costituiscono un rilevante problema di sicurezza pubblica a cui è necessario dare risposte concrete e permanenti in termini di prevenzione e contrasto, senza criminalizzazione delle persone tossicodipendenti per il loro uso di sostanze (così come specificatamente già previsto dalla normativa italiana in materia). Ci preme inoltre sottolineare che i dati contenuti nella relazione al Parlamento presentati nei giorni scorsi, sono suffragati da indagini scientifiche accurate e realizzate da università di alto livello (come ad esempio il Centro interdipartimentale di biostatistica e bioinformatica dell’Università degli studi di Soma Tor Vergata), indipendenti e specializzate su indagini nel campo della droga, con numerosità campionarie elevatissime, (esempio, 32.389 studenti di età compresa tra i 15 - 19 anni) che non hanno pari in Italia. I nostri dati, riconfermano la validità delle politiche antidroga, che hanno registrato in questi ultimi tre anni una riduzione persistente dei consumi di sostanze stupefacenti (soprattutto nelle giovani generazioni), una riduzione della mortalità e della diffusione delle infezioni da Hiv e un contenimento delle epatiti. Contemporaneamente si è assistito ad un positivo aumento degli utenti in trattamento, segno questo di una maggiore consapevolezza della necessità di interrompere il consumo di droghe. Il beneficio delle azioni di deterrenza e di controllo attivate, si evidenziano anche nella riduzione dei morti e dei feriti in incidenti stradali alcol e droga correlati, oltre che alla diminuzione delle infrazioni per la guida sotto effetto di sostanze stupefacenti e/o alcol. Anche l’introduzione del drug test dei lavoratori con mansione a rischio ha rilevato una riduzione dei soggetti risultati positivi. Un ulteriore segno positivo deriva anche dalla continua riduzione delle persone ricoverate nei reparti ospedalieri per vari motivi, sempre droga correlati. Il sistema generale di contrasto al traffico ed allo spaccio ha fatto registrare, inoltre, la positiva diminuzione del numero dei detenuti per violazione del dpr 309/90, e contestualmente l’aumento dei tossicodipendenti usciti dal carcere in applicazione delle misure alternative. Quanto al report della Global commission, dobbiamo ancora una volta ribadire che, non si tratta di un documento Onu, ma di un report elaborato da una associazione di persone (la maggior parte di esse in pensione) che hanno espresso la loro opinione. Tale documento pertanto, così come dichiarato da Yuri Fedetov, direttore esecutivo delTUnodc a Roma nelle settimane scorse, non ha trovato alcuna accoglienza nelle sedi istituzionali delle Nazioni Unite e neppure da parte dei 192 Stati membri durante l’assemblea che si è svolta recentemente a New York. Poiché il documento della Global commission esprime chiare posizioni antiproibizioniste, che invocano la legalizzazione delle droghe, crediamo che questa non sia effettivamente la politica e la posizione da seguire per una prevenzione efficace oltre che per curare e riabilitare le persone tossicodipendenti. Venezuela: dietro le sbarre ogni giorno muore un detenuto di Lucia Capuzzi Avvenire, 4 luglio 2011 I numeri sono ormai noti: l’anno scorso, nelle carceri venezuelane, sono morti in 476. Le cifre, però, in questo caso non rendono l’entità della tragedia”. Padre Leonardo Grasso - missionario italiano da anni in Venezuela dove ha fondato l’associazione Icaro che si occupa dei prigionieri italiani nel Paese - fa una pausa. Poi riprende e scandendo ogni parola con lentezza, afferma: “Ogni giorno, dietro le sbarre, viene massacrato in media almeno un detenuto”. Una vittima in più in un Paese ormai abituato alla violenza. Con quasi 20mila omicidi nel 2009, la Repubblica bolivariana è uno dei luoghi più letali dell’America Latina. E le carceri sono la “metafora perfetta” del clima di insicurezza