Giustizia: problemi delle carceri inesistenti nei Tg, solo 1% nei primi 6 mesi dell’anno Agi, 30 luglio 2011 È stata pari ad appena l’uno (1) per cento nei primi sei mesi di quest’anno l’attenzione dei tg italiani, senza distinzione tra servizio pubblico e quello delle tv commerciali o private, sul tema della giustizia e ancor più delle carceri. Un’attenzione di fatto inesistente. Un dato che agli stessi addetti ai lavori appare difficile definire, e però così l’ha offerto ieri la tavola rotonda a Palazzo Giustiniani organizzata dai Radicali sul tema “Il senso e il luogo comune su giustizia e carceri: il ruolo dell’informazione”. C’erano Corrado Calabrò, presidente dell’Agcom; Stefano Folli, editorialista del Sole24Ore; Bianca Berlinguer, direttore del Tg3; Mario Morcellini, docente a La Sapienza, preside della facoltà di Scienze della Comunicazione; Gianni Betto, del centro di ascolto informazione trelevisiva, e Marco Pannella, mentre il dibattito è stato moderato da Mario Staderini, segretario dei Radicali Italiani. Proprio da Gianni Betto è venuto il dato sullo spazio che i tg italiani dedicato alla problematica giustizia e carceri. Il ricercatore ha messo in guardia dal facile negare che quel dato sia vero per il solo fatto che i telegiornali riportino notizie e commenti su vicende eclatanti: “Quello che si vede e si ascolta è da intendersi come notizia più politica che prettamente legata al tema. Pensiamo al Rubygate o ad altre vicende che coinvolgono esponenti politici, se ne parla tanto solo perché ci sono i politici di mezzo e per parlare di loro in un verso o nell’altro. Ma il tema carceri in sé viene accantonato, come pure il tema della giustizia in Italia, al di là di leggi ad personam o via dicendo”. A differenza invece di quanto accade per la cronaca nera in sé. Anche Morcellini ha difeso questa distinzione di fondo, aggiungendo che in Italia c’è “una ipertrofia della cronaca nera, in nessun altro Paese accade. E al punto in cui siamo non basta che non ci siano approfondimenti per decongestionare l’attenzione sulla cronaca nera”. Il docente ha evidenziato che “è un problema dell’informazione, e occorrerebbe dibattere su questo”. Quindi ha offerto un’immagine che - se tradotta in realtà - potrebbe rimettere un po’ le cose a posto: “Il potere funziona quando c’è il tiro alla fune equilibrato sui temi”. Stefano Folli ha parlato di “Paese disattento” e di “involuzione sull’argomento”, mentre invece “bisognerebbe raccontare il Paese reale, il che comporta una rigenerazione complessiva non solo del giornalista ma anche della politica”. E Corrado Calabrò, nel sottolineare che tra le battaglie civili dei Radicali vi è quella non secondaria del pluralismo, che pure vede protagonista l’Agcom “pressoché tutto l’anno”, ha ricordato che “il dibattito su informazione, riservatezza e giustizia interessa indubbiamente le fondamenta stesse della democrazia nel nostro Paese”. E a proposito di tv, Calabrò ha ricordato che sebbene la dieta mediatica degli italiani cresca nel consumo di tutti i media, “un ruolo chiave è rappresentato ancora dalla televisione con il 97,4 per cento di consumo. Le immagini televisive orientano l’opinione pubblica, suscitano consensi e dissensi, determinano scelte politiche, economiche, finanziarie. La rappresentazione mass-mediatica si accredita come “là realtà, con il paradosso che la verità reale diventa, rispetto a quella del video, secondaria, irrilevante; da pagine interne, secondo il gergo dei giornalisti”. Calabrò ha quindi ricordato che sempre più i processi giudiziari si trasformano in processi mediatici, ovvero programmi tv di grande appeal “tendono a trasmettere in forma spettacolare vere e proprie ricostruzioni di vicende giudiziarie in corso, impossessandosi di schemi, riti e tesi tipicamente processuali, che vengono riprodotti con tempi, modalità e linguaggio propri del mezzo televisivo, che è un linguaggio sincopato, non funzionale all’argomentazione”. Si crea così un foro mediatico alternativo alla sede naturale del processo, “dove si assiste a una specie di rappresentazione paraprocessuale (a volte perfino con l’impiego di figuranti) che tende a pervenire, con l’immediatezza propria della comunicazione televisiva, ad una sorta di convincimento pubblico, in apparenza degno di fede, sulla fondatezza o meno di una certa ipotesi accusatoria”. In tal modo la televisione “rischia seriamente di sovrapporsi alla funzione della giustizia”, mentre “l’instaurarsi di una corretta deontologia professionale nella rappresentazione della giustizia in tv non è un cammino finale, ma la democrazia esige che si progredisca nel rispetto delle libertà, che devono essere diritto intangibile di tutti”. Bianca Berlinguer ha ricordato che il suo Tg3 dedica poco spazio alla cronaca nera, “per scelta”, e però quando l’argomento è toccato ecco che la curva degli ascolti sale. Quella stessa curva degli ascolti “scende però quando si parla di carceri, c’è disaffezione del Paese su questo argomento, non paga l’informazione sulle carceri. Se però potessimo entrare in queste strutture, farle vedere ai telespettatori, qualcosa forse cambierebbe, forse il telespettatore si interesserebbe a questo problema. Le immagini aiutano”. Infine Marco Pannella: il suo è stato un intervento tutto incentrato sulla giustizia, sulle condizioni di vita dei detenuti, sull’arretratezza dell’Italia. E a margine aveva sottolineato che “amnistia e indulto sono il presupposto tecnico per rientrare nella legalità europea costituzionale”. Giustizia: Agcom; serve più informazione sul carcere. Pannella riprende sciopero di fame di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 luglio 2011 Corrado Calabrò, presidente dell’Agcom, con una delibera ufficiale emessa la settimana scorsa ha richiamato le reti televisive italiane per la mancata informazione sulle carceri italiane e sull’iniziativa nonviolenta di Marco Pannella tesa alla soluzione dei problemi della giustizia italiana. Lo ha annunciato ieri intervenendo nell’ultima sessione del convegno organizzato sul tema dai Radicali a Palazzo Giustiniani con il patrocinio del Senato e con l’Alto patronato del capo dello Stato. A conclusione della due giorni di dibattito sulla proposta radicale di amnistia per riportare il sistema penale in condizioni minime di legalità, si è discusso del ruolo del giornalismo nella promozione del cambiamento in una società democratica. E il giudizio sull’attuale mondo dell’informazione è senza appello. I dati presentati da Gianni Betto, del Centro d’ascolto informazione televisiva, parlano chiaro: nel primo semestre 2011 sul totale delle notizie diffuse dai Tg Rai, il 23% era dedicato alla politica, il 15% alla cronaca giudiziaria e nera, e solo l’1% alla giustizia nel suo insieme comprese le condizioni carcerarie. Il deputato Pd Marco Beltrandi riferisce che in Commissione vigilanza Rai si è discusso del problema, nulla di più. “Le carceri non fanno audience”, spiega Bianca Berlinguer, direttore del Tg3, una delle rare eccezioni. È un problema culturale: se il carcere diventa discarica umana nessuno ha voglia di guardare nell’immondizia. Berlinguer coglie nel segno quando accusa: “Il problema è che le carceri non sono aperte ai giornalisti. Niente riprese, e le visite solo dove vogliono i direttori”. A conclusione, Marco Pannella trae un bilancio positivo sul convegno soprattutto grazie agli interventi di Napolitano - che ha definito “un eufemismo” dire che le condizioni delle carceri “sono disumane” e ha aperto alla proposta dell’amnistia e dell’indulto - e di alte cariche istituzionali e politiche che hanno usato parole non rituali per sollevare l’allarme giustizia e indicare le possibili soluzioni. Ma proprio perché il messaggio di Napolitano è un forte impulso a segnare un punto di svolta, Pannella rilancia e annuncia che dai primi di agosto riprenderà lo sciopero della fame. “In questi giorni abbiamo capito che su una serie di misure, come la depenalizzazione di reati minori, la decarcerazione e perfino l’amnistia, è possibile un accordo bipartisan”, spiega Rita Bernardini che riprenderà a digiunare insieme a Pannella. “Non vogliamo aspettare un eventuale nuovo governo più disponibile. Anche il divorzio sembrava irrealizzabile”. Giustizia: il doppio binario per ridurre il sovraffollamento di Mauro Palma Il Manifesto, 30 luglio 2011 Nel recente Green Paper presentato dalla Commissione europea sull’applicazione della giustizia penale per quanto attiene la detenzione, è riportata una tabella con le percentuali di coloro che non sono ancora definitivi. Tale percentuale è del 43,6% e, con l’esclusione del Lussemburgo, è la più alta dei 27 Paesi; la seconda, distaccata, è Cipro con il 38,4%. Questo tema, anche al netto dei problemi relativi alla durata dei nostri processi e alla piena garanzia della presunzione d’innocenza lungo i tre gradi di giudizio, apre la riflessione doverosa sul ricorso alla misura cautelare detentiva e sulla sua durata. Tuttavia la riflessione seria sull’affollamento carcerario non può essere ristretta alla ricerca di misure di attenuazione che, sinteticamente, facilitino l’uscita dal carcere, attraverso misure varie, e quindi incidano sui flussi uscenti. Né la soluzione può essere affidata al sistema penitenziario che non è attore bensì vittima della situazione, altrove determinata. La riflessione deve rivolgersi anche all’esame dei flussi in entrata e alla ricerca del loro contenimento ai casi di assoluta