che si respira fuori. Nei 32 “agueros negros” (buchi neri, come vengono chiamati i penitenziari) si consuma una strage quotidiana quanto invisibile. A meno che una rivolta - come quella del “Rodeo” - non catapulti le prigioni, per qualche giorno, sulla ribalta nazionale. E internazionale. Padre Leonardo, lei che conosce bene la situazione del Rodeo - dato che lo visita tutte le settimane - può dirci che cosa sta accadendo? È in corso l’ennesima rivolta. A infiammare gli animi dei prigionieri è in genere qualche incidente. Le cause vere però sono sempre le stesse. Da una parte, le lotte interne tra i “pranes” - capi delle violente gang che esercitano un potere parallelo alle autorità - per il dominio del carcere. E del traffico di droga, armi ed estorsioni che vi si svolge. Dall’altra parte, le condizioni disumane in cui vivono i detenuti: solo i più fortunati hanno un materasso per dormire, gli altri si sdraiano sul pavimento. In tre anni la popolazione carceraria è raddoppiata, arrivando a 49mila detenuti. Di questi, l’80% è in attesa di giudizio. Lo Stato ha costruito, però, solo due padiglioni da 800 posti ciascuno. I fatti di quest’ultima rivolta sono confusi. I detenuti denunciano addirittura centinaia di morti nei tentativi delle autorità di riprendere il controllo della prigione... 11 governo mantiene il segreto assoluto. Nessun giornalista - tranne quelli della tv di Stato, vicina all’esecutivo - può avvicinarsi a meno di un chilometro dalla prigione. E la mancanza di informazioni getta nella disperazione i familiari. In centinaia sono ammassati nei paraggi della struttura... Che cosa chiedono? Prima di tutto che venga pubblicata la lista dei morti: finora sono stati resi noti solo sette nomi. E il diritto a visitare i 3.500 prigionieri trasferiti dal “Rodeo I” in diversi penitenziari la settimana scorsa, dopo che i militari hanno ripreso in parte il controllo del padiglione. Ma com’è la situazione ora al Rodeo? Al “Rodeo I” ci sono ancora 1.300 detenuti asserragliati nella “Torre”, il braccio di massima sicurezza, che non vogliono cedere. Di questi non si sa niente. Qui ci sono anche cinque italiani, di cui non abbiamo notizie. Il “Rodeo II”, coi suoi 2.600 detenuti, è ancora in rivolta. E in altre sette carceri, i detenuti hanno iniziato uno sciopero della fame per solidarietà. Un tentativo disperato di attirare l’attenzione nazionale, su un problema - quello delle “carceri - inferni” - che troppo a lungo si è fatto finta di non vedere. Iraq:12mila detenuti nelle carceri, 291 condanne capitali dall’inizio del 2011 Agi, 4 luglio 2011 Sono 12000 i detenuti nelle carceri irachene: a comunicarlo è stato il capo del Consiglio Supremo Legislativo, Midhat al-Mahmoud. Secondo i dati diffusi da al - Mahmoud, in questa prima metà del 2011 sono state emesse 291 condanne alla pena capitale, a fronte delle 283 del 2010. Brasile: riforma Codice penale; scarcerati 183.000 detenuti, visite in intimità per reclusi gay Ansa, 4 luglio 2011 A partire da oggi i reclusi gay di tutto il Brasile che hanno registrato il nome del compagno presso le autorità carcerarie, hanno il diritto a periodiche visite in cui potranno appartarsi in intimità. La misura è stata pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale. In precedenza ciò era permesso solo in alcuni Stati, come quelli di Rio de Janeiro e di Pernambuco. L’estensione a tutto il Paese di tale possibilità è stata stabilita dal Consiglio nazionale per la politica criminale e penitenziaria che dipende dal ministero della giustizia. Lo stesso dicastero ha informato che, in base ad una nuova legge che ha riformato il Codice Penale, a partire da oggi saranno rimessi in libertà almeno 183.000 reclusi, accusati di reati considerati lievi (dall’omicidio colposo in un incidente di transito al furto e al possesso illegale di armi) e non ancora condannati.