necessità. Sappiamo bene che le prime due ipotesi che il codice prevede, il pericolo concreto per l’acquisizione o la genuinità della prova o il pericolo concreto di fuga hanno rispettivamente la prima una connotazione limitante temporale e la seconda una spaziale; quindi possono e dovrebbero essere o superate in un ragionevole tempo o essere progressivamente sostituite con ragionevoli misure di controllo. Resta la terza ipotesi, tendenzialmente prognostica, cioè centrata sulla pericolosità del soggetto, che proprio per questa sua connotazione deve essere tenuta rigorosamente al riparo dall’influenza della pressione mediatica, da connotazioni di esemplarità nonché da elementi impropriamente inquisitori. Il tutto va rigorosamente tenuto nei limiti della necessità. Queste indicazioni, certamente condivisibili e indirizzate a tutti gli Stati, assumono, come già detto, una rilevanza specifica nel contesto del nostro Paese, data l’incidenza numerica che la custodia cautelare in carcere ha sul totale della popolazione detenuta e sulla possibilità concreta di organizzare una vita detentiva significante. Quindi, l’intervento urgente che oggi si richiede ai sistemi detentivi sovraffollati, oltre a quello di garantire comunque condizioni rispettose della dignità delle persone, è quello di incidere in entrambe le direzioni: quella della riduzione degli ingressi con l’adozione di altre misure ugualmente di contenimento e controllo, ma non direttamente privative della libertà, e quella dell’accentuazione delle possibilità di percorsi che attenuino la misura detentiva riportando verso quel riannodare il legame con la società, reciso dalla commissione del reato, che possa altresì diminuire il rischio di recidiva. Giustizia: sorpresa! l’indulto non era sbagliato… le recidive sono diminuite di Luigi Manconi L’Unità, 30 luglio 2011 In cinque anni solo il 33,92% dei detenuti beneficiati dal provvedimento è rientrato in cella. Mentre la quota di chi non ne ha usufruito è al 68,45% Gli italiani tornati a commettere reati superano di 13 punti gli stranieri E se, alla resa dei conti, il tanto bistrattato indulto del 2006 si rivelasse un provvedimento parziale, ma - oltre che sacrosanto - assai utile? Una misura, gravata da limiti e carenze, ma efficace e, soprattutto, molto meno nociva sul piano sociale di quanto si sia detto e scritto. In effetti, quel provvedimento di clemenza è stato uno dei più controversi e diffamati dell’intera legislazione repubblicana. Approvato, come prescrive la norma dai due terzi del Parlamento (oltre l’80%), è stato misconosciuto dalla gran parte di coloro che lo votarono. Mai una legge che aveva avuto tanti padri e madri era stata così repentinamente rinnegata dai legittimi genitori. Molte le ragioni. In primo luogo, il carattere parziale del provvedimento, non accompagnato da una contestuale amnistia (che avrebbe potuto ridurre il numero dei procedimenti e alleviare il lavoro dei giudici), e non sostenuto da adeguate misure di accoglienza e di integrazione degli scarcerati. Ma soprattutto. a pesare sull’opinione pubblica e a determinare quel ripudio da parte del legislatore furono due fattori: l’incapacità di reggere l’impatto che i reati commessi dagli indultati avrebbe avuto sul senso collettivo di insicurezza e la contestuale e irresponsabile campagna mediatica. È decisivo ricordare che, dal 2006 al 2007 (periodo che comprende i mesi successivi all’approvazione dell’indulto) l’informazione televisiva nazionale sulla cronaca nera passa dal 10,7% al 23,7% (come ha documentato il centro di ascolto di Gianni Betto). Inevitabilmente un simile affollarsi di “notizie criminali” crea una sensazione di ansia collettiva e di allarme sociale, tali da esigere l’individuazione di una causa (l’indulto, appunto) e la demonizzazione di quanti avrebbero contribuito a determinarla (sia i parlamentari che vollero quella misura sia chi di essa beneficiò). Ma, a distanza di 5 anni, una ricerca condotta da Giovanni Torrente e da chi scrive per conto di A Buon Diritto onlus, mostra una realtà tutt’affatto diversa: e quanto quella percezione di insicurezza generalizzata fosse alterata e frutto di manipolazione. La premessa è che indulto e amnistia sono, per loro stessa natura, misure di eccezione per un tempo d’eccezione. Ovvero provvedimenti di emergenza per una situazione estrema, in attesa che si ponga mano alle riforme strutturali: le uniche, come è ovvio, che possano risolvere davvero le grandi questioni dell’amministrazione della Giustizia e dell’esecuzione della pena. Ma intanto esaminiamo le conseguenze del provvedimento d’eccezione del 2006, con riferimento al principale allarme allora diffuso: “escono dal carcere e tornano a delinquere”. La ricerca prima ricordata affronta di petto proprio questo nodo, permettendo di verificare come quella misura, pur con tutti i suoi limiti, ebbe un esito positivo. L’indulto ridusse l’entità della popolazione detenuta per un periodo di tempo sufficiente a impedire che il disastro si traducesse in una tragedia e che, dai quasi 62mila reclusi, si arrivasse a 80mila. Ma il risultato più significativo è forse un altro. La recidiva dei beneficiari dell’indulto si attesta sul 33,92%. Una percentuale elevata ma da confrontare con quella relativa alla recidiva tra quanti non hanno beneficiato dell’indulto. L’unica rilevazione sul lungo periodo al riguardo è quella dell’Ufficio Statistico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che he mostrato come il 68,45% dei soggetti scarcerati nel 1998, nei successivi 7 anni, sia rientrato in carcere una o più volte. Siamo dunque a una percentuale più che doppia. E questo conferma una tesi avanzata verso la fine degli anni 70 dal Centro Nazionale di prevenzione e difesa sociale presieduto da Alfonso Beria d’Argentine: i provvedimenti di clemenza approvati in quegli anni non avrebbero provocato un aumento della recidiva. Ma la nostra ricerca riserva altre sorprese. Intanto va notato (pur se si tratta di dati ancora parziali) che la recidiva cala ulteriormente tra coloro che beneficiano dell’indulto mentre si trovano sottoposti a una misura alternativa al carcere. In altre parole, scontare la pena in condizioni meno afflittive e meno disumane può contribuire alla riabilitazione sociale (e a non reiterare il reato). Ancora. Il tasso di recidiva fra gli italiani è di circa 13 punti percentuali superiore a quello degli stranieri. Quest’ultima circostanza svela, in maniera inequivocabile, quanto gli stereotipi - e le campagne politiche fondate sugli stessi - possono avere le gambe davvero corte. P.S. Per riprendere il discorso sulle riforme strutturali, che vadano oltre lo stato d’emergenza, è utile partire dall’intervista rilasciata dal nuovo ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma al Corriere della Sera. Il ministro afferma la necessità di “un programma di depenalizzazione dei reati minori” e contro “1’eccessiva criminalizzazione”: il fatto, cioè, “che le leggi prevedono la sanzione penale per violazioni” che andrebbero punite con “sanzioni amministrative o civili”. Parole sante. Che coincidono puntualmente con quanto è stato raccomandato, con inappuntabili argomenti, dalle relazioni conclusive delle Commissioni per la riforma del Codice penale, presiedute prima da Carlo Nordio (centro destra) e poi da Giuliano Pisapia (centro sinistra), su incarico rispettivamente del governo Berlusconi (2001-2006) e del governo Prodi (2006-2008). Ma è impossibile non far notare al ministro Nitto Palma che il governo del quale entra a far parte ha operato in senso esattamente opposto. Valga un esempio: illeciti amministrativi, quali erano fino a due anni fa, ingresso e soggiorno irregolari in Italia sono stati trasformati in fattispecie penale, con relativa detenzione. Il che ha portato in cella migliaia e migliaia di stranieri, responsabili di “violazioni” che andrebbero punite, al più, “con sanzioni amministrative o civili”. Ecco una manifestazione di “eccessiva criminalizzazione” che, oltre a gridare vendetta davanti a Dio e agli uomini, incrementa il sovraffollamento del sistema penitenziario. Con esiti che sono sotto gli occhi di chi li vuole vedere. Giustizia: bulimia carceraria, ma solo per i poveri; impunità, ma solo per i potenti di Giovanni Russo Spena Liberazione, 30 luglio 2011 Il senato ha ieri votato la fiducia ad un ennesimo provvedimento personale e privato di Berlusconi, scardinando di fatto il sistema processuale con la legge “allunga processi” (ma non occorreva velocizzare i tempi del processo?); ancora una volta siamo di fronte ad un provvedimento predatorio, che assicura l’impunità ai potenti fomiti di buoni avvocati. Ha ragione Casson il quale ha osservato che, con questa legge, che in realtà si riferisce al processo-Ruby, la difesa, per allungare i tempi e giungere alla prescrizione, “può convocare come testimoni tutte le escort che operano a Milano”: schizofrenia vergognosa delle leggi ad personam. La nostra amarezza è lenita dal fatto che, a cinquanta metri dall’aula del Senato, si svolgeva un importante convegno sulla condizione carceraria, fortemente voluto da Marco Palmella (a cui va dato il merito di aver tenuto alto il tema anche con 91 giorni di sciopero della fame). Nel corso di questo convegno, tra l’altro, il Presidente della Repubblica ha pronunciato parole molto serie, che sembrano tratte da documenti del nostro partito e da editoriali del nostro giornale: “nelle carceri italiane a migliaia vivono in condizioni disumane e gli ospedali psichiatrici giudiziari sono un orrore, inconcepibile in un paese civile. Questa situazione ci allarma ed umilia di fronte all’Europa. Bisogna trovare soluzioni politiche”. E va dato atto che, per impulso della commissione presieduta da Ignazio Marino, l’altro giorno i Nas dei Carabinieri hanno sequestrato alcune aree dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino in Toscana e di quello di Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia (49 celle per complessive 84 persone). Si tratta di una prima iniziativa, ma di grandissimo rilievo, che compie un passo decisivo, nella direzione da noi sempre auspicata, di chiusura della vergogna degli ospedali psichiatrici giudiziari (il cosiddetto “ergastolo bianco”). Ma la politica è muta in queste ore, perfino di fronte all’appello del Presidente della Repubblica e di alte autorità istituzionali, oltre che delle commissioni europee. Parlano solo, come al solito, i nazisti della Lega padana per rifiutare le parole di Napolitano partendo dalla loro propagandistica bulimia carceraria. La politica italiana e il governo in primo luogo (garantista con i potenti e feroce giustizialista sicuritario con i poveri e i migranti) hanno perso di vista la centralità della dignità della persona e la concezione costituzionale della pena come reinserimento sociale. Il governo, anche in questo campo, è responsabile della distruzione dei valori costituzionali. Se il carcere è diventato classista, continuità e proiezione del degrado metropolitano, tre leggi che nascono da ossessioni ideologiche sono colpevoli: la legge contro i migranti; la legge contro i tossicodipendenti; la ex Cirielli sulla recidiva. Occorre sconfiggere il partito della proibizione, dello Stato etico, dell’omofobia, del patriarcato, dietro cui si cela il volto feroce della giustizia di classe. Il sovraffollamento carcerario non è ‘ una calamità naturale, ma un effetto voluto dagli “imprenditori della paura” che indirizzano le insicurezze sociali crescenti contro i migranti e i poveri. La povertà è diventata un reato e, quindi, di conseguenza, il carcere è diventato struttura statuale di controllo penale sul territorio: viene abbattuto lo Stato sociale, viene, nel contempo, dilatato lo Stato penale. Abbiamo lanciato, nelle nostre campagne degli ultimi anni, parole d’ordine come “diritto penale minimo”, come ci ha insegnato Ferrajoli, “depenalizzazione, decarcerizzazione”. Ci fa piacere che il Presidente Napolitano abbia espressamente parlato di “depenalizzazione”. La politica è ora obbligata a rispondere. Noi continuiamo a chiedere l’abolizione della Bossi-Fini della Fini-Giovanardi, della ex Cirielli, l’abolizione dell’ergastolo (anche quello ostativo), l’introduzione nell’ordinamento del reato di tortura e della figura del garante dei detenuti. Il carcere deve ritornare ad essere sanzione di ultima istanza; occorre sperimentare maggiormente, come avviene in tutta Europa, sanzioni detentive non carcerarie e anche pene non detentive. L’amnistia e l’indulto (che Pannella propone) possono essere un traino obbligato ed immediato: “l’amnistia è un atto formale e controllato, mentre, in realtà, c’è la prescrizione che dilaga. In dieci anni un milione e settecentomila prescritti”. Cioè l’amnistia solo per i potenti. Giustizia: lo sfascio degli Opg; nessuna assistenza, sporcizia e allarmi antincendio fasulli di Luciana Cimino L’Unità, 30 luglio 2011 “Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono un estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi paese appena civile” parola di Napolitano. Nei giorni scorsi sequestri negli Opg di Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto. Un primo passo verso il definitivo superamento degli Opg, gli ospedali giudiziari, una vergogna nazionale, tanto che anche Giorgio Napolitano ieri li ha definiti un “estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi paese appena civile”. Grazie al lavoro della Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale, presieduta dal senatore del Pd Ignazio Marino, mercoledì sera sono stati sequestrati dai Nas diversi locali degli ospedali psichiatrici giudiziari di Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto. Un’operazione, portata avanti ai sensi dell’art. 82 della Costituzione, “storica” perché è la prima volta che succede e perché mira al superamento completo di queste strutture. La delibera della Commissione è arrivata dopo l’ennesimo blitz di Marino e degli altri membri. Le condizioni riscontrate hanno ¦ dell’inverosimile: detenuti-pazienti costretti a dormire accanto alle proprie feci, privati delle cure basilari ma imbottiti di psicofarmaci per sedarli, legati al letto, nessuna pulizia delle stanze, acqua corrente mancante, allarmi antincendio fasulli e quindi vite messe a rischio anche per una sigaretta accesa. Non è tutto perché la Commissione ha fissato anche dei paletti per l’adeguamento delle strutture: i sistemi antincendio non funzionanti devono essere sostituiti entro 15 giorni e l’intera struttura, quindi anche delle parti non sequestrate, deve rispondere ai requisiti minimi previsti dalle leggi nazionali entro 180 giorni. Trascorso questo periodo, la commissione si riserva di procedere al sequestro dell’intero Opg. “Non si poteva più attendere per dare condizioni di dignità a persone chiuse negli Opg” ha detto Marino. E l’operazione ha avuto il plauso del Presidente della Repubblica: gli Opg sono “strutture pseudo ospedaliere che solo recenti coraggiose iniziative bipartisan di una commissione parlamentare stanno finalmente mettendo in mora”. Si rivolge direttamente al nuovo ministro della Giustizia, Nitto Palma, il presidente di “Antigone” Patrizio Gonnella: “Spero che i sequestri agli Opg siano un segnale per il nuovo ministro affinché dica esplicitamente che queste strutture vanno ripensate”. Di “intervento indispensabile” parla anche il Comitato No Opg, mentre per la Cgil “non bisogna fermarsi ai casi più clamorosi ma andare fino in fondo e abolire definitivamente gli Opg”. E a questo mira il documento presentato dai relatori Saccomanno (Pdl) e Bosone (Pd) e approvato all’unanimità dalla Commissione. Come spiega ancora Marino, “occorre mettere la parola fine a quelle strutture che non rispettano dignità delle persone e costituiscono una grave lesione al dettato costituzionale. Bisogna cambiare la legge che sembra un’emanazione del codice Rocco degli anni 30 che fa in modo che se una persona entra lì dentro rischia di non uscire più, “l’ergastolo bianco”, da allora è solo cambiata l’insegna, nient’altro”. “L’obiettivo - continua Marino - è superare gli Opg in questa legislatura”. Giustizia: l’estremo orrore che vive ancora negli ultimi manicomi criminali di Riccardo Arena Il Riformista, 30 luglio 2011 Opg. Sono ancora sei in Italia, ospitano 1.400 persone. L’indignazione espressa dal capo dello Stato. Condizioni igienico-sanitarie e cliniche insufficienti, degrado generalizzato. Ieri i Nas hanno sequestrato alcune aree delle strutture di Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto. “Estremo orrore”. Così il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha definito la realtà degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Più noti come manicomi criminali. Il carcere dei pazzi. “L’estremo orrore”. Ed infatti è orrendo (incivile non basta!) che in strutture della Stato si costringano persone malate a vivere nel più assoluto abbandono. Nel più assoluto degrado. Persone malate e non curate, chiuse in celle sporche, maleodoranti e sovraffollate. Celle dove ci sono persone stordite e annebbiate per l’abuso di psicofarmaci. Celle dove c’è chi sbatte la testa contro il muro per la disperazione. Celle dove c’è chi si fa i bisogni addosso perché non sa più cosa sta facendo. Celle di manicomi criminali dove ogni tanto qualcuno esce. Ma non per essere liberato o curato. No. Esce per essere messo su un letto di contenzione. Uno strano letto. Fissato a terra, ha un buco nel materasso per fare i bisogni e, ovviamente, è fornito di cinghie per legare il “paziente”. “Paziente” che resta lì legato per giorni e giorni: sei, nove ed anche quindici giorni. La chiamano cura. Benedetto, detenuto nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, in una lettera scrive: “Io mentre ero legato al letto di contenzione sono stato preso a pedate perché avevo fatto la cacca e non volevano cambiarmi il secchio. Ma ho visto altri essere maltrattati perché chiedevano solo di poter mangiare. Tanti, dopo sei o otto giorni passati su quel letto, non si rialzano più come erano prima. Anche io, dall’ultima volta che m’hanno legato, ci ho messo mesi a riprendermi e ancora mica sto tanto bene!”. Già, e chi starebbe bene dopo un trattamento simile? “Estremo orrore”. In tutta Italia sono sei questi Opg. Sei strutture che detengono circa millequattrocento persone malate e maltrattate. Sei strutture, vecchie e fatiscenti, dove il trattamento sanitario è a dir poco assente. Non a caso ieri i Nas (Nuclei antisofisticazioni e sanità) di Firenze hanno sottoposto a sequestro ventuno celle e la stanza dei letti di contenzione dell’Opg di Montelupo Fiorentino. Motivo: carenza di sufficienti condizioni igienico-sanitarie e clinico-assistenziali. In altre parole, in quel reparto, e forse non solo in quell’Opg, si fa di tutto tranne che curare le persone malate. Ma, domanderete, se l’orrore negli Opg è così estremo, che soluzione può adottare la maggioranza di governo? La soluzione che conserva nel cassetto dal giugno del 2002. Dai tempi del secondo governo Berlusconi. La soluzione indicata dal professor Vittorino Andreoli che è stato incaricato dall’allora ministro della Giustizia, Roberto Castelli, di elaborare uno studio di riforma degli Opg. Uno studio che, giustamente, è giunto alla conclusione di abolire gli attuali Opg e di creare diverse strutture, a dimensione d’uomo, distribuite in ogni regione. Nove anni fa problema e soluzione erano ben presenti al governo Berlusconi. Eppure da allora nulla è stato fatto. Nessuna iniziativa concreta è stata presa per debellare “l’estremo orrore”. L’orrore assassino che, dal 2002 ad oggi, ha determinato la morte di sessantaquattro persone rinchiuse nei manicomi criminali. La causa? L’indifferenza della politica. Giustizia: Pdl; ripristinare l’utilizzo del “braccialetto elettronico” Agenparl, 30 luglio 2011 Ripristinare l’utilizzo del braccialetto elettronico, “ponendo fine a quello che agli interroganti appare uno spreco di risorse pubbliche” . Lo chiede un gruppo di deputati Pdl, primo firmatario Gianni Mancuso, in un’interrogazione al Ministro dell’Interno Maroni e al Ministro della Giustizia Palma. “Nel 2001 - premettono gli interroganti - l’allora Ministro dell’interno Enzo Bianco e l’allora Ministro della giustizia Piero Fassino hanno emanato un decreto, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 15 febbraio 2001, specificante le caratteristiche tecniche del cosiddetto braccialetto elettronico. Il braccialetto elettronico è un dispositivo, da allacciare al polso o alla caviglia dei detenuti, in particolare di quelli ai domiciliari, che, in caso di allontanamento non autorizzato, invia in automatico l’avviso alle forze dell’ordine per un immediato intervento”. “Fu stipulato un contratto - continua il gruppo Pdl - con la società Telecom per una cifra di circa 11 milioni di euro all’anno, a partire dal 2001 per un totale di circa 110 milioni di euro. Il servizio ha visto l’avvio nel 2002 con una prima fase sperimentale nelle città di Milano, Roma, Napoli, Catania e Torino”. Tuttavia, dopo il periodo di sperimentazione, “il 13 ottobre 2009, ai microfoni della trasmissione Striscia la Notizia, Donato Capece segretario generale del Sappe, il principale sindacato di polizia penitenziaria, ha rivelato che dei braccialetti ne sono stati realizzati 400, uno impiegato a Milano e gli altri 399 chiusi in un caveau del Ministero dell’interno. Il contratto stipulato con Telecom è, a oggi, ancora in essere”. Giustizia: Ferri (Mi); risolvere emergenza delle carceri, senza inutili scontri ideologici Adnkronos, 30 luglio 2011 “Grande attenzione ha sollevato il convegno organizzato, in questi giorni, da Marco Pannella e il Partito Radicale sulla situazione delle carceri italiane. La magistratura ha il compito di cogliere questa occasione per aprirsi e riflettere sulle istanze e rilievi che provengono da operatori del settore e da qualificati osservatori”. Lo afferma Cosimo Maria Ferri, Segretario generale di Magistratura Indipendente, convinto che “il servizio giustizia debba recuperare efficienza ed efficacia” e che servano “riforme coraggiose nell’interesse della collettività, grande senso di responsabilità da parte di tutte le istituzioni, senza inutili contrapposizioni ideologiche ma ricerca di soluzioni che portino il sistema a funzionare”. “L’emergenza carceraria - sottolinea Ferri in una nota - è dovuta oggi principalmente alla presenza di un’alta percentuale di detenuti stranieri, al fatto che non si consenta in modo automatico ai recidivi reiterati l’accesso alle misura alternative, senza operare una distinzione caso per caso e - conclude - al fatto che 40% dei detenuti sia sottoposto a misura cautelare e sia in attesa di giudizio”. Giustizia: le nostre prigioni richiedono “soluzioni coraggiose”, la politica dia una risposta Il Foglio, 30 luglio 2011 Le massime autorità dello stato, dal presidente della Repubblica a quello del Senato, accogliendo l’appello umanitario di Marco Pannella, si sono impegnate a discutere la situazione delle carceri, che dovrebbero essere l’estrema difesa di fronte al crimine e la sede della redenzione personale dei condannati, e sono invece diventate il più eloquente segnale della crisi della giustizia e della civiltà giuridica italiane. Giorgio Napolitano ha parlato delle “soluzioni coraggiose” che una politica bloccata non è in grado di adottare, con un riferimento che può essere inteso come un sostegno alle misure di clemenza richieste da Pannella, e soprattutto, anche sulla scorta dell’attenzione particolare che il presidente ha dedicato alla “custodia cautelare, abnorme estensione, in concreto, della carcerazione preventiva”, un invito al legislatore perché delimiti questa deriva che contrasta con la tendenziale depenalizzazione e decarcerizzazione del sistema sanzionatorio. Sarebbe bene che le forze politiche, invece di cercare come al solito di interpretarle a proprio vantaggio e a detrimento degli avversari, riflettessero seriamente sulle parole di Napolitano. Il presidente non ha elencato misure specifiche, perché ovviamente questo non rientra nelle sue responsabilità, ma ha indicato con chiarezza una strada. Se ancora una volta le sue indicazioni saranno accolte con un plauso generale, seguito da un’inerzia altrettanto totale, gli resta la possibilità di rivolgere un messaggio al Parlamento, l’unico strumento costituzionalmente previsto per un’iniziativa di tipo politico e di merito del capo dello stato. Per sbloccare un sistema della decisione politica che appare fortemente ostacolato dalle contrapposizioni pregiudiziali (che sono l’opposto della dialettica democratica fisiologica tra maggioranza e opposizione), in modo che si possano affrontare temi che riguardano l’interesse e la dignità nazionale, l’iniziativa del Quirinale sembra necessaria, il che dice quanto sia deteriorata la situazione. Lo si è visto con la frustata sui tempi di approvazione della manovra finanziaria, è possibile che si possa ripetere perle indispensabili misure, di clemenza o di ridefinizione delle condizioni giuridiche per la carcerazione, che la situazione rende urgenti. In fondo, seppure in modo troppo limitato, i due maggiori partiti seppero approvare l’amnistia chiesto da Giovanni Paolo II, e non è detto che resteranno sordi al nuovo autorevole appello. Giustizia: il Colle evoca l’amnistia, ma non se ne farà niente, lo sanno tutti… di Gabriella Monteleone Europa Quotidiano, 30 luglio 2011 Non se ne farà niente, lo sanno tutti. A cominciare da Marco Pannella che ha speso una vita e ricorrenti scioperi della fame e della sete per affermare il diritto dei cittadini ad una “giustizia giusta”. In cuor suo ne è consapevole anche il presidente della repubblica, che ci ha messo molto di suo nel convegno organizzato dai radicali nella sala Zuccari del senato con il gotha giuridico e giudiziario del paese per discutere soprattutto di “quell’emergenza assillante” - parole di Napolitano - che sono le carceri e che definire sovraffollate “è un eufemismo”. Non se ne farà niente di un possibile provvedimento di amnistia e indulto che pure viene evocato dal capo dello stato quando invita ad affrontare la situazione “senza trascurare i rimedi già prospettati” ma anche “non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”. Pannella si incarica di esplicitare la richiesta con la consueta passione civile di chi guarda da sempre “ai diritti degli ultimi e non dei privilegi di pochi o di tanti”, ma le premesse politiche per una tale iniziativa che comporta una maggioranza di due terzi del parlamento, e che pure Napolitano chiama in causa direttamente, mancano. È lo stesso capo dello stato a riconoscere che “la politica appare oggi debole e irrimediabilmente divisa, incapace di produrre scelte coraggiose, coerenti e condivise”. Ecco, mai un’amnistia sarebbe più impopolare e improponibile, con l’antipolitica che monta, le inchieste giudiziarie che si moltiplicano, il paese tutto sull’orlo dello sconforto e non solo. Anche se solo la Lega si incarica, subito, di dire un No esplicito e il sito de Il Fatto quotidiano, da par suo, interpreta: “Di fronte alle inchieste che colpiscono destra e sinistra ripartono le grandi manovre per evitare una nuova Mani pulite”. Napolitano, in realtà, dice molto di più: “Evidente è l’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e sui diritti e la dignità della persona. È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza che ne viene più insidiata che garantita”. È un j’accuse esplicito alla politica adottata dal centrodestra del “più galera per tutti”, dove i tutti sono solo immigrati, tossicodipendenti e poveracci: si è iniziato nel 2002 con la Bossi-Fini, poi con l’ex Cirielli nel 2005 e a seguire, nel 2006, con la Fini-Giovanardi, quindi il pacchetto sicurezza a firma Maroni: è anche grazie a queste leggi che tra il 2007 e il 2011 i detenuti sono triplicati: 67.174 persone a fronte di una capienza di 45.551. E ciò nonostante l’indulto varato nel 2006 che ne fece uscire 26mila (solo una piccolissima percentuale è rientrata, checché ne dicano i soloni securitari). “Una realtà che ci umilia in Europa” dice un Napolitano preoccupato che sollecita “risposte dalla politica”. Il neo guardasigilli Palma promette di depenalizzare i reati per affrontare la situazione. Bene. Per ora però, dal governo, arriva solo la fiducia per allungare i processi e far prescrivere i reati (certo quelli di cui è accusato il premier, ma anche quelli di mafia). Il capo dello stato chiede uno scatto, una svolta “non foss’altro per istinto di sopravvivenza nazionale”. Ma sembra prevalere solo quella personale. Giustizia: quando una “storia” racconta la triste verità di Valter Vecellio L’Opinione delle Libertà, 30 luglio 2011 Ci sono storie, piccole storie, che raccontano più di tante analisi e di tanti discorsi. Perché poi solo in apparenza sono piccole storie. Andiamo a Massa, in Toscana. Nel carcere di Massa c’è un detenuto, si chiama Salvatore Iodice. Forse è colpevole, forse no, non importa saperlo. Il signor Iodice prima di essere incarcerato, in quel carcere ci viveva buona parte della sua giornata, perché ne era il direttore. Lo accusano di aver pilotato delle gare per la realizzazione di lavori proprio di quel carcere. Chissà. A noi interessa quello che dice: “Sono stato arrestato nel luglio 2010; ho vissuto in isolamento, in un ambiente angusto e malsano. In piena estate sotto il letto crescono i muschi. Ero guardato a vista 24 ore su 24, senza alcuna possibilità di socialità. Solo quando manca un mese dalla scarcerazione l’isolamento finisce. Per 20 giorni non ho potuto ricevere lettere, ho potuto chiamare casa dopo 30. A farmi compagnia tantissimi scarafaggi e insetti di ogni tipo. E ora se nessuno mi darà una spiegazione sarò portato a credere che la carcerazione sia stata usata come strumento di tortura. Ho subito una carcerazione umiliante e degradante, chi toglie la libertà ad una persona ha l’obbligo morale di garantire i diritti minimi. Ogni Pubblico Ministero sa che in quelle condizioni si dice il vero o il falso pur di uscire dalla disperazione. Mentre gli inquirenti acquistavano visibilità, io ero alla gogna”. Un’altra piccola storia. La racconta Salvo Fleres garante dei detenuti in Sicilia. La storia che racconta è quella di un detenuto, il signor Francesco Cardella. Anche in questo caso non sappiamo cos’abbia fatto il signor Cardella, e neppure interessa. Forse è innocente, forse no. Il signor Cardella ha praticamente perso tutta la famiglia in un incidente stradale. Proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto svolgersi un colloquio ha perso le due figliolette di 8 e 2 anni; la suocera, i cognati. Una strage. L’unica sopravvissuta è la compagna, ricoverata in ospedale a Palermo. Cardella, deve solo trascorrere altri tre mesi in carcere, chiede di poter essere trasferito a Palermo, per poter sostenere la sorella e appoggiarsi ai fratelli. Aspetta che la burocrazia prenda una decisione. Magari arriverà quando avrà finito di scontare la condanna. Terza piccola storia, riguarda uno dei sei Ospedali psichiatrici giudiziari italiani, uno tra i peggiori, quello di Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari sono strutture che non dovrebbero esserci, che dovrebbero essere state abolite. Ma ci sono, non sono state abolite. E in quelle strutture che sono carceri che non dovrebbero essere carceri ma luoghi di cura, sono detenute alcune migliaia di persone, alcune delle quali hanno commesso crimini orribili, ma che sono dichiarate incapaci di intendere e volere, e dunque andrebbero curate, assistite; e invece vivono come detenuti, condannati come detenuti. Ma occupiamoci di Barcellona Pozzo di Gotto. I senatori Ignazio Marino e Donatella Poretti, presidente e vice-presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale piombano senza preavviso in quell’ospedale psichiatrico giudiziario, ed effettuano una ricognizione dei reparti, da cui emerge, cito le loro parole, “l’elevata e drammatica criticità. Con una disponibilità di risorse sempre più esigua, la situazione resta preoccupante: oltre 360 pazienti-detenuti, locali che richiedono manutenzione urgente, personale insufficiente”. È quello che succede un po’ ovunque. Ma solo in Sicilia accade che da tempo immemorabile la Regione non recepisce il Decreto per il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario regionale; e gli accordi della Conferenza Stato-Regioni restano inattuati. C’è un prete. Un prete di buona volontà, don Pippo Inzana; è cappellano di Barcellona Pozzo di Gotto. Dice che c’è carenza di acqua, sovraffollamento, personale insufficiente, celle con letti a castello che ospitano fino a 10 persone e il letto di contenzione, che ancora si utilizza, anche se più raramente. Di fronte a tutto ciò, e senza il sostegno delle istituzioni competenti, anche il direttore, nonostante la sua intraprendenza, sensibilità e apertura, è impotente. Chiudiamo con il carcere di Siracusa acqua razionata, 15 o 20 minuti al giorno. Il signor Davide Amenta, deve scontare una condanna a trent’anni per omicidio. Racconta che nel momento in cui vengono aperte le docce l’acqua arriva o gelida o caldissima, col rischio di ustionarsi. Oltre al problema dell’acqua, che nessuno è mai riuscito a risolvere, c’è quello del sovraffollamento. In celle di pochi metri quadrati devono coabitare anche quattro detenuti. La situazione è destinata ulteriormente ad aggravarsi per gli arrivi di nuovi reclusi distribuiti nelle varie sezioni, nonostante siano tutte stracolme. Altra nota dolente è quella del servizio sanitario: il detenuto che intende farsi visitare dal medico deve mettersi in lista d’attesa almeno tre mesi prima. Può bastare, per ora. Giustizia: si chiama Polizia penitenziaria, ma sono angeli di Valentina Ascione Gli Altri, 30 luglio 2011 Fare di necessità virtù. Affinare l’udito, ad esempio, per riconoscere il rumore sordo di uno sgabello che si rovescia o di un tavolo che cade: “L’annuncio di una vita che se ne sta andando”. C’è un dato di cui non si parla a sufficienza, osserva Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari: nel primo semestre del 2011 sono stati monitorati nelle carceri italiane 532 tentativi di suicidio, di questi circa 300 sono stati sventati in extremis, “parliamo cioè di persone con il cappio già al collo, le vene tagliate o con in testa il sacchetto pieno di gas”. A scongiurare queste centinaia di morti è stato l’intervento tempestivo del personale di polizia penitenziaria. Di uomini e donne che, per 1.200 euro al mese, sono spesso costretti a trasformarsi in angeli. Angeli in divisa. E all’occorrenza anche in psicologi, o educatori, visto che gli operatori penitenziari sono ormai una specie in via d’estinzione. “Siamo un po’ tutto - spiega Sarno - ma soprattutto siamo soli di fronte al detenuto. Ed è chiaro che in galera, dove si è privati perfino dello spazio per respirare e in cella bisogna fare i turni pure per stare in posizione verticale, ogni disagio è amplificato. Anche una lampadina che non si accende in bagno diventa un problema, che l’agente di sezione deve saper gestire”. Sono molti i compiti che, nel carcere ai tempi dell’emergenza, il poliziotto penitenziario è chiamato ad assolvere al di là di quelli previsti dall’ordinamento “e di cui non si parla perché in molti non sanno cosa accade in quelle che io definisco le prime linee penitenziarie”. Il gergo militare è quasi d’obbligo laddove si combatte una guerra quotidiana per non soccombere all’inciviltà, alla disumanità e all’illegalità, nonostante la riforma del corpo di polizia penitenziaria, varata nel 1990, ne abbia disposto la smilitarizzazione. Da allora gli agenti sono stati formalmente inseriti tra gli operatori che partecipano alle attività di osservazione e trattamento rieducativo dei detenuti. Il sottodimensionamento della pianta organica rende però questo contributo quasi impossibile: dieci anni fa si contavano circa 43800 reclusi per un organico di polizia penitenziaria pari a 43.500 unità, nel tempo l’equilibrio è totalmente saltato e oggi, nel 2011, a far fronte a una popolazione detenuta di oltre 67 mila unità ci sono appena 38 mila agenti. “In questi dieci anni non solo i detenuti sono aumentati del 50 per cento - precisa ma sono anche stati aperti diversi istituti senza che si provvedesse all’assunzione di una, dico una, unità di polizia penitenziaria”. Come può un agente concorrere al processo di risocializzazione e rieducazione del detenuto quando da solo ha la responsabilità di sorvegliare un’intera sezione con non meno di cento detenuti? “E’ evidente che mancano i presupposti e che oggi l’agente penitenziario è meramente destinato, per quello che può, alla sorveglianza”. “A nessuno di noi hanno insegnato ad ascoltare i rumori che preannunciano un gesto estremo, senza considerare che una vena, una carotide recisa o una testa infilata in un sacchetto non fanno rumore. Sono solo l’intuito, la professionalità e lo spirito di osservazione a consentirci di individuare i soggetti borderline, sul filo della depressione e a rischio suicidio. E di salvare delle vite”. L’ultima legge finanziaria prevede l’assunzione di 1.600 agenti di polizia penitenziaria, ma spiega Sarno, ne servirebbero almeno 8 mila per garantire livelli minimi di sicurezza. Il che significa che attualmente all’interno delle nostre carceri si corrono rischi altissimi. “Il fatto che non ci siano rivolte, che sostanzialmente riusciamo a garantire i servizi, forse in un certo senso maschera la situazione reale, che è di gran lunga peggiore di quanto si possa immaginare da fuori”. Il sistema tiene grazie al senso di responsabilità dei detenuti, i quali sanno che ricorrere alla violenza renderebbe solo le cose più difficili, ma anche dei poliziotti, dei direttori e del personale amministrativo. “A causare la paralisi basterebbe che osservassimo i regolamenti alla lettera”. Sono invece le piccole deroghe quotidiane a consentire di tenere in moto la macchina penitenziaria , nonostante il sovraffollamento, la mancanza di risorse e personale, e la giungla burocratica che connota ogni apparato statale. Un esempio? “Oggi, per autorizzare il colloquio di detenuto con i propri familiari, gli agenti preposti al rilascio dei permessi si limitano a verificare la sussistenza dei requisiti, rimandando a fine giornata la firma materiale da parte del dirigente penitenziario. Questo accorcia i tempi. Per regolamento, infatti, ogni colloquio andrebbe autorizzato singolarmente dal direttore, ma con ritmi invece di cento collo- qui in una giornata, se ne potrebbero fare al massimo 25”. “Più che di nuove carceri, c’è bisogno di un carcere nuovo, un modo diverso di gestire il sistema”. Come quasi tutti coloro che conoscono l’universo carcerario dall’interno Eugenio Sarno è critico nei confronti del piano messo a punto dal governo. “Prima che vengano costruiti i nuovi istituti c’è il rischio che le vecchie ci crollino addosso. Ci sono problemi strutturali che potrebbero mettere a rischio l’incolumità dei detenuti e del personale”. I dirigenti - spiega - non hanno più soldi per pagare acqua, luce e gas. E nemmeno la benzina, che spesso finisce lasciando a piedi agenti e detenuti durante i trasferimenti. “In quei casi il personale di polizia, che già non percepisce gli emolumenti per le missioni, ha dovuto fare il pieno per garantire ai detenuti di essere presenti nelle aule di giustizia”. Ma non è tutto: l’80 per del parco macchine destinato al servizio traduzione e piantonamento ha una percorrenza chilometrica media superiore ai 350 mila chilometri e il 25-30 per cento dell’intero autoparco nazionale è fermo perché mancano i soldi per le riparazioni. “Diciamo che l’80 per cento delle macchine della polizia penitenziaria se fossero in uso a privati cittadini sarebbero oggetto di fermo giudiziario perché non in condizioni di circolare”. Negli ultimi mesi due automezzi della polizia penitenziaria sono andati fuori strada, causando dei feriti, per l’usura delle gomme o dell’impianto frenante. “Dobbiamo forse aspettare il morto?”, chiede. “Stiamo valutando di segnalare queste cose alle procure della Repubblica, ma siamo anche consapevoli che un eventuale fermo dei nostri mezzi impedirebbe lo svolgersi dei processi e dei trasferimenti”. La mancanza di risorse economiche è tra gli aspetti più tragici e allarmanti della crisi del pianeta carcere. Basti pensare che i detenuti avranno garantiti tre pasti al giorno solo fino alla fine di settembre, dopodiché saranno forse costretti a fare lo sciopero della fame. Si prevede infatti che per allora saranno finiti anche i soldi per il vitto dei reclusi, per cui lo stato spende ben 3,68 euro al giorno procapite. “Se fosse vero, come diceva qualcuno molto più autorevole di me, che il grado di civiltà di un Paese si misura dallo stato delle sue carceri, l’Italia in fatto di civiltà sarebbe proprio messa male”, denuncia Eugenio Sarno. “In questi trent’anni di esperienza come poliziotto e come sindacalista ho visto scemare notevolmente l’attenzione verso il mondo penitenziario, ma i cittadini devono sapere, le coscienze vanno alimentate. Mi piacerebbe - conclude che quest’anno i mass media esplorassero un po’ più a fondo alcune tematiche sociali, tra cui il carcere, invece di interessarsi al colore del bikini di Belèn Rodriguez”. Lazio: al via campagna della Regione per promozione salute negli istituti penitenziari Dire, 30 luglio 2011 Più salute nelle carceri del Lazio. È l’obiettivo della campagna promossa dalla Regione Lazio, attraverso l’assessorato regionale agli Enti locali e alla Sicurezza. Il progetto, che parte il 2 agosto per un investimento complessivo di circa 200 mila euro, è finalizzato al miglioramento dello stato di salute all’interno dei penitenziari, con attenzione ai detenuti e agli operatori che lavorano negli istituti, anche alla luce del fenomeno del sovraffollamento che può favorire l’insorgere di patologie e di problemi psicofisici. L’iniziativa è stata presentata oggi dalla presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, insieme all’assessore Giuseppe Cangemini, al direttore generale dell’ospedale San Camillo-Forlanini, Aldo Morrone, al Garante per i diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni e al provveditore degli istituti penitenziari del Lazio, Maria Claudia Di Paolo. “È un progetto che avevamo messo in cantiere già da diverse settimane- spiega la presidente Polverini- con questa manovra di assestamento abbiamo occupato le risorse, circa 200 mila euro, che consentiranno la partenza di 9 progetti di cura e prevenzione di alcune patologie fortemente riscontrate nelle carceri del Lazio. Partirà da agosto e proseguirà con questo finanziamento fino alla fine di dicembre ma- ha concluso- in cantiere c’è un lavoro più organico che consentirà, con un rapporto stretto con le Asl di competenza, di garantire le cure ma anche la prevenzione in tutte le carceri della nostra regione”. Le fa eco l’assessore Cangemi, che aggiunge: “Nei prossimi giorni sarà fatto un calendario di appuntamenti in tutti gli istituti romani e nel carcere di Velletri, successivamente in tutti i 14 istituti del Lazio”. Per quanto riguarda gli interventi previsti, l’ospedale San Camillo e le Asl Rm E e Rm H hanno predisposto 9 programmi mirati di educazione alla salute all’interno delle carceri che consistono in visite mediche per la popolazione detenuta: Occhi sani, Cuore libero, Detenuti dal diabete, TbCarceri, Dematologia in carcere, Benessere donna, Promozione della salute psicologica presso il carcere di Rebibbia, Tutela della salute psico-fisica dei minori reclusi nell’istituto penitenziario minorile di Casal del Marmo e Prevenzione oculistica presso il carcere di Velletri. Cangemi: da Regione risposta concreta a detenuti “Con l’iniziativa che abbiamo presentato oggi, la Giunta Polverini attua delle risposte concrete venendo incontro alle richieste di assistenza medica nelle carceri. Nello specifico ritengo importante curare soprattutto la prevenzione perché il carcere è causa di rischi aggiuntivi per la salute fisica e psichica dei detenuti e degli operatori, partendo dal presupposto che per salute non si intende la mancanza di malattia ma il benessere fisico, psichico e ambientale”. Lo ha dichiarato l’assessore alla Sicurezza e agli Enti locali della Regione Lazio, Giuseppe Cangemi, presentando la campagna di promozione salute nelle carceri nella sede della Giunta regionale. “I nove programmi mirati di educazione alla salute all’interno delle carceri che partono agli inizi del mese di agosto, consistono in visite mediche e sono rivolti alla popolazione detenuta. Sei sono i progetti curati dai medici dell’ospedale San Camillo Forlanini e che verranno effettuati nei quattro complessi del carcere di Rebibbia e a Regina Coeli e successivamente estesi, sulla base di accordi con il Provveditorato agli istituti penitenziari del Lazio, anche a tutte le altre carceri della regione. Altri tre sono i progetti che vengono curati rispettivamente dai medici della Asl Rm B (carcere di Rebibbia), dalla Asl Rm E (carcere minorile di Casal del Marmo) e dalla Asl Rm H (carcere di Velletri)”, ha concluso. Lazio: al via Progetto di ricerca “L’assistenza religiosa in carcere” Il Velino, 30 luglio 2011 Redigere una mappa delle religioni professate dai detenuti delle carceri del Lazio per verificare il rispetto del diritto di praticare il proprio culto religioso anche in cella. È questo l’obiettivo principale del Progetto di ricerca “L’assistenza religiosa in carcere”, ideato dal Centro studi e documentazione su religioni e istituzioni politiche nella società post secolare (Csps), dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e co-finanziato dal presidente del Consiglio regionale del Lazio, Mario Abruzzese e dal Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. Nei giorni scorsi Csps e Ufficio del Garante dei detenuti hanno firmato una Convenzione che da il via al progetto, segnandone le fasi procedurali, operative e tecniche. Il progetto ha lo scopo di valutare scientificamente l’impatto dei vari credi religiosi presenti e praticati negli istituti penitenziari in rapporto alle componenti del “pianeta carcere” (direttori degli istituti, educatori, ministri del culto, detenuti, altre istituzioni, volontariato) relativamente ai bisogni religiosi dei reclusi ed alle modalità pratiche per corrispondervi. Lo studio servirà, inoltre, ad individuare modelli comportamentali ed etici che possano essere utilizzati anche in altre realtà penitenziarie, contribuendo anche così al miglioramento delle condizioni e degli strumenti a sostegno dei percorsi di reintegrazione dei detenuti “Fra i nostri scopi istituzionali - ha detto il Garante Angiolo Marroni - c’è quello di assicurare che ai detenuti sia garantito anche il rispetto delle diversità religiose. Tra le molte questioni legate al mutamento della popolazione carceraria vi sono, infatti, anche quelle legate al diritto dei detenuti di praticare il proprio culto. In tale ambito, nel 2010 abbiamo promosso una iniziativa per garantire, ai detenuti musulmani, il rispetto dei precetti del Ramadan con la presenza di un imam in carcere e la possibilità di consumare i pasti al tramonto. Il rispetto del diritto alla Fede, con necessità spirituali e cultuali diverse, può contribuire a migliorare la qualità della vita in carcere”. Operativamente, il lavoro di ricerca si articolerà in tre fasi: analisi delle realtà penitenziarie e della popolazione reclusa a livello nazionale e nella Regione Lazio; studio approfondito in cinque carceri della Regione attraverso l’esame di documentazione, la realizzazione di interviste, l’analisi di interventi, incontri e attività e stesura del Report finale. Cagliari: Sdr; Centro Clinico di Buoncammino sovraffollato, anche 5 pazienti tumorali Agenparl, 30 luglio 2011 “Detenuti-pazienti con gravi patologie tumorali, compreso un leucemico, persone sottoposte a osservazione psichiatrica con disturbi maniaco-depressivi e pesanti problemi relazionali. Ultra settantacinquenni con deficit respiratori e/o cardiaci, aneurismi dell’aorta e by pass. Il Centro Diagnostico Terapeutico della Casa Circondariale di Buoncammino, sovraffollato, è in continuo stato di emergenza”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ritiene “impensabile continuare a usare il carcere di Buoncammino come rifugium peccatorum delle manchevolezze del sistema”. “Il problema della salute dei detenuti - sostiene - non si risolve continuando a riempire all’inverosimile una struttura utile per la fisioterapia e/o per il monitoraggio di situazioni sanitarie che non destano particolare preoccupazione ma non idonea ad accogliere persone affette da gravi patologie. In questa fase in cui non è stato ancora perfezionato il passaggio della sanità penitenziaria si sta assistendo a un uso “improprio” del Cdt. Nella struttura che può ospitare fino a 30 detenuti con problemi sanitari sono ormai costantemente non meno di 36 con punte di 40. Il sovraffollamento è particolarmente negativo per chi vive una condizione di disagio dovuta alla malattia”. “Oltre alle oggettive necessità dei detenuti difficili da soddisfare si aggiungono - sottolinea la presidente di Sdr - le preoccupazioni degli Agenti di Polizia Penitenziaria costretti spesso ad intervenire anche per evitare che le tensioni sfocino in atti autolesioni stici irreparabili. Anche le condizioni climatiche e lo scarso spazio a disposizione per l’ora d’aria gravano negativamente sulle condizioni di vita dei reclusi”. “Affrontare quotidianamente uno stato emergenziale con persone provate dalle patologie e non sempre in grado di reagire positivamente, nonostante il costante impegno professionale e umano dei Medici e degli Infermieri - conclude Caligaris - determina una condizione di invivibilità e di stress per tutti. Occorre che il Dap riduca drasticamente i trasferimenti nel Cdt cagliaritano”. Verona: cella inadeguata, detenuto chiede danni a ministro della Giustizia Ansa, 30 luglio 2011 Un detenuto di 63 anni della casa circondariale di Verona notificherà domani, tramite i suoi legali, un atto di citazione contro il Ministro della giustizia per le condizioni in cui è costretto a vivere in carcere. L’atto - come riferiscono i legali Guariente Guarienti e Fabio Porta - è volto ad ottenere, in sede civile, il risarcimento di un danno stimato in poco più di 5mila euro che sarebbe stato calcolato per i sette mesi trascorsi in carcere in una cella di 12 metri quadrati divisa con altre tre persone. Il detenuto, condannato a un anno e quattro mesi, peraltro avrebbe una invalidità riconosciuta al 60% e soffrirebbe di una serie di disturbi che lo costringono all’assunzione costante di farmaci. Gli avvocati dell’uomo si sono avvalsi, per citare il Ministro della giustizia, di una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia che riguarda proprio l’Italia, una serie di leggi sulla detenzione carceraria e gli articoli 13 e 27 della Costituzione in tema di ‘restrizione della liberta” e di ‘senso dell’umanità”. Siracusa: giovani detenuti per pulire le coste dell’Area Marina Protetta Ansa, 30 luglio 2011 Si chiama “Liberamente” ed è un progetto di inclusione sociale e reinserimento di giovani detenuti della Casa Circondariale di Cavadonna a Siracusa, dell’Istituto Penitenziario di Brucoli ad Augusta, e dell’Uepe aretuseo (Uffici di Esecuzione Penale Esterna), e nato dalla sinergia tra il Consorzio “Quark” dell’Area Marina Protetta del Plemmirio di Siracusa, e la delegazione di Agrigento di Marevivo, finanziato dall’Assessorato regionale alla Famiglia. Obiettivo del progetto, che ha suscitato interesse su scala nazionale in quanto è la prima volta che viene sperimentato in Italia, è quello di offrire una “seconda chance” di vita ad una ventina di detenuti ospiti nelle carceri siracusane. Dal mese di luglio è entrato nel vivo con una “work esperience” nell’Area Marina Protetta del Plemmirio, e si concluderà a settembre. Gli speciali “allievi”, in questi giorni hanno effettuato la raccolta dei rifiuti in tutti i 44 sbocchi dell’Amp, dove, tra l’altro, verranno realizzate staccionate in legno; sistemato l’ingresso al Faro di Capo Murro di Porco, simbolo dell’Oasi marina siracusana, dove sono stati pitturati anche i cancelli e ripristinato il giardino botanico dell’Arenella Resort. I detenuti selezionati per il progetto “Liberamente”, stanno inoltre fornendo anche assistenza per il servizio di accompagnamento dei disabili al mare, in collaborazione con l’Anfass che si avvale di mezzi di trasporto idonei forniti dal Consorzio Plemmirio. In questi giorni, questi giovani detenuti hanno provveduto alla pulizia esterna degli uffici dell’Amp, all’interno del Castello Maniace, occupandosi anche della pulizia dell’area a verde e della manutenzione della Piazza D’Armi. Ieri, poi, è stata la volta dell’intervento di bonifica della piccola spiaggia di via Riviera Dionisio il Grande mentre, la settimana prossima, la stessa operazione di pulizia, interesserà il minuscolo ma suggestivo arenile dei “sette scogli” nella zona di Fontana Aretusa nel cuore del centro storico aretuseo. Un articolato percorso formativo di diciotto mesi alla fine della quale i giovani partecipanti otterranno la qualifica di “operatore delle aree protette” spendibile in tutto il territorio. Attraverso sessioni didattiche e esperienze “dal vivo”, con laboratori e attività pratiche, i beneficiari, hanno modo di conoscere, approfondire e dunque apprezzare, gli aspetti legati alla normativa nelle aree protette, l’educazione ambientale, la flora e la fauna nelle aree marine protette, i servizi rivolti ai disabili ed ai bambini. Potranno inoltre conseguire il brevetto di I livello subacqueo e la patente nautica entro le sei miglia. “Gli allievi - ha dichiarato il direttore dell’Amp del Plemmirio, Enzo Incontro - fungeranno infine anche da supporto per la divulgazione delle “buone pratiche” da esercitare ai fini della protezione e della conservazione della risorsa marina, sempre più minacciata dall’uomo. La scommessa e l’obiettivo finale di questo progetto, oltre all’inserimento lavorativo, è infatti proprio quello di far riappropriare il beneficiario del concetto di legalità e di regole che garantiscano il successo personale e la qualità del sistema aree protette”. Alla fine del percorso verrà realizzato un report che sarà presentato in un seminario a tutti gli attori coinvolti nell’iniziativa: ai Ministri dell’Ambiente e della Giustizia e ai responsabili delle altre Aree Protette, nazionali ed internazionali, della rete Unesco, con lo scopo di trasferire tali “buone pratiche” in altri territori. Bari: Sappe; stato di agitazione degli agenti a Spinazzola, contro chiusura carcere Ansa, 30 luglio 2011 La segreteria provinciale del Sappe (Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria) di Barletta-Andria-Trani intende proclamare lo stato di agitazione tra il personale in servizio presso l’Istituto Penitenziario di Spinazzola a seguito alla sua improvvisa ed inaspettata chiusura. “Nell’istituto di Spinazzola - si legge in una nota - per ben sette anni più di venti agenti di Polizia penitenziaria hanno prestato servizio con dedizione e grande impegno professionale uomini dello Stato che oggi senza remora alcuna vengono sfrattati dalla loro abituale sede lavorativa e gli viene ordinato di far rientro nelle loro sedi di appartenenza. Questi operatori penitenziari per ben sette anni sono stati costretti a causa della grave carenza di personale, di cui soffriva la struttura, a dover ricoprire più posti di servizio, sono stati costretti in alcune circostanze a far rientro dalle vacanze per dar man forte ai colleghi in difficoltà, però mai da questi uomini dello Stato c’è stato un lamento né mai sono caduti nello sconforto, hanno sempre con tenacia mostrato la loro forza di uomini al servizio dello Stato espletando il loro mandato come da protocollo. Oggi proprio quello Stato servito con tanto amore e dedizione chiede loro un sacrificio a nostro parere inaccettabile, chiede loro di cancellare le loro vite, questi uomini in questi sette anni hanno costruito con i loro congiunti una abitazione, i loro figli iniziano a costruire la loro vita in quel di Spinazzola o paesi limitrofi ed invero ora, questi uomini, sono costretti contro la loro volontà a far rientro nelle loro sedi di appartenenza e per molti di questi significa far rientro dopo ben sette anni in penitenziari del nord, praticamente trattati come fossero dei mercenari e non uomini al servizio dello Stato e delle Istituzioni con la loro dignità. Dal 2009 - continua la nota del Sappe - anno in cui sono salito alla guida della attuale segreteria provinciale del Sappe posso certamente affermare che mai denaro pubblico sia stato gestito più correttamente e con parsimonia in tutto il territorio penitenziario italiano. Certamente l’unico istituto di tutta Italia che restituiva ogni fine esercizio finanziario il monte ore dello straordinario del personale agli Uffici regionali, il suo direttore ha saputo coinvolgere magistralmente anche il mondo esterno al carcere ottenendo anche finanziamenti da altri enti come l’ultimo ottenuto dalla Asl/Bat per poter meglio ottenere un reinserimento sociale dei ristretti presenti nella struttura poiché come ben noto trattasi di detenuti particolarmente avvezzi od inclini a reati a sfondo sessuale, sicuramente un modello da esportare un modello da cui prendere esempio e non certamente da annullare. In ordine a quanto sopra questa segreteria provinciale ribadisce lo stato di agitazione ad oltranza preannunciando manifestazioni pacifiche e sit-in di protesta al fine di sensibilizzare anche l’opinione pubblica e politica della provincia affinché portano forte il grido dei poliziotti in servizio nel penitenziario nelle sedi competenti di Roma”. - Trieste: in mostra le opere dei detenuti Il Piccolo, 30 luglio 2011 Cercano un posto di lavoro per rifarsi una vita dopo il carcere, i detenuti del Coroneo di Trieste. E lo fanno mettendo in mostra le loro opere prodotte all’interno della casa circondariale, in un percorso espositivo che inizia domani al 44° Agosto ronchese e finirà ad Aquileia dopo aver attraversato i comuni dell’Isontino. La manifestazione, in cui si inserisce il dibattito “Carcere e lavoro” organizzato dall’Asseform di Trieste per domenica alle 20 nell’Area cultura a fianco del Municipio di Ronchi, vuole creare una rete tra le amministrazioni comunali, capace di dare sbocco occupazionale ai detenuti usciti dal carcere. Un obiettivo ambizioso, volto a bloccare quel circuito vizioso che vede tornare dietro le sbarre chi non riesce a trovare lavoro una volta scontata la pena. In sostanza, visto che all’interno del carcere i detenuti imparano a tessere mosaici, lavorare le pietre e a scolpire cocci a regola d’arte, l’Asseform ha pensato di mettere in mostra i loro prodotti. Tramite le cooperative sociali, ad assumerli potrebbero essere proprio le amministrazioni comunali, per i lavori di arredo urbano. Una strada da aprire anche ai privati, i quali, per arredare interni ed esterni delle case, potrebbero interpellare la cooperativa, mediatrice tra i committenti e i lavoratori. Per l’inaugurazione di domani, alle 20.30 al palazzetto dello sport “Filiput”, la direttrice dell’Asseform, Gabriella Randino, a capo dell’ente che cura i corsi di formazione del Coroneo, ha invitato i sindaci di Ronchi. Oltre al maestro mosaicista ronchese, Dario Puntin, e all’insegnante dell’istituto d’Arte Nordio di Trieste, Antonio Volpicelli, che lavorano a stretto contatto con i detenuti, sono stati invitati il direttore uscente del Coroneo, Enrico Sbriglia e dell’Area educativa, Anna Bonuomo. Chiamati all’appello anche gli architetti e i geometri locali, affinché possano testare con mano le capacità dei lavoratori. Stessi protagonisti al dibattito di domenica, teso a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle necessità di sviluppare anche in chiave terapeutica le capacità artistiche dei detenuti, aprendo la strada a una collaborazione rivolta alle amministrazioni comunali e alla popolazione. “É un’opportunità per dare una chance di vita concreta - commenta Randino - alle persone che hanno pagato il loro debito con la giustizia e che hanno bisogno di integrarsi nella società”. Immigrazione: fate(cie)ntrare nell’inferno di Valentina Ascione Gli Altri, 30 luglio 2011 Lividi grandi e viola. Sulla spalla sinistra, sulla schiena, su entrambe le braccia. Sulla pelle chiara di una giovane tunisina. Tracce inequivocabili di violenza sul corpo di una giovane reclusa del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, alle porte di Roma. “Stavamo giocando a calcio, io ho colpito la palla e ho preso una ragazza nigeriana sul viso, abbiamo iniziato ad insultarci e alla fine ci siamo prese per i capelli. Nessuna mollava la presa e sentendo le grida sono entrati tre uomini, due della Guardia di Finanza e uno in borghese. Hanno iniziato a manganellarmi per separarci, davanti a tutte le ragazze che assistevano alla scena. Mi sono lamentata più volte con gli infermieri del Cie per i forti dolori chiedendo di poter essere accompagnata in ospedale. Ma mi hanno dato sempre e solo dei tranquillanti”. Le fotografie che testimoniano i segni del pestaggio sono state scattate furtivamente nella biblioteca del Cie agli inizi di giugno. Consegnate al sito Fortresse Europe, sono poi state diffuse da Redattore sociale solo pochi giorni fa, quando la vittima era già in libertà e dunque al riparo da possibili ritorsioni. E sempre Redattore sociale ha raccolto le voci di alcuni “ospiti” del centro romano che spiegano le modalità con cui sono eseguite le espulsioni: gli uomini che oppongono resistenza sono legati mani e piedi con lo scotch, come polli, e se serve anche imbavagliati, affinché smettano di strillare. Le donne invece vengono sedate con un’iniezione. C’è poi chi, tra gli immigrati, per non essere espulso compie atti di autolesionismo tra i più atroci. Come ingoiare lamette da barba. “Se ti va bene e resti in vita finisci al pronto soccorso da dove, anche se non riesci a scappare, puoi comunque considerarti fortunato che non ti hanno rimpatriato”, spiegano. Ecco dunque come si vive, o meglio, come si sopravvive tra paura, malessere e disagio, all’interno di quei non-luoghi che sono i centri per immigrati. Peggiori delle carceri e in alcuni casi simili a dei lager. “Monumenti alla violazione della Costituzione, come treni deragliati con esseri umani che non vanno da nessuna parte”, secondo Furio Colombo che lunedì scorso ha visitato il Cie di Ponte Galeria insieme a una nutrita delegazione di altri parlamentari nell’ambito dell’iniziativa “FateCIEntrare”. Una giornata di mobilitazione promossa in tutta Italia dalla Fnsi, dall’Ordine dei giornalisti, Articolo 21 e altre associazioni per chiedere la rimozione del divieto di accesso per la stampa ai Cie e ai Cara istituito dal ministro dell’Interno Maroni. Lo stesso ministro che, dopo averle blindate, ha prolungato il limite massimo di permanenza in queste strutture da 6 a 18 mesi. Impedire il diritto-dovere di informazione su quanto accade nei centri per immigrati li rende luoghi privi di fondamentali diritti democratici. E sottrae a chi vi è recluso l’unico strumento di difesa e di garanzia. Il che è inaccettabile in un Paese civile. Australia: inchiesta Ombudsman su suicidi profughi detenuti Ansa, 30 luglio 2011 Il difensore civico federale in Australia ha avviato un’inchiesta sull’impennata di suicidi e autolesionismo nei centri di detenzione per richiedenti asilo, in cui sono rinchiuse circa 6.000 persone. Nuovo dati rivelano una media di tre tentativi di autolesionismo ogni giorno. L’ombudsman Allan Asher è stato testimone dell’aggravarsi della salute mentale dei richiedenti asilo quando ha visitato il centro di detenzione di Christmas Island nell’Oceano indiano in giugno, e durante la settimana di visita vi furono più di 30 incidenti di autolesionismo. “La mia indagine valuterà l’estensione di questo tragico problema”, ha detto, aggiungendo che fornirà raccomandazioni basate su prove e avallate da esperti, su linee guida e protocolli per ridurre in numero di incidenti di suicidio e autolesionismo. Secondo la portavoce dei Verdi per l’Immigrazione, Sarah Hanson-Young, l’indagine aggiungerà peso a precedenti valutazioni del Commissario Onu per i diritti umani e della Commissione australiana diritti umani. “Sappiamo che la politica di detenzione obbligatoria, in vigore dal 1992, ha rovinato molte vite. Tanti si sono tolti la vita e molti altri soffrono ancora per quegli anni di trauma dopo essere stati accettati come rifugiati”. Il ministro dell’Immigrazione Chris Bowen ha ammesso che la questione è “complessa e impegnativa” e ha promesso di collaborare con l’inchiesta. Tunisia: ex presidente Ben Ali condannato in contumacia a 16 anni di carcere Agi, 30 luglio 2011 In contumacia, per corruzione e frode immobiliare. L’ex presidente tunisino Zine el Abidine ben Ali è stato condannato in contumacia a 16 anni di carcere per corruzione e frode immobiliari; nello stesso processo sono stati condannati anche la figlia Nesrine e il genero Sakhr al Materi, rispettivamente a otto e 16 anni di prigione. Messico: 17 morti a causa di scontri in carcere tra detenuti armati, decine di feriti Reuters, 30 luglio 2011 Diciassette detenuti sono morti e numerosi sono rimasti feriti in un carcere del Messico, al confine con il Texas, in una serie di scontri tra bande. Lo ha confermato il portavoce della prigione, Hector Conde, spiegando che i detenuti erano in possesso di armi automatiche. Sulla vicenda e sul motivo per cui nel carcere fossero presenti armi indagano i procuratori dello Stato di Chihuahua. Marocco: Re Mohammed VI concede la grazia a 968 detenuti Apcom, 30 luglio 2011 In vista dei festeggiamenti di domani in Marocco per la tradizionale Festa annuale del trono, il re Mohammed VI ha disposto la grazia per 968 detenuti. Secondo il ministero della Giustizia marocchino, che ha reso noto il provvedimento, 14 di loro saranno liberati immediatamente, mentre gli altri vedranno ridursi i tempi di pena. Le cerimonie per il dodicesimo anno di regno di re Mohammed VI si terranno domani a Tangeri.